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92 | giacomo leopardi |
Sono stonature, qualche passaggio brusco, qualche tono troppo solenne e fin tragico, qualche reminiscenza classica: soprattutto quella donna appena concepita che «gli aprì tanta piaga nel petto».
Con questi idillii si accompagnavano i soliti castelli in aria. L’idea fissa era lasciare Recanati. Ma come? Andare a Roma secondo il consiglio di Giordani? E come vivere?, giacché «nunziature e cose tali sono per li preti». Entrare nell’Accademia ecclesiastica con quattordici scudi al mese? Ma con questo «non hanno appena la metà del bisognevole» e «mio padre è stradeliberato di non darmi un mezzo baiocco fuori di casa». Tentò sino una fuga in Lombardia, e fu scoperto e non fu lasciato fare. La noia derivata dalla impossibilità dello studio, le «orribili malinconie» e i «tormenti» che gli procurava la sua strana immaginazione, la tirannide domestica, «la differenza dei princìpi non appianabile», il sentirsi rimpiccolire in quell’angusto ambiente, desiderio di collocamento, di gloria, di vasti orizzonti spiegano quel tentativo. «Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, scrive al padre, e soffrire piuttosto che annoiarmi.»
Tra questi vani pensieri ci erano progetti ancora più vani. A forza di dolore gli era riuscito di leggere l’Apologia di Lorenzino de' Medici, e s’era confermato nel parere che «le strutture e i luoghi più eloquenti sieno dov’altri parla di sé medesimo». Le sue idee sulla nostra letteratura diventano piú concrete.
Quei già così cari cinquecentisti li chiama ora «miserabili», e la loro lingua è «arrabbiata e dura per gli affettatissimi latinismi»; dove «quegli che parla di sé medesimo non ha tempo, né voglia di fare il sofista, e cercar luoghi comuni, ché allora ogni vena più scarsa mette acqua che basta, e lo scrittore cava tutto da sé, non lo deriva da lontano». Con quest’occhio più acuto ripete il suo giudizio che quasi tutto è a rifare. E i disegni gli si ac-