103Poi che di riguardar pasciuto fui,
Tutto m’offersi pronto al suo servigio
Co l’affermar che fa creder altrui.
106Et elli a me: Tu lassi tal vestigio,
Per quel ch’io odo, in me, e tanto chiaro,1
Che Lete nol può torre, nè far bigio.2
109Ma se le tuo’ parole or ver giuraro,
Dimmi che è cagion, per che dimostri3
Nel dir e nel guardar d’avermi caro?
112Et io a lui: Li dolci ditti vostri,
Che, quanto durerà l’uso moderno,
Faranno cari ancora i loro inchiostri.4
115O frate, disse, questi ch’io ti cerno
Col dito (et additò un spirto inanzi)
Fu millior fabbro del parlar materno.
118Versi d’amor e prose di romanzi
Soverchiò tutti; e lassa dir li stolti
Che quel di Lemosì credon ch’avanzi:5
121A voce più che al ver drizzan li volti,
E così ferman sua opinione,
Prima ch’altra ragion per lor s’ascolti.6
124Così fer molti antichi di Guittone,
Di grido in grido pur lui dando pregio,
Fin che l’à vinto il ver con più persone.
127Or se tu ài sì ampio privilegio,
Che licito ti sia d’andare al chiostro,
Nel quale è Cristo abbate del collegio,
- ↑ v. 107. C. A. io odo me, e
- ↑ v. 108. C. A. tor, nè farli bigio.
- ↑ v. 110. C. A. cagion, che tu dimostri
- ↑ v. 114. C. A. ancor li vostri
- ↑ v. 120. C. A. credo che
- ↑ v. 123. C. A. ch’arte o ragion