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nel regno del vero, e copre di baci quella destra, sino al delirio di un desiderio insoddisfatto:

di sudore il volto
Ferveva e il petto, nelle fauci stava
La voce, al guardo traballava il giorno.

Così di faccia al vero sorge il sentimento, di faccia al disinganno un nuovo inganno, e si rivela sin da principio l’invitto dualismo della vita, com’è sorta nel cervello di questo giovane di ventun anno. Sembra quasi che quell’istante di obblio guadagni anche la morte, che lo guarda con tenerezza e lo chiama caro; una dolcezza di espressione in mezzo alla quale ti scende sul capo, come una lama di coltello, la voce del disinganno:

Nostre misere menti e nostre salme
Son disgiunte in eterno. A me non vivi,
E mai più non vivrai; giá ruppe il fato
La fé che mi giurasti.

È chiaro che la giovinetta è una persona poetica, in bocca a cui Leopardi ha messe le idee intorno al mondo che allora gli pullulavano nel cervello, e di cui trovi una espressione così straziante nelle lettere a Giordani. Non ci si vede già la pedanteria o il piacere di aver ritrovato lui quelle idee, ma il dolore di quella conoscenza. Perciò, quantunque il tono della composizione sia severo e sobrio, vi alita per entro una emozione tanto più potente, tanto piú contenuta. Il vero vi è annunziato in una forma chiusa in sé, di una terribile chiarezza, che non ammette repliche, e non osservazione, e non spiegazione, e non periodo; una forma originale che non esprime alcuna impressione e ti fa una impressione irresistibile. È forma di oltre tomba, che Dante ha saputo trovare in quel: «Lasciate ogni speranza». Accanto a questa voce del vero è il grido del cuore, grido di maraviglia, di dolore, di amore; l’illusione brilla in seno alla morte, come luci fosforiche innanzi ai cimiteri. Le idee perdono il loro carattere