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90 | giacomo leopardi |
ha un’anima poetica e gode di quella bellezza, e non maledice la natura, anzi la saluta.
Questo spoglia il suo lamento di ogni amarezza. Anzi il contrapposto tra il cielo tranquillo e la sua anima travagliata non gli viene neppure in forma di contrapposto; lo s’indovina, e più nella situazione che nelle parole. Ma il contrapposto si sviluppa e acquista maggior rilievo.
— Anche la mia donna dorme, e non la morde cura nessuna, e non sa quanto io l’amo. Anzi, forse sogna la festa, e a quanti piacque e quanti piacquero a lei. —
La placidità universale, concentrata ora nella tranquilla immagine della sua donna che non lo pensa, gli fa sentire duramente la sua solitudine, non senza un movimento di gelosia inavvertito; e viene lo scoppio:
Intanto io chieggo Quanto a viver mi resti, e qui per terra Mi getto, e grido, e fremo. O giorni orrendi In cosí verde etate! |
Non è uno scoppio di collera, non incolpa nessuno, giace sotto il suo dolore senza eco nella indifferenza universale. In questa prostrazione la poesia sarebbe finita, ma ripiglia per nuova occasione. Ode il canto notturno dell’artigiano, che dopo i sollazzi torna al povero ostello, portandosi in capo ancora l’allegria della festa. Egli è contento, lui ha goduto della festa, e gode ancora cantando, felice nella sua povertà. O cosa importa a lui il passato e l’avvenire? Si gode la placida notte e la queta luna, e canta e non pensa altro. Ma il giovane guarda il mondo con l’occhio del dolore, e quel canto di notte, nel silenzio di tutte le cose, ultima eco della festa, gli è il suono funebre della campana che gli annunzia che tutto passa:
Ecco, è fuggito Il dì festivo, ed al festivo il giorno Volgar succede, e se ne porta il tempo Ogni umano accidente. |