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p u r g a t o r i o x x v i. |
[v. 88-102] |
sali e venduta al ditto re Ligurgo, et aveali allevato quello filliuolo che ditto è di sopra. Et in quil mezzo ch’ell’andò a mostrare la fonte Langia a l’esercito, come fu ditto nel xxii canto, uno serpente uccise Archemoro lassato nel prato a colliere dei fiori, come usansa è de’ fanciulli; unde lo re Ligurgo, udita la morte del fanciullo, andare volea a le prata, per fare morire Isifile che avea male guardato lo filliuolo; et in quil mezzo venneno a la corte sua Toas et Evennio filliuoli di Iasone e de la ditta Isifile, unde s’invionno ad andare col ditto re; et, iunti là, trovato Isifile col fanciullo in collo la quale ella piangeva amaramente e1 cantava nel pianto, come è usanza de le donne, le suoe sciagure, quelli de l’esercito pregonno Ligurgo che non la dovesse uccidere, scusandola; e li ditti suoi filliuoli, udendo nominare Iasone e l’altre cose, ricognosciutala per madre, la corseno ad abbracciare e fennoli grandissima festa; e però l’autore fa la similitudine, dicendo: Quali Si fer; cioè si fenno, duo filli; cioè Toas et Evennio, ne la tristizia di Ligurgo; re di Nemea, ch’era venuto a piangere lo filliuolo et a farne vendetta, al riveder la madre; cioè al ricognoscere Isifile per loro madre; cioè che si fenno molto allegri, Tal mi fec’io; cioè così allegro mi fec’io Dante, quando viddi messere Guido e2 ricognovilo, ma non a tanto insurgo; cioè ma non corro ad abbracciarlo, come corseno Toas et Evennio ad abbracciar la madre: imperò ch’elli era nel fuoco, e però dice che non insurge a tanto; cioè non pillia tanto ardire, ch’elli si mette nel fuoco per abbracciarlo. Quand’io; cioè quand’io Dante, odo nomar sè stesso; cioè nominare sè medesimo, il padre Mio; cioè messere Guido sopra detto lo quale elli chiama padre, perchè da lui ebbe la dottrina del dire in rima vulgare, e delli altri miei millior; cioè non solamente padre mio; ma eziandio delli altri milliori di me, che; cioè li quali, mai usar; cioè usasseno, Rime d’amor dolci e leggiadre; secondo che dice Orazio non vasta esser belle le fizioni dei dicitori; ma convegnano esser dolci: sicchè inducano l’animo del lettore a le passione3 che volliano; et allora sono dolci, quando induceno riso, pianto e simili passioni; leggiadre sono, quando acconciamente e prestamente diceno la sua intenzione conformata co la virtù: imperò che leggiadria è decenzia et attitudine delli atti virtuosi. E senza udir e dir pensoso andai; cioè poscia io Dante, pensando come sì fatto omo si lassò ingannare da la lussuria, così infame et abominevole peccato; e per questo dà ad intendere che ripensò la colpa sua, che commisso avea in sì fatto peccato, Lunga fiata; cioè grande pesso di tempo, rimirando; cioè, allegoricamente, ripensando, lui; che fu sì fatto omo, e cadde in tale vizio e corressesene poi et emen-
- ↑ C. M. contava
- ↑ Ricognovi; passato alla foggia dei Latini. E.
- ↑ C. M. passioni