Giacomo Leopardi/XI. 1819: GI'Idillii
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XI
1819
GL’IDILLII
Questa nuova guardatura del mondo, che rinnovava e abbelliva gli aspetti delle cose, gl’illuminava e incaloriva la sua propria esistenza. Lui che andava cercando argomenti poetici al di fuori di sé, non sapeva che la principale materia poetica era lui stesso, e anche la più adatta al suo spirito, avvezzo da lungo tempo a concentrarsi e a contemplarsi. I suoi primi palpiti d’amore, i suoi spasimi di corpo e di spirito, l’appassire della sua giovinezza, le contemplazioni solitarie, le sue fantasie, le sue ricordanze, tutto questo gli viene innanzi, tinto di una luce nuova, e gli esce vivo sotto la penna. Sfoga sé stesso in verso e in prosa, scrivendo al Giordani, parlando alla luna. Doveano questi essere momenti belli in quella monotonia di vita, tra le annotazioni all’Eusebio dotte e acute, e le studiate lettere a’ letterati del tempo, perché si degnassero di gittare uno sguardo sulle due canzoni. In que’ momenti secreti di lavoro geniale, riandando sé stesso, i suoi studi, i suoi scritti, i suoi infortunii, gli balzò innanzi quella cara sua cuginetta, la Cassi, che prima gl’ispirò amore, e intorno alla quale lo scolare di rettorica avea ricamato non so che cantica e non so che elegia. Questa ricordanza fissata in carta ebbe per titolo: Il primo amore.
Nella sua ingenuità esprime con maraviglia piena di bonomia gli straordinari moti di quell’affetto, così caldo e insieme così innocente. Innanzi a lei timido, taciturno, quasi non osa guardarla. Tutta l’eloquenza e tutta l’immaginazione gli torna sotto la coltre:
Oh come viva in mezzo alle tenebre Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi La contemplavan sotto alle palpebre!
E non poteva dormire, e se chiudeva gli occhi, il sonno gli era rotto come per febbre. E si sente altro. Non ama più la gloria, e non lo studio, e non la natura; non gli è grato il riso degli astri, o il silenzio della queta aurora, o il verde prato. L’occhio è a terra chino, e per non turbare l’illibata immagine, fugge ogni vista di volto leggiadro o turpe. Ma viene il giorno della partenza. La notte, sospirando, lagrimando, palpitando, sta con l’orecchio teso; trasalisce ad ogni voce:
E poi che finalmente mi discese La cara voce al core, e de’ cavai E delle rote il romorío s’intese; Orbo rimaso allor, mi rannicchiai Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi, Strinsi il cor con la mano, e sospirai. Poscia traendo i tremuli ginocchi Stupidamente per la muta stanza, Ch’altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi? |
Tutto ciò è narrato benissimo, ed in certi punti anche con novità d’immagini, come è il mormorare lungo, incerto tra le chiome d’antica selva, a cui paragona l’interno mormorio di moti e di pensieri; ed il dolore plumbeo che gli scende nel cuore,
Com’è quando a distesa Olimpo piove Malinconicamente e i campi lava; |
Solo il mio cor piaceami, e col mio core In un perenne ragionar sepolto. Alla guardia seder del mio dolore. |
Questo primo amore, che nell’altra elegia sotto l’immediato impulso del fatto ha una espressione tumida, che vuol essere patetica, qui, ritornato nella memoria, ha tinte soavi e ti lascia, in quella sua sincerità e ingenuità di sentimento, una impressione pacata, di una dolce malinconia. Ciò che c’è troppo straziante nella realtà, viene trasfigurato nella ricordanza, diventa melodia.
A questa felice disposizione si debbono gl’idillii, brevi componimenti, schizzati in que’ cari momenti di rifugio, in cui l’anima parla con sé stessa: contemplazioni, impressioni, ricordanze, riflessioni, malinconie e dolcezze. Sono cinque quest’idillii: l’Infinito, la Luna, la Sera del dì di festa, il Sogno, la Vita solitaria.
L’idea e il nome gli venne naturalmente dagl’idillii greci, lui traduttore degl’idilli di Mosco. Si può credere che il traduttore fosse a sua volta autore, dilettandosi di comporre in quella giovine età qualche idillio, com’è quello delle Rimembranze, ultimamente pubblicato dal Cugnoni, lavoro affatto giovanile.
L’idillio leopardiano non ha niente di comune col significato che si dà generalmente a questa maniera di poesia. Non è descrizione della vita campestre, con dialoghi tra pastori, o pescatori, opera spesso di civiltà avanzata e stanca che, mancato ogni degno scopo della vita, cerca nuovi stimoli negli ozii campestri. Forse per questo Leopardi più tardi cancellò quel nome d’idillii e diè a tutte le sue poesie un nome comune, Versi o Canti.
Fatto è che dapprima comparvero con quel nome, rivelando nel giovane autore una concezione sua propria dell’idillio. Esso è il motivo musicale e poetico, nella sua prima semplicità, di quello che più tardi sviluppandosi fu rappresentazione della vita pastorale, spesso in forma drammatica. E quel motivo è l’impressione immediata e nuova prodotta dalla contemplazione della natura su anime solitarie e malinconiche. Tale è il motivo dei popoli primitivi, dalle cui ingenue immaginazioni e contemplazioni uscirono quei primi scherzi della fantasia che furono chiamate religioni.
Quel motivo, sperdutosi nel rumore della vita, ritorna nella solitudine dei campi, e rimane come la Musa occulta dell’idillio o della egloga nel suo sviluppo drammatico, com’è negl’idillii greci.
Notabile è l’idillio quinto di Mosco, tradotto da Leopardi giovanissimo, dov’è un primo indizio della sua poetica natura, e da cui uscì probabilmente l’esempio e la concezione di questi idillii.
Qui veramente si scorge una prima orma del suo genio. Perché Leopardi, come lo conosciamo già, è un personaggio punto epico e punto drammatico, è un personaggio idillico. Non è uomo d’azione, non partecipa alla vita esteriore; non è atto a cantarla; essa non è altro che la tavolozza dei suoi colori. Anche nei momenti di maggiore entusiasmo trae di colà la semplice stoffa del suo spirito, nel quale unicamente vive. Quella è il mezzo, non è il fine. Tolto all’azione e alla vita esteriore, in quell’ambiente odioso di Recanati, si sviluppa ancora più in lui la concentrazione naturale del suo spirito in sé stesso.
Così vien fuori una natura contemplativa, solitaria, a cui quegli studi, quel vivere, quel sentimento della sua infelicità porgono sempre nuovo nutrimento. Anime così fatte sono affettuose, perché uomo senza società si sente vedovo, e cerca sollievo nella contemplazione della natura, e la guarda con occhio di amante. Da queste disposizioni nasce l’idillio nel suo più alto significato.
Una prima contemplazione è l’Infinito, tutta in versi endecasillabi, senza rima, com’è l’idillio quinto di Mosco, e gli altri che tradusse o compose. Si vede anche nel metro la filiazione.
La scena di questa contemplazione è il monte Tabor, dov’egli soleva passeggiare, fermandosi in uno dei siti più solitarii, all’ombra di una siepe che nascondeva alla vista gran parte dell’ultimo orizzonte. Siede e mira. La contemplazione ha la sua sede, non nella vista materiale circoscritta dalla siepe, ma nel suo spirito pensoso e concentrato. Vede un pezzo del cielo, ode lo stormire del vento, e non ci si acqueta e non ci si addormenta, come fa il pastore di Mosco sotto il platano chiomato, natura anche lui. Qui la vita naturale ed esteriore è un semplice stimolo che sveglia il pensiero e dá le ali alla immaginazione. Perciò non è qui un vedere, ma un’immaginazione, un fingere: «io nel pensier mi fingo». La solitudine, la malinconia, la vista e l’impressione della natura suscitano una disposizione religiosa, la quale altro non è se non un alzarsi dello spirito di lá del limite naturale verso l’infinito. E questa è davvero una contemplazione religiosa. Nello spirito non c’è un’idea preconcetta dell’infinito, alla quale l’immaginazione adatti le forme, come si vede nei poeti moderni, in cui fiuti sempre la presenza di un’idea astratta nel maggior lusso delle forme. Qui non c’è niente di filosofico, come sará in poesie posteriori. È una vera contemplazione, opera dell’immaginazione, con la sua ripercussione nel sentimento, com’è lo spirito religioso.
In verità questo puro alito religioso, proprio dei contemplanti solitarii, a cominciare da’ romiti e padri del deserto, in quel tempo di scetticismo e d’ipocrisia, tu non lo trovi quasi che in solo questo giovane di ventun anno. Innanzi a lui non ci sono idee, ma ombre delle idee, non c’è il concetto dell’infinito e dell’eterno, ma ce n’è il sentimento. Appunto perché la contemplazione è opera combinata dell’immaginazione e del sentimento, e non giunge fino al concetto, e non dà alcuna spiegazione, vi alita per entro un certo spirito misterioso proprio delle visioni religiose. Il mistero aggiunge all’effetto.
Ti sta avanti non so che formidabile, che ti spaura, un di là dall’idea e dalla forma. Tu non puoi concepirlo e non puoi immaginarlo. Vedi solo la sua ombra. Così i primi solitarii scopersero l’Iddio!
Queste ombre e questi sentimenti sono immediati e inconsapevoli. Non nascono da un pensiero attivo che li produca con la sua impronta; anzi sembra che naturalmente piovano nello spirito. Nessun vestigio di elaborazione, niente di successivo e di sovrapposto a quelle ombre nella loro formidabile nudità; portano seco il loro colore e la loro musica. Appunto perché il pensiero rimane inattivo, mentre il cuore si spaura, l’effetto è grandissimo. E questo spiega l’impressione profonda della chiusa così originale, in cui il pensiero riacquista la coscienza solo per sentirsi dolcemente annegato:
. . . . . . . tra questa Immensità s’annega il pensier mio: E il naufragar m’è dolce in questo mare. |
L’annegamento del pensiero nello infinito non è un concetto nuovo. E questa impotenza del pensiero innanzi all’inconoscibile desta sempre un sentimento di terrore, o, come dicesi, la impressione del sublime, prodotta qui non solo dalle cose, ma dal ritmo delle cose. «Interminati spazi», «sovrumani silenzi», «profondissima quiete». Ciò ch’è nuovo in questo naufragio del pensiero è il sentimento di dolcezza. Il contemplante solitario si sente sperduto in quella immensità, e ci si piace. Il piacere nasce non dalle cose che contempla, ma dal contemplare, da quello stare in fantasia e obbliarsi e perdersi senza volontà e senza coscienza. È la voluttà del Bramino, poeta anche lui, dello sparire individuale nella vita universale.
Questa contemplazione è la prima grande rivelazione del suo genio, semplice insieme e profondo. È un ritorno alla rappresentazione delle poesie primitive e popolari, dove disegno colore e ritmo è una parola, e vista e impressione è sempre immediata. Certo, l’arte dei nessi, il vigor logico e la correzione della forma lo certificano poeta di un’età avanzata. Ma chi consideri a quanta raffinatezza era giunta la poesia italiana anche nei sommi, e anche a quel tempo che molti gridavano semplicità e popolarità e nessuno ne dava esempio, può misurare il valore di questo schizzo, e giudicarlo come l’apertura musicale di una nuova èra. Dico apertura musicale, perché qui non è ancora chiaramente espresso un nuovo contenuto, né una nuova forma, ma ce n’è come l’aria e il presentimento. Ci si scorge ancora una parentela con studi e modelli antichi. Manca a questa forma la bonomia e l’ingenuità, e la morbidezza, una compiuta chiarezza, come si vede nel secondo periodo, dove quell’atto intellettivo del comparare e quel cumulo di oggetti aridi ti lascia freddo e perplesso, quasi abbi innanzi una forma logica, e non una visione chiara e immediata.
Maggior delicatezza di forma e un sentimento idillico più schietto è nei sedici versi Alla luna. Il concetto è il piacere della ricordanza nei giovani, ancoraché trista; ond’è che quei versi furono prima intitolati La ricordanza, titolo poi dato ad altra poesia. Ma il concetto non è qui la sostanza, come nell’Infinito. La sostanza è un momento psicologico, la rappresentazione di uno stato dell’anima; e lo stesso concetto non è che quello stato in forma generale.
La scena è sempre su quel colle. Il giovane è in quello stato di dolce malinconia, che ti rende cara la natura, quasi persona, quasi la tua confidente. Guarda la luna che pende sulla selva e la rischiara. E ricorda l’anno passato: — Lo stesso dì, la stessa ora ho visto la luna anche così... Era chiara, pur mi appariva velata di una nube. Ma la nube era nei miei occhi lagrimosi; piangevano allora e piango ora —.
Queste cose egli dice alla luna, come alla sua amica: «O graziosa luna»! La gli sembra una grazia in quell’attitudine. La malinconia gli aguzza il senso della bellezza, ed entra in colloquio con lei, e come un amante le ricorda con precisione dov’era lei, dov’era lui, e come la guardava, — e ti guardavo così, perché piangevo, — e le confida che era triste, con una rassegnazione piena di grazia, sciolta la lacrima in un sorriso tenero; la graziosa luna diviene la sua luna, la sua diletta luna.
Non c’è solo il «noverar l’età del suo dolore», il ricordare, che gli è caro, e gli asciuga la lacrima e lo fa sorridere. È ancora quel sentirsi giovane, disposto all’affetto, alla tenerezza, e parlare alla luna e farle le sue confidenze. Non è solo la ricordanza, è il modo della ricordanza.
Quella luna così fissata e in questa corrispondenza di affetto, non la dimentichi più! E quel giovane nella sua malinconia contemplativa ed espansiva che vive di memoria, e canta l’età del suo dolore, e si nutre di questa vita e ci si piace e ci s’intenerisce, è il fanciullo poetico, che porta già in fronte i segni di un pensiero nuovo, non ancora adulto, ancora in formazione.
Nella Sera del dì di festa la materia è la stessa, in tela più ampia. È un dato momento psicologico da cui scaturisce un dramma che si rappresenta nello spirito del poeta. Il concetto astratto si può ridurre in questa forma: la festa è passata, e tutto passa.
Il giovane, che non ha preso parte alla festa, la sera si affaccia a guardare un bel cielo stellato, e la luna, tranquilla sopra ai tetti e in mezzo agli orti, che rischiara i lontani monti.
In mezzo a questo chiarore tutto è silenzio, e dietro alle finestre tutto è oscuro. Questa scena lo ispira e gli fa venire la lacrima e la voce. Egli non è un’anima oziosa letteraria che si affissi con diletto a quella scena e s’indugi a descriverla. Sono poche linee, ma sicure e precise che ti danno immagine e impressione tutt’insieme. E l’impressione è questa, che ti mette dolcemente in moto l’immaginazione ed il cuore, e ti concede lo sfogo e ti dispone ai cari soliloquii di un’anima troppo piena.
— Saluto questo cielo cosí benigno in vista e l’antica natura che mi fece infelice:
A te la speme Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. |
Il cielo è così bello ed io sono così infelice! Negli occhi miei non brilla se non la lacrima. —
La notte chiara e dolce, la queta luna, quella serenità di cielo appare agli infelici quasi una provocazione. Vorrebbero tutto il mondo fosse in pianto, come loro. Ma il nostro infelice ha un’anima poetica e gode di quella bellezza, e non maledice la natura, anzi la saluta.
Questo spoglia il suo lamento di ogni amarezza. Anzi il contrapposto tra il cielo tranquillo e la sua anima travagliata non gli viene neppure in forma di contrapposto; lo s’indovina, e più nella situazione che nelle parole. Ma il contrapposto si sviluppa e acquista maggior rilievo.
— Anche la mia donna dorme, e non la morde cura nessuna, e non sa quanto io l’amo. Anzi, forse sogna la festa, e a quanti piacque e quanti piacquero a lei. —
La placidità universale, concentrata ora nella tranquilla immagine della sua donna che non lo pensa, gli fa sentire duramente la sua solitudine, non senza un movimento di gelosia inavvertito; e viene lo scoppio:
Intanto io chieggo Quanto a viver mi resti, e qui per terra Mi getto, e grido, e fremo. O giorni orrendi In cosí verde etate! |
Non è uno scoppio di collera, non incolpa nessuno, giace sotto il suo dolore senza eco nella indifferenza universale. In questa prostrazione la poesia sarebbe finita, ma ripiglia per nuova occasione. Ode il canto notturno dell’artigiano, che dopo i sollazzi torna al povero ostello, portandosi in capo ancora l’allegria della festa. Egli è contento, lui ha goduto della festa, e gode ancora cantando, felice nella sua povertà. O cosa importa a lui il passato e l’avvenire? Si gode la placida notte e la queta luna, e canta e non pensa altro. Ma il giovane guarda il mondo con l’occhio del dolore, e quel canto di notte, nel silenzio di tutte le cose, ultima eco della festa, gli è il suono funebre della campana che gli annunzia che tutto passa:
Ecco, è fuggito Il dì festivo, ed al festivo il giorno Volgar succede, e se ne porta il tempo Ogni umano accidente. |
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il mondo, e piú di lor non si ragiona. |
Fantasia non nuova e che sarebbe pedantesca se non uscisse qui dalle intime latèbre di un cuore ferito, sì che acquista un sentimento nuovo. Perché, se la persona è scomparsa come materia della contemplazione ed è succeduta una materia nuova, questa è nata da quella e conserva nella sua forma quel calore e quel sentimento. Perciò non è un’astrazione, non una produzione dell’intelletto, ma è lo sviluppo di uno stesso momento psicologico particolare e personale. La persona in quella data disposizione dello spirito fa sentire dapertutto le sue vibrazioni. Quella considerazione del fato universale, suscitata da una impressione tutta personale del canto notturno, finisce con un commovente ritorno alla persona. È un ricordo della fanciullezza, simile canto, simile stretta di cuore, simile fatto:
Nella mia prima metà, quando s’aspetta Bramosamente il dì festivo, or poscia Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia, Premea le piume; ed alla tarda notte Un canto che s’udìa per li sentieri Lontanando morire a poco a poco, Già similmente mi stringeva il core. |
Sono stonature, qualche passaggio brusco, qualche tono troppo solenne e fin tragico, qualche reminiscenza classica: soprattutto quella donna appena concepita che «gli aprì tanta piaga nel petto».
Con questi idillii si accompagnavano i soliti castelli in aria. L’idea fissa era lasciare Recanati. Ma come? Andare a Roma secondo il consiglio di Giordani? E come vivere?, giacché «nunziature e cose tali sono per li preti». Entrare nell’Accademia ecclesiastica con quattordici scudi al mese? Ma con questo «non hanno appena la metà del bisognevole» e «mio padre è stradeliberato di non darmi un mezzo baiocco fuori di casa». Tentò sino una fuga in Lombardia, e fu scoperto e non fu lasciato fare. La noia derivata dalla impossibilità dello studio, le «orribili malinconie» e i «tormenti» che gli procurava la sua strana immaginazione, la tirannide domestica, «la differenza dei princìpi non appianabile», il sentirsi rimpiccolire in quell’angusto ambiente, desiderio di collocamento, di gloria, di vasti orizzonti spiegano quel tentativo. «Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, scrive al padre, e soffrire piuttosto che annoiarmi.»
Tra questi vani pensieri ci erano progetti ancora più vani. A forza di dolore gli era riuscito di leggere l’Apologia di Lorenzino de' Medici, e s’era confermato nel parere che «le strutture e i luoghi più eloquenti sieno dov’altri parla di sé medesimo». Le sue idee sulla nostra letteratura diventano piú concrete.
Quei già così cari cinquecentisti li chiama ora «miserabili», e la loro lingua è «arrabbiata e dura per gli affettatissimi latinismi»; dove «quegli che parla di sé medesimo non ha tempo, né voglia di fare il sofista, e cercar luoghi comuni, ché allora ogni vena più scarsa mette acqua che basta, e lo scrittore cava tutto da sé, non lo deriva da lontano». Con quest’occhio più acuto ripete il suo giudizio che quasi tutto è a rifare. E i disegni gli si accumulano in testa e può appena raccorli frettolosamente in carta perché non gli cadano dalla memoria. Volgeva fra l’altro in mente un trattato: Della condizione presente delle lettere italiane; ma lasciamo parlare lui stesso:
Tante cose restano da creare in Italia, ch’io sospiro in vedermi così stretto e incatenato dalla cattiva fortuna, che le mie poche forze non si possano adoperare in nessuna cosa. Ma quanto ai disegni, chi può contarli? la lirica da creare; tanti generi della tragedia, perché dall’Alfieri n’abbiamo uno solo; l’eloquenza poetica, letteraria e politica; la filosofia propria del tempo, la satira, la poesia di ogni genere accomodata all’età nostra, fino a una lingua e a uno stile, ch’essendo classico e antico, paia moderno e sia facile a intendere e dilettevole così al volgo, come ai letterati... Ma io da gran tempo non penso né scrivo né leggo cosa veruna, per l’ostinata imbecillità de’ nervi degli occhi e della testa: e forse non lascerò altro che gli schizzi delle opere ch’io vo meditando, e ne’ quali sono andato esercitando alla meglio la facoltà dell’invenzione, che ora è spenta negli ingegni italiani. E per quanto io conosca la piccola cosa ch’io sono, tuttavia mi spaventa il dover lasciare senza effetto quanto avea concepito. Ma ora propriamente son diventato inetto a checchessia: mi disprezzo, mi odierei, mi aborrirei se avessi forza: ma l’odio è una passione, e io non provo più passioni.
Così scrive a Pietro Giordani; e tra le linee leggi questa interrogazione — Farò mai niente di grande? — , che pure una volta gli venne sotto la penna.
In questi vani disegni passò quell’anno. È assai probabile che in quegli schizzi erano le prime linee dei suoi Dialoghi e Operette morali. Ma tutta questa azione nel vuoto, con nessuna speranza di concludere, doveva più aggravare la sua tristezza e fiaccargli ogni volontà. — Io non provo più passioni! — Non è più il giovane che sogna patria, libertà, virtù, bellezza, gloria. L’umor nero gli oscura tutti i suoi ideali. Forse in questo tempo moriva anche la sua tessitrice, un suo innocente amore. Che cosa è la bellezza? Che cosa è la virtù?La canzone di Bruto gli si andava già volgendo pel capo. Una frase lugubre gli viene spesso sotto la penna: «disperare di sé stesso». Il niente, prima ancora che divenisse in lui una filosofia, era già una realtà. E forse nessuno ha concepito il niente in modo così spaventevole, come lo sente e lo rappresentava lui in questa lettera:
Sono stordito del niente che mi circonda... Non ho più lena di concepire nessun desiderio, né anche della morte; non perché io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore. Questa è la prima volta che la noia non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera come un dolor gravissimo, e sono così spaventato della vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell’animo mio, che ne vo fuori di me, considerando che è un niente anche la mia disperazione.
A questa lettera spaventevole si scuote Giordani e risponde:
Mio caro Giacomino, io non so che dirti; e il caso tuo non è più da parole. E vedi bene che io nulla posso. Ma posso amarti e compiangerti; e credimi che il cuor mio si rompe de’ tuoi guai. Con sospiri infiniti e con amore immenso ti abbraccio.
Parole che bastavano a risuscitare nel giovane il fervore dell’amicizia, e a rinnovargli la consolazione delle lacrime.Fanciullo, gli pareva che l’infelicità venisse dalla malvagità, e sentiva sdegno contro i malvagi, e dolore della virtù sventurata. Ma ora nella sua tristezza non è più scintilla d’ira, e la vita non gli par più degna di esser contesa perché sono infelici tutti, schiavi e tiranni, oppressi ed oppressori, buoni e cattivi. Fanciullo, avea mal animo contro gli sciocchi e gli ignoranti, e ora cerca di confondersi con loro, e tiene con ambe le mani afferrati gli ultimi avanzi della fanciullezza, quando sperava e sognava la felicità, e sperando e sognando la godeva. E quel tempo «è passato, e non tornerà più, certo mai più».
Insieme colla fanciullezza è finito il mondo e la vita per me, e per tutti quelli che pensano e sentono; sicché non vivono fino alla morte se non quei molti che restano fanciulli tutta la vita.
È chiaro che questo giovane, il quale si sente infelice, perché pensa e sente, e porta invidia agl’ignoranti e a’ perpetui fanciulli, deve considerare come un «formidabile deserto» un mondo senza ideali e senza scopo, e la vita, vacua di ogni speranza, poco diversa dalla morte. E si sente quanto strazio in queste parole tranquille di un vivo che si sente morto:
Non ti affannare per me, ché dove manca la speranza non resta più luogo all’inquietudine, ma piuttosto amami tranquillamente come non destinato a veruna cosa, anzi certo d’esser già vissuto.
Chi ricorda le prime lettere a Giordani, così eloquenti, con tanto spargimento di cuore, vedrà qual cammino si è fatto. Allora egli era un fanciullo; ora pensa e sente.
Il cattolico non ci è più e neppure il cristiano. La religione se n’è ita nella sfera delle illusioni, raggiunta dalla virtù, dalla gloria, dalla bellezza, illusioni anch’esse. Regge il mondo una forza infinita ed eterna, arcana, ascosa alla ragione, e i viventi sono castelli di carta, ch’essa fa e disfà per suo trastullo. La vita non ha scopo e le azioni umane sono un’agitazione nel vuoto. Il n i e n t e solo è. Vita e morte sono una cosa. Sono il n i e n t e. Questo è il sugo del discorso.
Questo non è ancora una filosofia. È il cattivo germoglio della disperazione. È la secrezione dell’umor nero. È la sua malattia. Egli medesimo se ne accorge nei momenti di pacatezza, e ne fa una diagnosi come un medico. Interpetra la sua vita, cioè il suo modo di pensare e di sentire, fisiologicamente. A sentirlo, le cagioni del suo male sono:
Non erano dunque idee, erano sentimenti. La malattia non era nell’intelletto, era nel cuore. Gli pareva di credere e ora che il cuore è guarito e sente come uomo sano, si accorge che quello non era un credere, ma un sentire.
Ma se bene anche oggi io mi sento il cuore come uno stecco o uno spino, contuttociò sono migliorato in questo ch’io giudico isolutamente di poter guarire, e che il mio travaglio deriva più dal sentimento dell’infelicità mia particolare, che dalla certezza dell’infelicità universale e necessaria.
E in verità, a quanti in certi momenti oscuri della vita non occorre di dover recitare anche il «vanitas vanitatum et omnia vanitas», l’infinita vanità del tutto? Poi risensiamo.
Il povero Leopardi, e per naturale disposizione e per un cumulo di condizioni fisiche e morali, era un martire della vita. E nessuna meraviglia è che egli la maledica e la chiami vana e quasi il medesimo che la morte. Per ora la malattia è nel cuore, e poco ha invaso l’intelletto. Sente e gli par di credere. Ma non si scherza impunemente col cuore. A forza di nutrirli e di accarezzarli, questi sentimenti si fissano e diventano un vizio dell’intelletto, un dato modo di concepire o di giudicare; diventano le idee fisse. E chi guarda a queste lettere, vede già quanto progresso ha fatto il male. Sono ancora sentimenti, è vero, ma così coordinati, con uno sviluppo così logico, in una forma pensata, che hanno già aspetto, non solo d’idee, ma di un sistema. L’intelletto è già attinto e il male è più grave ch’egli non creda, soprattutto in un intelletto predisposto da opinioni e dottrine filosofiche ancora in voga, e naturalmente acuto e meditativo.
Appunto perché queste idee fisse nascono dal cuore, sono non astratte ed intellettuali, per le quali s’interessi il solo filosofo, ma sono vive, partorite in mezzo al dolore, e accompagnate dalle lacrime, colla loro ripercussione in tutte le forze e i sentimenti della persona. Il poeta è il primo martire delle sue idee e fa sentire il suo martirio. Sicché dietro al suo pensiero, anche nelle regioni più elevate, vedi sempre l’uomo che lo concepisce e lo rappresenta non secondo criterii generali, ma secondo lo stato della sua anima. E questo rende la sua lirica sincera e interessante e vera poesia. Si piglia un vivo interesse non solo al poeta, ma all’uomo, suo inseparabile compagno.
Queste idee fisse, divenendo a poco a poco il suo modo abituale di vedere il mondo e, com’egli dice, «il vero», vanno ad urtare in un altro ordine di sentimenti, divenuto già sua natura e parte indivisibile della sua vita. Perché Leopardi a quell’età era già un essere morale compiuto. Non era più religioso nel senso volgare di questa parola, non aveva più fede in certi dogmi; ma aveva un sentimento vivo dell’infinito e dell’eterno e del mistero delle cose, ciò che è appunto il sentimento religioso. Questo sentimento si accompagna col disprezzo di tutto ciò che è finito, o, com’egli dice, mondano, piacere mondano; e nessuno più di lui ha così poca stima di tutti quei fini particolari, appresso ai quali corre il comune degli uomini, le cui azioni a lui paiono vane, e perciò vero ozio. Talora, a sentirlo a parlare della vanità della vita, ti pare un cenobita o un santo padre. La differenza è in questo, che quelli dietro a questa vanità pongono un’altra vita come vera realtà, e lui ci pone il mistero, religione anche esso, anzi radice di ogni religione. Oltre a ciò, il giovane sentiva profondamente la virtù, la dignità di uomo, l’amore, la bellezza, la gloria, la patria. E tutto questo era Giacomo Leopardi, aggiuntovi un’estrema delicatezza e sensibilità, che gli rendeva più cari, più avidamente desiderati questi sentimenti. Il desiderio non placato dalla speranza, anzi accompagnato con la disperazione, li mantiene vivi e intensi, talora sino al delirio di Saffo. Maledice la vita, perché non può goderla, e la impotenza del suo «implacato desio» è il segreto della sua maledizione.
Invano ora chiama vanità la vita, e illusioni la virtù, la gloria, l’amore. Questa teoria dovrebbe tirarlo al suicidio, o alla misantropia, o alla compiuta indifferenza innanzi a ogni ordine morale. E queste conseguenze appariscono qua e là nella sua vita e nel suo spirito, come semplici velleità. Ma la sua natura è più forte della sua teoria, e resiste, e nasce un dramma interno del più alto interesse, una lotta tra la sua natura e il «vero»; la quale in una sfera più elevata si risolve nella lotta tra il fato «indegno» e l’individuo. Malgrado il colore greco di questa lotta, essa è tutta moderna nella sua sostanza, ed ha le sue radici profonde nell’anima dell’uomo che ne è il martire. Talora la natura benefica gli ritorna il sapore della vita e la facoltà di amare, gli ritorna i fantasmi e i sogni della giovinezza e, com’egli dice, fanciullezza, e il redivivo fanciullo canta il suo risorgimento, canta la patria e l’amore e la gloria e la virtù. Tal’altra rimane come schiacciato sotto il Fato, pur maledicendolo e pur resistendo. Dalla qual diversa disposizione dello spirito nasce diversità di disegno, di colore e di accento. Ma, vinca o l’una o l’altra di queste forze, rado è che stieno scompagnate, e nel maggiore entusiasmo della vita penetra la morte come un tarlo che la rode; e quando l’anima è più oscura, vi brilla un raggio di luce. E questo naturalmente, non come concepimento estetico dell’intelletto, ma come un fatto quasi inconsciente del suo spirito in questa o quella disposizione.Il dualismo è invitto, non c’è eliminazione, non c’è soluzione. Se il poeta fa buon sangue e gode un istante di gioventù, non è già che rinneghi le sue idee e chiami sostanze reali quelle che il suo pensiero chiama ombre. Sono illusioni, il pensiero ha ragione; pur vi si tiene afferrato con ambe le mani, e le ama e le segue come fossero sostanza. Parimente negl’istanti oscuri della vita non è già che le illusioni si dileguino affatto dal suo spirito, perché, non fosse altro, sono presenti nel lamento che fa di averle perdute, presenti nella memoria. Quel lamentare e quel ricordare è pregno di desiderio, e te le rende più vive. Perciò questo non è propriamente un dramma, perché il dramma suppone una eliminazione delle due forze e una soluzione, ma è lirica, un canto o un lamento generato da quella opposizione. Il dramma ci sta come mezzo per sviluppare la lirica, dov’è l’ultimo fine di questa poesia.
Ho detto che in questa lotta non c’è di greco se non il colore, voglio dire l’apparenza. Il poeta mette in mezzo il fato o il cielo, rappresentando al di fuori la lotta ch’è tutta dentro di lui. Il vizio è nei vocaboli che danno alla sua forma una vernice classica e talora la guastano. Ma il vizio si arresta alla superficie, e la rappresentazione rimane moderna. Quel fato e quel cielo è lui, e quella lotta non è se non la scissura della sua anima, dove coesistono, inconciliati, il cuore e l’intelletto.
Cosí il mondo è guardato da un punto di vista nuovo, non solo in sé stesso preso in astratto, quanto per i fatti psicologici, da’ quali nasce, e ne’ quali si compie internandosi nei più intimi affetti del poeta.
Questo lo rende viva realtà.
Il Sogno e la Vita solitaria furono, come gli altri tre idillii, scritti nello stesso anno che le citate lettere a Giordani, quali prima, quali dopo, poco importa. Talora trovi nelle lettere frasi quasi testuali di poesie scritte innanzi; talora la poesia è come una eco sentimentale di concetti espressi nelle lettere.Chi sia la donna che gli apparisce in sogno, morta «più lune» innanzi, non è chiaro. Se la tessitrice morì in quest’anno, lei è l’amata, di cui parla nel terzo idillio, ed è anche lei che ora gli apparisce. Del resto, il giovine Leopardi non concepisce la donna nella pienezza della sua esistenza materiale, per la sua inettitudine a comprendere la vita nella sua esteriorità e per la sua tendenza ideale. Più che la tale e tale donna, è in lui la donna, e come la vede lui, secondo la sua idea. Che questa donna sia Teresa o Francesca o Giovannina, può solleticare la curiosità, ma poco può giovare a intendere il poeta. È assai più importante studiare la formazione successiva del suo ideale femminile.
La sua donna è una giovinetta quasi ancora fanciulla, candida, innocente, gioiosa, amorosa, a cui manca la vita prima quasi che l’abbia gustata. È l’ideale naturale della donna, santificato nell’angiolo, non modificato ancora dalla società, né dalla esperienza della vita. Un ideale vaporoso, musicale, che, quando sta per determinarsi nella esistenza materiale, sfuma. Perciò destino di questo ideale è la morte in quella prima età.
Questo ideale «di angelette dal ciel discese» è il tipo delle Mandette e delle Beatrici, reminiscenze e preludii del paradiso a cui appartengono. La vita terrena è un breve sonno, e il morire è uno svegliarsi alla vita vera. Il concetto naturale della vita e della morte è capovolto dalla credenza in un’altra vita, dove solo è verità e felicità. Così la vita giovanile, immagine paradisiaca, che porta in sé il germe della morte, cioè del suo ritorno in paradiso, dove l’immagine diviene realtà, ha la sua vera poesia nella morte. Forma naturale di questa poesia è la visione, il sogno, l’estasi. La visione di Laura nel terzo cielo è il monumento più interessante di questo genere. Le immagini e i sentimenti che scaturiscono da questo concetto del mondo, formano tutto un ciclo poetico, successivamente trasformato, ma sussistente anche oggi ne’ suoi tratti fondamentali.
La prima volta che Leopardi concepì la donna fu nella canzone per una giovane inferma. Dico concepì, così per dire; perché in quei tratti vaghi e ottusi, pieni di reminiscenze, non è ancora una concezione personale.
Nel suo Primo amore vediamo lui, non l’amata; e nella Sera del dì di festa vediamo più lui che l’amata, della quale solo per indiretto possiamo ricostruire i tratti. E vi troviamo una vaga fanciulla, nel fiore dell’innocenza, che danza e sogna, e mira ed è mirata, e stanca della festa si addormenta, e nessuna cura la morde. La preoccupazione della sua infelicità gl’impedisce di contemplare e formare con serenità artistica questo bel tipo di fanciulla, che rimane nella sua mente fisso, e diverrà più tardi Silvia e Nerina.
Questo tipo di fanciulla è affatto naturale e reale, senza alcuna immagine di angelico o di celeste o di paradisiaco, come pur si vede in Dante e nel Petrarca; è la donna nel suo primo apparire innanzi all’immaginazione innocente dei giovani, bella, pura, festosa, e se volessimo usare modi petrarcheschi, angelica, divina, celeste; modi che aggiungono a questo ideale naturale e giovanile nessuna qualità nuova, ma un nuovo effetto di luce e di melodia, quel carattere vaporoso e musicale, così bene corrispondente alle immaginazioni giovanili.
Questo tipo naturale non può conseguire quegli effetti che i poeti traggono dall’ideale celeste, se non in altri modi cavati pure dalla natura. Perché lo stesso soprannaturale celeste non è che l’effetto naturale della nostra immaginazione; e non è l’angiolo che ha prodotto l’ideale femminile, ma è l’ideale femminile che ha prodotto l’angiolo.
In che modo Leopardi consegue quegli effetti nella formazione poetica della donna, vedremo poi... Per ora, non abbiamo che uno schizzo appena, de’ tratti sparsi, che bisogna ricostruire per avere una prima immagine di un tipo naturale della donna, così come errava nella sua giovine fantasia.
Nel Sogno la fanciulla è morta da più mesi. È pur dessa, quella vaga fanciulla festosa, «nel fior degli anni estinta, quand’è il viver più dolce». Ma qui Leopardi ha già un concetto suo della vita e della morte. La vita giovanile è felice, perché è l’età della speranza, non ancora sopraggiunti i disinganni, e non ancora sopraggiunto il vero a dissipare le care illusioni, e a rendere desiderabile la morte.
A desiar colei Che d’ogni affanno il tragge, ha poco andare L’egro mortal; ma sconsolata arriva La morte ai giovanetti, e duro è il fato Di quella speme che sotterra è spenta. |
Che cosa è dunque questa fanciulla? Non è la creatura angelica che torna in cielo ond’è venuta, radiante di luce, più bella e meno altera. No. È una fanciulla infelicissima perché tolta alla vita, quando amava ancora la vita. Ora è fuori di ogni illusione; pure lamenta che la morte l’abbia tolta alle sue illusioni e abbia abbreviata la sua felicità. Ciò che c’è di comune in questa fanciulla, è la morte in quella fresca età: un fatto pietoso che ha ispirato molte elegie; morire quando appena si è assaporata la vita, è il concetto comune di questi lamenti. Ma c’è di nuovo questo, che la fanciulla morta qui è la voce della tomba, rivelatrice del vero. È già sappiamo cosa è per Leopardi «il vero». È la vanità della vita e il mistero della morte, infelici tutti, salvo i perpetui fanciulli che prendono le ombre per cosa salda, e ignorano il vero. La fanciulla era felice perché ignorante; ora è infelice perché sa quello che natura «asconde agl’inesperti della vita», cioè a’ giovani. Così il fatto particolare di una morte immatura acquista significato universale, l’elegia s’alza a tragedia. Ma se a lei la morte fa conoscere il vero, cioè la vanità delle cose, il destino di Leopardi è ancora più tragico; perché, giovane ancora, conosce la vanità della vita e si sente vecchio:
Giovane son, ma si consuma e perde La giovanezza mia come vecchiezza. |
Nascemmo al pianto, Disse, ambedue; felicità non rise Al viver nostro; e dilettossi il cielo De’ nostri affanni. |
Ma nella comune infelicità il sentimento è diverso e dà una movenza al dialogo. La giovanetta non ha emozioni. Sul suo viso è l’immobilità del suo destino. Parla come una legge o un oracolo.
Quella sua tristezza è monotona, come l’impassibile voce del vero. E parrebbe un’astrazione intellettuale, se un’aria di dolce rassegnazione e di affettuosa pietà non desse alla sua tristezza una certa grazia, come di donna viva e bella:
Io di pietade avara Non ti fui mentre vissi, ed or non sono. Che fui misera anch’io. Non far querela Di questa infelicissima fanciulla. |
Nel giovane al contrario la vita ribolle, quantunque si dichiari vecchio e conosca la vanità della vita. La vivacità delle sue impressioni contrasta con l’impassibilità sepolcrale di quella voce. Ella dice cose terribili, fra l’altre che il cielo si dilettò dei loro affanni, e lo dice in forma di sentenza, e non pare in lei o sdegno, o dolore o ironia o altro movimento del cuore. Ma quei detti a lui schiantano il cuore. Anche lui sa che la vita è vanità, che vita e morte è il medesimo, che tutto è illusione, anche la bellezza, anche l’amore; e piange, e si lamenta, e gli si stringe il cuore, e sente il tocco di quella destra, e gli si rinnova l’amore, nel seno della morte gli si rinnova l’amore, l’illusione ritorna nel regno del vero, e copre di baci quella destra, sino al delirio di un desiderio insoddisfatto:
di sudore il volto Ferveva e il petto, nelle fauci stava La voce, al guardo traballava il giorno. |
Così di faccia al vero sorge il sentimento, di faccia al disinganno un nuovo inganno, e si rivela sin da principio l’invitto dualismo della vita, com’è sorta nel cervello di questo giovane di ventun anno. Sembra quasi che quell’istante di obblio guadagni anche la morte, che lo guarda con tenerezza e lo chiama caro; una dolcezza di espressione in mezzo alla quale ti scende sul capo, come una lama di coltello, la voce del disinganno:
Nostre misere menti e nostre salme Son disgiunte in eterno. A me non vivi, E mai più non vivrai; giá ruppe il fato La fé che mi giurasti. |
È chiaro che la giovinetta è una persona poetica, in bocca a cui Leopardi ha messe le idee intorno al mondo che allora gli pullulavano nel cervello, e di cui trovi una espressione così straziante nelle lettere a Giordani. Non ci si vede già la pedanteria o il piacere di aver ritrovato lui quelle idee, ma il dolore di quella conoscenza. Perciò, quantunque il tono della composizione sia severo e sobrio, vi alita per entro una emozione tanto più potente, tanto piú contenuta. Il vero vi è annunziato in una forma chiusa in sé, di una terribile chiarezza, che non ammette repliche, e non osservazione, e non spiegazione, e non periodo; una forma originale che non esprime alcuna impressione e ti fa una impressione irresistibile. È forma di oltre tomba, che Dante ha saputo trovare in quel: «Lasciate ogni speranza». Accanto a questa voce del vero è il grido del cuore, grido di maraviglia, di dolore, di amore; l’illusione brilla in seno alla morte, come luci fosforiche innanzi ai cimiteri. Le idee perdono il loro carattere astratto, diventano sentimenti, investono tutta la persona. È la vita guardata da un nuovo aspetto, di un colore fosco e cupo, un colore di morte, sotto il quale conserva tutto il suo calore:
colei teneramente affissi Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro, Disse, che di beltà son fatta ignuda? E tu d’amore, o sfortunato, indarno Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio. Nostre misere menti e nostre salme Son disgiunte in eterno. A me non vivi, E mai più non vivrai... |
Questo è l’ultimo salire della emozione drammatica. Quell’«addio», quello «in eterno», quel «mai più» congiunto con quel «teneramente», con quel «caro», con quello «ti scaldi e fremi», ti fanno balzare innanzi contemporaneamente la vita e la morte, e producono quella impressione complessa, incapace di analisi, così potente, che ottiene Dante nell’Inferno, dove è pure l’uomo vivo nel regno della morte e del vero. L’inferno non c’è più; il simbolo è consumato; resta un inferno psicologico, la vita rappresentata direttamente nei suoi inganni e nei suoi disinganni. Si misura la distanza tra il decimoquarto ed il decimonono secolo. Ma la poesia è quella, stessa ispirazione, stessi effetti. Leopardi ha infine ritrovato sé stesso.
Se il poeta rappresenta bene l’inferno, voglio dire quel non so che cupo e funebre che nasce da una legge eterna e senza viscere, non è egualmente felice nella rappresentazione della vita. Ancora molte reminiscenze, ancora un fare troppo classico, un dire in frasi girate le cose più semplici, un tradurre in forma letteraria concetti immediati e popolari.
Le reminiscenze abbondano, specie nell’introduzione. Ecco qualche esempio di forma letteraria:
Quanto, deh quanto Di te mi dolse e duol: né mi credea Che risaper tu lo dovessi. |
Oh quante volte In ripensar che più non vivi, e mai Non avverrà ch’io ti ritrovi al mondo, Creder noi posso. |
il capo inerme Agli atroci del fato odii sottrarre! |
Quei benedetti modelli classici non ancora l’ha cacciati dal suo spirito.
In una lettera a Giordani, citata innanzi, dove il giovane rappresenta il niente della esistenza, troviamo queste parole:
Se in questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre cogli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere né muovermi, altro che per forza, dal luogo dove mi trovassi. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, né anche della morte; non perch’io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore.
Questo stato è la base della Vita solitaria, un idillio che scrisse anche a quel tempo.
Qui chiama «ferreo sopore» l’apatia, uno stato senza passione e senza moto, senza riso e senza pianto, senza piacere e senza dolore, senza speranza e senza disperazione: uno stato d’immobilità, che è di persona viva e ha tutta l’apparenza della morte:
e già mi par che sciolte Giaccian le membra mie, né spirto o senso Più le commova. |
Questo è lo stato che chiama ferreo sopore, uno stato assolutamente prosaico e incapace di rappresentazione; è l’uomo petrificato o cristallizzato, il ghiacciato di Dante.
Ma la vita solitaria lontana dalla città, in mezzo a’ campi, risveglia l’anima e le ridona il senso della vita, e il piangere e il sospirare e il ricordarsi. Questo risveglio non è un risorgimento, è un sollievo temporaneo accompagnato con un ahi!:
a palpitar si move Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna Tosto al ferreo sopor. |
Perciò la vita non torna se non come memoria, non ciò che fu.
Ma la memoria opera nell’uomo come fosse realtà, anzi è realtà anch’essa, e lo rifà vivo, vivo nel passato che ha la forza di rappresentarsi; e gli ritorna l’ispirazione, il sentimento della bella natura, il desiderio o il sospiro del passato, il dolore di averlo perduto e la voluttà di quel dolore che pure è vita. Ne nasce quella mescolanza di piacere e di dolore, di vita e di morte, di sereno e di fosco, che è il carattere della poesia leopardiana. La solitudine è un tema vecchio d’idillio, espresso per lo più in generalità vaghe e insipide, e che qui acquista un nuovo senso, perché calato in tutti gli accidenti della persona. Non è la vita solitaria, ma è la vita solitaria di Leopardi. Perciò tutto vi è particolare e personale.
. . . . . . . . doloroso Io vivo, e tal morrò, deh tosto! |
Con sua fredda mano Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto Nel fior degli anni: |
La parte più viziosa è l’apostrofe alla luna, piena di reminiscenze e in tono semi-tragico. La parte più poetica è non dove descrive, ma dove narra le sue impressioni e ti getta in quel certo stato pensoso e fantastico, che i francesi dicono il «rêve»:
Pur se talvolta per le piagge apriche, Su la tacita aurora o quando al sole Brillano i tetti e i poggi e le campagne, Scontro di vaga donzelletta il viso; O qualor nella placida quïete D’estiva notte... L’erma terra contemplo, e di fanciulla Che all’opre di sua man la notte aggiunge, Odo sonar nelle romite stanze L’arguto canto; a palpitar si move Questo mio cor di sasso... |
Il canto di una tessitrice o l’incontro di una vaga fanciulla sono accidenti ordinarii, che pur qui toccano il cuore e muovono l’immaginazione per il modo come sono collocati e lumeggiati.
De’ cinque idillii questo ritrae più dell’idillio nel suo senso volgare; ed è anche il meno interessante, sì per l’ineguaglianza dell’espressione, e sì per l’importanza secondaria della materia.