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xi. 1819 - gl’idillii 83

innocente. Innanzi a lei timido, taciturno, quasi non osa guardarla. Tutta l’eloquenza e tutta l’immaginazione gli torna sotto la coltre:

Oh come viva in mezzo alle tenebre Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi La contemplavan sotto alle palpebre!

E non poteva dormire, e se chiudeva gli occhi, il sonno gli era rotto come per febbre. E si sente altro. Non ama più la gloria, e non lo studio, e non la natura; non gli è grato il riso degli astri, o il silenzio della queta aurora, o il verde prato. L’occhio è a terra chino, e per non turbare l’illibata immagine, fugge ogni vista di volto leggiadro o turpe. Ma viene il giorno della partenza. La notte, sospirando, lagrimando, palpitando, sta con l’orecchio teso; trasalisce ad ogni voce:

    E poi che finalmente mi discese
La cara voce al core, e de’ cavai
E delle rote il romorío s’intese;
    Orbo rimaso allor, mi rannicchiai
Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,
Strinsi il cor con la mano, e sospirai.
    Poscia traendo i tremuli ginocchi
Stupidamente per la muta stanza,
Ch’altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?

Tutto ciò è narrato benissimo, ed in certi punti anche con novità d’immagini, come è il mormorare lungo, incerto tra le chiome d’antica selva, a cui paragona l’interno mormorio di moti e di pensieri; ed il dolore plumbeo che gli scende nel cuore,

Com’è quando a distesa Olimpo piove
Malinconicamente e i campi lava;
e quella dolcezza nel suo dolore, e nutrirselo e tenerselo caro:
    Solo il mio cor piaceami, e col mio core
In un perenne ragionar sepolto.
Alla guardia seder del mio dolore.