I due gemelli veneziani/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA,
Camera di Rosaura.
Rosaura e Colombina, tutte due alla tavoletta,
che si assettano il capo.
Rosaura. Signora Colombina garbata, mi pare che l'obbligo suo sarebbe, prima di mettersi in tante bellezze, di venire ad assettare il capo alla sua padrona.
Colombina. Signora, l’obbligo mio l’ho fatto: vi sono stata dietro due ore ad arricciarvi, frisarvi e stuccarvi: ma se poi non vi contentate mai, e vi cacciate per dispetto le dita ne’ capelli, io non vi so più che fare.
Rosaura. Guardate mo che1 presunzione! voler lasciar me arruffata, per perdere il tempo intorno a se medesima.
Colombina. E che! non ho io forse de’ capelli in capo, come ne avete voi?
Rosaura. Sì, ma io son la padrona, e tu sei la serva.
Colombina. Oh, di grazia, non mi fate dire.
Rosaura. E bada a durare2. Or ora verrà lo sposo che si attende a momenti, e mi troverà in questa maniera.
Colombina. Anch’io, signora, aspetto lo sposo, e mi preme di comparire3.
Rosaura. E ti vuoi paragonare con me, sfacciatella che sei?
Colombina. Ehi, signorina, non mi perdete il rispetto, sapete, che ve ne pentirete.
Rosaura. Impertinente, levati, o ti farò levare con un bastone.
Colombina. Poter del mondo! a me un bastone? (s’alza)
Rosaura. Così rispondi alla padrona? Disgraziata, lo dirò a mio padre.
Colombina. Che padrona? Che padre? Eh, signorina, ci conosciamo.
Rosaura. E che vorresti dire, bricconcella?
Colombina. Alto, alto con questi titoli, che se mi stuzzicherete, vomiterò ogni cosa, sapete.
Rosaura. Via, parla, che puoi tu dire, bugiarda?
Colombina. Posso dire... basta. Se ho taciuto finora, adesso non voglio tacere.
SCENA II.
Dottore e dette.
Dottore. Cos’è questo rumore? Cos’è stato? Che cosa avete?
Rosaura. Ah signor padre! Mortificate4 colei. Ella m’insulta, mi maltratta, mi perde il rispetto.
Dottore. Come? Così tratti una mia figliuola? (a Colombina)
Colombina. Eh, signore, so più di quello che v’immaginate. Mia madre m’ha detto tutto, sapete.
Dottore. (Ah donna senza giudizio, se fosse viva, la vorrei scorticare). (da sè) (Colombina, per amor del cielo, non dir nulla di quello che sai. Sta cheta, e farò tutto per te e per i tuoi vantaggi). (piano a Colombina)
Colombina. (Oh certo, tacerò, e mi lascerò maltrattare). (piano al Dottore)
Rosaura. Dunque, signor padre...
Dottore. Orsù, oggi si aspetta il vostro sposo, il signor Zanetto Bisognosi, figlio di quel famoso mercante veneziano che chiamavasi Pantalone, il quale è stato allevato a Bergamo da suo zio Stefanello, ed è uno de’ più ricchi mercanti di Lombardia.
Colombina. Ricordatevi che anch’io mi ho a maritare con il suo servo. Così m’avete promesso.
Dottore. (Benissimo, lo farò, ti contenterò: purché tu taccia). (piano a Colombina)
Colombina. Fate bene, se volete ch’io taccia, a turarmi la bocca col matrimonio.
Dottore. Quant’è, Rosaura, che non hai veduto il signor Pancrazio?
Rosaura. Oh, lo vedo spessissimo.
Dottore. Egli è un grand’uomo di garbo!
Rosaura. Certo che sì; non cessa mai di darmi de’ buoni consigli.
Dottore. Fin ch’io vivo, non lo lascio uscire di casa mia.
Rosaura. Fate bene. È un uomo che può molto giovarvi.
Colombina. Quanto a me, con vostra buona grazia, lo credo un bel birbone.
Dottore. Taci, mala lingua. Che motivo hai tu di parlare così?
Colombina. So io quel che dico. Non mi voglio spiegare.
SCENA III.
Brighella e detti.
Brighella. Sior padron, siora padrona, è arrivado in sto ponto el sior Zanetto da Bergamo; l’è smonta da cavallo, e l’è alla porta che el parla, con uno che l’ha compagnà.
Dottore. Sia ringraziato il cielo. Figliuola mia, vado in persona a riceverlo, e lo conduco subito a visitarti. (parte)
SCENA IV.
Rosaura, Colombina e Brighella.
Rosaura. Dimmi un poco. Brighella, tu che hai veduto il signor Zanetto, che ti pare di lui? È bello? è grazioso?
Brighella. Ghe dirò, siora; circa alla bellezza no gh’è mal: l’è zovene, e el pol passar; ma, per quel poco che ho visto, el me par molto gnocco. Nol saveva gnanca da che banda smontar da cavallo. Al viso el someggia tutto a un altro so fradello zemello, che gh’ha nome Tonin, el qual sta sempre a Venezia, dove che ho avudo occasion de conosserlo: ma se el ghe someggia in tel viso, nol ghe someggia in tel resto, perchè quello l’è spiritoso e disinvolto, e questo el par un zocco taggià colla manera5.
Rosaura. Questa relazione non mi dà gran piacere.
Colombina. Col signor Zanetto doveva venire un certo Arlecchino suo servitore; è egli venuto? (a Brighella)
Brighella. No l’è ancora vegnù; ma el s’aspetta col bagaglio del so patron.
Colombina. Me ne dispiace. Ho curiosità di vederlo.
Brighella. Lo so, lo so che l’è destina al possesso delle vostre bellezze.
Colombina. Se avete invidia, crepate. (parte)
SCENA V.
Rosaura e Brighella.
Rosaura. Narrami, Brighella, come hai conosciuto questa famiglia in Venezia, e dimmi per qual cagione il signor Zanetto sia stato allevato a Bergamo.
Brighella. Mi serviva in Venezia un mercante ricchissimo, amigo intrinseco del fu sior Pantalon dei Bisognosi, padre de sti do fradelli6 zemelli. El sior7 Pantalon, oltre de questi, l’aveva anca una femena, e questa el l’ha mandada a Bergamo a un so fradello, per nome chiamà8 Stefanello, ricco e senza eredi, dove prima l’aveva mandà el sior9 Zanetto. Ho sentio a dir, praticando in quella casa, che la femena s’aveva perso; che a Bergamo no l’è arrivada, e che la s’è smarrida, no se sa come, per viazo; e mai più i ghe n’ha avudo nova: e questo è quanto ghe posso dir circa alle persone de sta fameggia. In quanto po al grado e alle facoltà, la casa Bisognosi in Venezia fa bona fegura in Piazza, e la passa per una delle più comode tra i mercanti10.
Rosaura. Tutto va bene, ma mi rincresce che il signor Zanetto non sia spiritoso quanto il fratello.
Brighella. Eccolo che el vien in compagnia col patron. La lo esamina, e la vederà se ho dito la verità. (parte)
SCENA VI.
Rosaura, poi il Dottore e Zanetto.
Rosaura. Al viso non mi dispiace. Può essere che non sia tanto sciocco, quanto me l’ha dipinto Brighella.
Dottore. Venga, venga liberamente, senza soggezione. Figlia mia, ecco il signor Zanetto.
Zanetto. Siora novizza11, la reverisso.
Rosaura. Signore, io gli sono umilissima serva.
Zanetto. (Ah, la xe serva! Bondì sioria). Digo, sior missier12, la novizza dov’eia?
Dottore. Eccola qui: questa è mia figlia, questa è la sposa.
Zanetto. Mo se la m’ha dito che la xe serva.
Dottore. Eh, non signore, ha detto gli sono umilissima serva, per complimento, per cerimonia.
Zanetto. Ho inteso; scomenzemo mal.
Dottore. Per qual ragione?
Zanetto. Perchè in tei matrimonio no ghe vuol ne busie, né cerimonie.
Rosaura. (È veramente sciocco, ma pure non mi dispiace). (da sé)
Dottore. Eh via, non abbadi13 a queste inezie.
Rosaura. Signor Zanetto, assicuratevi ch’io sono sincera, che non so simulare, e che avrò per voi tutta la stima ed il rispetto.
Zanetto. (Tutte cosse che no val un figo14).
Rosaura. Ma forse non aggraditea queste mie espressioni?
Zanetto. Siora sì, come che la vol.
Rosaura. Dispiace agli occhi vostri il mio volto?
Zanetto. Alle curte. Mi son vegnù a Verona per maridarme, e aspetto Arlecchin da Bergamo coi abiti, co le zogie e coi bezzi.
Rosaura. E bene, non sono io destinata per vostra sposa?
Zanetto. Ma che bisogno ghe xe de tanti squinci e quindi15? La me tocca la man, e la xe fenia.
Rosaura. (Che temperamento curioso!) (da sé)
Dottore. Ma, caro signor genero, vuol ella fare il matrimonio così ruvidamente? Dica qualcosa alla sposa, le parli con più buona grazia ed amore.
Zanetto. Oh sì, disè ben. So tutto, tutto vostro. Me piase quel bel visetto. Vorave... Caro sior missier, feme un servizio.
Dottore. Cosa comanda?
Zanetto. Ande via de qua, perchè me de suggizion16.
Dottore. Benissimo, la servirò. Io sono un uomo compiacentissimo. (Figlia mia, abbi giudizio: è un poco scioccherello17, ma ha de’ quattrini). (piano a Rosaura) Signor genero, la riverisco. (Guardate a chi dona la sorte i suoi favori!) (da sé, e parte)
SCENA VII.
Rosaura e Zanetto.
Zanetto. Sioria vostrab, (al Dottore) E cussì, siora novizia, nualtri semo mario e muggierc.
Rosaura. Così spero.
Zanetto. Donca cossa femio qua impalaid?
Rosaura. E che cosa vorreste fare?
Zanetto. Oh bella! mario e muggier.
Rosaura. Marito e moglie lo saremo, torno a dir, così spero: ma ora il matrimonio non è ancora fatto.
Zanetto. No? Mo cossa ghe vol per far el matrimonio?
Rosaura. Vi vogliono molte cerimonie e solennità.
Zanetto. Parlemose schietto. Me accetteu per vostro mario?
Rosaura. Sì, signore, vi accetto.
Zanetto. E mi ve accetto per mia muggier. Cossa ghe xe bisogno de altre cerimonie? Questa xe la più bella cerimonia del mondo.
Rosaura. Voi dite bene. Ma qui non si pratica in questa guisa.
Zanetto. No? Torno a Bergamo. Torno alle montagne, dove so sta arlevà. Là, co se vol ben, xe fatto tutto. Co do parole se fa un matrimonio: e tutte le cerimonie le se fa tra mario e muggier.
Rosaura. Vi torno a dire che qui vi vogliono altre solennità.
Zanetto. Ma ste solennità quando fenirale?
Rosaura. Ci vogliono almeno due giomi.
Zanetto. Oh, figureve se aspetto tanto!
Rosaura. Siete molto furioso.
Zanetto. O femo subito, o no femo gnente.
Rosaura. Ma questo è un disprezzo che fate della mia persona.
Zanetto. Che disè desprezzo a concluder el matrimonio? Saveu quante puttee che vorave esser desprezzae in sta maniera?
Rosaura. Ma che diavolo! non potete aspettar un giorno?
Zanetto. Ma disè, cara vu: ste solennità e ste cerimonie no le se poderave far dopo el matrimonio? Concludemo le cosse tra de nu, e pò andemo drio a ceremoniar anca un anno, che no ghe penso gnente.
Rosaura. Eh, signor Zanetto, mi pare che vi vogliate prender divertimento di me.
Zanetto. Seguro che me vorave devertir, ma col matrimonio.
Rosaura. Lo farete a suo tempo.
Zanetto. Dise el proverbio: chi ha tempo no aspetta tempo. Via, no me fé più penar. (s’accosta, e vuol toccarle la mano)
Rosaura. Ma questa poi è un’impertinenza.
Zanetto. E via, che cade18!
Rosaura. Abbiate giudizio, vi dico.
Zanetto. Siben, giudizio. (vuol abbracciarla, ella gli dà uno schiaffo)
Rosaura. Temerario!
Zanetto. (Senza parlare si ferma attonito, si tocca la guancia. Guarda in viso Rosaura, fa il motto dello schiaffo, la saluta, e alla muta correndo parte.)
SCENA VIII.
Rosaura, poi Pancrazio.
Rosaura. Poter del mondo! che uomo improprio! che giovine sfacciato! non mi sarei mai creduta una tale temerità in colui, che sembra a prima vista uno sciocco. Ma appunto questi guarda basso sono quelli che ingannano più degli altri. Noi altre donne mai non ci dovremmo19 trovare da sola a solo cogli uomini. Sempre s’incontra qualche pericolo. Me l’ha detto tante volte quel buon uomo del signor Pancrazio... Ma eccolo che viene; veramente nel di lui volto si vede a chiare note la bontà del suo cuore.
Pancrazio. Il ciel vi guardi, fanciulla; che avete, che vi veggo così alterata?
Rosaura. Oh, signor Pancrazio, se sapeste cosa mi è accaduto!
Pancrazio. Che mai, che mai! Palesatemi il tutto con libertà. Già in me vi potete sicuramente fidare.
Rosaura. Ve lo dirò, signore: sapete già che mio padre mi ha destinata in isposa ad un Veneziano.
Pancrazio. (Così non lo sapessi!) (da sé)
Rosaura. Saprete ancora ch’egli, partitosi da Bergamo, oggi è arrivato in questa città.
Pancrazio. (Così si fosse rotto l’osso del collo). (da sé)
Rosaura. Ora sappiate che costui è uno sciocco, ma però temerario.
Pancrazio. La temerità è propria di gente sciocca.
Rosaura. Mio padre mi fece subito abboccare con esso lui.
Pancrazio. Male.
Rosaura. Poi seco lui ancora mi lasciò sola.
Pancrazio. Peggio.
Rosaura. Ed egli...
Pancrazio. Già me l’immagino.
Rosaura. Ed egli con parole indecenti...
Pancrazio. Ed anco tenere, non è così?
Rosaura. Sì, signore.
Pancrazio. E con qualche atto immodesto?
Rosaura. Per l’appunto.
Pancrazio. Seguite; che avvenne?
Rosaura. Mi provocò a segno ch’io gli diedi uno schiaffo.
Pancrazio. Oh, brava, oh saggia, oh esemplare fanciulla! oh degna d’esser descritta nel catalogo dell’eroine del nostro secolo! Non ho lingua bastante per lodare la savia risoluzione del vostro spirito. Così si trattano cotesti insolenti; così si mortificano questi irriverenti del sesso. Oh mano eroica, oh mano illustre e gloriosa! Lasciate che per riverenza ed ammirazione imprima un bacio su quella mano, che merita gli applausi del mondo tutto. (le prende la mano, e la bacia teneramente)
Rosaura. Merita dunque la vostra approvazione quest’atto del mio risentimento?
Pancrazio. Pensate! e in che modo! Al giorno d’oggi è un prodigio trovar una giovane, che per modestia dia uno schiaffo ad un amante. Seguite, seguite sì bel costume. Avvezzatevi a disprezzare la gioventù, dalla quale non potete sperare che mali esempi, infedeltà e strapazzi; e se mai il vostro cuore risolvere si volesse ad amare, cercate un oggetto degno del vostro amore.
Rosaura. Ma dove ed in chi dovrei cercarlo?
Pancrazio. Oh, Rosaura, per ora non posso dirvi di più. Penso a voi ed al vostro bene più di quello che vi credete; basta, lo conoscerete.
Rosaura. Signor Pancrazio, sono certa della vostra bontà. Siete troppo interessato per i vantaggi di questa casa, per non isperare da voi ogni più segnalato favore. Però, se devo dirvi la verità, il signor Zanetto non mi dispiace, e se non fosse così sfacciato, forse forse...
Pancrazio. Oibò, oibò, chiudete l’incauto labbro, e non oscurate con sentimenti sì vili l’eroica impresa della vostra virtù. Via, odiate anzi un oggetto così abbominevole. Chi non sa esser modesto, mostra di non aver la ragione che lo governa. Il vostro merito d’altro oggetto più nobile vi rende degna. Non fate mai più ch’io vi senta a pronunziare quel nome.
Rosaura. Dite bene, signor Pancrazio. Perdonate20 la mia debolezza. Vado a dire a mio padre che non lo voglio.
Pancrazio. Brava; ora vi lodo. Aggiungerò alle vostre le mie ragioni.
Rosaura. Di grazia, non mi abbandonate. (Che uomo dabbene, che uomo saggio ch’è questo! Felice mio padre, che l’ha in sua casa! felice me, che sono ammaestrata da’ suoi consigli!) (parte)
SCENA IX.
Pancrazio solo.
Se non mi acquisto Rosaura col mezzo di una falsa virtù e di una finta prudenza, nè colla gioventù, nè colla bellezza, nè colla ricchezza io non ispero di acquistarla per certo. Ho trovata una strada, che forse forse mi condurrà al fine de’ miei disegni. In oggi21 chi sa più fingere, sa meglio vivere; e per esser saggio, basta parerlo. (parte)
SCENA X.
Strada.
Beatrice da viaggio, con un Servitore, e Florindo.
Beatrice. Tant’è, signor Florindo, io voglio tornar a Venezia.
Florindo. Ma perchè una risoluzione così improvvisa?
Beatrice. Sono ormai sei giorni ch’io sto attendendo il signor Tonino, con cui passar dovevo a Milano; e non per anco lo vedo a comparire. Dubito che siasi pentito di seguitarmi, oppure che qualche strano accidente non lo trattenga in Venezia; senz’altro voglio partire, e chiarirmi in persona di questo fatto.
Florindo. Ma questa, perdonatemi, è un’imprudenza; volete ritornar a Venezia, da dove22, per consiglio del signor Tonino, siete fuggita? Se vi trovano i vostri parenti, siete perduta.
Beatrice. Venezia è grande: s’entra di notte: farò in modo che non sarò conosciuta.
Florindo. No, signora Beatrice, non isperate ch’io vi lasci partire. Il signor Tonino a me vi ha indirizzata, a me vi ha raccomandata, ho debito di trattenervi, ho debito di custodirvi; così vuole la legge dell’amicizia, (e così richiede la forza di quell’amore, che a lei mi lega). (da sé)
Beatrice. Non vi lagnate, se ad onta del vostro volere mi procaccio da me stessa il modo di partire. Saprò trovare la Posta, e saprò col mio servo ritornare a Venezia, se con esso sono venuta a Verona.
Florindo. Oh, questo sì che sarebbe il massimo degli errori. Non mi diceste voi stessa che un certo Lelio per viaggio vi ha di continuo perseguitata? E non l’ho veduto io stesso qui in Verona raggirarsi sempre d’intorno a voi, a segno tale che più volte ho quasi seco dovuto precipitare? Se tornate a partire, ed egli giunge a penetrarlo, non vi esimerete da qualche insulto.
Beatrice. Una donna onorata non teme insulti.
Florindo. Ma una donna sola con un servitore per viaggio, per quanto sia onorata, fa sempre una cattiva figura, ed è facile ricever un affronto.
Beatrice. Tant’è, voglio partire.
Florindo. Aspettate almen due giorni.
Beatrice. Ah, che il cuor mi predice, che ho perduto il mio Tonino.
Florindo. Tolga il cielo gli auguri: ma se mai lo aveste perduto, che vorreste fare ritornando in Venezia?
Beatrice. E che avrei a fare stando in Verona?
Florindo. Qui forse trovereste persona, che persuasa del vostro merito, potrebbe occupare il luogo del vostro caro Tonino.
Beatrice. Oh, questo non sarà mai. O sarò di Tonino, o sarò della morte.
Florindo. (Eppure, se qui restasse e non venisse il suo amante, spererei a poco a poco di vincerla). (da sé)
Beatrice. (Quando meno lo crederà, gli fuggirò dalle mani). (da sé)
Florindo. Ma ecco qui quel ganimede affettato di Lelio. Egli s’aggira sempre d’intorno a voi; guardi il cielo, se foste senza di me!
Beatrice. Partiamo.
Florindo. Oh questo no: non diamo segno di timore. State pur sul vostro decoro, e non dubitate.
Beatrice. (Mancava questo impedimento alla mia partenza). (da sé)
SCENA XI.
Lelio e detti.
Lelio. Bellissima Veneziana, ho risaputo dal vetturino che voi bramate ritornare alla vostra patria; se così è, fate capitale di me: vi darò calesse, cavalli, staffieri, lacchè, denari e quanto volete, purché mi concediate il piacere di accompagnarvi.
Beatrice. (Che sguaiato!) (da sé)
Florindo. Signore, mi favorisca. Con che tìtolo offre ella tante magnifiche cose alla signora Beatrice, mentre la vede in mia compagnia?
Lelio. Che importa a me ch’ella sia in vostra compagnia: ho io soggezione di voi? Chi siete voi? Suo fratello, suo parente, o qualche suo condottiere?
Florindo. Mi maraviglio di voi e del vostro cattivo procedere. Sono un uomo d’onore. Sono uno che ha impegno di custodir questa donna.
Lelio. Oh amico, siete in un difficile impegno!
Florindo. E perchè?
Lelio. Perchè a custodir una donna ci vogliono altre barbe che la vostra.
Florindo. Eppure mi dà l’animo di tener a dovere voi, e chiunque altro simile a voi.
Lelio. Orsù, alle corte. Vi occorre nulla da me? Avete bisogno di denaro, di roba, di protezione? Comandate. (a Beatrice)
Florindo. Voi mi farete perder la pazienza.
Lelio. Eh, vi conosco alla cera; siete un giovine di garbo. Signora Beatrice, mi dia la mano, e si lasci servire.
Beatrice. Mi sembrate un bell’impertitente.
Lelio. In amore vi vuole audacia. A che servono tante inutili cerimonie? Via, andiamo, (la vuol prendere per la mano, ed ella si ritira)
Florindo. Abbiate creanza, vi dico. (gli dà una spinta)
Lelio. A me questo? A me, temerario? A me, che uomo del mondo non può vantarsi d’avermi guardato con occhio brusco, che non abbia anche pagato col sangue il soverchio suo ardire? Sai tu chi sono? Sono il marchese Lelio, signor di Monte Fresco, conte di Fonte Chiara, giurisdicente di Selva Ombrosa. Ho più terre che tu non hai capelli in quella mal pettinata parrucca, ed ho più centinaia di doppie, che tu non hai avuto bastonate.
Florindo. Ed io credo che tu abbia più pazzie nel capo, di quel che vi sieno arene nel mare e stelle nel cielo. (Chi non lo conoscesse? Si vanta conte, marchese, ed è nipote del dottor Balanzoni). (da sé)
Lelio. O venga meco la donna, o tu caderai vittima del mio sdegno.
Florindo. Questa donna vien da me custodita: e se hai che pretender da me, ti risponderò colla spada.
Lelio. Povero giovine! Ti compatisco. Tu vuoi morire, non è così?
Beatrice. (Signor Florindo, non vi cimentate con costui). (piano a Florindo)
Florindo. (Eh, non temete. Abbasserò io la sua alterigia), (a Beatrice.)
Lelio. Vivete ancora, che siete giovine, e lasciatemi questa donna. Delle donne n’è pieno il mondo. La vita è una sola23.
Florindo. Stimo più della vita l’onore. O partite, o impugnate la spada. (mette mano)
Lelio. Non sei mio pari, non sei nobile, non mi vo’ batter teco.
Florindo. O nobile, o plebeo. Così si trattano i vili tuoi pari. (gli dà una piattonata)
Lelio. A me questo! Dei tutelari della mia nobiltà, assistetemi nel cimento. (pone mano)
Florindo. Ora vedremo la tua bravura. (si battono)
Beatrice. Oh me infelice! Non vo’ trovarmi presente a qualche tragedia. Mi ritirerò nell’albergo vicino. (nel mentre che li due si battono, Beatrice parte col servo)
SCENA XII.
Florindo e Lelio che si battono, poi Tonino.
Florindo. Ah! son caduto. (cade)
Lelio. Temerario, sei vinto. (gli sta colla spada al petto)
Florindo. Sdrucciolai per disgrazia.
Lelio. Ti superò il mio valore. Mori...
Tonino. (Colla spada in mano in difesa di Florindo) A mi, a mi: alto, alto: co la zente xe in terra, se sbassa la ponta. (a Lelio)
Lelio. Voi come c’entrate?
Tonino. Gh’intro, perchè son un omo d’onor, e no posso sopportar una bulada in credenzaf.
Florindo. Come... Signor Tonino... Amico caro... (s’alza)
Tonino. (Zitto... son vostro amigo, e son arriva in tempo de defender la vostra vita, ma no stè a dir el mio nome). Animo, sior canapiolog, vegnì a nuh.
Lelio. (Ci mancava costui). (da sé) Ma voi chi siete?
Tonino. Son un venezian, che gh’ha tanto de cuor; che no gh’ha paura né de vu, né de diese della vostra sorte.
Lelio. Io non ho nulla con voi, né intendo di volermi battere.
Tonino. E mi gh’ho qualcossa con vu, e me voggio batter.
Lelio. Mi sembrate uno stolto; che cosa avete meco?
Tonino. L’affronto che avè fatto a un mio amigo, lo risento come mio proprio. A Venezia se fa più conto dell’amicizia che della vita; e me parerave d’esser indegno del nome de venezian, se no seguitasse l’esempio dei nostri cortesanii, che xe el specchio dell’onoratezza.
Lelio. Ma qual è quell’affronto ch’ho fatto a questo vostro sì grande amico?
Tonino. Ghe disè poco! manazzar j un uomo in terra? Ghe disè gnente, dirghe muori, co l’é colegàk? Via, mette man a quella spada.
Florindo. No, caro amico, non vi cimentate per me. (a Tonino)
Tonino. Eh via, cavève, che tanto stimo a batterme co sto scartozzo de péverel, come bever un vovom fresco.
Lelio. Ma io ho troppo lungamente sofferta la vostra petulanza, con discapito della delicatezza dell’onor mio e con iscorno de’ miei grand’avi.
Tonino. E vero. Cossa dirà vostra nona nina nana? Cossa dirà vostro pare della poltroneria de sto gran fio?
Lelio. Ah, giuro al cielo.
Tonino. Ah, giuro alla terra.
Lelio. Eccomi. (si pone in guardia contro Tonino)
Tonino. Bravo, coraggio. (si battono; Tonino disarma Lelio)
Lelio. Sorte ingrata! Eccomi disarmato.
Tonino. L’è disarmà, e tanto me basta: vedeu come se tratta? No ve manazzo, no digo muori. Me basta l’onor de averve vinto. Me basta la spada per memoria de sto trionfo: cioè la lama, che la guardia ve la manderò a casa, acciò la podiè24 vender, e podiè pagar el cerusico, che ve caverà sangue per el spasemo che ave abuon.
Lelio. Basta, ad altro tempo riserbo la mia vendetta.
Tonino. Da muso a muso, son sempre in casa, co me volè.
Lelio. Ci vedremo, ci vedremo25. (parte)
SCENA XIII.
Florindo e Tonino.
«Il poter dir che contro me pugnasti.
Florindo. Caro amico, quanto vi son tenuto!
Tonino. Alle curte. Beatrice dove xela?
Florindo. Beatrice!... (Finger mi giovi). E chi è questa Beatrice?
Tonino. Quella putta che ho fatto scampar da Venezia, e l’ho mandada qua da vu, pregandove de custodirla fina26 al mio arrivo.
Florindo. Amico, io non ho veduto alcuno.
Tonino. Come! diseu dasseno o burleu?
Florindo. Dico davvero, lo non ho veduto la donna che dite, e mi sarei fatto gloria27 di potervi servire.
Tonino. Ho inteso; la me l’ha fatta. Me pareva impossibile de trovar una donna fedel. Xe do anni che ghe fazzo l’amor. So pare no me la vol dar, perchè el gh’ha in testa che sia un pochetto scavezzoo, perchè me piase goder i amici e far un poco de tutto, sempre però onoratamente e da vero cortesan. Mi, vedendo che no i me la voleva dar, l’ho consegiada a scampar. Ella, senza pensarghe suso, l’ha fatto fagotto e la xe vegnua via. L’ho fatta compagnar a Verona da un servitor mio fedel, e mi intanto m’ho trattegnù a Venezia per no dar sospetto. Un certo siorazzop forestier, che pretendeva sora sta putta, m’ha trova mi, e sospettando che mi gh’abbia fatto la barca28, el m’ha scomenzà a bottizar29. Una parola tocca l’altra, gh’ho lassa andar un potentissimo schiaffo. S’ha sussurà mezza Venezia e i me voleva in cotegoq in ogni forma. Ho tiolto una gondolar, e senza andar a casa, senza tior né bezzis, né roba, con quel poco che gh’aveva addosso, son vegnù qua. Credeva de trovar la mia cara Beatrice; ma sta cagna sassina me l’ha fiada. Orsù, sentì, amigo, ste poche ore che semo qua, no me chiamè col nome de Tonin, perché no vorave esser cognossuo.
Florindo. E come volete ch’io vi chiami?
Tonino. Diseme Zanetto.
Florindo. Perché Zanetto?
Tonino. Perché gh’ho un fradello a Bergamo, che gh’ha sto nome e el me someggia tutto. Se i me vede, i me crederà lu, e cussì scapoleròt qualche pericolo.
Florindo. Questo vostro fratello è tuttavia in Bergamo?
Tonino. Credo de sì, ma no lo so de seguro, perché semo, cou se sol dir, più parenti che amici. Lu gh’ha dei bezzi più de mi; ma mi godo el mondo più de lu. Anzi ho sentio a dir ch’el se vol maridar, ma non so né dove, né con chi. El xe un alocco de vintiquattro carati: beata quella muggier che ghe tocca! Le donne le gh’ha più gusto d’un mario alocco, che d’una bona intrada.
Florindo. Amico, se volete onorar la mia casa, siete padrone.
Tonino. No vorave darve incomodo.
Florindo. A me fareste piacere; ma per dirvela, ho un padre fastidioso, che non vorrebbe mai veder alcuno.
Tonino. Eh no no, gnente, comparev, gnente, anderò all’osteria.
Florindo. Mi rincresce infinitamente; per altro, se volete...
Tonino. Tonin Bisognosi no ha mai costumà de piantar el bordonw in casa dei so amici; e i cortesani della mia sorte i dà, e no i tiol. Vegnì a Venezia, e vederè come se tratta. Nu altri ai forestieri ghe demo el cuor; e gh’avemo sta vanità de trattar i forestieri in t’una maniera, che tutti diga ben de Venezia, più della so medesima patria. Ve so obbligà, cognosso el vostro bon cuor; ma la bona marex no la dise vustu, la dise tiòy.
Florindo. Ma caro amico, fatemi questo piacere, venite.
Tonino. Fe conto che sia vegnù. Se posso, comandème. So Tonin, e tanto basta. La vita e ’l sangue tutto prima per la patria, e pò per i amici. Pugna per patria e traditor chi fugge. Sioria vostra. (parte)
SCENA XIV.
Florindo solo.
Grand’è la mortificazione che io provo de’ rimproveri ben giusti del signor Tonino; ma l’amore ch’io ho per Beatrice, mi fa essere ingrato. S’io lo conduco in mia casa, è scoperto l’inganno. A me giova che parta Tonino, e resti meco Beatrice. Allora mi spiegherò, e forse non sarà contraria ai miei desideri. Anderò a rintracciarla. Per oggi e domani la farò star ritirata. Il servitore lo manderò fuori di Verona. Farò tutto per acquistarmi questa rara bellezza. So che manco al dovere e l’amicizia tradisco, ma amore comanda con troppo arbitrio al mio cuore. Devo a Tonino la vita, e son pronto a sagrificarla per lui. Tutto son pronto a fare, fuorché privarmi di Beatrice che adoro. (parte)
SCENA XV.
Zanetto, poi Lelio.
Zanetto mesto e pensoso, senza parlare, toccandosi
la guancia dello schiaffo.
Lelio. Or siete solo. Ecco il tempo di cimentarvi. (a Zanetto, da lui creduto Tonino)
Zanetto. Servitor umilissimo.
Lelio. Meno cerimonie e più fatti. Ponete mano.
Zanetto. La man? Xe qua la man.
Lelio. Che? Fate lo scimunito? Ponete mano alla spada.
Zanetto. Alla spada?
Lelio. Sì, alla spada.
Zanetto. Mo perchè?
Lelio. Perchè non soffre il coraggioso mio cuore, che fra l’eroiche gesta del suo valore si conti una perdita sola.
Zanetto. De che paese xela, padron?
Lelio. Io son romano. Perchè?
Zanetto. Perchè no l’intendo gnente affatto.
Lelio. Se non intendete me, intenderete il lucido lampo di questo ferro. (pone mano alla spada)
Zanetto. Oe, zente, agiuto, el me vol mazzar. (grida forte)
Lelio. Ma che! Fingete voi meco, per maggiormente deridermi? So che siete valoroso, ma in mio confronto cederebbe lo stesso Marte, se Giove di sua mano non mi disarmasse. Venite al cimento.
Zanetto. (Prima un schiaffo e adesso la spada? Stago fresco, come una riosa). (da sé)
Lelio. Animo, dico, rispondete ali’invito. (gli dà una piattonala)
Zanetto. Aseoz!
Lelio. O difendetevi, o vi passo il petto. (in atto di ferirlo)
SCENA XVI.
Florindo, e detti.
Florindo. (Colla spada alla mano) Eccomi in difesa dell’amico. A me volgete quel ferro.
Lelio. Colui è un vile, è un codardo. (a Florindo, intendendo parlare del creduto Tonino)
Zanetto. Sior sì, el dise la verità. (a Florindo)
Florindo. Mentite, egli è un uom valoroso. (a Lelio)
Zanetto. (Sto sior me cognosse poco). (da sè)
Lelio. Perchè dunque meco non si cimenta?
Zanetto. (Perchè gh’ho paura). (da sè)
Florindo. Perchè più non si degna di combatter con voi.
Zanetto. (Che matto che xe costù). (da sè)
Florindo. Ma comunque sia, meco avete da cimentarvi, (a Lelio)
Lelio. Eccomi, non temo nè di voi, nè di cento. (si battono)
Zanetto. Bravi, pulito, animo, dei, sbusèlo30.
Florindo. Ecco atterrato il superbo. (Lelio cade)
Lelio. Sorte crudele, nemica de’ valorosi!
Florindo. La tua vita è nelle mie mani.
Zanetto. Siben, mazzèlo. Ficheghela quella cantinella in tel corbame31.
Florindo. Non sarebbe azione da cavaliere.
Zanetto. Gierela azion da cavalier la soa, quando el me voleva sbusar?
Florindo. Ma voi l’altra volta non rimproveraste colui, perchè mi minacciò la morte, mentre era caduto?
Zanetto. Eh, che sè matto. Dei, mazzèlo.
Florindo. No: vivi, e riconosci da me la vita. (a Lelio)
Lelio. Voi siete degno di starmi a fronte; ma colui è un vigliacco, un poltrone. (parte)
SCENA XVII.
Florindo e Zanetto.
Zanetto. Tutto quel che ti vol.
Florindo. Ma, caro amico, perchè questa volta vi dimostraste cotanto da voi diverso? Fingete? O qual capriccio è il vostro?
Zanetto. Sior, no finzo gnente. Mai più in vita mia ho abuo tanta paura. Se no vegnivi vu, el me sbasiva de postaaa.
Florindo. Godo d’avervi salvata la vita.
Zanetto. Sieu benedio: lasse che basa quella man che m’ha liberà.
Florindo. Ma io ho fatto con voi quello che voi avete fatto con me: voi avete salvata la mia vita, ed io ho salvata la vostra.
Zanetto. Mi v’ho salvà la vita?
Florindo. Sì, quando mi difendeste contro Lelio la prima volta.
Zanetto. No me l’arecordo.
Florindo. I pari vostri si scordano i benefici che fanno, per modestia: amico, io vi consiglio partir di32 Verona, perchè dubito siate conosciuto.
Zanetto. Anca mi credo che i m’abbia cognossuo.
Florindo. E se vi conoscono, guai a voi.
Zanetto. Sempre de mal in pezo.
Florindo. Vi par poco aver dato uno schiaffo?
Zanetto. Averlo tolto, volè dir.
Florindo. Ah, l’avete avuto voi lo schiaffo?
Zanetto. Sior sì. Mo che credevi... che ghe l’avesse dà mi?
Florindo. Così credeva.
Zanetto. Oibò, mi, mi l’ho buoab.
Florindo. Ma la donna non l’avete più vista?
Zanetto. Sior no, no l’ho più vista.
Florindo. (Nemmen io ho potuto ritrovar Beatrice). (da sé)
Zanetto. No me curo gnancaac de vederla.
Florindo. Oh sì, farete bene. Non ve ne curate più. Fate a mio modo, tornate a casa vostra.
Zanetto. Cussì diseva anca mi.
Florindo. Posso servirvi in conto alcuno?
Zanetto. La so grazia.
Florindo. A rivederci.
Zanetto. La reverisso.
Florindo. (Pare diventato uno sciocco. Amore fa de’ brutti scherzi). (da sé, parte)
SCENA XVIII.
Zanetto e poi Pancrazio.
Zanetto. Se no vegniva sto sior, stava fresco. Stimo che tutti sa che quella patronaad la m’ha dà un schiaffo. Pazenzia. Sto zovene me vol ben. El me conseggia che vaga via. Ma penso pò anca che Rosaura la me piase, e che se la fusse mia muggier, gh’averave gusto. Me despiase che Arlecchin no xe gnancora vegnù co sti bezzi e co sta roba, che ghe vorave far un regalo e giustarla.
Pancrazio. (Ecco qui quel baccellone di Zanetto. Si aggira intorno di questa casa e non sa allontanarsene). (da sé)
Zanetto. La m’ha dà un schiaffo, donca la me vol mal. Ma no, anca mia siora mare la me dava dei schiaffi e la me voleva ben. Finalmente no la m’ha miga coppà: eh, che son matto. No voggio desgustarla. Voggio andar subito a domandarghe perdonanza. (va verso la casa del Dottore)
Pancrazio. Quel giovine, dove andate?
Zanetto. Vago dalla mia novizza.
Pancrazio. Da quella che vi ha dato lo schiaffo?
Zanetto. Siben, giusto da quella.
Pancrazio. E andate con risoluzione di pacificarvi e di sposarla?
Zanetto. Bravo, l’ave indovinada.
Pancrazio. Vi piace quella giovine?
Zanetto. Assae.
Pancrazio. Le volete voi bene?
Zanetto. E come!
Pancrazio. La sposereste volentieri?
Zanetto. Oh magariae)!
Pancrazio. Povero giovane, quanto vi compatisco!
Zanetto. Coss’è sta?
Pancrazio. Siete sull’orlo del precipizio.
Zanetto. Mo perchè?
Pancrazio. Non volete ammogliarvi?
Zanetto. Sior sì.
Pancrazio. Povero infelice, siete rovinato.
Zanetto. Mo perchè?
Pancrazio. Io, che altro non bramo che giovar al mio prossimo, devo per debito di carità fraterna avvertirvi dell’enorme pazzia che siete per fare.
Zanetto. Mo comodoaf?
Pancrazio. Sapete voi cosa sia matrimonio?
Zanetto. Matrimonio... sior sì... l’è, come sarave a dir... giusto... mario e muggier.
Pancrazio. Ah, se sapeste cosa vuol dir matrimonio, cosa vuol dir moglie, non ne parlereste con tanta indifferenza.
Zanetto. Mo via, cossa vorlo dir?
Pancrazio. Matrimonio vuol dire una catena, che tiene l’uomo legato come lo schiavo alla galera.
Zanetto. El matrimonio?
Pancrazio. Il matrimonio.
Zanetto. Schienzeag!
Pancrazio. Il matrimonio è un peso che fa sudar i giorni e vegliar le notti. Peso allo spirito, al corpo, peso alla borsa e peso alla testa.
Zanetto. Gnaccara muso d’oroah!
Pancrazio. E la donna che vi sembra tanto bella e gentile, che credete mai che ella sia?
Zanetto. Coss’ella, caro sior?
Pancrazio. La donna è una incantatrice sirena che alletta per ingannare, ed ama per interesse.
Zanetto. La donna?
Pancrazio. La donna.
Zanetto. Aseo!
Pancrazio. Quegli occhi così brillanti sono due fiamme di fuoco, che a poco a poco accendono e inceneriscono.
Zanetto. I occhi... do fiamme de fogo...
Pancrazio. La bocca è un vaso di veleno, che lentamente per le orecchie s’insinua al cuore ed uccide.
Zanetto. La bocca... un vaso de velen...
Pancrazio. Le guancie, così vaghe e vermiglie, sono stregherie, sono incanti.
Zanetto. Le ganasseai... strigherie33... incanti...
Pancrazio. Quando una donna vi viene incontro, sappiate che quella è una furia che viene per lacerarvi.
Zanetto. Bagatelle per i putei!
Pancrazio. E quando la donna viene per abbracciarvi, quello è un demonio che vi vuol tirar all’infemo.
Zanetto. Alla larga.
Pancrazio. Pensateci, e pensateci bene.
Zanetto. Gh’ho bello e pensà.
Pancrazio. Mai più donne.
Zanetto. Mai più donne.
Pancrazio. Mai più matrimonio.
Zanetto. Mai più matrimonio.
Pancrazio. Quanto benedirete il mio consiglio.
Zanetto. E1 ciel v’ha mandà.
Pancrazio. Via, abbiate giudizio. Il ciel vi benedica.
Zanetto. Sè mio pare: ve voggio ben.
Pancrazio. Prendete, baciatemi la mano.
Zanetto. Oh caro! Oh siestu benedio! (gli bacia la mano)
Pancrazio. Donne...
Zanetto. Uh...
Pancrazio. Matrimonio...
Zanetto. Oh...
Pancrazio. Mai più...
Zanetto. Mai più.
Pancrazio. Certo?
Zanetto. Seguro.
Pancrazio. Bravo, bravo, bravo. (parte)
SCENA XIX.
Zanetto, poi Beatrice col Servo.
Zanetto. Cancaro! Aveva fatto un bella cossa, se no capitava sto galantomo. Matrimonio... peso qua, peso là, peso alla borsa, peso alla testa... donne... sirene, strighe, diavoli. Ih, che imbroggio maledetto.
Beatrice. Oh me felice! Ecco il mio bene, ecco il mio sposo. Quando siete arrivato? (a Zanella, credendolo Tonino)
Zanetto. Via, alla larga.
Beatrice. Come! Non son io la vostra sposa? Non siete voi qui venuto per stabilire i nostri sponsali?
Zanetto. Siben: la caena, come i galiotti. Brava, za so tutto.
Beatrice. Che catena? Che dite di catena? Non vi ricordate delle vostre promesse?
Zanetto. Promesse? De cossa?
Beatrice. Del matrimonio.
Zanetto. Seguro, el matrimonio. Peso alla borsa e peso alla testa.
Beatrice. Eh via, guardatemi: non vi burlate di me, che mi fate morire.
Zanetto. (Propriamente se ghe vede el fuogo in quei occhi). (da sé)
Beatrice. Dubitate forse di me? Uditemi, che vi renderò soddisfatto.
Zanetto. Serrè quella bocca, quella scatola de velen, che no vorave che me arrivessi a tossegaraj el cuor.
Beatrice. Oimè! Che parlare è il vostro? Voi mi fate arrossire senza colpa.
Zanetto. Vela là, che la vien rossa. Lo so che sé una striga.
Beatrice. Son disperata. Ascoltatemi per pietà, (s’accosta a Zanetto)
Zanetto. Via furia, che vien per lacerarme. (fuggendo da lei)
Beatrice. Ma cieli! Che mai vi ho fatto? (s’accosta di nuovo)
Zanetto. Via diavolo, che me voria strassinar all’inferno. (parte)
SCENA XX.
Beatrice sola.
Tanto ascolto e non muoio? Che ho da pensare del mio Tonino? O egli è impazzito, o è stato di me sinistramente informato. Misera, che far deggio? Lo seguirò di lontano e tenterò ogni arte per discoprire la verità. Amore, tu che per mia sventura mi facesti abbandonare la patria, i genitori e gli amici, tu assistimi nel pericolo in cui mi trovo; se brami in ricompensa il mio sangue, versalo tutto, prima che mi vegga sprezzata dall’adorato mio sposo.
Fine dell’Atto Primo.
- Note dell'autore
- ↑ Figo, fico, termine veneziano ch’equivale al niente.
- ↑ Sioria vostra, saluto basso e triviale.
- ↑ Mario e muggier, marito e moglie.
- ↑ Impalai, ritti e fermi come pali.
- ↑ Putte, fanciulle.
- ↑ Bulada in credenza, qui vuol dire soverchieria.
- ↑ Canapiolo, termine di disprezzo, che si può spiegare spaccone.
- ↑ Vegnì a nu, espressione bizzarra, vuol dire volgetevi a me
- ↑ Cortesani: spiega in veneziano: gente accorta, onorata e brava
- ↑ Manazzar, minacciare.
- ↑ Colegà, disteso in terra.
- ↑ Scartozzo de pevere, cartoccio di pepe, frase derisoria.
- ↑ Vovo, ovo.
- ↑ Abuo. avuto.
- ↑ Scavezzo, rotto, cioè discolo.
- ↑ Siorazzo, signorone.
- ↑ In cotego, in trappola, cioè in prigione.
- ↑ Gondola, barchetta che si usa in Venezia comunemente.
- ↑ Bezzi, denari.
- ↑ Scapolerò, sfuggirò.
- ↑ Co, come.
- ↑ Compare, termine d’amicizia usato in Venezia.
- ↑ Piantar el bordon, introdursi a scroccare.
- ↑ Mare, madre.
- ↑ Proverbio veneziano.
- ↑ Aseo! aceto! esclamazione di sorpresa.
- ↑ El me sbasiva de posta, mi uccideva a drittura.
- ↑ Mi, mi l’ho buo. Io, io l’ho avuto.
- ↑ Gnanca, né anche.
- ↑ Patrona per signora.
- ↑ Oh magari, oh il Ciel volesse.
- ↑ Mo comodo? Ma come?
- ↑ Schienze! vuol dire; scheggie; e per frase: bagattelle. Con ammirazione.
- ↑ Gnaccara muso d’oro! Esclamazione bernesca di meraviglia.
- ↑ Ganasse, guance.
- ↑ Tossegar, avvelenare.
- Note dell'editore
- ↑ Bettinelli: guardate che.
- ↑ Bettin.: E bada a me.
- ↑ Bettin. aggiunge: amata.
- ↑ Zatta: Ah, signor padre, mortificate.
- ↑ Accetta, scure: v. Boerio, Diz. cit.
- ↑ Zatta: fradei.
- ↑ Così Savioli e Zatta; Bettin. e Paper.: signor.
- ↑ Così Sav. e Zatta; Bettin. e Paper.: chiamado.
- ↑ Bettin. e Paper.: anca el signor.
- ↑ Bettin. marcanti.
- ↑ Novizza, sposa.
- ↑ Missier, suocero.
- ↑ Bettinelli: badi.
- ↑ Bettin.: gradite.
- ↑ Zatta: squindi.
- ↑ Bettin.: soggezion.
- ↑ Bettin.: scioccarello.
- ↑ Che cade? cosa serve?
- ↑ Così Bettin.; Paper.: si doveressimo; Zatta: si dovremmo.
- ↑ Bettin.: perdonate a me.
- ↑ Bettin.: Oggidì.
- ↑ Bettin.: donde.
- ↑ Zatta fa un solo periodo, di tre parti.
- ↑ Zatta: podè.
- ↑ Così Zatta: Paper. e Savioli: Si vederemo. Si vederemo.
- ↑ Sav. e Zatta: fino.
- ↑ Bettin.: tenuto a onore.
- ↑ «Far una barca, fare una cavalletta a uno»: v. Boerio.
- ↑ O bottonar, pungere con motti. Boerio.
- ↑ Dei, dategli. Sbusèlo, bucatelo.
- ↑ Ficheghela quella cantinella in tel corbame, cacciategli quella spada nel ventre.
- ↑ Bettin.: a partire da.
- ↑ Bettin.: strigerie.