Elegia di madonna Fiammetta (Laterza, 1939)/Capitolo Primo

Capitolo primo

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Prologo Capitolo Secondo

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CAPITOLO I

Nel quale la donna descrive chi essa fosse, e per quali segnali li suoi futuri mali le fossero premostrati, e in che tempo, e dove, e in che modo, e di cui ella s’innamorasse, col seguito diletto.

Nel tempo nel quale la rivestita terra piú che tutto l’altro anno si mostra bella, da parenti nobili procreata venni io nel mondo, da benigna fortuna e abbondevole ricevuta. Oh maladetto quello giorno, e a me piú abominevole che alcuno altro, nel quale io nacqui! Oh quanto piú felice sarebbe stato se nata non fossi, o se dal tristo parto alla sepoltura fossi stata portata, né piú lunga etá avessi avuta, che i denti seminati da Cadmo1, e ad una ora cominciate e rotte avesse Lachesis2 le sue fila! Nella picciola etá si sarebbero rinchiusi gl’infiniti guai, che ora di scrivere trista cagione mi sono. Ma che giova ora di ciò dolersi? Io ci pur sono, e cosí è piaciuto e piace a Dio che io ci sia. Ricevuta adunque, sí come è detto, in altissime delizie, e in esse nutrita, e dall’infanzia nella vaga puerizia tratta, sotto reverenda maestra, qualunque costume a nobile giovane si conviene, apparai. E come la mia persona negli anni trapassanti crescea, cosí le mie bellezze, de’ miei mali speciale cagione, multiplicavano. Oimè! che io, ancora che picciola fossi, udendole a molti lodare, me ne gloriava, e loro con sollecitudini e arti faceva maggiori.

Ma giá dalla fanciullezza venuta ad etá piú compiuta, meco dalla natura ammaestrata sentendo quali disii a’ giovani possono porgere le vaghe donne, conobbi che la mia bellezza, [p. 6 modifica] miserabile dono a chi virtuosamente di vivere disidera, piú miei coetanei giovanetti, e altri nobili accese di fuoco amoroso. E me con atti diversi, male allora da me conosciuti, volte infinite tentarono di quello accendere di che essi ardevano, e che me dovea piú che altra non riscaldare, anzi ardere nel futuro; e da molti ancora con istantissima sollecitudine in matrimonio fui addomandata; ma poi che de’ molti uno, a me per ogni cosa dicevole, m’ebbe, quasi fuori di speranza cessò la infestante turba degli amanti da sollecitarmi con gli atti suoi. Io, adunque, debitamente contenta di tale marito, felicissima dimorai infino a tanto che il furioso amore, con fuoco non mai sentito, non entrò nella giovane mente. Oimè! che niuna cosa fu mai che il mio disio o d’alcuna altra donna dovesse chetare, che prestamente a mia satisfazione non venisse. Io era unico bene e felicitá singulare del giovane sposo, e cosí egli da me era egualmente amato, come egli mi amava. Oh quanto piú che altra mi potrei io dire felice, se sempre in me fosse durato cotale amore!

Vivendo adunque contenta, e in festa continua dimorando, la fortuna, sùbita volvitrice delle cose mondane, invidiosa de’ beni medesimi che essa avea prestati, volendo ritrarre la mano, né sappiendo da qual parte mettere li suoi veleni, con sottile argomento a’ miei occhi medesimi fece all’avversitá trovare via, e certo niuna altra che quella onde entrò v’era al presente. Ma gl’iddii, a me favorevoli ancora e a’ miei fatti di me piú solleciti, sentendo le occulte insidie di costei, vollero, se io prendere l’avessi sapute, armi porgere al petto mio, acciò che disarmata non venissi alla battaglia nella quale io dovea cadere; e con aperta visione ne’ miei sonni, la notte precedente al giorno il quale a’ miei danni dovea dare principio, mi chiarirono delle future cose in cotale guisa.

A me, nello ampissimo letto dimorante con tutti li membri risoluti nell’alto sonno, pareva, in un giorno bellissimo e piú chiaro che alcuno altro, essere, non so di che, piú lieta che mai; e con questa letizia, a me, sola fra verdi erbette, era avviso sedere in un prato dal cielo difeso e da’ suoi lumi [p. 7 modifica] úda diverse ombre d’alberi vestiti di nuove frondi; e in quello diversi fiori avendo colti, de’ quali tutto il luogo era dipinto, con le candide mani, in uno lembo de’ miei vestimenti raccoltili, fiore da fiore sceglieva, e degli scelti leggiadra ghirlandetta faccendo, ne ornava la testa mia. E cosí ornata levatami, quale Proserpina3 allora che Pluto la rapí alla madre, cotale m’andava per la nuova primavera cantando; poi, forse stanca, tra la piú folta erba a giacere postami, mi posava. Ma non altramente il tenero piè d’Euridice4 trafisse il nascoso animale, che me sopra l’erbe distesa, una nascosa serpe venente tra quelle, parve che sotto la sinistra mammella mi trafiggesse; il cui morso, nella prima entrata degli acuti denti, parea che mi cocesse; ma poi, assicurata, quasi di peggio temendo, mi pareva mettere nel mio seno la fredda serpe, immaginando lei dovere, col beneficio del caldo del proprio petto, rendere a me piú benigna. La quale, piú sicura fatta per quello e piú fiera, al dato morso raggiunse la iniqua bocca, e dopo lungo spazio, avendo molto del nostro sangue bevuto, mi pareva che, me renitente, uscendo del mio seno, vaga vaga fra le prime erbe col mio spirito si partisse. Nel cui partire il chiaro giorno turbato, dietro a me vegnendo, mi copria tutta, e secondo l’andare di quella cosí la turbazione seguitava, quasi come a lei tirante fosse la moltitudine de’ nuvoli appiccata, e seguissela; e non dopo molto, come bianca pietra gittata in profonda acqua a poco a poco si toglie alla vista de’ riguardanti, cosí si tolse agli occhi miei. Allora il cielo di somme tenebre chiuso vidi, e quasi partitosi il sole, e la notte tornata pensai, quale a’ Greci tornò nel peccato d’Atreo5; e le corruscazioni correano per quello senza alcuno ordine, e i crepitanti tuoni spaventavano le terre e me similemente. Ma la piaga, la quale infino a quella ora per la sola morsura m’avea stimolata, piena rimasa di veleno vipereo, non valendovi medicina, quasi tutto il corpo con enfiatura sozzissima parea che occupasse: laonde io, prima senza spirito non so come parendomi essere rimasa, e ora sentendo la forza del veleno il cuore cercare per vie molto sottili, per le fresche erbe [p. 8 modifica] aspettando la morte mi voltolava. E giá l’ora di quella venuta parendomi, offesa ancora dalla paura del tempo avverso, fu sí grave la doglia del cuore quella aspettante, che tutto il corpo dormente riscosse, e ruppe il forte sonno; dopo il quale rotto, subito, paurosa ancora delle cose vedute, con la destra mano corsi al morso lato, quello nel presente cercando che nel futuro m’era apparecchiato; e senza alcuna piaga trovandolo, quasi rallegrata e sicura, le sciocchezze de’ sogni cominciai a deridere, e cosí vana feci degl’iddii la fatica. Ahi, misera me! Quanto giustamente, se io li schernii allora, poi con mia grave doglia gli ho veri creduti, e piantili senza frutto, non meno degl’iddíi dolendomi, li quali con tanta oscuritá alle grosse menti dimostrano i loro segreti, che quasi non mostrati se non avvenuti si possono dire! Io, adunque, escitata, alzai il sonnacchioso capo, e per picciolo buco vidi entrare nella mia camera il nuovo sole; per che, ogni altro pensiero gittato via, subito mi levai.

Quello giorno era solennissimo quasi a tutto il mondo; per che, io con sollecitudine li drappi di molto oro rilucenti vestitami e con maestra mano di me ornata ciascuna parte, simile alle dèe vedute da Paris6 nella valle d’Ida tenendomi, per andare alla somma festa m’apparecchiai. E mentre che tutta mi mirava, non altramente che il pavone le sue penne, immaginando di cosí piacere ad altrui come io a me piacea, non so come, uno fiore della mia corona preso dalla cortina del letto mio o forse da celestiale mano da me non veduta, quella di capo trattami, cadde in terra: ma io, non curante alle occulte cose dagl’iddíi dimostrate, quasi come non fosse, ripresala, sopra il capo la mi riposi, e oltre andai. Oimè! che segnale piú manifesto di quello che avvenne mi poteano dare gl’iddíi? Certo niuno. Questo bastava a dimostrarmi che quello giorno la mia libera anima, e di sé donna, diposta la sua signoria, serva dovea divenire, come avvenne. Oh, se la mia niente fosse stata sana, quanto quel giorno a me nerissimo avrei conosciuto, e senza uscire di casa l’avrei trapassato! Ma gl’iddii, a coloro verso i quali essi sono [p. 9 modifica] adirati, benché della loro salute porgano ad essi segno, elli privano loro del conoscimento debito; e cosí ad una ora mostrano di fare il loro dovere, e saziano l’ira loro. La fortuna mia adunque me vana e non curante sospinse fuori; e accompagnata da molte, con lento passo pervenni al sacro tempio, nel quale giá il solenne ufício debito a quel giorno si celebrava.

La vecchia usanza e la mia nobiltá m’avea tra l’altre donne assai eccellente luogo servato, nel quale poi che assisa fui, servato il mio costume, gli occhi subitamente in giro volti, vidi il tempio d’uomini e di donne parimente ripieno, e in varie caterve diversamente operare. Né prima, celebrandosi il sacro uficio, nel tempio sentita fui, che, sí come l’altre volte soleva avvenire, cosí e quella avvenne, che non solamente gli uomini gli occhi torsero a riguardarmi, ma eziandio le donne, non altramente che se Venere o Minerva, mai piú da loro non vedute, fossero in quello luogo, lá dove io era, novamente discese. Oh, quante fiate tra me stessa ne risi, essendone meco contenta, e non meno che una dea gloriandomi di tale cosa! Lasciate adunque quasi tutte le schiere de’ giovani di mirare l’altre, a me si posero d’intorno, e diritti quasi in forma di corona mi circuivano, e variamente fra loro della mia bellezza parlando, quasi in una sentenza medesima concludendo la laudavano. Ma io che, con gli occhi in altra parte voltati, mostrava me d’altra cura sospesa, tenendo gli orecchi a’ ragionamenti di quelli sentiva disiderata dolcezza, e quasi loro parendomene essere obbligata, tale fiata con piú benigno occhio li rimirava; e non una volta m’accorsi, ma molte, che di ciò alcuni vana speranza pigliando co’ compagni vanamente se ne gloriavano.

Mentre che io in cotal guisa, poco alcuni rimirando, e molto da molti mirata, dimoro, credendo che la mia bellezza altrui pigliasse, avvenne che l’altrui me miseramente prese. E giá essendo vicina al doloroso punto, il quale o di certissima morte o di vita piú che altra angosciosa dovea essere cagione, non so da che spirito mossa, gli occhi con debita [p. 10 modifica] gravitá elevati, intra la moltitudine de’ circustanti giovani con aguto riguardamelo distesi: e oltre a tutti, solo e appoggiato ad una colonna marmorea, a me dirittissimamente uno giovane opposto vidi; e, quello che ancora fatto non avea d’alcuno altro, da incessabile fato mossa, meco lui e li suoi modi cominciai ad estimare. Dico che, secondo il mio giudicio, il quale ancora non era da amore occupato, egli era di forma bellissimo, negli atti piacevolissimo e onestissimo nell’abito suo, e della sua giovanezza dava manifesto segnale crespa lanugine, che pur mo’ occupava le guancie sue; e me non meno pietoso che cauto rimirava tra uomo e uomo. Certo io ebbi forza di ritrarre gli occhi da riguardarlo alquanto, ma il pensiero, dell’altre cose giá dette estimante, niuno altro accidente, né io medesima sforzandomi, mi potè tôrre. E giá nella mia mente essendo l’effigie della sua figura rimasa, non so con che tacito diletto meco la riguardava, e quasi con piú argomenti affermate vere le cose che di lui mi pareano, contenta d’essere da lui riguardata, talvolta cautamente se esso mi riguardasse mirava.

Ma intra l’altre volte che io, non guardandomi dagli amorosi lacciuoli, il mirai, tenendo alquanto piú fermi che l’usato ne’ suoi gli occhi miei, a me parve in essi parole conoscere dicenti: «O donna, tu sola se’ la beatitudine nostra». Certo, se io dicessi che esse non mi fossero piaciute, io mentirei; anzi si mi piacquero, che esse del petto mio trassero un soave sospiro, il quale veniva con queste parole: «E voi la mia». Se non che io, di me ricordandomi, gli le tolsi. Ma che valse? Quello che non si esprimea, il cuore lo ’ntendeva con seco, in sé ritenendo ciò che, se di fuori fosse andato, forse libera ancora sarei. Adunque, da questa ora innanzi concedendo maggiore arbitrio agli occhi miei folli, di quello che essi erano giá vaghi divenuti li contentava; e certo, se gl’iddíi, li quali tirano a conosciuto fine tutte le cose, non m’avessero il conoscimento levato, io poteva ancora essere mia; ma ogni considerazione all’ultimo posposta, seguitai l’appetito, e subitamente atta divenni a potere essere presa; per che, non [p. 11 modifica] altramente il fuoco se stesso d’una parte in un’altra balestra, che una luce, per un raggio sottilissimo trascorrendo, da’ suoi partendosi, percosse negli occhi miei, né in quelli contenta rimase, anzi, non so per quali occulte vie, subitamente al cuore penetrando ne gío. Il quale, nel súbito avvenimento di quella temendo, rivocate a sé le forze esteriori, me pallida e quasi freddissima tutta lasciò; ma non fu lunga la dimoranza, che il contrario sopravvenne, e lui non solamente fatto fervente sentii, anzi le forze tornate ne’ luoghi loro, seco uno calore arrecarono, il quale, cacciata la pallidezza, me rossissima e calda rendè come fuoco, e quello mirando onde ciò procedeva, sospirai. Né da quell’ora innanzi niuno pensiero in me poteo, se non di piacergli.

A cosí fatti sembianti, esso, senza mutare luogo, cautissimo riguardava, e forse, sí come esperto in piú battaglie amorose, conoscendo con quali armi si doveva la disiata preda pigliare, ciascuna ora con umiltá maggiore pietosissimo si mostrava e pieno d’amoroso disio. Oimè! quanto inganno sotto sé quella pietá nascondea, la quale, secondo che gli effetti ora dimostrano, partitasi dal cuore, ove mai poi non ritornò, fittizia si mostrò nel suo viso. E acciò che io non vada ogni suo atto narrando, de’ quali ciascuno era pieno di maestrevole inganno, o egli che l’operasse, o i fati che ’l concedessono, in sí fatta maniera andò, che io, oltre ad ogni potere raccontare, da súbito e inopinato amore mi trovai presa, e ancora sono.

Questi adunque, o pietosissime donne, fu colui il quale il mio cuore con folle estimazione fra tanti nobili, belli e valorosi giovani, quanti non solamente quivi presenti, ma eziandio in tutta la mia Partenope erano, primo, ultimo e solo, elessi per signore della mia vita; questi fu colui, il quale io amai e amo piú che alcuno altro; questi fu colui, il quale dovea essere principio e cagione d’ogni mio male, e, come io spero, di dannosa morte. Questo fu quel giorno, nel quale io prima, di libera donna, divenni miserissima serva; questo fu quel giorno, nel quale io prima amore, non [p. 12 modifica] mai prima da me conosciuto, conobbi; questo fu quel giorno, nel quale primieramente li venerei veleni contaminarono il puro e casto petto. Oimè misera! quanto male per me nel mondo venne sí fatto giorno! Oimè! quanto di noia e d’angoscia sarebbe da me lontana, se in tenebre si fosse mutato sí fatto giorno! Oimè misera! quanto fu al mio onore nemico sí fatto giorno! Ma che? Le preterite cose mal fatte, si possono molto piú agevolmente biasimare che emendare. Io fui pur presa, sí come è detto; e qualunque si fosse quella o infernal furia, o inimica fortuna che alla mia casta felicitá invidia portasse, ad essa insidiando, questo di con speranza d’infallibile vittoria si potè rallegrare.

Soppresa adunque dalla passione nuova, quasi attonita e di me fuori, sedeva infra le donne, e li sacri uficii, appena da me uditi non che intesi, passare lasciava, e similemente delle mie compagne li ragionamenti diversi. E sí tutta la mente avea il nuovo e súbito amore occupata, che, o con gli occhi o col pensiero sempre l’amato giovane riguardava, e quasi con meco medesima non sapeva qual fine di sí fervente disio io mi chiedessi. Oh quante volte, disiderosa di vederlomi piú vicino, biasimai io il suo dimorare agli altri di dietro, quello tiepidezza estimando, che egli usava a cautela; e giá mi noiavano i giovani a lui stanti dinanzi, de’ quali mentre io fra loro alcuna volta il mio intendimento mirava, alcuni, credendosi che in loro il mio guardare terminasse, si credettero forse da me essere amati. Ma, mentre che in cotali termini stavano li miei pensieri, si fini l’uficio solenne, e giá per partirsi erano le mie compagne levate, quando io, rivocata l’anima, che d’intorno alla immagine del piaciuto giovane andava vagando, il conobbi. Levata adunque con l’altre, e a lui gli occhi rivolti, quasi negli atti suoi vidi quello, che io ne’ miei a lui m’apparecchiava di dimostrare, e mostrai, cioè che il partire mi doleva. Ma pure, dopo alcuno sospiro, ignorando chi elli si fosse, mi dipartii.

Deh, pietose donne, chi crederá possibile in un punto uno cuore cosí alterarsi? Chi dirá che persona mai piú non [p. 13 modifica] veduta sommamente si possa amare nella prima vista? Chi penserá accendersi sí di vederla il disio, che, dalla vista di quella partendosi, senta gravissima noia, solo disiderando di vederla? Chi immaginerá tutte l’altre cose, per addietro molto piaciute, a rispetto della nuova spiacere? Certo niuna persona, se non chi provato l’avrá o pruova come fo io. Oimè! che Amore cosí come ora in me usa crudeltá non udita, cosí nel pigliarmi nuova legge dagli altri diversa gli piacque usare! Io ho piú volte udito, che negli altri i piaceri sono nel principio levissimi, ma poi, da’ pensieri nutricati, aumentando le forze loro, si fanno gravi; ma in me cosí non avvenne, anzi con quella medesima forza m’entrarono nel cuore, che essi vi sono poi dimorati, e dimorano. Amore il primo dí di me ebbe interissima possessione; e certo sí come il verde legno malagevolissimamente riceve il fuoco, ma quello ricevuto piú conserva e con maggior caldo, cosí a me avvenne. Io, avanti non vinta da alcuno piacere giammai, tentata da molti, ultimamente vinta da uno, e arsi e ardo, e servai e servo piú che altra facesse giammai nel preso fuoco.

Lasciando molti pensieri che nella mente quella mattina, con accidenti diversi, mi furono, oltre alli raccontati, dico che di nuovo furore accesa, con l’anima fatta serva, lá onde libera l’avea tratta, mi ritornai. Quivi, poi che nella mia camera sola e oziosa mi ritrovai, da diversi disii accesa, e piena di nuovi pensieri, e da molte sollecitudini stimolata, ogni fine di quelli nella immaginata effigie del piaciuto giovane terminando, pensai che, se amore da me cacciare non poteasi, almeno cauto si reggesse e occulto nel tristo petto; la qual cosa quanto sia dura a fare nullo il può sapere, se nol pruova. Certo io non credo che ella faccia meno noia che amore stesso. E in tale proponimento fermata, non sappiendo ancora di cui, me con meco medesima chiamava innamorata.

Quanti e quali fossero in me da questo amore li pensieri nati, lungo sarebbe tutti volerli narrare; ma alquanti, quasi sforzandomi, mi tirano a dichiararsi, con alcune cose oltre [p. 14 modifica] all’usato incominciatemi a dilettare. Dico adunque che, avendo ogni altra cosa posposta, solo il pensare all’amato giovane m’era caro, e parendomi che, in questo perseverando, forse quello che io intendeva celare si potrebbe presumere, me piú volte di ciò ripresi; ma che giovava? Le mie riprensioni davano luogo larghissimo alli miei disii, e inutili si fuggivano come venti. Io disiderai piú giorni sommamente di sapere chi fosse l’amato giovane, a che nuovi pensieri mi dierono aperta via, e cautamente il seppi, di che non poco contenta rimasi. Similmente gli ornamenti, de’ quali io prima, sí come poco bisognosa di quelli, niente curava, mi cominciarono ad essere cari, pensando piú ornata piacere; e quindi li vestimenti, l’oro, e le perle, e l’altre preziose cose, piú che prima pregiai. Io infino a quella ora alli templi, alle feste, alli marini liti e alli giardini andata senza altra vaghezza che solamente con le giovani ritrovarmi, cominciai con nuovo disio li detti luoghi a cercare, pensando che e vedere e veduta potrei essere con diletto. Ma veramente mi fuggí la fidanza, la quale io nella mia bellezza soleva avere, e mai fuori di sé la mia camera non m’avea, senza prima pigliare del mio specchio il fidato consiglio, e le mie mani, non so da che maestra nuovamente ammaestrate, ciascuno giorno piú leggiadra ornatura trovando, aggiunta l’artificiale alla naturale bellezza, tra l’altre splendidissima mi rendeano.

Gli onori similmente a me fatti per propria cortesia dalle donne, ancora che forse alla mia nobiltá s’affacessero, quasi debiti cominciai a volerli, pensando che, al mio amante parendo magnifica, piú giustamente mi gradirebbe; l’avarizia, nelle femine innata, da me fuggendosi, cotale mi lasciò, che cosí le mie cose come non mie m’erano care, e liberale diventai; l’audacia crebbe, e alquanto mancò la feminile tiepidezza, me follemente alcuna cosa piú cara reputando che prima; e oltre a tutto questo, gli occhi miei, infino a quel dí stati semplici nel guardare, mutarono modo, e mirabilmente artificiosi divennero al loro oficio. Oltre a queste, ancora molte altre mutazioni in me apparirono, le quali tutte non curo di [p. 15 modifica] contare, sí perché troppo sarebbe lungo, e sí perché credo che voi, sí come me innamorate, conosciate quante e quali sieno quelle che a ciascuna avvengono posta in cotal caso.

Era il giovane avvedutissimo, sí come piú volte esperienza rendè testimonio. Egli rade volte e onestissimamente venendo colá dove io era, quasi quel medesimo avesse proposto che io, cioè di celare in tutto l’amorose fiamme, con occhio cautissimo mi mirava. Certo, s’io negassi che, quando ciò mi avveniva che io il vedessi, amore, quantunque fosse in me si possente che piú non potea alcuna cosa quasi l’anima ampliando per forza crescesse, io negherei il vero. Egli allora in me le fiamme accese facea piú vive, e non so quali spente, se alcuna ve n’era, accendeva; ma in questo non era sí lieto il principio, che la fine non rimanesse piú trista, qualora della vista di quello rimanea privata; perciò che gli occhi, della loro allegrezza privati, davano al cuore noiosa cagione di dolersi, di che i sospiri, in quantitá e in qualitá diventavano maggiori, e il disio, quasi ogni mio sentimento occupando, mi toglieva di me medesima, e quasi non fossi dov’era, feci piú volte maravigliare chi mi vide, dando poi a cotali accidenti cagioni infinite, da amore medesimo insegnate. E oltre a questo, sovente la notturna quiete e il continuo cibo togliendomi, alcuna volta ad atti piú furiosi che súbiti, e a parole mi moveano inusitate.

Ecco che li cresciuti ornamenti, gli accesi sospiri, li nuovi atti, li furiosi movimenti, la perduta quiete, e l’altre cose in me per lo nuovo amore venute, tra gli altri domestici familiari a maravigliarsi mossero una mia balia, d’anni antica e di senno non giovane, la quale, giá seco conoscendo le triste fiamme, mostrando di non conoscerle, piú fiate mi riprese de’ nuovi modi. Ma pure un giorno me trovando sopra il mio letto malinconosa giacere, vedendo di pensieri carica la mia fronte, poi che d’ogni altra compagnia ci vide libere, cosí cominciò a parlare:

— O figliuola a me come me medesima cara, quali sollecitudini da poco tempo in qua ti stimolano? Tu niuna ora [p. 16 modifica] trapassi senza sospiri, la quale altra volta lieta, e senza niuna malinconia sempre vedere solea. —

Allora io, dopo un gran sospiro, d’uno in altro colore piú d’una volta mutatami, quasi di dormire infignendomi, e di non averla udita, ora qua ora lá rivolgendomi, per tempo prendere alla risposta, appena potendo la lingua a perfetta parola conducere, pur le risposi:

— Cara nutrice, niuna cosa nuova mi stimola, né piú sento che io mi sia usata; solamente li naturali córsi, non tenenti sempre d’una maniera li viventi, ora piú che l’usato mi fanno pensosa. —

— Certo, figliuola, tu m’inganni, — rispose la vecchia balia — né pensi quanto sia grave il fare alle persone attempate credere in parole una cosa, e un’altra negli atti mostrarne; egli non t’è bisogno celarmi quello che io, giá sono piú giorni, in te manifestamente conobbi. —

Oimè! che quando io udii cosi, quasi dolendomi e sperando e crucciandomi, le dissi:

— Dunque, se tu il sai, di che addimandi? A te piú non bisogna se non celare quello che conosci. —

— Veramente — disse ella allora — celerò io quello che non è licito che altri sappia; e avanti s’apra la terra, e me tranghiotta, che io mai cosa, che a te torni a vergogna, palesi; gran tempo è che io a tenere celate le cose apparai. E perciò di questo vivi sicura, e con diligenza guarda non altri conosca quello che io, senza dirlomi tu o altri, ne’ tuoi sembianti ho conosciuto. Ma, se quella sciocchezza, nella quale io ti conosco caduta, ti si conviene, se in quel senno fossi nel quale giá fosti, a te sola il lascerei a pensare, sicurissima che in ciò luogo il mio ammaestrare non avrebbe. Ma perciò che questo crudele tiranno, al quale, sí come giovane, non avendo tu presa guardia di lui, semplicemente ti se’ sommessa, suole insieme con la libertá il conoscimento occupare, mi piace di ricordarti e di pregarti che tu del casto petto esturbi e cacci via le cose nefande, e ispegni le disoneste fiamme, e non ti facci a turpissima speranza servente. E ora [p. 17 modifica] è tempo da resistere con forza, però che chi nel principio bene contrastette, cacciò il villano amore, e sicuro rimase e vincitore; ma chi con lunghi pensieri e lusinghe il nutrica, tardi può poi ricusare il suo giogo, al quale quasi volontario si sommise. —

— Oimè! — dissi io allora — quanto sono piú agevoli a dire queste cose che a menarle ad effetto! —

— Come ch’elle sieno a fare assai malagevoli, pure possibili sono, —disse ella — e fare si convengono. Vedi se l’altezza del tuo parentado, la gran fama della tua virtú, il fiore della tua bellezza, l’onore del mondo presente, e tutte quell’altre cose che a donna nobile debbono essere care, e sopra a tutte la grazia del tuo marito, da te tanto amato e tu da lui, per questa sola di perdere disideri. Certo volere nol dèi, né credo che ’l vogli, se savia teco medesima ti consigli. Dunque, per Dio, ritienti, e i falsi diletti promessi dalla sozza speranza caccia via, e con essi il preso furore. Io supplicemente, per questo vecchio petto e nelle molte cure affaticato, dal quale tu prima li nutritivi alimenti prendesti, ti priego che tu medesima t’aiuti, e alli tuoi onori provvegga, e li miei conforti in questo non rifiutare: pensa che parte della sanitá fu il volere essere guarita. —

Allora cominciai io:

— O cara nutrice, assai conosco vere le cose che narri; ma il furore mi costrigne a seguitare le peggiori, e l’animo consapevole, e ne’ suoi disiderii strabocchevole, indarno li tuoi consigli appetisce; e quello che la ragione vuole è vinto dal regnante furore. La nostra mente tutta possiede e signoreggia Amore con la sua deitá, e tu sai che non è sicura cosa alle sue potenzie resistere. —

E questo detto, quasi vinta, sopra le mie braccia ricaddi. Ma ella, alquanto piú che prima turbata, con voce piú rigida cominciò tali parole:

— Voi, turba di vaghe giovani, di focosa libidine accese, sospingendovi questa, vi avete trovato Amore essere iddio al quale piuttosto giusto titolo sarebbe furore; e lui di Venere [p. 18 modifica] chiamate figliuolo, dicendo che egli dal terzo cielo piglia le forze sue, quasi vogliate alla vostra follia porre necessitá per iscusa. O ingannate, e veramente di conoscimento in tutto fuori! Che è quello che voi dite? Costui, da infernale furia sospinto, con súbito volo visita tutte le terre, non deitá, ma piuttosto pazzia di chi il riceve, benché esso non visiti al piú se non quelli, li quali, di soperchio abbondanti nelle mondane felicitá, conosce con gli animi vani e atti a fargli luogo: e questo ci è assai manifesto. Ora non veggiamo noi Venere santissima7 abitare nelle picciole case sovente, solamente, e utile al necessario nostro procreamento? Certo sí; ma questi, il quale, per furore, Amore è chiamato, sempre le dissolute cose appetendo, non altrove s’accosta che alla seconda fortuna. Questi, schifo cosí di cibi alla natura bastevoli come di vestimenti, li dilicati e risplendenti persuade, e con quelli mescola i suoi veleni, occupando l’anime cattivelle; per che, costui cosí volentieri gli alti palagi colente, nelle povere case rade volte si vede o non giammai; però che è pestilenza, che sola elegge i dilicati luoghi, sí come piú al fine delle sue operazioni inique conformi. Noi veggiamo nell’umile popolo gli affetti sani, ma li ricchi d’ogni parte di ricchezze splendenti, cosí in questo come nell’altre cose insaziabili, sempre piú che il convenevole cercano, e quello che non può chi molto può disidera di potere: de’ quali te medesima sento essere una, o infelicissima giovane, in nuova sollecitudine e isconcia entrata per troppo bene. —

Alla quale dopo il molto averla ascoltata, io dissi:

— O vecchia, taci, e contro agl’iddii non parlare. Tu oramai a questi effetti impotente, e meritamente rifiutata da tutti, quasi volontaria parli contro di lui, quello ora biasimando che altra volta ti piacque. Se l’altre donne di me piú famose, savie e possenti, cosí per addietro l’hanno chiamato e chiamano, io non gli posso dare nome di nuovo; a lui sono veramente suggetta, quale che di ciò si sia la cagione, o la mia felicitá o la mia sciagura, e piú non posso. Le forze mie, piú volte alle sue oppostesi, vinte, indietro si [p. 19 modifica] sono tirate. Adunque, o la morte o il giovane disiato resta per sola fine alle mie pene, alle quali tu, piuttosto, se cosí se’ savia come io ti tengo, porgi consiglio e aiuto, il quale minori le faccia, io te ne priego, o tu ti rimani di inasprirle, biasimando quello a che l’anima mia, non potendo altro, con tutte le sue forze è disposta. —

Ella allora sdegnando, e non senza ragione, senza rispondermi, non so che mormorando con seco, me, della camera uscita, lasciò soletta.

Giá s’era, senza piú favellarmi, partita la cara balia, li cui consigli male per me rifiutai, e io, sola rimasa, le sue parole nel sollecito petto fra me volgea; e ancora che abbagliato fosse il mio conoscimento, di frutto le sentiva piene e quasi ciò che assertivamente avea davanti a lei detto di voler pur seguire, pentendomi nella mente mi vacillava, e giá cominciando a pensare di volere lasciare andare le cose meritevolmente dannose, lei voleva richiamare alli miei conforti; ma nuovo e súbito accidente me ne rivolse, però che nella segreta mia camera, non so onde venuta, una bellissima donna s’offerse agli occhi miei, circundata da tanta luce che appena la vista la sostenea. Ma pure stando essa ancora tacita nel mio cospetto, quanto potei per lo lume gli occhi aguzzare tanto li pinsi avanti, infino a tanto che alla mia conoscenza pervenne la bella forma, e vidi lei ignuda, fuori solamente d’un sottilissimo drappo purpureo, il quale, avvegna che in alcune parti il candidissimo corpo coprisse, di quello non altramente toglieva la vista a me mirante, che posta figura sotto chiaro vetro; e la sua testa, li capelli della quale tanto di chiarezza l’oro passavano, quanto l’oro, de’ nostri passa li vie piú biondi, avea coperta d’una ghirlanda di verdi mortine, sotto l’ombra della quale io vidi due occhi di bellezza incomparabile, e vaghi a riguardare oltremodo, rendere mirabile luce, e tanto tutto l’altro viso avea bello quanto quaggiú a quello simile non si truova. Ella non dicea alcuna cosa, anzi o forse contenta ch’io la riguardassi, ovvero me vedendo di riguardarla contenta, a poco a poco tra la fulvida luce di [p. 20 modifica] sé le belle parti m’apriva piú chiare, perché io bellezze in lei da non potere con lingua ridire, né senza vista pensare intra’ mortali, conobbi. La quale poi che sé da me considerata per tutto s’avvide, veggendomi maravigliare e della sua beltade e della sua venuta quivi, con lieto viso e con voce piú che la nostra assai soave, cosí verso me cominciò a parlare:

— O giovane, assai piú che alcun’altra mobile, che per li nuovi consigli della vecchia balia t’apparecchi di fare? Non conosci tu che essi sono molto piú difficili a seguitare, che l’amore medesimo che disideri di fuggire? Non pensi tu, quanto e quale, e come importabile affanno essi ti serbino? Tu, stoltissima, nuovamente nostra, per le parole d’una vecchia, non nostra farti disíderi, sí come colei che ancora quali e quanti sieno i nostri diletti non sai. O poco savia, sostieni, e per le nostre parole riguarda se a te quello che al cielo e al mondo è bastato è assai. Quantunque Febo8, surgente co’ chiari raggi di Gange9, insino all’ora che nell’onde d’Esperia10 si tuffa con li lassi carri, alle sue fatiche dare requie, vede nel chiaro giorno, e ciò che tra ’l freddo Arturo11 e ’l rovente polo si chiude, signoreggia il nostro volante figliuolo12 senza alcuno niego. E ne’ cieli, non che egli sí come gli altri sia iddio, ma ancora vi è tanto piú che gli altri potente, quanto alcuno non ve n’è che stato non sia per addietro vinto dalle sue armi. Questi, con dorate piume leggierissimo in un momento volando per li suoi regni, tutti li visita, e il forte arco reggendo sovra il tirato nervo adatta le sue saette da noi fabbricate e temperate nelle nostre acque; e quando alcuno piú degno che gli altri elegge al suo servigio, quello prestissimamente manda ove gli piace.

«Egli commuove le ferocissime fiamme de’ giovani, e negli stanchi vecchi richiama gli spenti calori, e con non conosciuto fuoco delle vergini infiamma li casti petti, parimente le maritate e le vedove riscaldando. Questi con le sue fiaccole riscaldati gl’iddíi, comandò per addietro che essi, lasciati li cieli, con falsi visi abitassero le terre. Or non fu Febo vincitore del gran Fitone13, e accordatore delle cetere di Parnaso14, piú [p. 21 modifica] volte da costui soggiogato, ora per Danne15, ora per Climenes16 e quando per Leucotoe17, e per altre molte?18 Certo sí; «ultimamente, rinchiusa la sua gran luce sotto la vile forma d’un picciolo pastore, innamorato guardò gli armenti19 d’Ameto.

«Giove medesimo, il quale regge il cielo, costrignendolo costui, si vesti minor forma di sé. Egli alcuna volta in forma di candido uccello20, movendo l’ali diede voci piú dolci che ’l moriente cigno; e altra volta, divenuto giovenco21 e poste alla sua fronte corna, mugghiò per li campi, e i suoi dossi umiliò alli gioghi virginei, e per li fraterni regni con le fesse unghie, imitando ufício de’ remi, con forte petto vietando il profondo, godè della sua rapina. Quello che per Semelé22 nella propria forma facesse, quello che per Almena mutato in Anfitrione23, quello che per Calisto mutato in Diana24, o per Danae divenuto oro25 giá fece, non diciamo, che sarebbe troppo lungo. E il fiero iddio delle armi26, la cui rossezza ancora spaventa li giganti, sotto la sua potenza temperò li suoi aspri effetti, e divenne amante. E il costumato al fuoco fabbro di Giove, e facitore delle trisulche27 folgori, da quel di costui piú possente fu cotto; e noi similmente, ancora che madre gli siamo, non ce ne siamo potuta guardare, sí come le nostre lagrime fecero aperto nella morte d’Adone.28 Ma perché ci fatichiamo noi in tante parole? Niuna deitá è nel cielo da costui non ferita, se non Diana: questa sola, de’ boschi dilettandosi, l’ha fuggito, la quale, secondo l’oppinione d’alcuni, non fuggito, ma piuttosto nascoso.

«Ma se tu forse gli esempli del cielo incredula schifi e cerchi chi del mondo gli abbia sentiti, tanti sono, che da cui cominciare appena, ci occorre; ma tanto ti diciamo veramente, che tutti sono stati valorosi. Rimirisi primamente al fortissimo figliuolo di Almena, il quale, poste giú le saette e la minaccevole pelle del gran leone29, sostenne d’acconciarsi alle dita i verdi smeraldi, e di dar legge alli rozzi capelli, e con quella mano, con la quale poco innanzi portato avea la dura mazza e ucciso il grande Anteo30 e tirato lo ’nfernale cane31, trasse le fila della lana data da Jole dietro al precedente fuso, e gli [p. 22 modifica] omeri, sopra li quali l’alto cielo s’era posato mutando spalla Atlante, furono in prima dalle braccia di Jole premuti, e poi coperti, per piacerle, di sottili vestimenti di porpora. Che fece Paris per costui, che Elena, che Clitennestra32, e che Egisto, tutto il mondo il conosce; e similmente di Achille, di Silla33, di Adriana, di Leandro, di Didone, e di piú molti, non dico, ché non bisogna. Santo è questo fuoco, e molto potente, credimi. Udito hai il cielo e la terra soggiogata dal mio figliuolo negl’iddii e negli uomini; ma che dirai tu ancora delle sue forze, estendentisi negli animali irrazionali, cosí celesti come terreni? Per costui la tortora il suo maschio sèguita, e le nostre colombe34 alli suoi colombi vanno dietro con caldissima affezione, e nessun altro n’è che dalla maniera di questi fugga alcuna volta: e ne’ boschi li timidi cervi, fatti tra sé feroci quando costui li tocca per le disiderate cervie combattono, e, mugghiando, delli costui caldi mostrano segnali; e i pessimi cinghiari, divenendo per ardore spumosi, aguzzano gli eburnei denti; e i leoni africani, da amore tocchi, vibrano i colli. Ma, lasciando le selve, dico che li dardi del nostro figliuolo, ancora nelle fredde acque sentono le greggie de’ marini iddii, e de’ correnti fiumi. Né crediamo che occulto ti sia, quale testimonianza giá Nettuno35, Glauco e Aifeo36 e altri assai n’abbiano renduta, non potendo con le loro umide acque, non che spegnere, ma solamente alleviare la costui fiamma, la quale, ancora giá sopra terra e nell’acque saputa da ciascuno, se ne venne penetrando la terra e infino al re dell’oscure paludi si fe’ sentire.

«Adunque il cielo, la terra, il mare, lo ’nferno, per esperienza conoscono le sue armi; e acciò che io in brievi parole ogni cosa comprenda della potenza di costui, dico che ogni cosa alla natura soggiace, e da lei niuna potenza è libera, ed essa medesima è sotto Amore. Quando costui il comanda, gli antichi odii periscono, e le vecchie ire e le novelle danno luogo alli suoi fuochi; e ultimamente, tanto si distende il suo potere, che alcuna volta le matrigne fa graziose a’ figliastri, che è non picciola maraviglia. Dunque che cerchi? Che [p. 23 modifica] dubiti? Che mattamente fnggi? Se tanti iddíi, tanti uomini, tanti animali, da questi son vinti, tu d’essere vinta da lui ti vergognerai? Tu non sai che ti fare. Se tu forse di sottometterti a costui aspetti riprensione, ella non ci dèe potere cadere, perciò che mille falli maggiori, e il seguire ciò che gli altri piú di te eccellenti hanno fatto, te, come poco avendo fallito e meno potente che li giá detti, renderanno scusata.

«Ma se queste parole non ti muovono, e pure resistere vorrai, pensa la tua virtú non simile a quella di Giove, né in senno potere aggiugnere Febo, né in ricchezze Giunone, né noi in bellezze; e tutti siamo vinti. Dunque tu sola credi vincere? Tu se’ ingannata, e ultimamente pur perderai. Bastiti quello che per innanzi a tutto il mondo è bastato, né ti faccia a ciò tiepida il dire; ‘Io ho marito, e le sante leggi e la promessa fede mi vietano queste cose’; però che argomenti vanissimi sono contro alla costui virtú. Elli, sí come piú forte, l’altrui leggi non curando annullisce, e dá le sue. Pasife similmente avea marito, e Fedra, e noi ancora quando amammo. Essi medesimi mariti amano le piú volte avendo moglie: riguarda Giasone, Teseo, il forte Ettore e Ulisse. Dunque non si fa loro ingiuria, se per quelle leggi che essi trattano altrui, sono trattati essi; a loro niuna prerogativa piú che alle donne è conceduta, e però abbandona gli sciocchi pensieri, e sicura ama come hai cominciato. Ecco, se tu al potente Amore non vuoi soggiacere, fuggire ti conviene; e dove fuggirai tu ch’egli non ti sèguiti e non ti giunga? Egli ha in ogni luogo uguale potenza: dovunque tu vai, ne’ suoi regni dimori, ne’ quali alcuno non gli si può nascondere, quando gli piace il ferirlo. Bastiti solamente, o giovane, che di non abominevole fuoco, come Mirra, Semiramis37, Biblis38, Canace e Cleopatra39 fece, ti molesti. Niuna cosa nuova dal nostro figliuolo verso te sará operata: egli ha cosí leggi, come qualunque altro iddio, alle quali seguire tu non se’ la prima, né d’essere l’ultima dèi avere speranza. Se forse al presente ti credi sola, vanamente credi. Lasciamo stare l’altro mondo, che tutto n’è pieno; ma la tua cittá solamente rimira, la quale [p. 24 modifica] infinite compagne ti può mostrare; e ricòrdati che niuna cosa fatta da tanti, meritamente si può dire sconcia. Séguita adunque noi, e la molto riguardata bellezza con la deitá nostra vera ringrazia, la quale del numero delle semplici, a conoscere il diletto de’ nostri doni, t’abbiamo tirata».—

Deh, donne pietose, se Amore felicemente adempia i vostri disii, che doveva io, e che potea rispondere a tante e tali parole, e di tale dea, se non: «Sia come ti piace?». Adunque dico che ella giá tacea, quando io, le sue parole avendo nello ’ntelletto raccolte, fra me piene d’infinite scuse sentendole, e lei giá conoscendo, a ciò fare mi disposi. E subitamente del letto levatami, e poste con umile cuore le ginocchia in terra, cosí temorosa incominciai:

— O singulare bellezza eterna, o deitá celeste, o unica donna della mia mente, la cui potenza sente piú fiera chi piú si difende, perdona alla semplice resistenza fatta da me contro all’armi del tuo figliuolo, non conosciuto, e di me sia come ti piace, e come prometti, e a luogo e tempo merita la mia fede, acciò che io, di te tra l’altre lodandomi, cresca il numero de’ tuoi sudditi senza fine. —

Queste parole aveva io appena dette, quando ella del luogo dove stava mossasi, verso me venne, e con ferventissimo disio nel sembiante, abbracciandomi, mi baciò la fronte. Poi, quale il falso Ascanio, nella bocca a Didone alitando, accese l’occulte fiamme, cotale a me in bocca spirando fece li primi disii piú focosi, com’io sentii. E aperto alquanto il drappo purpureo, nelle sue braccia tra le dilicate mammelle, l’effigie dell’amato giovane, ravvolta nel sottile pallio, con sollecitudini alle mie non dissimili, mi fece vedere, e cosí disse:

— O giovane donna, riguarda costui: non Lissa, non Geta, non Birria, né loro pari t’abbiamo per amante donato: egli è per ogni cosa degno d’essere da qualunque dea amato; te piú che se medesimo, sí come noi abbiamo voluto, ama, e amerá sempre; e però lieta e sicura nel suo amore t’abbandona. Li tuoi prieghi hanno con pietá tocchi li nostri orecchi sí come degni, e però spera che secondo l’opera senza fallo merito prenderai. — [p. 25 modifica]

E quinci senza piú dire súbita si tolse agli occhi miei.

Oimè misera! che io non dubito che, le cose seguite mirando, non Venere costei che m’apparve, ma Tesifone fosse piuttosto, la quale, posti giú gli spaventevoli crini non altramente che Giunone la chiarezza della sua deitá, e vestita la splendida forma, quale quella si vestí la senile, cosí mi si fece vedere come essa a Semelè, simigliante consiglio di distruzione ultima, qual fece ella, porgendomi; il quale io miseramente credendo, o pietosissima fede, o reverenda vergogna, o castitá santissima, delle oneste donne unico e caro tesoro, mi fu cagione di cacciarvi. Ma perdonatemi, se penitenzia, data al peccatore può, sostenuta, perdono alcuna volta impetrare.

Poi che del mio cospetto si fu partita la dea, io ne’ suoi piaceri con tutto l’animo rimasi disposta: e come che ogn’altro senno mi togliesse la passione furiosa che io sostenea, non so per quale mio merito, solo un bene di molti perduti mi fu lasciato, cioè il conoscere che rade volte, o non mai, fu ad amore palese conceduto felice fine. E però, tra gli altri miei piú sommi pensieri, quanto che egli mi fosse gravissimo a fare, dispuosi di non proporre alla ragione il volerne recare a fine cotal disio. E certo, quanto che io molte volte fossi per diversi accidenti fortissimamente costretta, pure tanto di grazia mi fu conceduto, che senza trapassare il segno, virilmente sostenendo l’affanno passai. E in veritá ancora durano le forze a tal consiglio, però che quantunque io scriva cose verissime, sotto sí fatto ordine l’ho disposte che, eccetto colui che cosí come io le sa essendo di tutte cagione, niuno altro, per quantunque avesse acuto l’avvedimento, potrebbe chi io mi fossi conoscere. E io lui priego, se mai per avventura questo libretto alle mani gli perviene, che egli, per quello amore il quale giá mi portò, che celi quello che a lui né utile né onore può manifestandol tornare. E s’egli m’ha tolto, senza io averlo meritato, sé, non mi voglia tôrre quello onore, il quale avvegna che io ingiustamente porti, esso come sé, volendo, non mi potrebbe rendere giammai. [p. 26 modifica]

Cotale proponimento adunque servando, e sotto grave peso di sofferenza domando li miei disii volonterosissimi di mostrarsi, m’ingegnai con occultissimi atti, quando tempo mi fu conceduto, d’accendere il giovane in quelle medesime fiamme ove io ardea, e di farlo cauto come io era. E in veritá in ciò non mi fu luogo lunga fatica, però che, se ne’ sembianti vera testimonianza della qualitá del cuore si comprende, io in poco tempo conobbi al mio disiderio esser seguito l’effetto; e non solamente dell’amoroso ardore, ma ancora di cautela perfetta il vidi pieno; il che sommamente mi fu a grado. Esso con intera considerazione, vago di servare il mio onore, e d’adempiere, quando i luoghi e i tempi il concedessero, li suoi disii, credo non senza gravissima pena, usando molte arti, s’ingegnò d’avere la familiaritá di qualunque m’era parente, e ultimamente del mio marito: la quale non solamente ebbe, ma ancora con tanta grazia la possedette, che a niuno niuna cosa era a grado, se non tanto quanto con lui la comunicava. Quanto questo mi piacesse, credo che senza scriverlo il conosciate: e chi sarebbe quella sí stolta, che non credesse che sommamente da questa familiaritá nacque il potermi alcuna volta, e io a lui, in pubblico favellare?

Ma giá parendogli tempo di procedere a piú sottili cose, ora con uno, ora con un altro, quando vedeva che io e udire potessi e intenderlo, parlava cose, per le quali io, volonterosissima d’imparare, conobbi che non solamente favellando si poteva l’affezione dimostrare ad altrui e la risposta pigliarne, ma eziandio con atti diversi e delle mani e del viso si poteva fare; e ciò piacendomi molto, con tanto avvedimento il compresi che né egli a me, né io a lui, significare voleva alcuna cosa, che assai convenevolmente l’uno l’altro non intendesse. Né a questo contento stando, s’ingegnò, per figura parlando, e d’insegnarmi a tale modo parlare, e di farmi piú certa de’ suoi disii, me Fiammetta, e sé Panfilo nominando. Oimè! quante volte giá in mia presenza e de’ miei piú cari, caldo di festa e di cibi e d’amore, fignendo Fiammetta e Panfilo essere stati greci, narrò egli come io di lui, ed esso [p. 27 modifica] di me primamente stati eravamo presi, con quanti accidenti poi n’erano seguitati, e a’ luoghi e alle persone pertinenti alla novella dando convenevoli nomi. Certo io ne risi piú volte, e non meno della sua sagacitá che della semplicitá degli ascoltanti; e tal volta fu che io temetti che troppo caldo non trasportasse la lingua disavvedutamente dove essa andare non voleva; ma egli, piú savio che io non pensava, astutissimamente si guardava dal falso latino.

O pietosissime donne, che non insegna Amore a’ suoi suggetti, e a che non li fa egli abili ad imparare? Io, semplicissima giovane e appena potente a disciogliere la lingua nelle materiali e semplici cose tra le mie compagne, con tanta affezione li modi del parlare di costui raccolsi, che in brieve spazio io avrei di fingere e di parlare passato ogni poeta; e poche cose furono alle quali, udita la sua posizione, io con una finta novella non dessi risposta dicevole. Cose assai, secondo il mio parere, male agevoli ad imprendere, e molto piú ad operare ad una giovane, ho raccontate, ma tutte piccolissime, e di niuno peso parrebbono, scrivendo io, se la materia presente il richiedesse, con quanta sottile esperienza fosse per noi provata la fede d’una mia familiarissima serva, alla quale diliberammo di commettere il nascoso fuoco ancora a niun’altra persona palese, considerando che lungamente non senza gravissimo affanno, non essendovi alcuno mezzo, si poteva servare. Oltre a questo sarebbe lungo il raccontare quanti e quali consigli e per lui e per me a varie cose fossero presi; forse, non che per altrui operati, ma appena ch’io creda che pensati giammai; le quali tutte, ancora che io al presente in mio detrimento le conosca operate, non però mi duole d’averle sapute.

Se io, a donne, non erro immaginando, egli non fu piccola la fermezza degli animi nostri, se con intera mente si guarda quanto diffícile cosa sia due amorose menti, e di due giovani, sostenere un lungo tempo che esse, o d’una parte o d’un’altra da soperchi disii sospinte, della ragionevole via non trabocchino; anzi fu bene tanta e tale, che li piú forti [p. 28 modifica] uomini, ciò faccendo, laude degna e alta ne acquisterieno. Ma la mia penna, meno onesta che vaga, s’apparecchia di scrivere quegli ultimi termini d’amore, a’ quali a niuno è conceduto il potere, né con disio né con opera, andare piú oltre. Ma in prima che io a ciò pervenga, quanto piú supplicemente posso la vostra pietá invoco, e quella amorosa forza, la quale ne’ vostri teneri petti stando, a cotale fine tira li vostri disii, e priegole che, se ’l mio parlare vi par grave, dell’opera non dico, ché so che se a ciò state non siete giá d’esservi disiate, che esse prontissime surgano alla mia scusa. E tu, o onesta vergogna, tardi da me conosciuta, perdonami; e alquanto ti priego che qui presti luogo alle timide donne, acciò che, da te non minacciate, sicure di me leggano ciò che di sé, amando, disiano.

L’uno giorno all’altro dopo traevano con isperanza sollecita li suoi e miei disii; e ciò ciascuno agramente portava, avvegna che l’uno il dimostrasse all’altro occultamente parlando, e l’altro a l’uno di ciò si mostrasse schifo oltremodo, sí come voi medesime, le quali forse forza cercate a ciò che pilú vi sarebbe a grado, sapete che sogliono le donne amate fare. Esso adunque, in ciò poco alle mie parole credevole, luogo e tempo convenevole riguardato, piú in ciò che gli avvenne avventurato che savio, e con piú ardire che ingegno, ebbe da me quello che io, sí come egli, benché del contrario infingessimi, disiava. Certo, se questa fosse la cagione per la quale io l’amassi, io confesserei che ogni volta che ciò nella memoria mi tornasse, mi fosse dolore a niuno altro simile; ma in ciò mi sia Iddio testimonio che cotale accidente fu ed è cagione menomissima dell’amore che io gli porto; non per tanto niego che ciò, e ora e allora, non mi fosse carissimo. E chi sarebbe quella sí poco savia che una cosa che amasse non volesse, anzi che lontana, vicina? e quanto maggiore fosse l’amore piú sentirsela appresso? Dico adunque che, dopo cotale avvenimento, da me avanti non che saputo, ma pur pensato, non una volta, ma molte con sommo piacere, e la fortuna e il nostro senno ci consolò lungo tempo a tale [p. 29 modifica] partito, avvegna che a me ora in brieve piú che alcuno vento fuggitosi mi si mostri. Ma mentre che questi cosí lieti tempi passavano, sí come Amore veramente può dire, il quale solo testimonio ne posso dare, alcuna volta non fu senza tema a me licito il suo venire, che egli per occulto modo non fosse meco. Oh, quanto gli era la mia camera cara, e come lieta essa lui vedeva volontieri! Io il conobbi ad essa piú reverente, che ad alcuno tempio. Oimè! quanti piacevoli baci, quanti amorosi abbracciari, quante notti ragionando graziose piú che il chiaro giorno senza sonno passate, quanti altri diletti cari ad ogni amante in quella avemmo ne’ lieti tempi! O santissima vergogna, durissimo freno alle vaghe menti, perché non ti parti tu pregandotene io? Perché ritieni tu la mia penna atta a dimostrare gli avuti beni, acciò che, mostrati interamente, le seguite infelicitá avessero forza maggiore di porre per me pietá negli amorosi petti? Oimè! che tu mi offendi, credendomi forse giovare; io disiderava di dire piú cose, ma tu non mi lasci.

Quelle adunque alle quali tanto di privilegio ha la natura prestato, che per le dette possano quelle che si tacciono comprendere, all’altre non cosí savie il manifestino. Né alcuna me, quasi non conoscente di tanto, stolta dica, ché assai bene conosco che piú sarebbe il tacere stato onesto, che ciò manifestare che è scritto: ma chi può resistere ad Amore, quando egli con tutte le sue forze operando, s’oppone? Io a questo punto piú volte lasciai la penna e piú volte, da lui infestata, la ripresi; e ultimamente a colui al quale io ne’ principii non seppi, libera ancora, resistere, convenne che io serva obbedissi. Egli mi mostrò altrettanto li diletti nascosi valere, quanto li tesori sotto la terra occultati. Ma perché mi diletto io tanto intorno a queste parole? Io dico che io allora piú volte ringraziai la santa dea promettittrice e datrice di que’ diletti. Oh, quante volte io li suoi altari visitai con incensi, coronata delle sue fronde, e quante volte biasimai li consigli della vecchia balia! E oltre a questo, lieta sopra tutte l’altre compagne, scherniva li loro amori, quello ne’ miei parlari [p. 30 modifica] biasimando, che piú nell’animo mi era caro, fra me sovente dicendo: «Niuna è amata come io, né ama giovane degno come io amo, né con tanta festa coglie gli amorosi frutti come colgo io». Io brevemente aveva il mondo per nulla, e con la testa mi parea il cielo toccare, e nulla mancare a me al sommo colmo della beatitudine tenere, reputava, se non solamente in aperto dimostrare la cagione della mia gioia, estimando meco medesima che cosí a ciascuna persona, come a me, dovesse piacere quello che a me piaceva. Ma tu, o vergogna, dall’una parte, e tu, paura, dall’altra, mi riteneste, minacciandomi l’una d’eterna infamia, e l’altra di perdere ciò che nemica fortuna mi tolse poi. Adunque, sí come piacque ad Amore, in cotal guisa piú tempo, senza avere invidia ad alcuna donna, lieta amando vissi, e assai contenta, non pensando che il diletto il quale io allora con ampissimo cuore prendea, fosse radice e pianta nel futuro di miseria, sí come io al presente senza frutto miseramente conosco.

Note

  1. [p. 179 modifica][i denti seminati da Cadmo ]. Cadmo fu figliuolo di re Agenore re di Sidonia ed ebbe uno fratello chiamato Fenice e una sorella chiamata Europa, la quale Giove trasmutato in forma di tauro la rapí. Mandato il detto Cadmo col detto Fenice dal detto lor padre Agenore per ritrovare la detta Europa loro sorella, non trovandola, arrivaro in Boezia ove esso Cadmo uccise un serpente ad una fontana; del quale serpente seminò li denti dalli quali nacquero uomini armati, e gittata la terra ove furono seminati, infra loro subito s’uccisero l’uno con l’altro.
  2. [p. 179 modifica][Lachesis]: è una delle tre dèe c’hanno in potestate la vita umana.
  3. [p. 179 modifica][Proserpina]: fu figliuola di Cerere, la quale fu allevata in Cicilia. Andando a cogliere fiori appiè del monte di Etna, Pluto signore dell’inferno la rapí e menolla con seco e tolsela per moglie. E però dice Dante:

    Tu mi risembri si come qual era
    Proserpina nel tempo che perdette
    la madre lei, ed ella primavera.

  4. [p. 179 modifica][Euridice]: fu moglie di Orfeo la quale andandosi a sollazzo per un prato, pose i piè ad uno serpente il quale la morse nel calcagno e subito ne morí e andossene all’inferno. Per la quale il detto Orfeo andò all’inferno e tanto fece con suoi [p. 180 modifica]belli suoni che la riebbe, con patto che non si dovesse rivoltare indietro; ma lui poco savio rivoltandosi all’uscita della porta per vedere se ella uscìa fuori, la riperdé.
  5. [p. 180 modifica][nel peccato d’Atreo]. Atreo fu fratello di Tieste e figliuolo di Tantalo, padre di Agamennone e di Menelao, il quale cacciò il detto suo fratello Tieste del regno perché esso usò carnalmente con la sua donna; del quale volendosi il detto Atreo vendicare, sotto spezie di volersi pacificare con lui, lo fe’ ritornare e usò questa iniqua crudeltá: che uccise due figliuoli del detto Tieste e dièglili a mangiare. Per la qual crudeltá gl’iddíi corrucciati fèro una notte durare due dí.
  6. [p. 180 modifica][simile alle dèe vedute da Paris]. Qui madonna Fiammetta vuol dire che quando fu fatto quello convito ove furono invitati tutti gl’iddii e le dèe se non la dea della discordia nella valle d’Ida, per la qual cosa essa corrucciatasi e per mettere errore gittò intra costoro uno bellissimo pomo d’oro ove era scritto: «il pomo sia dato alla piú bella di costoro». Onde Pallas e Venus e Giunone, ciascuna il domandava dicendo che dovea essere suo. Di che il giudicio fu dato in mano di Paris come giusto giudice, e dovesse giudicare a chi di loro dovesse essere dato il pomo. Il quale giudicio esso rendè nella selva d’Ida appresso a Troia ove queste tre dèe andarono piú belle e piú ornate che poterono e seppero, promettendo ciascuna di costoro grande grazia al detto Paris, cioè: Pallas di farlo lo piú savio uomo del mondo; Venus gli promise di dargli la piú bella donna del mondo; e Giunone il piú potente e ricco uomo del mondo. Laonde esso rendè il giudicio che fosse dato a Venus. E cosí dice madonna Fiammetta che si ornò per parere piú bella a Panfilo.
  7. [p. 180 modifica][Venere santissima ]. Due sono gli usi di Venere, cioè Venere licita e Venere illicita. Venere licita è di stare il marito con la moglie e però dice santissima; illicita si è d’appetere il marito altra donna che la sua, e la donna altro uomo che il suo marito.
  8. [p. 181 modifica][Febo]: secondo li poeti è il sole.
  9. [p. 181 modifica][Gange]: è uno fiume in oriente e pare che Febo esca la mattina da questo fiume.
  10. [p. 181 modifica][l'onde d‘Esperia]: questo è il mare di Spagna.
  11. [p. 181 modifica][Arturo]: è una stella la quale ha per dominio lo tempo del verno.
  12. [p. 181 modifica][volante figliuolo]: cioè Cupido che signoreggia dalla ottava spera in giú per tutte sette le spere de’ pianeti.
  13. [p. 181 modifica][Febo vincitore del gran Fitone]. Febo fu lo dio della sapienza e della eloquenza. Fitone fu uno serpente mandato da Giunone che dovesse perseguitare Latona madre del detto Febo: il quale, Febo uccise per vendicare la iniuria della madre.
  14. [p. 181 modifica][accordatore delle celere di Parnaso]. Parnaso è uno monte il quale è in Boezia appresso alla cittá di Tebe ove anticamente fu lo studio de’ poeti al tempo del detto Febo ove era sacrificato come dio della sapienza ed eloquenza, e ove era una fonte sacrata alle muse della quale qualunque ne bevea diventava poeta.
  15. [p. 181 modifica][accordatore delle celere di Parnaso]. Parnaso è uno monte il quale è in Boezia appresso alla cittá di Tebe ove anticamente fu lo studio de’ poeti al tempo del detto Febo ove era sacrificato come dio della sapienza ed eloquenza, e ove era una fonte sacrata alle muse della quale qualunque ne bevea diventava poeta.
  16. [p. 181 modifica][ora per Danne]. Danne fu una bellissima giovinetta figliuola di Peneo della quale primamente s’innamorò Febo e andògli dietro assai; ed ella fuggendo per non avere a fare con lui, fuggí a Peneo suo padre e chiamato dal suo padre aiuto, lui la trasformò in arbore lo quale si chiamò lauro; del quale Febo sempre portò ghirlanda e anco se ne corona li poeti. [p. 182 modifica]voler governare li carri del sole, il quale Febo gli fece e lui li seppe mal governare, per la qual cosa morí.
  17. [p. 182 modifica][Leucotoe]. fu una giovine figlia di Orcamo re di Achimenia e d’Eurimene, e di lei s’innamorò Febo, e non vedendo modo di potere aver a fare con essa, si trasformò nella forma della detta Eurimene sua madre, e cosí ebbe a fare con essa.
  18. [p. 182 modifica][e per altre molte]: cioè che Febo s’innamorò di molte altre che qui non fa menzione: né di Circe, né di Clitie la quale il detto Febo convertí in mirasole. Onde dice Ovidio:

    Vertitur ad Solem mutataque servat amorem.

    [ Met., IV, 270.]

  19. [p. 182 modifica][pastore innamorato guardò gli armenti]. Febo s’innamorò della figlia d’Ameto re di Tessaglia, e volendo seguitare il suo amore si trasformò in forma d’uno pastore e posesi a guardare l’armento del detto Ameto, e per questo modo lui ebbe a fare con lei.
  20. [p. 182 modifica][in forma di candido uccello]. Giove s’innamorò di Leda, e non potendo avere a fare con lei si trasformò in forma d’un cigno; e andando la detta Leda per la riva del mare, Giove in forma di cigno le si gittò in grembo ed ebbe a far con lei, e nacque Castore e Polluce ed Elena, la quale tolse Paris etc.
  21. [p. 182 modifica][altra volta divenuto giovenco ]. Giove ancora s’innamorò di Europa figliuola di re Agenore e sorella di Cadmo e di Fenice con la quale non potendo avere a fare, stando la detta Europa in uno prato a cogliere fiori, lui si trasformò in giovenco e faccendo atti piacevoli ad essa li quali molto le piacquero; e per umiltá del detto giovenco li montò addosso da pie’, e lui subito la portò via e passò il mare e andò a Creti ed ebbe a fare con lei.
  22. [p. 183 modifica][quello che per Semelé]. Semelé fa una ninfa con la quale ebbe a fare Giove, e fu figliuola di Cadmo, e ingravidando nacquene Bacco.
  23. [p. 183 modifica][per Almeno mutato in Anfitrione]. Almena fu moglie di Anfitrione della quale Giove innamorò, e volendo stare con lei si trasformò nella forma di Anfitrione e stette con lei ed ebbene Ercule.
  24. [p. 183 modifica][quello che per Calisto mutato in Diana]. Calisto fu una giovinetta d’Arcadia figliuola di Licaone e fu donzella di Diana dea delle selve e delle cacciagioni; della quale Giove s’innamorò e trasmutossi in forma di Diana ed ebbe a far con lei, e ’ngravidolla e nacque Arcas il quale fu pur cacciatore. E Giunone volendosi vendicare dello strupo che avea commesso con Giove la trasmutò in orsa, la quale, Arcas predetto suo figliuolo andando a cacciare, non credendo che la madre fosse orsa, la volle sagittare per ucciderla; ma Giove per ricompensa dell’amore ch’ella avea avuto per lui la trasmutò in cielo e anche lo detto Arcas; e però si chiama Orsa maggiore e Orsa minore.
  25. [p. 183 modifica][o per Danae divenuto pioggia]. Danae fu figliuola di re Acrissio, della quale Giove s’innamorò; stando essa serrata in una torre, Giove si trasformò in aere pluvio ed ebbe a far con lei. Della quale nacque Perseo il quale fu virtuosissimo uomo e tagliò il capo a Medusa che col suo isguardo convertia gli uomini in pietra.
  26. [p. 183 modifica][iddio dell’armi]. Marte, iddio delle battaglie, s’innamorò di Venere moglie di Vulcano fabbro di Giove, e avendo a far con essa, fu accusato da Febo al detto Vulcano. Onde il detto Vulcano volendosi vendicare del detto dio Marte, fece reti di ferro sottilissime che non si poteano vedere, e misele intorno al letto ove faceano il fatto; e quando Marte andò a fare il fatto con Venere, furono tutti e due presi dalle dette [p. 184 modifica]reti a modo d’uccelli. Onde il detto Vulcano avendoli cosí presi, per vituperarli bene, mentre stavano cosí presi nelle reti, chiamò tutti gli altri dii che venissero a vedere, e cosí ivi vennero.
  27. [p. 184 modifica][trisulche ]: dice «trisulche» però che sono tre le generazioni di saette, cioè: una fende, l’altra arde, e l’altra scaccia.
  28. [p. 184 modifica][nella morte d’Adone]. Adone fu figliuolo di Mirra che fu figliuola di Cinara di cui essa s’innamorò, e fraudolentemente usò col suo padre; dalli quali fu ingenerato Adone il quale fu gran cacciatore, e di esso s’innamorò Venere dea della lussuria, lo quale fu morto cacciando da uno cignale. Essa Venere correndo a lui per aiutarlo, non potette, ma fe’ gran pianto sopra il suo corpo e lo fe’ trasmutare in fiore; e questo pone Ovidio nella fine del decimo libro Metamorfoseos.
  29. [p. 184 modifica][la pelle del gran leone]. Ercule andò per comandamento di Giunone sua matrigna che gli dimandò ogni cosa monstruosa del mondo, alla selva Nemea dove era un leone che divorava ogni persona che passava ivi, il quale leone con gran fatica ammazzò e scorticollo, e per segno di vittoria portò per sopravesta sempre la pelle del detto leone.
  30. [p. 184 modifica][il grande Anteo]. Ercule ancora per comandamento di Giunone fu mandato in Libia dove combatteo col forte Anteo gigante, il quale ogni fiata che toccava la terra se li raddoppiava la forza; ma pure con gran fatica l’ammazzò.
  31. [p. 184 modifica][lo ’nfernale cane]: cioè Cerbero il quale stava nella porta della entrata dello ’nferno con tre teste, e quando Ercule andò allo ’nferno per compagnia di Teseo il quale andò per tôrre Proserpina, secondo che pone Seneca in la prima tragedia, alla ritornata per forza menò legato il detto Cerbero cane infernale.
  32. [p. 185 modifica][ Clitennestra ]: fu moglie di Agamennone, la quale rimase a casa quando Agamennone andò a Troia. S’innamorò di Egisto, e poi che essa stette con lui carnalmente, quando Agamennone tornò vincitore di Troia, ella l’ammazzò, vestendosi una camicia senza capo.
  33. [p. 185 modifica][Silla], Silla fu figliuola di re Niso; s’innamorò di Minos re di Creti essendo esso ad oste contra del re Niso suo padre, il quale avea un capello d’oro in capo che mentre che li durava non potea perdere la sua guerra col detto capello reggendosi. Onde essa per compiacere al detto Minos di cui era innamorata, tagliò la testa al suo padre e presentolla al detto Minos. Onde pone Ovidio ch’ella si converti in lodola e ’l padre in fringuello, e però il fringuello è nemico della [lodola].
  34. [p. 186 modifica][le nostra colombe ]. Le colombe secondo li poeti sono consacrate a Venere.
  35. [p. 185 modifica][Nettuno]: iddio del mare, innamorossi d’una bellissima giovane figliuola di Niteo di Tessaglia la quale ebbe nome Fenice, e andandosi un dí per la riva del mare, esso Nettuno la prese ed ebbe a fare con essa. E volendole far grazia disse che domandasse qual grazia volesse che elli faria. Onde essa domandò essere uomo, e cosí fu fatto, e poi l’aggiunse che non potesse essere ferito né morto di ferro. Da poi morí nella battaglia de’ Lapiti ricoperto di legname che li fu gittato addosso, e trasmutato in uccello che si chiama la fenice che uno solo se ne trova.
  36. [p. 185 modifica][Alfeo]: è un fiume nelle parti di Grecia cioè di Acaia, e s’innamorò di Aretusa, la quale, invocato l’aiuto di Diana però che era delle sue donzelle, non potendo fuggire la forza del detto Alfeo, si convertí in fiume detto dal suo nome.
  37. [p. 185 modifica][Semiramis]: fu moglie di re Nino e regina di Babillonia, la quale s’innamorò del figliuolo e fe’ iniquissime leggi, cioè che la madre potesse usare col figlio e la sorella col fratello.
  38. [p. 186 modifica][Biblis]: fu figliuola di Mileto e la madre ebbe nome Ciana, ed ebbe un fratello ch’ebbe nome Cauno del quale essa s’innamorò, e non potendo avere a fare con esso si converti in fonte del suo nome, secondo Ovidio:

    Sic lacrimis consumpta suis Phoebeia Biblis
    Vertitur in fontem, qui nunc quoque vallibus illis
    Nomen liabet dominae nigraque sub ilice manat.

    [ Met., IX, 663-665.]

  39. [p. 186 modifica][Cleopatras]: fu sorella di Tolomeo re d’Egitto, lussuriosissima femina tanto che ricercò il detto fratello di lussuria, per la qual cosa esso la mise in prigione e privolla della sua parte del reame. Ma poi che Cesare andò in Egitto per seguitare Pompeo, essa s’innamorò di lui, e cavolla di prigione ed ebbe a fare con lei e restituilla del reame; e però, morto il fratello, essa rimase reina.