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[v. 88-102] | c o m m e n t o | 629 |
lo peccato contra natura in qualunqua modo fatto, oltra e sensa quello di Soddoma; ma secondo la verità de la fizione, come mostrato è nel canto xii de la prima cantica, questa voce riprende l’adulterio: imperò che, secondo ’l vero, Pasife fu adultera; ma lo nostro autore àe usato qui grande maestria, dando ad intendere ogni illicito atto che può essere nel peccato de la lussuria, oltra quello di Soddoma.
C. XXVI — v. 88-102. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che, poi che messere Guido li ebbe ditto le condizioni de la gente passata e de la presente, e le voci che gridavano a confusione del loro peccato, ora si manifesti a lui per nome, e delli altri si scusi, dicendo così: Or; cioè ora, sai nostri atti; tu, Dante, e di che; cioè di che colpa, fummo rei; cioè peccatori. Se forsi a nome vuoi saper chi semo; cioè ch’io ti dica nomatamente chi noi siamo, Tempo non è da dir; cioè nol pate ora il tempo, e non saprei; io Guido dirtelo. Farotti ben di me volere scemo; cioè sazierò lo tuo volere di me e nomineròti me; e questo finge l’autore per onestà di sè, considerando che ’l peccato de la lussuria, ben che sia di minor colpa, pur è di maggior infamia che li altri; e però non volse nominare più d’uno di quelli che li paresseno degni di quello luogo, et inducelo a nominarsi sè stesso per scusa di sè, dicendo: Son Guido Guinissello1; questi fu uno cavallieri di Fiorensa lo quale fu grande dicitore in rima, anco maestro di tutti li altri che a quil tempo erano; e, come finge l’autore, fu infetto di lussuria, e però induce lui a nominarsi in questo luogo, e già mi purgo; cioè, benchè non sia molto ch’io mori’, io sono già venuto a purgarmi e non sono stato ne la piaggia, nè per la costa molto tempo: imperò che io non indugiai la mia penitenzia all’ultimo; ma di grande tempo inanti a la mia2 morte, Per ben pentirmi; del mio peccato, prima ch’a lo stremo; io venissi, si dè intendere: imperò che se io avessi indugiato all’ultimo la mia penitenzia, io serei ne la piaggia o ne la costa, dove tempo per tempo si ristora. Quali ne la tristizia di Ligurgo; adduce qui l’autore una similitudine sotto una istoria o fizione poetica, secondo che pone Stazio nel libro de la sua Tebaide; quando li sette regi di Grecia andonno ad assediare Tebe, pervenneno in Nemea dove signoreggiava lo re Ligurgo che avea uno suo filliuolo, ch’era chiamato Archemoro minore di sette anni che l’avea allevato Isifile filliuola del re Toante di Lenno, la quale perchè avea campato il padre quando l’altre femine ucciseno tutti li maschi fuggendo per mare, per non esser morta da le suoe fu presa da’ cor-