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xi. 1819 - gl’idillii | 95 |
Fanciullo, gli pareva che l’infelicità venisse dalla malvagità, e sentiva sdegno contro i malvagi, e dolore della virtù sventurata. Ma ora nella sua tristezza non è più scintilla d’ira, e la vita non gli par più degna di esser contesa perché sono infelici tutti, schiavi e tiranni, oppressi ed oppressori, buoni e cattivi. Fanciullo, avea mal animo contro gli sciocchi e gli ignoranti, e ora cerca di confondersi con loro, e tiene con ambe le mani afferrati gli ultimi avanzi della fanciullezza, quando sperava e sognava la felicità, e sperando e sognando la godeva. E quel tempo «è passato, e non tornerà più, certo mai più».
Insieme colla fanciullezza è finito il mondo e la vita per me, e per tutti quelli che pensano e sentono; sicché non vivono fino alla morte se non quei molti che restano fanciulli tutta la vita.
È chiaro che questo giovane, il quale si sente infelice, perché pensa e sente, e porta invidia agl’ignoranti e a’ perpetui fanciulli, deve considerare come un «formidabile deserto» un mondo senza ideali e senza scopo, e la vita, vacua di ogni speranza, poco diversa dalla morte. E si sente quanto strazio in queste parole tranquille di un vivo che si sente morto:
Non ti affannare per me, ché dove manca la speranza non resta più luogo all’inquietudine, ma piuttosto amami tranquillamente come non destinato a veruna cosa, anzi certo d’esser già vissuto.
Chi ricorda le prime lettere a Giordani, così eloquenti, con tanto spargimento di cuore, vedrà qual cammino si è fatto. Allora egli era un fanciullo; ora pensa e sente.
Il cattolico non ci è più e neppure il cristiano. La religione se n’è ita nella sfera delle illusioni, raggiunta dalla virtù, dalla