Elegia di madonna Fiammetta (Laterza, 1939)/Capitolo Secondo

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CAPITOLO II

Nel quale madonna Fiammetta descrive la cagione del dipartire del suo amante da lei, e la partita di lui, e ’l dolore che a lei ne seguitò nel partire.

Mentre che io, o carissime donne, in cosí lieta e graziosa vita, sí come di sopra è descritta, menava i giorni miei, poco alle cose future pensando, la nemica fortuna a me di nascoso temprava li suoi veleni, e me con animositá continua, non conoscendolo io, seguitava. Né bastandole d’avermi, di donna di me medesima, fatta serva d’Amore, veggendo che dilettevole giá m’era cotal servire, con piú pungente ortica s’ingegnò d’affliggere l’anima mia. E venuto il tempo da lei aspettato, m’apparecchiò, sí come appresso udirete, li suoi assenzii, i quali a me mal mio grado convenuti gustare, la allegrezza in tristizia, e ’l dolce riso in amaro pianto mutarono. Le quali cose, non che sostenendole, ma pur pensando il doverle altrui scrivendo mostrare, tanta di me stessa compassione m’assalisce che, quasi ogni forza togliendomi, e infinite lagrime agli occhi recandomi, appena il mio proposito lascia ad effetto producere; il quale, quantunque male io possa, pur m’ingegnerò di fornire.

Noi, egli e io, come caso venne, essendo il tempo per piove e per freddo noioso, nella mia camera, menando la tacita notte le sue piú lunghe dimore, riposando nel ricchissimo letto insieme dimoravamo; e giá Venere, da noi molto faticata, quasi vinta ci dava luogo, e uno lume grandissimo in una parte della camera acceso gli occhi suoi della mia bellezza [p. 32 modifica] faceva lieti, e i miei similmente faceva della sua. Li quali, mentre che di quella, parlando io cose varie, essi soperchia dolcezza beveano, quasi d’essa inebriata la luce loro, non so come per picciolo spazio da ingannevole sonno vinti, toltemi le parole, stettero chiusi. Il quale cosí soave da me passando, come era entrato, del caro amante ramarichevoli mormorii sentirono li miei orecchi, e subito della sua sanitá in varii pensieri messa, volli dire: «Che ti senti?». Ma vinta da nuovo consiglio mi tacqui, e con occhio acutissimo, e con orecchie sottili, lui nell’altra parte del nostro letto rivolto cautamente mirandolo per alcuno spazio l’ascoltai. Ma nulla delle sue voci presero gli orecchi miei, benché lui in singhiozzi di gravissimo pianto affannato, e il viso parimente e il petto bagnato di lagrime conoscessi.

Oimè! quali voci mi sariano sufficienti ad esprimere quale in tale aspetto, la cagione ignorando, l’anima mia divenisse mirandolo? E’ mi corsero mille pensieri per la mente in uno momento, e quasi tutti terminavano in uno, cioè che egli, amando altra donna, contra voglia dimorasse in tal modo. Le mie parole furono piú volte infino alle labbra per domandarlo qual fosse la sua noia; ma, dubitando che vergogna non gli porgesse l’esser da me trovato piagnendo, si ritraevano indietro; e similmente trassi gli occhi piú volte da riguardarlo, acciò che le calde lagrime cadenti da quelli, venendo sopra di lui, non gli dessero materia di sentire ch’el fosse da me veduto. Oh quanti modi, impaziente, pensai d’adoperare, acciò che egli desta mi sentisse non averlo sentito, e a niuno m’accordava! Ma ultimamente, vinta dal disio di sapere la cagione del suo pianto, acciò che egli a me si volgesse, quale coloro che ne’ sogni o da caduta, o da bestia crudele, o da altro spaventati, subitamente pavidi si riscuotono, il sogno e il sonno ad un’ora rompendo, cotale súbita con voce pavida mi riscossi, l’uno de’ miei bracci gittando sopra li suoi omeri. E certo l’inganno ebbe luogo, perciò che egli, lasciando le lagrime, con infinta letizia subito a me si volse, e disse, con voce pietosa:

— O anima mia bella, che temesti? — [p. 33 modifica]

Al quale io senza intervallo risposi:

— Parevami che io ti perdessi. —

Oimè! che le mie parole, non so da che spirito pinte fuori, furono del futuro e agurio e verissime annunziatrici, come io ora veggio. Ma egli rispose:

— O carissima giovane, morte, non altri potrá che tu mi perda operare. —

E queste parole senza mezzo seguí un gran sospiro del quale non fu sí tosto, da me udito, che de’ primi pianti disi derava saper la cagione, dimandato, che abbondanti lagrime da’ suoi occhi, come da due fontane, cominciarono a scaturire, e il mal rasciutto petto di lui a bagnare con maggiore abbondanza; e me in grieve doglia e giá lagrimante tenne per lungo spazio sospesa, sí l’impediva il singhiozzo del pianto, anzi che alle mie molte dimande potesse rispondere. Ma poi che libero alquanto dall’émpito si sentio, con voce spesso rotta dal pianto, cosí mi rispose:

— O a me carissima donna e da me amata sopra tutte le cose, sí come gli effetti aperto ti possono mostrare, se i miei pianti meritano fede alcuna, creder puoi non senza cagione amara con tanta abbondanza spandano lagrime gli occhi miei, qualora nella memoria mi torna quello che ora in tanta gioia con teco stando mi vi tornò, e ciò è solamente il pensare che di me far due non posso, com’io vorrei, acciò che ad Amore e alla debita pietá ad un’ora satisfare potessi qui dimorando, e lá dove necessitá strettissima mi tira per forza, andando. Dunque non potendosi, in afflizione gravissima il mio cuore misero ne dimora, sí come colui che da una parte traendo pietá, è fuori delle tue braccia tirato, e dall’altra in quelle con somma forza da Amore ritenuto. —

Queste parole m’entrarono nel misero cuore con amaritudine mai non sentita, e ancora che bene non fossero prese dallo intelletto, nondimeno quanto piú di quelle ricevevano le orecchie attente a’ danni loro, tanto piú in lagrime convertendosi m’uscivano per gli occhi, lasciando nel cuore il loro effetto nemico. Questa fu la prima ora, che io sentii dolori al [p. 34 modifica] mio piacer piú nemichevoli; questa fu quell’ora, che senza modo lagrime mi fece spandere, mai prima da me simili non sparte, le quali niuna sua parola, né conforto, di che assai era fornito, poteva ristringere. Ma poi che per lungo spazio ebbi pianto amaramente, quanto potei ancora il pregai che piú chiaro qual pietá il traeva delle mie braccia mi dimostrasse: onde egli, non ristando però di piangere, cosí mi disse.

— La inevitabile morte, ultimo fine delle cose nostre, di piú figliuoli nuovamente me solo ha lasciato al padre mio, il quale d’anni pieno e senza sposa, solo d’alcuno fratello sollecito a’ suoi conforti rimaso, senza speranza alcuna di piú averne, me a consolazione di lui, il quale egli giá sono piú anni passati non vide, richiama a rivederlo. Alla qual cosa fuggire per non lasciarti, giá sono piú mesi, varie maniere di scuse ho trovate; e ultimamente non accettandone alcuna, per la mia puerizia nel suo grembo teneramente allevata, per l’amore da lui verso di me continuamente portato e per quello che a lui portar debbo, per la debita obbedienza filiale, e per qualunque altra cosa piú grave puote, continuo mi scongiura che a rivedere lo vada. E oltre a ciò da amici e da parenti con prieghi solenni me ne fa stimolare, dicendo in fine sé la misera anima cacciare del corpo sconsolata, se me non vede. Oimè, quanto sono le naturali leggi forti! Io non ho potuto fare, né posso, che nel molto amore che io ti porto non abbia trovato luogo questa pietá; onde, avendo in me, con licenza di te, diliberato d’andare a rivederlo, e con lui dimorare a consolazione sua alcun picciolo spazio di tempo, non sappiendo come senza te viver mi possa, di tal cosa ricordandomi, tuttavia meritamente piango. — E qui si tacque.

Se alcuna di voi fu mai, o donne a cui io parlo, alla quale, ferventemente amando, tale caso avvenisse, colei sola spero che possa conoscere quale allora fosse la mia tristizia; all’altre non curo di dimostrarlo, però che cosí come ogn’altro esemplo che il detto, cosí ogni parlare ci sarebbe scarso. Io dico sommariamente che, udendo io queste parole, l’anima mia cercò di fuggire da me, e senza dubbio credo fuggita [p. 35 modifica] sariesi, se non che essa di colui nelle braccia cui piú amava si sentiva stare; ma nondimeno paurosa rimasa, e occupata da grieve doglia, lungamente mi tolse il poter dire alcuna cosa. Ma poi che per alquanto spazio si fu assuefatta a sostenere il mai piú non sentito dolore, a’ miseri spiriti rendè le paurose forze, e gli occhi rigidi divenuti ebbero copia di lagrime, e la lingua di dire alcuna parola. Per che, al signore della mia vita rivolta, cosí dissi:

— O ultima speranza della mia mente, entrino le mie parole nella tua anima con forza di mutare il proposito, acciò che, se cosí m’ami come dimostri, e la tua vita e la mia cacciate non siano dal tristo mondo prima che venga il di segnato. Tu, da pietá tirato e da amore, in dubbio poni le cose future; ma certo, se le tue parole per addietro sono state vere, con le quali me da te essere stata amata non una volta, ma molte hai affermato, niun’altra pietá a questa potenza dèe potere resistere, né mentre ch’io vivo, altrove tirarti; e odi perché. Egli t’è manifesto, se tu séguiti quello che parli, in quanto dubbio tu lasci la vita mia, la quale appena per addietro s’è sostenuta quel giorno che io non t’ho potuto vedere: dunque puoi esser certo che, cessandoti tu, ogni allegrezza da me si partirá. E ora bastasse questo! Ma chi dubita che ogni tristizia mi sopravverrá, la quale, forse e senza forse, mi ucciderá? Ben dèi tu oramai conoscere quanta forza sia nelle tenere giovani a potere cosí avversi casi con forte animo sostenere. Se forse vogli dire che io per addietro, amando saviamente e con forza, gli sostenni maggiori, certo io il consento in parte, ma la cagione era molto diversa da questa: la mia speranza posta nel mio volere mi faceva lieve quello che ora nell’altrui mi graverá. Chi mi negava, quando il disio m’avesse pure oltre ad ogni misura costretta, che io te, cosí di me come io di te innamorato, non avessi potuto avere? Certo nessuno: quello che, essendomi tu lontano, non m’avverrá. Oltre a ciò, io allora non sapeva, piú che per vista, chi tu ti fossi, benché io t’estimassi da molto; ma ora io il conosco, e sento per opera, che [p. 36 modifica] tu se’ d’avere troppo piú caro che non mi mostrava allora il mio immaginare, e se’ divenuto mio con quella certezza che gli amanti possono essere dalle donne tenuti loro. E chi dubita che egli non sia molto maggiore dolore il perdere ciò che altri tiene, che quello che egli spera di tenere, ancora che la speranza debba riuscire vera? E però, bene considerando, assai aperta si vede la morte mia. Dunque, la pietá del vecchio padre preposta a quella che di me dèi avere mi sará di morte cagione, e tu non amatore, ma nemico, se cosí fai. Deh, vorrai tu, o potrail fare, pur che io il consenta, i pochi anni al vecchio padre serbati, a’ molti, che ancora a me ragionevolmente si debbono, anteporre? Oimè! Che iniqua pietá sará questa? È egli tua credenza, o Panfilo, che niuna persona, sia di te quantunque egli vuole o puote per parentado di sangue, o per amistá congiunta, t’ami sí come io t’amo? Male credi, se di sí credi: veramente niuno t’ama cosí come io. Dunque, se io piú t’amo, piú pietá merito, e perciò degnamente antiponmi, e di me essendo pietoso, di ogni altra pietá ti dispoglia che offenda questa, e senza te lascia riposare il tuo padre; e cosí come, tu non con lui, lungamente è vivuto, se gli piace, per innanzi si viva, e se non, muoiasi. Egli è fuggito molti anni al mortal colpo, s’io odo il vero, e piú ci è vivuto che non si conviene: e se egli con fatica vive, come i vecchi fanno, sará vie maggior pietá di te verso lui lasciarlo morire, che piú in lui con la tua presenza prolungare la fatichevole vita.

«Ma me, che guari senza te vivuta non sono, né vivere saprei senza te, si conviene aiutare, la quale, giovanissima ancora, con teco aspetto molti anni di vivere lieti. Deh, se la tua andata quello nel tuo padre dovesse operare che in Esone i medicamenti di Medea operarono, io direi la tua pietá giusta, e comanderei che s’adempiesse, ancora che duro mi fosse; ma non sará cotale, né potrebbe essere, e tu il sai. Or ecco, se a te, forse piú che io non credo crudele, di me, la quale per tua elezione, non isforzato, hai amata e ami, sí poco ti cale, che tu vogli pure al mio amore preporre la [p. 37 modifica] pietá perduta del vecchio padre, il quale è tale quale il ti diè la fortuna, almeno di te medesimo t’incresca piú che di me o di lui, il quale, se i tuoi sembianti in prima, e poi le tue parole non m’hanno ingannata, piú morto che vivo ti se’ mostrato, quale ora, per accidente, senza vedermi hai trapassata; e ora a sií lunga dimora, chente richiede la mal venuta pietá, senza vedermi ti credi potere dimorare? Deh, per Dio, attentamente riguarda, e vedi te possibile a morte ricevere, se per lungo dolore avviene che l’uomo si muoia, come io intendo per l’altrui vita, di questa andata, la quale che a te sia durissima, le tue lagrime, e del tuo cuore il movimento, il quale nell’ansio petto senza ordine battere ti sento, dimostrano; e se morte non te ne segue, vita peggiore che morte non te ne falla. Oimè! che lo innamorato mio cuore insieme dalla pietá che a me medesima porto, e da quella che per te sento è ad un’ora costretto. Per che io ti priego che tu sí sciocco non sii che, movendoti a pietá d’alcuna persona, e sia chi vuole, tu vogli te a grave pericolo di te medesimo sottoporre. Pensa che chi sé non ama, niuna cosa possiede. Tuo padre, di cui tu se’ ora pietoso, non ti diede al mondo perché tu stesso divenissi cagione di tòrtene. E chi dubita che, se a lui fosse la nostra condizione licito di scuoprire, che egli, essendo savio, non dicesse piuttosto: ‘rimanti’ che ‘vieni’? E se a ciò discrezione non lo inducesse, egli ve lo inducerebbe pietá; e questo credo che assai ti sia manifesto. Dunque fa’ ragione che quel giudicio che egli darebbe, se la nostra causa sapesse, che egli l’abbia saputa e dato, e per la sua medesima sentenza lascia stare questa andata, a me e a te parimente dannosa.

«Certo, carissimo signor mio, assai possenti cagioni sono le giá dette da doverle seguire, e rimanerti, considerando ancora dove tu vai; ché, posto che colá vadi ove nascesti, luogo naturalmente oltre ad ogni altro amato da ciascuno, nondimeno, per quello che io abbia giá da te udito, egli t’è per accidente noioso, però che, sí come tu medesimo giá dicesti, la tua cittá è piena di voci pompose e di pusillanimi fatti, [p. 38 modifica] serva non a mille leggi, ma a tanti pareri quanti v’ha uomini, e tutta in arme, e in guerra, cosí cittadina come forestiera, fremisce, e di superba, avara e invidiosa gente fornita, e piena di innumerabili sollecitudini: cose tutte male all’animo tuo conformi. E quella che di lasciare t’apparecchi so che conosci lieta, pacifica, abbondevole, magnifica, e sotto ad un solo re: le quali cose, se io alcuna conoscenza ho di te, assai ti sono gradevoli; e oltre a tutte le cose contate, ci sono io, la quale tu in altra parte non troverai. Dunque, lascia l’angosciosa proposta, e, mutando consiglio, alla tua vita e alla mia insieme, rimanendo, provvedi; io te ne priego. —

Le mie parole in molta quantitá le sue lagrime aveano cresciute, delle quali co’ baci mescolate assai ne bevvi. Ma egli dopo molti sospiri cosí mi rispose:

— O sommo bene dell’anima mia, senza niuno fallo vere conosco le tue parole, e ogni pericolo in quelle narrato m’è manifesto; ma acciò che io, non come io vorrei, ma come la necessitá presente richiede, brievemente risponda, ti dico che il potere con un corto affanno solvere un debito grande, credo da te mi si debbia concedere. Pensar déi ed essere certa che, benché la pietá del vecchio padre mi stringa assai e debitamente, non meno, ma molto piú, quella di noi medesimi mi costrigne, la quale, se licita fosse a discoprire, scusato mi parrebbe essere, presumendo che non che da mio padre solo, ma ancora da qualunque altro fosse giudicato quel che dicesti, e lascerei il vecchio padre, senza vedermi, morire. Ma convenendo questa pietá essere occulta, senza quella palese adempiere, non veggio come senza gravissima riprensione e infamia, far lo potessi. Alla quale riprensione fuggire, adempiendo il mio dovere, tre o quattro mesi ci torrá di diletto fortuna, dopo li quali, anzi innanzi che compiuti siano, senza fallo mi rivedrai nel tuo cospetto tornato, a me come te medesima rallegrare. E se il luogo al quale io vo è cosí spiacevole come fai, che è cosí a rispetto di questo, essendoci tu, ciò ti dée esser molto a grado, pensando che, dove altra cagione a partirmi quindi non mi movesse, per [p. 39 modifica] forza le qualitá del luogo al mio animo avverse me ne farebbono partire, e qui tornare. Dunque concedasi questo da te, che io vada; e come per addietro ne’ miei onori e utili se’ stata sollecita, cosí ora in questa divieni paziente, acciò che io, conoscendo a te gravissimo l’accidente, piú securo per innanzi mi renda, che in qualunque caso ti sia l’onor mio quant’io stato caro. —

Egli avea detto, e tacevasi, quando io cosí ricominciai a parlare:

— Assai chiaro conosco ciò che fermato nell’animo non pieghevole porti, e appena mi pare che in quello raccogliere vogli pensando di quante e quali sollecitudini l’anima mia lasci piena da me lontanandoti, la quale niuno giorno, niuna notte, niuna ora sará senza mille paure: io starò in continuo dubbio della tua vita, la quale io priego Iddio che sopra i miei dí la distenda quando tu vuoi. Deh, perché con soperchio parlar mi voglio io stendere dicendole ad una ad una? Egli non ha brievemente il mare tante arene, né il cielo stelle, quante cose dubbiose e di pericolo piene possono tutto di intervenire a’ viventi, le quali tutte, partendoti tu, senza dubbio spaventandomi m’offenderanno. Oimè! trista la vita mia! Io mi vergogno di dirti quello che nella mia mente mi viene; ma però che quasi possibile per le cose udite mi pare, costretta tel pur dirò. Or se tu ne’ tuoi paesi, ne’ quali ho udito piú volte essere quantitá infinita di belle donne e vaghe, atte bene ad amare e ad essere amate, una ne vedessi che ti piacesse e me dimenticassi per quella, qual vita sarebbe la mia? Deh! se cosí m’ami come dimostri, pensalo come faresti tu se io per altrui ti cambiassi. La qual cosa non sará mai; certo io con le mie mani, anzi che ciò avvenisse, m’ucciderei.

«Ma lasciamo stare questo, e di quello che noi non desideriamo che avvenga, non tentiamo con tristo annunzio gl’iddíi. Se a te pur fermo giace nell’animo il partire, con ciò sia cosa che niun’altra cosa mi piaccia, se non piacerti, a ciò volere di necessitá mi conviene disporre. Tuttavia, se [p. 40 modifica] essere può, io ti priego che in questo tu séguiti il mio volere, cioè in dare alla tua andata alcuno indugio, nel quale io immaginando il tuo partire, con continuo pensiero possa apparare a sofferire d’essere senza te. E certo questo non ti deve essere grave: il tempo medesimo, il quale ora la stagione mena malvagio, m’è favorevole. Non vedi tu il cielo pieno d’oscuritá, continuo minacciare gravissimi pestilenze alla terra con acque, con nevi, con venti e con ispaventevoli tuoni? E come tu déi sapere, ora per le continue piove ogni picciolo rivo è divenuto un grande e possente fiume. Chi è colui che si poco se medesimo ami, che in cosí fatto tempo si metta a camminare? Dunque, in questo fa’ il mio piacere, il quale se far non vogli, fa’ il tuo dovere. Lascia i dubbiosi tempi passare, e aspetta il nuovo nel quale e tu meglio e con meno pericolo andrai, e io, giá co’ tristi pensieri costumata, piú pazientemente aspetterò la tua ritornata. —

A queste parole egli non indugiò la risposta, ma disse:

— Carissima giovane, l’angosciose pene e le sollecitudini varie nelle quali io contro a mio piacere ti lascio, e meco senza dubbio ne porto l’une e l’altre, mitighi la lieta speranza della futura tornata; né di quello che cosí qui come altrove, quando tempo sará, mi deve giungere, cioè la morte, è senno d’averne pensiero, né de’ futuri accidenti a nuocere possibili e a giovare. Ovunque l’ira e la grazia di Dio coglie l’uomo, quivi e il bene e il male, senza potere altro, gli conviene sostenere. Adunque queste cose senza badarci, nelle mani di lui, meglio di noi consapevole de’ nostri bisogni, le lascia stare, e a lui con prieghi solamente addimanda che vengano buone. Che mai di niuna donna io sia altro che di Fiammetta, appena pure se io il volessi, il potrebbe fare Giove, con sí fatta catena ha il mio cuore Amore legato sotto la tua signoria. E di ciò ti rendi sicura, che prima la terra porterá le stelle, e il cielo arato da’ buoi producerá le mature biade, che Panfilo sia d’altra donna che tuo. L’allungare di spazio che chiedi alla mia partita, se io il credessi a te e a me utile, piú volentieri che tu nol chiedi il farei; ma tanto [p. 41 modifica] quanto quello fosse piú lungo, cotanto il nostro dolore sarebbe maggiore. Io, ora partendomi, prima sarò tornato, che quello spazio sia compiuto il quale chiedi per apparare a sofferire; e quella noia in questo mezzo avrai, non essendoci io, che avresti pensando al mio dovermi partire. E alla malvagitá del tempo, sí come altra volta uso di sostenerne, prenderò io salutevole rimedio, il quale volesse Iddio che cosí ritornando giá l’operassi come partendomi il saprò operare. E perciò con forte animo ti disponi a ciò che, quando pure far si conviene, è meglio subito operando passare, che con tristizia e paura di farlo aspettare. —

Le mie lagrime quasi nel mio parlare allentate altra risposta attendendo, udendo quella, crebbero in molti doppii; e sopra il suo petto posata la grave testa, lungamente dimorai senza piú dirgli, e varie cose nell’animo rivolgendo, né affermare sapea, né negare ciò che e’ diceva. Ma oimè! chi avrebbe a quelle parole risposto se non: «Fa quel che ti piace, torni tu tosto?». Niuna credo. E io, non senza gravissima doglia e molte lagrime, dopo lungo indugio cosí gli risposi, aggiungendogli che gran cosa, se egli viva mi trovasse nel suo tornare, senza dubbio sarebbe.

Queste parole dette, l’uno confortato dall’altro, rasciugammo le lagrime, e a quelle ponemmo sosta per quella notte. E servato l’usato modo, anzi la sua partita, che pochi giorni fu poi, me piú volte venne a rivedere; benché assai d’abito e di volere trasmutata dal primo mi rivedesse. Ma venuta quella notte la quale dovea essere l’ultima de’ miei beni, con ragionamenti varii non senza molte lagrime trapassammo; la quale, ancora che per la stagione del tempo fosse delle piú lunghe, brevissima mi parve che trapassasse. E giá il giorno agli amanti nemico cominciato aveva a tôrre la luce alle stelle, del quale vegnente poi che ’l segno venne alle mie orecchie, strettissimamente lui abbracciai, e cosí dissi:

— O dolce signor mio, chi mi ti toglie? Quale iddio con tanta forza la sua ira verso di me adopra, che, me vivente, si dica «Panfilo non è lá dove la sua Fiammetta dimora?». [p. 42 modifica] Oimè! che io non so ora ove ne vai tu. Quando sará che io piú ti debba abbracciare? Io dubito che non mai. Io non so ciò che il cuore miseramente indovinando mi si va dicendo. —

E cosí amaramente piangendo, e riconfortata da lui, piú volte il baciai. Ma dopo molti stretti abbracciari ciascuno pigro a levarsi, la luce del nuovo giorno strignendoci, pur ci levammo. E apparecchiandosi egli giá di darmi li baci estremi, prima lagrimando cotali parole gli cominciai:

— Signor mio, ecco tu te ne vai, e in brieve la tornata prometti; facciami di ciò, se ti piace, la tua fede sicura, sí che io, a me non parendomi invano pigliare le tue parole, di ciò prenda, quasi come di futura fermezza, alcuno conforto aspettando. —

Allora egli le sue lagrime con le mie mescolando, al mio collo, credo per la fatica dell’animo, grave pendendo, con debole voce disse:

— Donna, io ti giuro per lo luminoso Apollo, il quale ora surgente oltre a’ nostri disii con velocissimo passo di piú tostana partita dando cagione, e li cui raggi io attendo per guida; e per quello indissolubile amore che io ti porto, e per quella pietá che ora da te mi divide, che il quarto mese non uscirá che, concedendolo Iddio, tu mi vedrai qui tornato. —

E quindi, presa con la sua destra la mia destra mano, a quella parte si volse, dove le sacre immagini dei nostri iddii figurate vedeansi, e disse:

— O santissimi iddii, ugualmente del cielo governatori e della terra, siate testimonii alla presente promessione, e alla fede data dalla mia destra; e tu, Amore, di queste cose consapevole, sii presente; e tu, o bellissima camera, a me piú a grado che ’l cielo agl’iddii, cosí come testimonia segreta de’ nostri disii se’ stata, cosí similmente guarda le dette parole, alle quali, se io per difetto di me vengo meno, cotale verso di me l’ira d’iddio si dimostri, quale quella di Cerere in Erisitone1, o di Diana in Atteone, o in Semelé di Giunone apparve giá nel passato. — [p. 43 modifica]

E questo detto, me con volontá somma abbracciò ultimamente dicendo «addio» con rotta voce. Poi che egli cosí ebbe parlato, io misera, vinta dall’angoscioso pianto, appena potè’ rispondere alcuna cosa; ma pure sforzandomi, tremanti parole pinsi fuori della trista bocca in cotale forma:

— La fede a’ miei orecchi promessa, e data alla mia destra mano dalla tua, fermi Giove in cielo con quello effetto che Iside2 fece li prieghi di Teletusa, e in terra, come io disidero e come tu chiedi, la faccia intera. —

E accompagnato lui infino alla porta del nostro palagio, volendo dire «addio», subito fu la parola tolta alla mia lingua, e il cielo agli occhi miei. E quale succisa rosa negli aperti campi infra le verdi fronde sentendo i solari raggi cade perdendo il suo colore, cotale semiviva caddi nelle braccia della mia serva, e dopo non picciolo spazio, aiutata da lei fedelissima, con freddi liquori rivocata al tristo mondo, mi risentii; e sperando ancora d’essere alla mia porta, quale il furioso toro ricevuto il mortal colpo furibondo si leva saltando, cotale io stordita levandomi, appena ancora veggendo, corsi, e con le braccia aperte la mia serva abbracciai credendo prendere il mio signore, e con fioca voce e rotta dal pianto in mille parti dissi: «O anima mia, addio».

La serva tacque, conoscendo il mio errore; ma io poi, ricevuta veduta piú libera, il mio avere fallito sentendo, appena un’altra volta in simile smarrimento non caddi.

Il giorno era giá chiaro per ogni parte, onde io nella mia camera senza il mio Panfilo veggendomi, e intorno mirandomi per ispazio lunghissimo, come ciò avvenuto si fosse ignorando, la serva dimandai che di lui avvenuto fosse, ed ella piagnendo rispose:

— Giá è gran pezza, che egli qui nelle sue braccia recatavi, da voi il sopravvegnente giorno con lagrime infinite a forza il divise. —

A cui io dissi:

— Dunque si è egli pure partito? —

— Sí, — rispose la serva. [p. 44 modifica]

Cui io ancora seguendo addimandai:

— Or con che aspetto si partí? Con grave? —

A cui ella rispose:

— Niuno mai piú dolente ne vidi. —

Poi seguitai: — Quali furono gli atti suoi? E che parole disse nella partenza? —

Ed ella rispose:

— Voi quasi morta nelle mia braccia rimasa, vagando la vostra anima non so dove, egli vi si recò, tosto che tale vi vide, nelle sue teneramente: e con la sua mano nel vostro petto cercato se con voi fosse la paurosa anima, e trovatala forte battendo, piagnendo, cento volte e piú agli ultimi baci credo vi richiamasse. Ma poi che voi immobile non altramente che marmo vide, qui vi recò, e, dubitando di peggio, lagrimando piú volte bagnò il vostro viso, dicendo: «O sommi iddii, se nella mia partenza peccato alcuno si contiene, venga sopra di me il giudicio, non sopra la non colpevole donna. Rendete a’ luoghi suoi la smarrita anima, sí che di questo ultimo bene, cioè di vedermi nella mia partita, e di darmi gli ultimi baci dicendo addio, ed ella e io siamo consolati». Ma poi che vide voi non risentirvi, quasi senza consiglio, ignorando che farsi, pianamente in sul letto posatavi, quale le marine onde, da’ venti e dalla pioggia sospinte, ora innanzi vengono e quando addietro si tornano, cotale da voi partendosi infino in sul limitare dell’uscio della camera pigramente andando, mirava per le finestre il minacciante cielo nemico alla sua dimora; e quindi subitamente verso voi ritornava, da capo chiamandovi e aggiugnendo lagrime e baci al vostro viso. Ma poi che cosí ebbe fatto piú volte, vedendo che piú lunga non poteva essere con voi la sua dimora, abbracciandovi disse: «O dolcissima donna, unica speranza del tristo cuore, la quale io, a forza partendomi, lascio in dubbia vita, Iddio ti renda il perduto conforto, e te a me tanto servi che insieme felici ancora ci possiamo rivedere, sí come sconsolati ne divide l’amara partenza». E cosí come le parole diceva, cosí continuamente piangeva forte, tanto che i singhiozzi del [p. 45 modifica] suo pianto piú volte mi fecero paura che non che da’ nostri di casa, ma che da’ vicini sentiti non fossero. Ma poi, piú non potendo dimorare per la nemica chiarezza sopravvegnente, con maggiore abbondanza di lagrime disse «addio», e quasi a forza tirato, percotendo forte il piede nel limitar dell’uscio, uscí delle nostre case. Onde uscito, appena si saria detto che egli potesse andare, anzi ad ogni passo volgendosi, quasi pareva sperasse che, voi risentita, io il dovessi chiamare a rivedervi. —

Tacque allora quella; e io, o donne, quale voi potete pensare, cotale dolendomi della partita del caro amante, sconsolata rimasi piangendo.

Note

  1. [p. 186 modifica][di Cerere in Erisitone ]. Erisitone fu di Tessaglia, grandissimo ispregiatore delli iddíi, il quale per ispregiare la detta Cerere tagliò una selva dove era una grandissima quercia consacrata ad essa. Per la qual cosa Cerere corrucciatasi contra di lui, gli mise una fame sí grande in corpo, che veruna cosa li bastava a saziarlo, e manicò se medesimo a poco a poco. La quale Cerere fu dea dell’abbondanza.
  2. [p. 186 modifica][Iside]. Essendo uno omo chiamato Ligdo dell’isola di Creti poverissimo, e’ ebbe una sua moglie chiamata Teletusa; la quale essendo gravida, esso le comandò che se facea figlio maschio lo dovesse nutricare, e se facea femina la dovesse [p. 187 modifica]annegare però che non l’averia potuto maritare per povertá. Per la qual cosa essa ne fu assai grama, e stando con gran malinconia le apparve in sogno Iside dea delli Egizii appresso del Nilo fiume, e sí la confortò e comandolle che non dovesse ammazzare la creatura fernina che facesse. Donde essa da poi partorio; e partorendo femina disse a Ligdo che era maschio e poseli nome Ifi per nome dell’avolo suo, e nutricollo come maschio fino in etá di otto anni e si li diè moglie una putta chiamata Iante; e venendo il tempo del matrimonio, Teletusa predetta fece orazione divotamente a Iside, che come di suo comando l’avea campata dalla morte, così li piacesse di trasformarla di femina in maschio acciò che potesse usare con la Iante sua moglie. E cosí fu esaudita che la prima notte dormendo con essa diventò maschio.