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— Ti ho pianto assai, e credea nol sapessi — , direbbe semplicemente il popolo, e dirà anche lui più tardi, e direbbe Goethe e talora anche Victor Hugo. Il popolo dice: — Non credo agli occhi miei — . Dante dice: «Vid’io». E lui:
                    Oh quante volte
In ripensar che più non vivi, e mai
Non avverrà ch’io ti ritrovi al mondo,
Creder noi posso.
Troppi giri di frasi, troppe esclamazioni, un tono falsamente tragico, uno sforzo di commuovere che ti lascia freddo, come in quest’altra frase sonora:
                    il capo inerme
Agli atroci del fato odii sottrarre!

        Quei benedetti modelli classici non ancora l’ha cacciati dal suo spirito.

In una lettera a Giordani, citata innanzi, dove il giovane rappresenta il niente della esistenza, troviamo queste parole:

Se in questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre cogli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere né muovermi, altro che per forza, dal luogo dove mi trovassi. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, né anche della morte; non perch’io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore.

Uno stato di apatia descritto con l’evidenza, non di chi lo concepisce come una conseguenza di un sistema filosofico sulla nullità della vita, ma di chi lo soffre in quel punto stesso che lo concepisce e lo immagina.

Questo stato è la base della Vita solitaria, un idillio che scrisse anche a quel tempo.

Qui chiama «ferreo sopore» l’apatia, uno stato senza passione e senza moto, senza riso e senza pianto, senza piacere e