Giacomo Leopardi/X. 1818: Le due canzoni
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X
1818
LE DUE CANZONI
Lugubre è l’apertura del suo ventesimo anno. Indebolita ancor piú la vista e mancati gli studi, acquista una coscienza più chiara del suo male, e ne parla al Giordani con la tranquillità della disperazione.
Della salute sic habeto. Io per lughissimo tempo ho creduto fermamente di dover morire alla più lunga fra due o tre anni. Ma da quel giorno ch’io misi piede nel mio ventesimo anno, ho potuto accorgermi, e persuadermi, non lusingandomi, o caro, né ingannandomi, ché il lusingarmi e l’ingannarmi pur troppo è impossibile, che in me veramente non è cagione necessaria di morir presto, e purché m’abbia infinita cura, potrò vivere, bensì strascinando la vita coi denti, e servendomi di me stesso appena per la metà di quello che facciano gli altri uomini, e sempre in pericolo che ogni piccolo accidente e ogni minimo sproposito mi pregiudichi, o mi uccida; perché insomma io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l’aspetto miserabile e dispregevolissima tutta quella gran parte dell’uomo, ch’è la sola a cui guardano i più: e co’ più bisogna conversare in questo mondo; e non solamente i più, ma chicchessia è costretto a desiderare che la virtù non sia senza qualche ornamento esteriore, e trovandonela nuda affatto, s’attrista, e per forza di natura, che nessuna sapienza può vincere, quasi non ha coraggio d’amare quel virtuoso in cui niente è bello fuorché l’anima.
Dunque, non crede più di dover morire fra breve, ciò che ha creduto per lunghissimo tempo: momento altamente poetico, che nell’erudito e nel letterato si è impedantito con quel suo Appressamento della morte. Ha innanzi a sé un avvenire, e se lo foggia e lo descrive con mano sicura.
Sembra un medico spietato, che faccia la diagnosi non di sé, ma di qualcun altro, risoluto a dirgli tutta la verità e a cavargli tutte le illusioni.
Pure, questo qualcun altro era lui stesso, ed è uno strazio quella tranquillità del suo dire. Per pietà di lui vorremmo quasi che comprendesse e sentisse meno. Ma confessa egli medesimo che l’acutezza dell’intendere e del sentire è gran parte della sua infelicità.
Questa ed altre misere circostanze ha posto la fortuna intorno alla mia vita, dandomi una cotale apertura d’intelletto perch’io le vedessi chiaramente e m’accorgessi di quello che sono, e di cuore perch’egli conoscesse che a lui non si conviene l’allegria, e, quasi vestendosi a lutto, si togliesse la malinconia per compagna eterna e inseparabile.
Assistiamo al martirio di una grande intelligenza e di un gran cuore; le quali forze naturali, se gli aguzzano il dolore della tortura, hanno pure la virtú di tenerlo alto sopra di quella. È il martirio di un Titano che non geme e non si lamenta, anzi nell’abisso del suo dolore alza la fronte ed ha l’occhio chiaro e tranquillo, come non vedesse e non sentisse, lui che pur così profondamente e vede e sente: suprema forma della forza morale.
Io so dunque e vedo che la mia vita non può essere altro che infelice: tuttavia non mi spavento, e così potesse ella esser utile a qualche cosa, come io procurerò di sostenerla senza viltà. Ho passato anni così acerbi, che peggio non par che mi possa sopravvenire: contuttociò non dispero di soffrire anche di più: non ho ancora veduto il mondo, e come prima lo vedrò, e sperimenterò gli uomini, certo mi dovrò rannicchiare amaramente in me stesso, non già per le disgrazie che potranno accadere a me, per le quali mi pare d’essere armato di una pertinace e gagliarda noncuranza, né anche per quelle infinite cose che m’offenderanno l’amor proprio, perché io sono risolutissimo e quasi certo che non m’inchinerò mai a persona del mondo, e che la mia vita sarà un continuo disprezzo di disprezzi, e derisione di derisioni; ma per quelle cose che m’offenderanno il cuore: e massimamente soffrirò, quando con tutte quelle mie circostanze che ho dette mi succederà, come necessariamente mi deve succedere e già in parte m’è succeduta, una cosa più fiera di tutte, della quale adesso non vi parlo.
Qui non troviamo alcun segno di vanteria o di calore artificiale; anzi, in quei frequenti «quasi» e «mi pare» si vede una espressione cauta e misurata; c’è una freddezza e una precisione e una semplicità terribile.
Le ultime frasi pare che alludano a disinganni nell’amicizia e nell’amore, e l’amicizia e l’amore erano la sola consolazione a quel cuore malato e avido d’affetto.
Sopporterò, poiché sono nato per sopportare; e sopporterò, poiché ho perduto il vigore particolare del corpo, di perdere anche il comune della gioventù: e mi consolerò con voi, e col pensiero d’aver trovato un vero amico a questo mondo, cosa che ho prima conseguita che sperata.
Questa lettera, scritta il 2 marzo 1818, è il ritratto di quel giovane a venti anni, fatto da lui stesso.
E chi la paragoni con l’altra pure al Giordani del 30 aprile 1817, vedrà la differenza. Ivi è il giovane pieno ancora d’illusioni, che gareggia con l’illustre uomo di acutezza e di dottrina, e nell’ardore della disputa espansivo e caldo. Qui è già l’uomo, formato così e così, e che non muterà più, profondamente consapevole della sua infelicità e, ciò che è più, delle sue illusioni, pure con l’animo superiore alla natura e agli uomini, dai quali non aspetta che disprezzo. Questo giovane rannicchiato in sé stesso, e bastante a sé stesso, come colui che già sente la sua superiorità intellettuale e morale, udite come parla in una lettera al Giordani del 16 gennaio 1818:
Eh via che né la nostra virtù, né la dilicatezza del cuor nostro, né la sublimità della mente nostra, né la nostra grandezza non dipendono da queste miserie: né io sarò meno virtuoso né meno magnanimo (dove ora sia tale) perché un asino di libraio non mi voglia stampare un libro, o una schiuma di giornalista parlarne. Oramai comincio, o mio caro, anch’io a disprezzare la gloria, comincio a intendere insieme con voi che cosa sia contentarsi di sé medesimo, e mettersi colla mente piú in su della fama e della gloria e degli uomini e di tutto il mondo. Ha sentito qualche cosa questo mio cuore, per la quale mi par pure ch’egli sia nobile, e mi parete pure una vil cosa voi altri uomini, ai quali se per aver gloria bisogna che m’abbassi a domandarla, non la voglio; ché posso ben io farmi glorioso presso me stesso, avendo ogni cosa in me, e piú assai che voi non mi potete in nessunissimo modo dare.
Certo, questo è un tono troppo alto di quel «disprezzo de’ disprezzi», e s’intravvede in questa misura oltrepassata un vivo risentimento contro librai e giornalisti, e un desiderio grande di quella gloria, che così alteramente si gitta sotto ai piedi.
L’uomo è meno alto che non vuol far credere; è in lui la stessa pasta di quelli ch’egli chiama uomini, come fosse lui qualcos’altro; ma questo appunto ce lo rende interessante, perché in quella natura eroica entrano pure i più e i meno, e infinite gradazioni della pasta umana che lo avvicinano a noi.
Questa coscienza chiara e viva della sua infelicità, questo sentirsi segregato dalla natura e dagli uomini, e nel suo isolamento morale mettercisi al disopra e dire: — Io! sì, io! — , anche disprezzato e abbandonato dagli amici e ripudiato dall’amore, questo è il tratto fondamentale del suo carattere. E sarebbe punto simpatico per la soverchia rigidità e uniformità, se non vi si mescolassero debolezze e contraddizioni, che lo rivelano in quei suoi venti anni non solo uomo, come tutti gli altri, ma giovanissimo, ancoraché egli lamenti la perduta giovanezza. Ammiriamo l’Iddio, amiamo l’uomo.Giordani stette in Recanati «non più di cinque giorni». Nei cari colloqui dové spiegargli quel tipo di perfetto scrittore italiano, di cui più volte gli aveva ragionato per lettera. Egli lo voleva nobile e agiato, sendo persuaso che l’Italia non si poteva redimere senza il concorso delle alte classi e intelligenti, sulle quali doveva poter molto la parola infiammata di uno scrittore geniale. A lui pareva di averlo trovato nel suo Giacomo, e molto gli dové parlare d’Italia e dei suoi disinganni e delle nuove speranze. Quel linguaggio non doveva parere insolito a un giovane impressionabile e capace di entusiasmo, e che già amava l’Italia di un amore letterario.
Non voglio dare un peso esagerato alle parole del Giordani. Certo è che quel giovane tutto casa e biblioteca, che conosce l’Italia nei libri, estraneo ancora al mondo, e che non aveva ricevute altre opinioni se non di padre e madre, si sentiva già da un pezzo tirare in nuovi orizzonti.
A quel tempo l’Italia aveva già quella certa aria inquieta e audace, che annunzia le rivoluzioni. La Carboneria s’era infiltrata nei più bassi strati, uomini illustri e potenti le erano affigliati, veniva su la nuova generazione, Santarosa, e Rossetti, e Berchet, Mazzini e Garibaldi.
Questa Italia non era penetrata in Recanati. Giacomo doveva ignorare persino cosa fosse un carbonaro; appena è se qualche sentore poté averne da Pietro Giordani. Conosceva l’Italia letteraria e purista, Monti, Giordani, Arici, Perticari, e persino padre Cesari.
L’influenza del Giordani fu principalmente letteraria. A questo tempo Giacomo avea dovuto già rendersi familiari, non pure i greci e i latini, ma i nostri trecentisti e cinquecentisti, e anche i più recenti. I nuovi studi rinnovavano il suo spirito, gli davano l’aria e il genio contemporaneo. Alfieri soprattutto, quel birbone di Alfieri, come diceva suo padre, dové fare su di lui impressione. Anche in tempi posteriori Alfieri era l’idolo delle nostre scuole, esaltava i nostri sentimenti patriottici. Senti quella sua energia selvaggia in quella lotta di Giacomo contro il suo fato, scrivendo al Giordani. L’uomo, trasformato già letterariamente, s’andava trasformando ogni giorno nelle sue opinioni, politiche, religiose, morali.
Non mi domandate in qual punto e in quale ora avvenne questa trasformazione. È ridicolo affermare che il Giordani operò questo miracolo. Leopardi stesso non può dirlo se non a processo compiuto, come già notammo della sua conversione letteraria.
La sua salute s’andava sempre più fiaccando, nel tempo stesso che lo spirito si rinnovava, e si ergeva sopra al destino. Onde nasce una vita punto logica, anzi piena di variazioni e di contraddizioni; oggi prostrato, dimani un nonnulla lo rialza e lo riamica alla vita, all’amore, alla gloria, all’arte. La visita del Giordani gl’infuse nuovo sangue, lo ravvivò. Qualche mese dopo gl’inviò un manoscritto: erano due canzoni, l’una all’Italia, e l’altra a Dante.
Qui ci è una conversione tale, che sembra un salto. Ma non sembra a chi lo ha seguito in questi anni con qualche attenzione. In fondo è rimasto un classico, ma l’ambiente in cui vive è mutato. Non è più quell’ambiente paesano e scolastico, da cui usciva il difensore della Santa Alleanza. Avanzo della reazione cattolica in lui è rimasto l’odio alla Francia; ma tutto l’altro è mutato, e andrà via anche quello. Lo zelante cattolico non ha più in bocca neppure Dio; per ora lo supplisce col Fato. Chi abbozzava inni cristiani, ora canta l’Italia e Dante.
La materia è mutata; senti una prima rivelazione dell’arte nelle forme svelte, ne’ gagliardi spiriti. Ma quanto siamo ancora lontani dal segno!
Il concetto della canzone all’Italia è il solito luogo comune: «già fu grande, or non è quella». Un luogo comune qui espresso con molta vivacità da un giovane, che aveva nella sua immaginazione l’Italia di Cicerone e di Livio. Egli entra subito in argomento con un contrasto commovente tra ciò che sopravvive e ciò che è morto di quella grande Italia:
. . . . . vedo le mura e gli archi E le colonne e i simulacri e l’erme Torri degli avi nostri, Ma la gloria non vedo, Non vedo il lauro e il ferro ond’eran cinti I nostri padri antichi. |
Non c’è una seria elaborazione sua del contenuto, il quale rimane una generalità; animato da un sentimento sincero sì, ma vago, venuto piú da un calor giovanile e letterario che da una coscienza politica, com’è in Berchet.
Non è dunque maraviglia che la forma sia tradizionale e letteraria, con la solita statua allegorica dell’Italia e le solite dissimulazioni e sorprese e scene convenzionali, come è nelle canzoni di questo genere. Chi non conoscesse la data, potrebbe crederla scritta nel 1815, in quel fervore anti-francese e antinapoleonico della Santa Alleanza.
Ma dopo tre strofe il soggetto sembra esaurito, ed il poeta dimentica l’Italia, e con felice passaggio introduce Simonide che celebra la morte de’ Trecento alle Termopili; sicché questa fu chiamata la canzone di Simonide. Ci si vede l’erudito, l’autore dell’Inno a Nettuno.
Ma dove nell’Inno non si rivela ancora il poeta, qui tuona e folgora, come direbbe Giordani.
Certo, non c’è qui Simonide, e non ci è sapore di greco; anzi il rumore, l’impeto e lo splendere, non senza qualche artificio, è cosa tutta moderna. Ma questo appunto certifica che il giovane comincia ad acquistare la sua libertà di concepire e di formare. E chi guarda bene addentro tra questi lampi e tuoni, ci troverà certi movimenti di tenerezza e di malinconia che comunicano alla canzone una impronta particolare. La stanza incomincia con molto fracasso, ma finisce rilassandosi: il ruggito diviene un lamento pieno di grazia e di dolcezza. Più che il c r e s c e n d o il poeta ama lo s m o r z o, quella voce romorosa, che muore a poco a poco, come un canto che si allontana e ti penetra nell’anima e ti gitta in fantasia.
Con questo rilassamento finisce la statua dell’Italia, e la statua de’ morenti in Russia, e quella dei morti alle Termopili. Anche l’ultima stanza finisce con un melanconico ripiegarsi di Simonide nella sua persona. Evidentemente il poeta riesce più nel delicato e nell’appassionato, come porta la sua natura tenera e malinconica.
La seconda canzone non è che questa medesima, ingrandita e amplificata con maggior solennità e artificio. È il vecchio fondo latino, epico, magniloquente, riscaldato da movenze oratorie. Anche qui entra in iscena la gioventù italiana caduta nei boreali deserti, e se ne fa una descrizione pittoresca. Si può dire anzi che questo sia il corpo della canzone. Certi concetti e movenze e forme nuove annunziano vivezza e profondità d’ingegno. L’ultimo concetto ha del gigantesco. Ma vi desideri quella spontaneità e scioltezza che è nella prima canzone. A me, in tanta pompa e solennità di giri e di suoni, il poeta fa l’effetto alcuna volta di un uomo tutto teso in un abito di cerimonia.
Certamente, queste due canzoni mostrano un progresso non piccolo verso i lavori antecedenti. L’argomento patriottico e nuovo desta nel poeta una viva partecipazione, e gli comunica uno slancio e una ispirazione che si mantiene insino alla fine. La forma, ancorché convenzionale e ricordevole, acquista dal calore e dalla sincerità del sentimento un moto celere e un’aria di originalità, e te ne senti attirato e compiaciuto, come di forma bellissima in questo genere letterario.
Vero è che in questa bella forma penetrano certi latinismi, e certe durezze, anche improprietà, le quali attirarono addosso all’autore le critiche dei puristi, che salirono in cattedra e gli fecero la lezione. Anche Pietro Giordani gli fece osservazioni simili, rimbeccate da lui con ostinazione d’autore, con più spirito e dottrina, che gusto. Passato il primo umore, corresse molte di quelle mende, come si vede nelle altre edizioni. Le canzoni, salvo in pochissimi e amici, non produssero molto effetto, anzi sembra che ai più fossero poco note, perché in Italia anche oggi è meno difficile stampare che farsi leggere. Il giovane era ancora un ignoto, e ignoti erano a lui i letterati più in voga. Il Giordani gli mandò una lista di nomi, sicché poté inviare le canzoni a questo e a quello, e allargare il cerchio delle sue conoscenze. Fra gli altri, a cui scrisse, noto il Mustoxidi, il Trissino, il Grassi, il Montani, il Perticari.
Venuta su la nuova generazione, cresciuta la fama dello scrittore, dilatatosi il sentimento patriottico, quelle canzoni infiammarono la gioventù. Ricordo io, come fosse oggi, quale profonda impressione facevano in noi, maestri e discepoli, gl’«itali acciari» e gl’«itali petti»! Mettevamo colà dentro, in quella generalità, tante cose: i nostri desiderii, i nostri pericoli, le nostre cospirazioni, e ci sentivamo commossi. Si declamava, si cantava, non si giudicava.
Berchet, Rossetti, Leopardi, Niccolini, Guerrazzi, Manzoni, Tommaseo erano tutti allo stesso livello. Ora è venuto il tempo del discernimento e della critica. E perché io ho detto e dico quello che sento intorno a queste canzoni, non sarò certo accusato di lesa patria.
Alle canzoni precede una dedica a Vincenzo Monti, rifatta poi, ma se in quel rifare abbiamo un fraseggiare più semplice e più spedito, non è tolto il peccato d’origine, che è l’imbarazzo di un giovane innanzi ad un grand’uomo, un’aria di cerimonia e di compassatezza. Quando scrive a Giordani, col quale ha preso dimestichezza, Leopardi non ha bisogno di rifare, e si abbandona con piena effusione, e tutto gli esce caldo e spontaneo.
E cos’altro scrisse Leopardi in quest’anno? Nient’altro. La debolezza della vista e la depressione fisica e morale gli rendevano faticosíssimo lo studiare e lo scrivere, e anche il seguire con certa attenzione la sorella ed il fratello che gli leggevano.
Passeggiava per le stanze, fantasticando, meditando, nutrendosi del suo cervello, felice se talora poteva salire al monte e contemplare la selva e il mare. Non faceva lavori; faceva progetti, gli uscivano semplici schizzi. Il poveretto si sentiva come galvanizzato, e dava libero corso all’immaginazione. «In una totale ignoranza delle cose del mondo letterario», si rifà sull’antico, e vuole nel prossimo inverno immergersi fino alla gola ne’ classici greci, latini, italiani. Il 27 novembre 1818 scrive al Giordani:
Se questa mia non fosse già troppo lunga, vi direi di certi disegni che ho concepiti. Ora vi dirò solamente che quanto più leggo i latini e i greci, tanto più mi s’impiccoliscono i nostri anche degli ottimi secoli, e vedo che non solamente la nostra eloquenza ma la nostra filosofia, e in tutto per tutto tanto il di fuori quanto il di dentro della nostra prosa bisogna crearlo. Gran campo, dov’entreremo se non con molta forza, certamente con coraggio e amor di patria.
Nel 19 febbraio dell’anno appresso gli scrive che si propone fare un trattato Della condizione presente delle lettere italiane. Nota che all’Italia manca la lirica perché manca l’eloquenza; fa bassa stima del Filicaia e del Guidi; gli pare molto superiore il Chiabrera e più ancora il Testi.
C’è nella vita un momento che l’ingegno si schiude come un fiore, e guarda il mondo con uno sguardo suo e lo vede altro da quello ch’eragli apparso innanzi. Si direbbe quasi che gli occhi si sieno mutati. È la prima apparizione dell’originalità o della personalità. Quel giovane che poco più poteva leggere, aveva già quella nuova apertura d’intelletto che gli metteva il cervello in fermentazione e gli scopriva nuovi aspetti delle cose; e quasi puro spirito e padrone del suo corpo, passeggiando, fantasticando, concepiva disegni sterminati, a’ quali non sarebbe bastata la vita lunghissima di un uomo sano. Aveva letto tante volte quei classici greci e latini; e ora ci ritorna, ci sente un altro gusto, un altro sapore. Que’ classici italiani, già tanto imitati e ammirati, gli si rimpiccoliscono, e tutto gli par da creare, e vuol crearlo lui! Giordani gli raccomanda la prosa, e lui scrive versi, e lascia Cicerone, e dà mano a Orazio, Omero, Virgilio, Dante; e quella lettura gli fa quasi «ingigantire l’anima» in tutte le sue parti e dire: — Questa è poesia — .
L’arte, scrive egli a Giordani, non dee affogare la natura; e quell’andare per gradi e voler prima esser buon prosatore e poi poeta, mi par che sia contro la natura: non dona ella niente niente a quella mens divinior di Orazio?
L’uomo sentiva già agitarsi nell’anima la musa, e non lo nasconde, e prega Giordani che non voglia crederlo un temerario.