Il Re Cervo/Atto primo

Atto primo

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Personaggi Atto secondo


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ATTO PRIMO

Il Teatro rappresenta una piccola piazza.




SCENA PRIMA.

Cigolotti, prologo.

Questo personaggio imitatore ne’ vestiti, nel ragionare, e nei gesti d'un uomo solito a narrare delle favole, e dei romanzi al popolo nella gran piazza di Venezia, si trarrà la berretta, s'inchinerà all'uditorio, e ripostasi la sua berretta, farà il seguente discorso.

CCO ch'io vengo, miei riveriti padroni, a raccontarvi delle gran cose. Già sono in questo punto cinque anni, che giunse in questa Città di Serendippo un gran Mago astronomico, il quale possedeva la magia bianca, la negra, la rossa, la verde, e credo anche la turchina; si chiamava il gran Durandarte, ed io sono stato suo fedel servo. Appena il Re Deramo di questa Città seppe, ch'era giunto all'osteria della Scimmia il mio padrone, chiamò [p. 138 modifica]a sè un suo fedel ministro, e disse: Tartaglia; (che tale è il nome dell’eroico ministro) andate, disse, mio fido, all’osteria della Scimmia, e conducetemi Durandarte, il Mago. Ubbidì il fedele Tartaglia, e condusse Durandarte a Sua Maestà. Lungo sarebbe il dire il ricco trattamento che si fece al mio padrone, e basta il sapere, che alla sua partenza lasciò due gran segni di affetto a Sua Maestà in ricognizione. Questi consistono in due gran secreti magici, in due portenti, in due maraviglie di questa natura... Ma io non ve li posso dire, perchè vi leverei la curiosità e il piacere, che il Cielo voglia che abbiate nel vederli. Vi dirò solo, ch’io ebbi l’onore di servire il Negromante Durandarte per quarant’anni, e che giammai nulla potei imparare dalla sua gran virtù. Egli solamente un giorno mi disse: Gigolotti, guai a te, se discorri con nessuno de’ due secreti, ch’io lasciai al Re di Serendippo, prima dell’anno 1762. Vivi sempre con una sottana di panno nero lacera, con una berretta di lana in testa, colle scarpe rotte, e facendoti una volta ogni due mesi la barba, campa la vita raccontando fiabe sulla gran piazza di Venezia. Del 1762 poi, a’dì 5 di Gennaio, da questi due secreti nasceranno gran meraviglie, e tu mi porterai nella vicina selva di Roncislappe in forma di Pappagallo; colà mi lascierai; che col mio mezzo doverà essere punito un tradimento cagionato dal più terribile di quei due secreti, ch’io lasciai al Re di Serendippo. Quando [p. 139 modifica]ebbe così detto, esclamò: Ahi, amato Cigolotti, si compie la mia condanna. Demogorgone, Dio delle Fate, vuole, che per il corso di cinque anni io viva Pappagallo. Ricordati l’anno 1762 a’ dì 5 di Gennaio, di lasciarmi in libertà nella selva di Roncislappe, dove rimanendo preda d’un uccellatore, opererò gran portenti, ed averà fine la mia condanna; e tu verso le ore sei della notte averai un guadagno di venti soldi per la tua fedel servitù, e fatica. Così detto, lasciò le umane spoglie, e con mio gran stupore diventò un bellissimo Pappagallo.

Attenti dunque, o riveriti Signori, ai grandi accidenti di questo giorno; ch’io me ne vado a mettere nella selva di Roncislappe Durandarte, il mago Pappagallo, e poi riscuotendo i tanto bramati yenxi_ soldi anderò a farvi un brindisi all’osteria della Scimmia all’onore di chi tanto merita con pace, sanità e allegrezza. (si trae la berretta, fa il suo inchino, ed entra)


SCENA SECONDA.

Cambiasi il Teatro, e rappresenta una Sala.

Tartaglia e Clarice.

Tart. Figlia mia, già vedi, quanto bella fortuna abbiamo avuta in questo Regno di Serendippo. Tu sei divenuta Dama, ed io sono primo mi- [p. 140 modifica]nistro, temuto da tutti, e amato dal Re Deramo. Questo è il punto, Clarice cara, di fare un gran salto, e, se m’ubbidisci, sarai, in questo giorno coronata Regina.

Clar. Io Regina! come?

Tart. Sì, Regina, Regina. Sai bene, che il Re Deramo, dopo avere interrogate duemila settecento e quarantotto donzelle, Principesse e Dame nel suo gabinetto secreto, io non so per qual diavolo, le ha ricusate tutte, e che son quattr’anni, ch’egli ha fissato di non più ammogliarsi.

Clar. Lo so; nè crederei, che volesse me per consorte dopo tante gran signore rinunziate.

Tart. (con fierezza) Signora frasca, quando parlo, so quello ch’io dico. Lasciami finire. Io l’ho ridotto ieri a forza d’arte, dicendogli, che il Regno non ha successore, che i popoli sono malcontenti, e ammutinati, ec.; e l’ho persuaso a prendere una moglie. Ma egli ha quella maledetta fissazione di voler prima interrogare la fanciulla nel suo gabinetto secreto. E perchè non sono più Principesse da esaminare, si è risolto di bandire, che ogni qualità di donzella si possa produrre, e di qualunque condizione, per essere in quel suo maledetto gabinetto da lui interrogata, con impegno di prendere quella, che ritrova a suo modo. Si sono date in nota dugcnto fanciulle; furono estratti i nomi da un’urna a sorte per l’ordine della produzione. [p. 141 modifica]Il tuo nome è uscito primo, e conviene prodursi alla sua interrogazione. Egli mi vuole tutto il suo bene; tu sei mia figliuola; non sei l’orco; se ti porterai bene nell’esame, sono certo, che oggi tu sei Regina, e ch’io son l’uomo il più risplendente di questo mondo. (basso) Dimmi, figlia; non avresti già qualche taccherella secreta, ch’egli potesse scoprire, eh?

Clar. Ah, caro padre, dispensatemi, scioglietemi da questo cimento, vi supplico.

Tart. Che! come! pettegola. Produciti tosto, e portati bene nell’esame; altrimenti... tu m’intendi... tu mi conosci... Moccina... perchè ricusi d’obbedirmi? (basso) Hai, hai qualche taccherella secreta, eh?

Clar. Io non ho nulla; ma ho soggezione; non mi porterò bene nell’esame; è impossibile; sarò ricusata.

Tart. Che soggezione! che ricusata! Non può essere. Avrà de’ riguardi per me. Orsù, andiamo, ch’è tempo. Egli ti attende nel suo gabinetto. (la piglia per un braccio)

Clar. (sformandosi per non andare) No certo, padre; no certo.

Tart. Io ti strapperò le orecchie; ti taglierò il naso. Vieni, dico, e portati bene nell’esame; altrimenti... (le fa violema)

Clar. Caro padre, io non potrò portarmi bene; e infine vi confesso, ch’io sono innamorata morta [p. 142 modifica]per Leandro. Io non averò forza di celare la mia passione dinanzi al Re.

Tart. (furioso rinculando) Di Leandro, figliuolo, di Pantalone, secondo ministro! semplice Cavaliere di Corte! Preferiresti il figliuolo d’un Pantalone a un Monarca! Tu sei mia figlia? Oh vile, indegna figlia di Tartaglia tremendo! Sentimi. Se innanzi al Re palesi questo tuo vilissimo amore... Se non lo fai scegliere in tuo favore... Sentimi... Andiamo tosto: non mi far dire di più. (la piglia per un braccio)

Clar. Dispensatemi per pietà. Io non farò mai torto ad Angela, mia amica, mettendomi in sua competenza. So ch’ella ama perdutamente il Re.

Tart. (rinculando di nuovo) Angela, figliuola dì Pantalone, ama il Re. (a parte) Angela, le viscere mie! quella gioia, ch’io aveva destinato di voler oggi per amore o per forza in mia consorte! Ama il Re! (alto) Clarice, ascolta e trema. Se immediatamente non ti presenti al Re; se non ti porti bene nell’esame; se palesi l’amore di Leandro; se non lo fai scegliere la tua persona, e se di queste mie parole fai col Re nessun cenno; un veleno è pronto; la morte per te è preparata; cadrai vittima del mio furore.

Clar. (spaventata) l’ubbidirò. Sarete pago di vedermi ricusata, svergognata.

Tart. (impetuoso pigliandola) Non si tardi più. [p. 143 modifica]Pensa alla tua vita, al mio comando, frasca, pettegola, moccina. (entrano)


SCENA TERZA.

Pantalone ed Angela.

Pant. No se sa gnente, cara fia mìa, no se sa gnente. Domile settecento e quaranta otto tra Prencipesse e Dame xe stae ricusae certo dal nostro Re. El le conduse in tei so gabinetto secreto, el ghe fa tre o quattro interrogazion, e pò el le manda in pase con civiltà. Sia che no ghe piasa la ose, sia che no ghe piasa el spirito, sia che l’abbia una mente cusì acuta, che scoverza qualche bisinella dei interni, che no ghe comoda, sia che l’abbia qualche spirito, che ghe scoverza qualche petolon... no se sa gnente. Stravagante nol xe certo, perchè xe tanto tempo, che el servo, e l’ho esperimentà un Prencipe savio, benigno, e con tutte le qualità, che poi aver un Monarca, ma in sta cossa qualche diavolo gh’è certo.

Ang. Caro padre, perchè mai non vi siete difeso dal farmi esporre a tanta vergogna? S’egli mi ricusa, come succederà, io muoio certo dalla passione.

Pant. Oh el te recusa seguro; ma, care viscere, me son butta in zenocchion, l’ho prega, l’ho sconzurà, perchè el te despensasse da sta comparsa. Gho dito, che xe ben vero, che semo [p. 144 modifica]nati civilmente a Venezia, che semo onesti; ma che semo povera zente, e innalzai senza merito dalla so generosità; che no semo degni de concorrer a tanto onor. Gnente. Sastu cossa, che el m’ha resposto?

Non sarebbe giustizia, poich’è aperto
Per mio volere ad ogni donna V adito.
Che vostra figlia avesse privilegio
Di non esser coli’ altre al gran cimento.

Prega, reprega, fiabe; l’andava in collera; el t’ha fatto imbossolar anca ti, e ti xe vegnua fuora per terza. Cossa vustu mo, che te fazza? Bisogna andar. Credistu, che li goda mi i pettegolezzi e le dicerie dei bei spiriti? Me schioppa el cuor, Anzola, me schioppa el cuor.

Ang. Il conoscermi indegna di tanta altezza mi fa del ribrezzo ad espormi. S’egli però co’ suoi esami cerca sincerità, fedeltà; se cerca amore...

Pant. Piase! Ti xe innamorada, frascona?

Ang. Sì, lo confesso a voi, che mi siete padre amoroso. Caro padre, sono stata così audace d’innamorarmi perdutamente del mio Re. Sarò rifiutala, mio padre, e morirò; e non già per il rifiuto d’un Monarca; che una povera figlia non deve sentire questa ambizione; ma il vedermi disprezzata, rifiutata da chi è il cor mio, la mia vita, sarà la cagion della mia morte.

Pant. Oh poveretto mi, cossa sentio!

Ang. Ah che più di tutto nella mia circostanza [p. 145 modifica]temo la contrarietà di Tartaglia, il quale oltre all’ambizione, che ha sul concorrere della figliuola propria, mi guarda sempre con un occhio amoroso, e sospira; e questa mattina mi persuadeva a fingermi ammalata, acciò non mi esponessi nel gabinetto.

Pant. Pulito! Un altro amoretto de quel lato? El Cielo te la manda bona, fìa mia. No so cossa dir. Ma qua se fa tardi, e bisogna andar, che ti xe in nota per terza.

Ang. Amore, a te mi raccomando. (entrano)


SCENA QUARTA.

Brighella e Smeraldina. Tutti due all’Orientale. Smeraldina avrà un gran ventaglio, de" gran fiori e pennacchi in caricatura.


Brig. Mo tien alta quella testa; no tegnir quei brazzi così goffi, in malora. Xe un’ora, che te fazzo scuola, e ti xe pezo che mai. Ti me par quella che cria: rose pelae, zizole col confetto.

Smer. Come, fratello! Non ti pare, ch’io sia accomodata in modo da far innamorare un animale, non che un Re?

Brig. Che maniera de parlar! Se ti disi un de sti sentimenti davanti a so Maestà, da galantomo che ti fa innamorar una delle so sleppe. Mi t’averia volesto conzada piuttosto alla Veneziana, con un bel tegnon, e con un mantiglion negligente. [p. 146 modifica]

Smer. Oh che matto! Io ci scometto, che, se vado a Venezia in questa forma, fo innamorare tutti i Veneziani di buon gusto, e che i Berrettini rubano dieci mode da questi miei abbigliamenti, e vuotano in tre giorni le borse a tutte le donne Veneziane.

Brig. Mo sicuro. La novità piase, e per questo se ti fussi comparsa avanti al Re de Serendippo alla Veneziana, ti faressi qualche colpo colla novità. La facenda no xe da tor de sora via. Sastu, che se ti innamori so Maestà; ti diventi Regina ancuo, e che mi, per esser to fradello, de credenzier devento almanco Generale in capite?

Smer. Oh se altro non occorre, che farlo innamorare, lascia fare a me. Sono tre giorni, ch’io leggo il canto di Armida del Tjisso, e la parte di Corisca nel Pastor fido. Ho imparati i più bei sospiri, i più bei svenimenti del mondo. Puoi cantare allegramente quei versi dell’Ariosto;

Che per amor venne in furore, e matto
D’uom, che sì saggio era stimato prima.

Brig. Basta; prego ci Cielo, che la sia cussi; ma quel to muso... quella to fegura... basta... andemo, buttemose in mar. (in atto di partire)

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SCENA QUINTA.

Truffaldino e detti.

Truffaldino sarà all’Orientale, vestito di verde da uccellatore, con parecchi fischietti legati al petto, e sproporzionati in modo buffonesco.

Truff. Incontrando Smeraldina e Brighella, farà una gran risata sugli abbigliamenti caricati di Smeraldina; chiederà, dove vada. Brig. Ad esporsi nel Gabinetto regio alla concorrenza di sposa del Re. Truff. Raddoppiando le risa, deride Smeraldina. Smeraldina lo minaccia con gravità. Truff. Chiede se parli in sul sodo. Smer. Da verissimo. Brig. Che non si deve abbassare a badar a quel miserabile; dà il braccio a Smeraldina; grandeggiando, vogliono partire. Truff. S’oppone con violenza; indi con serietà protesta di voler impedire a Smeraldina, che gli ha data parola di matrimonio, di concorrere allo sposalizio del Re. Smer. Che gli ordini reali spezzano tutte le parole. Truff. Che dirà alla Maestà sua di non fargli quel torto. Brig. Ride, adduce, che la sorella sua, che aspira ad un Trono, non deve sposare un miserabile uccellatore. Contrastano sul grado loro, e sulla loro nascita. Truff. Piange. Smer. S’intenerisce, lo conforta tragicamente; promette beneficenze, quando sarà Regina, e parte con Brighella. Truff. Resta disperato.

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SCENA SESTA.

Leandro e Truffaldino.


Lean. Da una parte esclama dolente sul dubbio, che Clarice, sua amante, sia per le sue gran bellezze scelta dal Re, e di rimaner deluso. Truff. Dall’altra parte afflittissimo fa una caricata descrizione sulle bellezze di Smeraldina; la dipinge orrida; dubita, che la scelta del Re cada sopra lei; si dispera. Lean. Si lagna sulla poca costanza di Clarice; giudica però, che l’ambizione di Tartaglia l’abbia indotta, e sforzata ad esporsi nel Gabinetto regio. Truff. Fa parodìa ridicola dall’altra parte, riguardo a Smeraldina; giudica, ch’ella sia stata sforzata dal mezzano Brighella, suo fratello. Piangono tutti due; si scoprono; si chiedono la cagione del pianto reciproco. Lean. Sostiene, che Clarice sarà la scelta, Truff. Sostiene, che la scelta sarà Smeraldina. Si riscaldano sulla loro opinione, e sul loro buon gusto; si dimenticano il periglio, e la passione. Lean. Spera riflettendo alle duemila settecento quaranta otto donzelle, esposte invano col Re, che Clarice non sia la mosca bianca; e parte. Truff. Che se il Re rinunzia Smeraldina, non averà più stomaco atto a ricevere un rifiuto certamente.

(entra)

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SCENA SETTIMA.


Si cambia la scena, che rappresenterà il Gabinetto regio di Deramo, con porta di facciata. Ai lati della porta vi saranno due nicchie, e in queste due mezzi busti di statue. Il mezzo busto sulla sinistra sarà un uomo vivo congegnato sino alla cintura, e bianco in modo, che V uditorio Io creda uno stucco, simile a quello della destra. L’uomo, che presenterà questo stucco, sia comico, ed abbia abilità di assecondare le scene, che seguono, come sì vedrà notato. Questa statua si suppone esser uno de’ due gran segreti magici, donati da Durandarte, Negromante, al Re Deramo, accennati dal Cigoiotti, prologo. Nel mezzo al gabinetto vi saranno dei cuscini all’Orientale da sedere.

Deramo solo.

Eccomi per consiglio del prudente
Mio Ministro Tartaglia, al duro punto
Di sceglier sposa. (volgendosi all’uomo di
                    stucco) A te mi raccomando.
Di Durandarte, mago, egregio dono,
Che ridendo sin’ora alle menzogne
Delle donne bugiarde, m’hai difeso
Dal nodo indissolubile di sposo
Scoprendo il loro interno mal sincero.
Segreto arcano a me sol noto, e caro,
Deh non m’abbandonar.
Dammi pur segno,
Il ver scoprendo colle risa tue,
A quante oggi presentansi bugiarde;
Ch’amerò meglio non lasciar alcuno
Successore al mio Regno, ch’esser preda

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Di menzognera donna, che tradisca
L’amore e l’onor mio, che sin, ch’io viva,
O ch’ella esista, ella un marito abborra,
Io sospettoso d’una moglie sia.
Ecco la figlia di Tartaglia giugne.
Veggiam, com’ella sia sincera. Farmi
Impossibil trovar donna, che dica
La verità dopo sì lungo esempio. (siede)


SCENA OTTAVA.

Clarice e Deramo, Guardie che accompagnano Clarice. Clarice entra per la porta di mezzo. Le guardie, che la precedono, nel darle luogo al passaggio occupano alla vista dell’uditorio le due statue. Il Re fa cenno alle guardie di uscire. Escono, e chiudon la porta.

Der. Siedete pur, Clarice. La presenza
     Del vostro Re non dia punto timore
     All’alma vostra, e in libere parole
     Rispondete alle mie. Son grandi i merti
     Di vostro padre in guerra, e in pace, e voi
     Non dovete avvilirvi.
Clar. (con mestizia) Signor mio.
     Mio Re, di tal boutade vi ringrazio,
     E sol, perchè dcggio ubbidirvi, io siedo. (siede)
Der. Sposa scegliere io dcggio, e ben sareste
     Degna di me. La figlia di Tartaglia,
     Che m’è sì caro, perchè mai dovrebbe
     Non meritar le nozze mie? Ma prima
     Voglio saper da voi, se veramente
     Tai nozze avreste care?

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Clar.                              E chi potrebbe
     Non aver care nozze tanto illustri,
     Re generoso, esempio di pietade,
     Esempio di virtù?
Der. (si volgerà non veduto da Clarice; guarderà sott’occhio la statua di stucco, la quale non darà alcun segno)
     Son generali troppo i vostri detti.
     Voglio saper di voi. Lo so, che grate
     Sarieno le mie nozze a innumerabili
     Donne viventi, eppur con tutto questo
     Forse tra quella innumerabil torma
     Esser, Clarice, non vorreste. E questo
     Ciò, che vi chiedo, e che saper intendo.
Clar. (a parte) (Cielo! come m’astringe!) E come mai
     Tra tante credereste. Signor mio,
     Ch’io fossi sciocca, e di sì gran fortuna
     Non avessi piacer?
Der. (si volge, come sopra alla statua, la quale non si muove) Voi favellate,
     Clarice, ambiguo troppo. Io son, che prego.
     Di voi sapere io voglio. Le mie nozze
     Avreste care, o no? Di voi ragiono.
Clar. (a parte) Padre crudele, ah tu mi vuoi bugiarda"
     Sì, le avrei care, amato Re.
Der. (si volge, come sopra, alla statua, che fa un viso ridente, e poi si ricompone) Ciance,
     Clarice, io so, ch’entro all’interno vostro

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     Temete forse in dir: mi son discare,
     D’usar disprezzo al vostro Re. Può darsi,
     Ch’altro temiate ancor: sinceramente
     Non favellate. Avreste forse il core
     D’altro amante occupato?
Clar. (a parte)                    (Ahi crudel padre!
     Per te son menzognera, e per serbare
     Questa vita infelice). No, mio Re:
     Amo sol voi... So ben, ch’io non son degna
     Della destra d’un Re; ma, se la fossi,
     La vostra bramo solo, ed altro amante
     Non ebbi mai.
Der. (guarda la statua, che accresce il gesto di ridere, poi si ricompone) Or ben Clarice,
     Ite; che tutto intesi. Io non lusingo.
     Io non dispero alcuna. Or udiam l’altre.
     Risolverò a suo tempo.
Clar. (si leva; fa un inchino. A parte) Oh voglia il Cielo!
     Ch’ei mi ricusi, e che a Leandro io resti. (entrano le guardie, occupano le statue. Clar. entra, le guardie la seguono)


SCENA NONA.

Deramo solo.

Ben strano mi parca d’aver trovata
Donna sincera, (volto alla statua) O portentoso ordigno,

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Grazie ti rendo. Mi tremava il core,
Non vedendoti ridere, che avesti
Perduta tua virtù.


SCENA DECIMA.

Smeraldina, guardie e Deramo. Le guardie fanno, come sopra, indi escono e chiudono. Smeraldina con inchini, e gesti ridicoli e caricati si avanza.)


Der.                    Chi siete voi?
     Siedete pur. (a parte) Costei mi sembra certo
Sorella al Credenzier.
Smer. (sedendo) Son io, Signore,
     Di Brighella la suora. Alto lignaggio
     Abbiamo in Lombardia; ma le sventure
     Ci abbassano di stato, e quinci... e quindi...
     Ma povertà non guasta gentilezza.
Der. (si volge alla statua, che riderà) Intesi. Or dite, mia dama Lombarda,
     M’amate voi?
Smer. (sospirando forte) Ah...! ah...! tiranno, e quale
     Dimanda è questa! Io son per voi conquisa. (sospira)
Der. (guarda la statua che ride maggiormente)
     Deh mi dite di più. S’io vi scegliessi
     Per mia sposa, e morissi pria di voi,
     Vedovella lasciandovi, avereste
     Dolor di ciò?

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Smer. ('con gesti di dolore caricati) Crudel! che mai diceste?
     Se non siete empia tigre in volto umano,
     Tai discorsi non fate. Ahi ch’io mi sento
     Solo in pensarvi dal dolor svenire, (sviene fintamente)
Der. (guarda, come sopra; la statua ride maggiormente) Oh me meschino! Qui convien chiamare
     Servi, che portin via questa Lombarda. Smeraldina ciò sentendo ritorna tosto in se)
     Signora, il vostro affetto è troppo grande.
     Siete in istato vedovile, o siete
     Donzella da marito?
Smer.                    Oh come mai,
     Quando vedova fossi, à tal Monarca
     Di primizie sol degno, avrei coraggio
     D’esibirmi in isposa! Io son pulcella. (con contegno affettato, e facendosi fresco col ventaglio)
Der. (guarda la statua, che riderà smisuratamente con visacci strani, e colla bocca spalancata)
     Basta così. Dama Lombarda; andate.
V’accerto, che sin’ora a quante donne
     Si presentare a me prima di voi.
     Maggior piacer non ebbi. Andate, andate;
     Risolverò; partite.
Smer. (levandosi allegra) Ah, mio Signore,
     Aveva qui nel gozzo un mar d’affetti,

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     Di sentimenti i più dolci, i più teneri;
     Tutto non posso dir, ma gli risparmio
     Al dolce punto maritale. Allora
     Conoscerete, quanto v’amo. Addio.
     (a parte) Il colpo è fatto; è cotto; io son Regina.
(fa degl’inchini affettati con dei sospiri, volgendosi di quando in quando. Entrano le guardie, per riceverla, occupano le due statue; vien cambiato l’uomo statua occultamente con uno stucco verosimilissimo Smeraldina parte, le guardie la seguono)


SCENA UNDECIMA.

Deramo solo.


(verso lo stucco) Ah, caro ordigno, che piacere è questo,
Che mi dai col tuo riso! Oh maritati,
Oh padri, ed oh serventi, qual ventura
Sarebbe a voi l’avere simile ordigno
Tutti ne’ vostri alberghi, e le sorelle,
E le mogli, e le amate interrogando,
Saper de’ loro interni!... Ah no, che questa
Sarebbe la maggior disavventura,
Ch’uomo potesse aver. Quanto sarebbe
Meglio, che in vece di scoprir le donne,
Tu scoprissi degli uomini l’interno.
Per potersi guardar da’ falsi amici.

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Da’ servi indegni, e da’ ministri infidi!
(guarda verso la porta) Angela si presenta. Io giuro al Cielo,
Che ad iscoprir costei bugiarda, e finta
M’increscerà. Desidero trovarla...
Ma folle desiderio! Il lungo esempio
Lusinga non mi lascia... Eppur... vorrei...
Ah ch’io vaneggio... Ordigno, il ver palesa.


SCENA DODICESIMA.

Angela e Deramo.


Ang. (con nobile francheggia) Qui son, mio Re, per un decreto vostro;
     Se sia giusto, noi so.
Der. (a parte) Che bell’ardire!
     Siedete pure; ingiusto io mai non sono.
Ang. (siede) Siete Re. Chi può aver coraggio mai
     Di bilanciarvi in faccia, e farvi chiara
     L’ingiustizia talor de’ vostri editti?
Der. Angela non mi sembra di coraggio
     Sì scarsa, a quel ch’io sento, che timore
     Abbia a rimproverare il suo Sovrano.
     Pur, se a bastanza non ne avesse, io voglio
     Ch’ell’abbia intera libertade in dono.
     Franca ragioni. Offesa io non ricevo.
Ang. (a parte) (Ah mi lusinga, e mi tradisce il barbaro...
     Povero cor! ) E qual giustizia ha. Sire,

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     L’obbligar le infelici, meschinelle,
     Povere figlie a forza a esporsi in questa
     Stanza secreta, ed alla concorrenza,
     D’esser spose d’un Re, nate in umile
     Stato, e sì disugual, perchè la mente
     Debile si lusinghi, e ricusata
     Poi sen vada piangendo, di vergogna
     Carca, e dolor di non piacervi, (con sospiro) e forse
     Ricusata a ragion per poco merto?
     Qual giustizia sarà, se, mio malgrado,
     Son qui condotta, e se del genitore
     Povero mio fur le preghiere vane
     Per fuggir tal rossor; s’ei per pietadc
     Vi chiese a dispensarlo dall’espormi
     Alla vostra grandezza, al vostro acume,
     O... (sia permesso) ad un capriccio vostro.
     Per cui tante donzelle sfortunate
     Furono offese ornai? Mio Re, Deramo,
     Ricordivi del Ciel, ch’è giusto, e attende
     Tempo a punir pe’ danni altrui. Ragiono,
     Non per me, che al rifiuto sono esposta,
     E soffrirò il rifiuto, ma per tante
     Misere donne, che son fuori, e attendono
     Meste l’ingiuria loro. Dispensatele.
     L’ultima Angela sia, che soffra a forza
     D’un rifiuto il dolor. Mio Re, perdono;
     Libertà mi donaste, e libertade
     Usai nel favellar.
Der. (a parte)          Qual arte è questa

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     Che attonito mi rende! (guarda lo stucco, che non fa motto) E pur non ride
     Il simulacro. E fìa mai ver, che questa
     Abbia sincero il cor? Lo voglia il Cielo:
     Non mi lusingo ancora. Io vi perdono,
     Angela, e lodo. Ah! se sapeste il vero,
     Non direste così. Ne’ tempi andati
     Cercai donna sincera, che m’amasse,
     Che mi dovesse amar sino alla morte;
     Pur non la ritrovai. Necessitade
     Di dar eredi al Regno oggi mi sforza
     A tentar di trovarla, e temo vana
     La mia ricerca.
Ang.                    E chi v’accerta, Sire,
     Che di tante donzelle a voi qui entrate
     Alcuna tal non fosse?
Der.                              Chi m’accerta?...
     Non ve lo posso dir; ma certo io sono.
     M’amate, Angela, voi? (con tenerezza)
Ang. (sospirando) Volesse il Cielo,
     Ch’io non v’amassi, che di mortai doglia
     Non mi saria il rifiuto, già imminente,
     E ch’attendo, Signor, con quella pace,
     Che non auguro a voi.
Der. (guarda lo stucco, che non si move. A parte) Nè la deride
     Ancora il simulacro!.. O quanta gioia
     Mi trabocca nel core!... Ah ch’è impossibile!...
     Angela, dite il vero? (con trasporto) E m’amereste

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     Sino a quel dì, in cui forse io sarò primo...
     Sì, sarò primo a chiuder queste luci?
Ang. Signor, credo di sì, se dall’affetto,
     Ch’io sento al core, misurar si puote
     Ciò, ch’esser dee. Ma come mai mescete
     Il dolce coli’ amaro di lugubri
     Ricerche, o Re? Lusinghe... amor... angosce...
     Povero cor! (piange)
Der. (guarda lo stucco, che non fa motto) Sta fermo il simulacro!
     Questa Veneta donna, dopo tante,
     Sarà sincera! (guarda come sopra) Oh Dio! forse l’amore
     M’abbarbaglia la vista, e il ver non scopro. (guarda ec.)
     (con agitazione) Se non m’amate... s’altri amanti avete...
     Se alcun secreto è in voi, deh palesatelo.
     Angela, per pietà, prima, ch’io passi
     A scegliervi in isposa. Io più non posso,
     Angela, e v’amo sì, che, se scoprissi
     Dopo un inganno in voi, morrei d’affanno.
Ang. (levandosi, e precipitando a’ suoi piedi)
     Deh datemi il rifiuto... quel rifiuto,
     Ch’esser dee la mia morte. Ornai, Deramo,"
     Cessate di più offendermi; frenate
     Le tiranne lusinghe. Qual onore
     Traete voi da sì barbare forme.
     Nel lacerar il cor d’un’infelice
     Fanciulla meschinetta, ed innocente.

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     Che indegna si conosce, e che abbastanza
     Ha sofferto sin’or? Ahi, più non posso...
     Più non posso, Deramo... mi si spezza
     Il cor... Deramo, per pietà lasciatemi...
     Più non mi lusingate. (piange dirottamente)
Der. (commosso guarda come sopra lo stucco, che non fa motto. Si leva) Oh cara donna...
     Donna rara a miei dì, più non piangete; (la solleva)
     Levatevi. Sì bello, e caro spirto
     Ben sarei scellerato rifiutando.
     Olà, ministri, guardie, entrate, entrate.
     Il popol si rallegri. Ho ritrovata
     Donna, che m’ama, e m’amerà per sempre,
     Diletta a questo cor. (entrano le guardie)
Ang.                              Ah no... Deramo,
     Non mi fate morir. Soffro il rifiuto.
     Ma almeno in faccia al popolo non sia:
     Troppo è l’atto tiranno. Io già confesso,
     Non son degna di voi.
Der.                              Degna sareste
     Di Monarca maggior. Veneta donna,
     Esempio d’amor vero, che smentisce
     Le indegne lingue, che pel mondo vanno
     Predicando incostanza, ed amor finto,
     E volubilità nel sesso molle.
     Che adorna l’Adria tua. Ministri, entrate;
     Scelta ho sposa alla fine. Angela ho scelta.

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SCENA TREDICESIMA.

Tartaglia, Pantalone e detti.


Pant. (con trasporto) Mia fia, Maestae?
Der. Sì, vostra figlia, fortunato padre,
     E fortunato più d’aver prodotta
     Sì beli’ anima al mondo, che per essere
     Suocero d’un Monarca.

Tart. (irato a parte) Oh maledetto punto! Io mi sento morire. Angela perdo; perde il trono mia figlia.

Pant. Ah, Maestae, no bastava, che avesse da ella tante beneficenze senza meriti, che la voi innalzar a tanto grado una povera fiola?...

Der.                         La virtude
     Innalzo al posto suo. Necessitade
     Di successore al Regno a sceglier sposa
     Mi sforza, ed una sposa la più degna
     D’Angela non trovai.

Tart. (con affettata allegrezza) E viva, e viva... Maestà, mi rallegro; non potevate far miglior scelta. Angela, mi consolo... Pantalone, non posso esprimere la mia gioia... (a parte) Mi sento rodere... o morte... o inferno... o vendetta.

Pant. Cara fia, no te desmentegar mai la to nascita; no te insuperbir. Varda ogni momento el Cielo, dal qual vien le fortune, ma vien anca le desgrazie improvvise. Basta; el nostro [p. 162 modifica]Re me farà una grazia de lassarme do ore a quattr’occhi con ti, tanto, che te possa dar qualche recordo, farte un’ammonizion da bon vecchio, da bon pare; ma me par ancora impossibile...

Der. Come! Non m’offendete. Ecco la destra.
     Angela è sposa mia, s’ella il consente.
Ang. Mio Re, questa è la destra, e quella destra,
     Che vi dona lo spirto, e fede eterna. (s’impalmano)

Tart. (a parte) (Creppo per la rabbia...) Ma come mai, dilettissimo Monarca, perdeste tanto tempo a consolarci, e dopo duemila settecento e quaranttotto donzelle, questa Veneziana?...

Der. Ora ve lo dirò. Sono cinque anni,
     Ch’ebbi dal mago Durandarte in dono
     Due gran secreti, uno de’ quali è quello; (mostra lo stucco)
     L’altro in petto lo serbo. Ha quel virtude,
     Che al dir menzogne dalle donne ride,
     Scoprendo il loro interno. Insino ad ora
     Angela sola d’animo sincero
     Mi comparve dinanzi; Angela ho scelta.
Ang. (farà un atto di ammirazione)
Pant. Ve! mo la xe ben granda!

Tart. (iracondo) E rise quella statua di Clarice! Dunque mia figlia è una bugiarda. Con permbsione; vado a scannarla.

Der. Fermatevi. Clarice è innamorata
     D’altra persona. Il seppi. Ella non era

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     Più sposa di me degna. Angela mia,
     Illibata fanciulla, io v’amo tanto,
     Sì di voi sono pago, e persuaso,
     Che non soffro tener più a me dappresso
     Sì forte tentazion di sospettare
     Dell’amor vostro, e della vostra fede
     In avvenire, ed alla virtù vostra,
     Al vostro amor sacrifico per sempre
     La credenza, ed il core; (sguaina la scimitarra) e chiaro segno
     Sia lo spezzar quest’infernale ordigno,
     Per non cercar in voi macchia, o viltade. (spezza lo stucco)
     Impari ognun da me, come si tronchi
     Sospetto e gelosia, cagion d’offesa
     Alle mogli fedeli, e cagion forse
     Del mal, che non sarebbe, o torto alfine.
     Giubili la città, (a Tart.) Fido ministro,
     Or sarete contento. Via, scuotetevi
     Dalla malinconia per vostra figlia.
     Andiamo a divertirci. Oggi ordinate
     Una festevol caccia. Angela, al Tempio.
Ang. Io vi seguo, mio Re, grata e confusa. (entrano)

Pant. Da galantomo che el me par un sogno. Vado a dar parte con quattro righe a mio fradello Boldo a Venezia delle mie esaltazion. Si ben che sta novità anderà su madama la gazzetta1, nonostante vogìo scriver una ma[p. 164 modifica]dama lettera, e metterla a madama la posta. (entra)

Tart. Mia figlia rifiutata!... Angela mia!... Angela mia perduta! Ah ch’io sento la rabbia, l’invidia, l’ambizione, l’amore, la gelosia, il canchero qui nel ventricolo, che mi rodono, mi divorano! Un uomo della mia qualità!... E impossibile, ch’io possa tenere occulta la rivoluzione, che ho nel corpo. Bisognerà sforzarsi. È questo il punto di condurmi alla caccia per divertirmi? Maledico mia figlia. Pantalone, il Re, e quello stucco infernale. Starò in attenzione, e in tanta attenzione, che troverò il momento di fare una delle più strepitose vendette, che sieno state rappresentate in un Teatro. I miei posteri sentendola raccontare, caderanno inorriditi col taffanario per terra.

Note

  1. Alludesi alla gazzetta, che scriveva in quel tempo il Sig. Abb. Chiari, appellandola madama la gazzetta.