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xi. 1819 - gl’idillii | 103 |
Nascemmo al pianto, Disse, ambedue; felicità non rise Al viver nostro; e dilettossi il cielo De’ nostri affanni. |
Ma nella comune infelicità il sentimento è diverso e dà una movenza al dialogo. La giovanetta non ha emozioni. Sul suo viso è l’immobilità del suo destino. Parla come una legge o un oracolo.
Quella sua tristezza è monotona, come l’impassibile voce del vero. E parrebbe un’astrazione intellettuale, se un’aria di dolce rassegnazione e di affettuosa pietà non desse alla sua tristezza una certa grazia, come di donna viva e bella:
Io di pietade avara Non ti fui mentre vissi, ed or non sono. Che fui misera anch’io. Non far querela Di questa infelicissima fanciulla. |
Nel giovane al contrario la vita ribolle, quantunque si dichiari vecchio e conosca la vanità della vita. La vivacità delle sue impressioni contrasta con l’impassibilità sepolcrale di quella voce. Ella dice cose terribili, fra l’altre che il cielo si dilettò dei loro affanni, e lo dice in forma di sentenza, e non pare in lei o sdegno, o dolore o ironia o altro movimento del cuore. Ma quei detti a lui schiantano il cuore. Anche lui sa che la vita è vanità, che vita e morte è il medesimo, che tutto è illusione, anche la bellezza, anche l’amore; e piange, e si lamenta, e gli si stringe il cuore, e sente il tocco di quella destra, e gli si rinnova l’amore, nel seno della morte gli si rinnova l’amore, l’illusione ritorna