Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto XX

Purgatorio
Canto ventesimo

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Purgatorio - Canto XIX Purgatorio - Canto XXI
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C A N T O   X X.




1Contra millior voler voler mal pugna,
     Ond’io, contra ’l piacer mio, per piacerli
     Trassi dell’acqua non sazia la spugna.
4Mossimi; e ’l Duca mio si mosse per li
     Luoghi espediti pur lungo la roccia,1
     Come si va per muro stretto ai merli:
7Chè la gente, che fonde a goccia a goccia
     Per li occhi il mal che tutto ’l mondo occùpa,
     Dall’altra parte in fuor troppo s’approccia.
10Maladetta sii tu, antica lupa,2
     Che più che tutte l’altre bestie ài preda
     Per la tua fame senza fine cupa.
13O Ciel, nel cui girar par che si creda
     Le condizion di qua giù trasmutarsi,3
     Quando verrà per cui questa disceda?4
16Noi andavam coi passi lenti e scarsi,
     Et io attento all’ombre ch’io sentia
     Pietosamente pianger e lagnarsi;
19E per ventura udi’: Dolce Maria,
     Dinanzi a noi chiamar così nel pianto,
     Come fa donna che in parturir sia;

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22E seguitar: Povera fusti tanto,
     Quanto veder si può per quell’ospizio,
     Dove sponesti il tuo portato santo.5
25Seguentemente intesi: O buon Fabrizio,
     Con povertà volesti anzi virtute,
     Che gran ricchezza posseder con vizio.
28Queste parole m’eran sì piaciute,
     Ch’io mi trassi oltra per aver contezza
     Di quello spirto, onde parean venute.
31Esso parlava ancor de la larghezza,
     Che fece Nicolao a le pulcelle,6
     Per condur ad onor lor giovanezza.
34O anima, che tanto ben favelle,
     Dimmi chi fosti, dissi, e perchè sola
     Tu queste degne lode rinnovelle.7
37Non fi’ senza mercè la tua parola,8
     S’io ritorno a compier lo cammin corto9 10
     Di quella vita che al termine vola.
40Et elli: Et io dirò, non per conforto11
     Ch’io attenda di là; ma perchè tanta
     Grazia in te luce prima che sii morto.12
43Io fui radice de la mala pianta,
     Che la terra cristiana tutta aduggia,
     Sì che buon frutto rado se ne schianta.
46Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia
     Potesser, tosto ne serea vendetta;
     Et io la chieggio a Lui che tutto giuggia.

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49Chiamato fui di là Ugo Ciapetta:
     Di me son nati i Filippi e i Loigi,13
     Per cui novellamente è Francia retta.14
52Filliuol fui d’un beccar di Parigi,15
     Quando li regi antichi venner meno
     Tutti, fuor ch’un redutto in panni bigi,16
55Trova’mi stretto ne le mani il freno
     Del governo del regno, e tanta possa
     Di nuovo acquisto, e sì d’amici pieno,
58Che alla corona vedova promossa
     La testa di mio fillio fu, dal quale
     Comincior di costor le sacrate ossa.1718
61Mentre che la gran dote provensale
     Al sangue mio non tolse la vergogna,
     Pogo valea; ma pur non facea male.19
64Lì cominciò con forza e con menzogna
     La sua rapina; e possa, per ammenda,20
     Ponti e Normandia prese, e Guascogna.
67Carlo venne in Italia, e, per ammenda,
     Vittima fe di Curradino, e poi
     Ripinse al Ciel Tomaso, per ammenda.21
70Tempo vegg’io, non molto di po’ ancoi,
     Che tragge un altro Carlo fuor di Francia,
     Per far cognoscer mellio sè e i suoi.22

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73Senz’arme n’esce solo, e co la lancia
     Co la qual giostrò Giuda, e quella ponta
     Sì, che a Fiorenza fa scoppiar la pancia.
76Quindi non terra; ma peccato et onta
     Guadagnerà per sè tanto più grave,
     Quanto più lieve simil danno conta.
79L’altro, che già uscì preso di nave,23
     Veggio vender sua fillia, e patteggiarne,
     Come fanno i corsal dell’altrui schiave.24
82O avarizia, che puoi tu più farne,
     Possa ch’ài ’l mio sangue a te sì tratto,2526
     Che non si cura de la propria carne?
85E perchè paia ’l mal futuro e ’l fatto,27
     Veggio in Alagna intrar lo fior d’aliso,
     E nel Vicario suo Cristo esser catto.
88Veggiolo un’altra volta esser deriso,
     Veggio rinnovellar l’aceto e ’l fele,
     E tra’ novi ladroni esser ucciso.2829
91Veggio ’l nuovo Pilato sì crudele,
     Che ciò non sazia; ma senza decreto30
     Porta nel tempio le cupide vele.31
94O Signor mio, quando serò io lieto
     A veder la vendetta, che nascosa
     Fa dolce l’ira tua nel tuo secreto?
97Ciò che io dicea di quella unica sposa
     De lo Spirito Santo, e che ti fece
     Verso me volger per alcuna ghiosa,32

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100Tanto è disposto a tutta nostra prece,33
     Quanto ’l di’ dura, ma quando s’annotta,
     Contrario suon prendiamo in quella vece.34
103Noi ripetiamo Pigmalion allotta,
     Cui traditor, ladrone e paricida35
     Fece la vollia sua dell’oro ghiotta;
106E la miseria de l’avaro Mida,
     Che seguì a la sua dimanda ingorda,
     Per la qual sempre convien che si rida.
109Del folle Acor ciaschedun si ricorda,36
     Come furò le spollie, sì che l’ira
     Di Giosuè qui par che ancor lo morda.37
112Indi accusiam col marito Saffira;38
     Lodiamo i calci ch’ebbe Eliodoro;
     Et in infamia tutto il monte gira
115Polinestor che ancise Polidoro.
     Ultimamente sì gridiamo: O Crasso,39
     Dì tu, che ’l sai, di che sapore è l’oro.40
118Talor parliam l’uno alto e l’altro basso,41
     Secondo l’affezion che a dir ci sprona,
     Or a maggior et ora a minor passo.
121Però al ben che ’l di’ ci si ragiona,
     Dianzi non era io sol; ma qui da presso
     Non alzava la voce altra persona.
124Noi eravam partiti già da esso,
     E brigavam di soverchiar la strada
     Tanto, quanto al poter n’era permesso:42

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127Quand’io senti’, come cosa che cada,
     Tremare il monte: unde mi prese un gelo
     Qual suol prender colui che a morte vada.
130Certo non si scotea sì forte Delo,
     Pria che Latona in lei facesse il nido43
     A parturir li du’ occhi del Cielo.
133Poi cominciò da tutte parti un grido
     Tal, che ’l Maestro inver di me si feo,
     Dicendo: Non dubbiar, mentr’io te guido.44
136Gloria in excelsis, tutti, sia a Deo,45
     Dicean, per quel ch’io da’ vicin compresi,
     Unde intender lo grido si poteo.
139Noi restavamo immobili e sospesi,46
     Come i pastor che prima udir quel canto,47
     Fin che ’l tremar cessò, et ei compièsi.48
142Poi ripilliammo il nostro cammin santo,49
     Guardando l’ombre che giacean per terra,
     Tornate già in su l’usato pianto.
145Nulla ignoranza mai con tanta guerra50
     Mi fe desiderando di sapere,
     Se la memoria mia in ciò non erra,
148Quanta mi parve allor pensando avere;51
     Nè per la fretta dimandare era oso,
     Nè per me lì potea cosa vedere;
151Unde io m’andava timido e pensoso.

  1. v. 5. C. A. spediti
  2. v. 10. C. A. sie tu,
  3. v. 14. C. M. transmutarsi,
  4. v. 15. C. A. sarà per
  5. v. 24. C. A. sponesti tuo
  6. v. 32. C. A. Nicolò
  7. v. 36. C. M. rinovelle,
  8. v. 37. C. A. fia
  9. v. 38. C. A. compir
  10. v. 38. C. M. camin
  11. v. 40. C. A. Ed egli: Io ti dirò,
  12. v. 42. C. A. riluce in te pria che sia
  13. v. 50. C. M. Luisi — C. A. Luigi,
  14. v. 51. C. A. Francia è retta.
  15. v. 52. C. A. beccaio
  16. v. 54. C. A. renduto
  17. v. 60. C. A. Cominciar
  18. v. 60. Comincior; comincioro, cominciarono, inflessione regolare e più ragionevole delle comuni cominciaro, cominciarono: perocchè nasce dalla terza singolare cominciò, con la giunta del ro o rono. L’uso però vuole preferita la seconda, proveniente dall’antico amà, comincià e simili. E.
  19. v. 63. C. A. Poco potea;
  20. v. 65. C. M. C. A. poscia,
  21. v. 69. C. A. Tommaso,
  22. v. 72. C. A. conoscer meglio e sè e’ suoi. — C. M. e sè i suoi.
  23. v. 79. Preso; prigione, prigioniero. E.
  24. v. 81. C. A. i corsar dell’altre
  25. v. 83. C. M. Poscia
  26. v. 83. C. A. Poi ch’ài il sangue mio a te
  27. v. 85. C. A. Perchè men paia il
  28. v. 90. C. M. tra’ vivi
  29. v. 90. C. A. vivi ladroni essere anciso.
  30. v. 92. C. A. ciò nol
  31. v. 93. C. A. Portar
  32. v. 99. C. A. cosa,
  33. v. 100. C. A. è risposto a tutte nostre
  34. v. 102. C. M. C. A. prendemo
  35. v. 104. C. A. Cui traditore e ladro e patricida
  36. v. 109. C. A. Acam ciascun poi si
  37. v. 111. C. A. il morda,
  38. v. 112. C. A. Safira;
  39. v. 116. C. A. ci si grida: Crasso,
  40. v. 117. C. A. Dil tu,
  41. v. 118. C. A. Talora parla l’uno all’altro
  42. v. 126. C. A. il poder
  43. v. 131. C. A. in lui
  44. v. 135. C. A. ti guido.
  45. v. 136. C. A. tutti Deo,
  46. v. 139. C. A. Noi ci stavamo
  47. v. 140. C. A. pria
  48. v. 141. Compièsi; si compiè, come perdèsi Purg. c. xix, v. 122. E.
  49. v. 142. C. A. Noi ripigliammo nostro
  50. v. 145. C. A. cotanta
  51. v. 148. C. A. pareami
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C O M M E N T O


Contra millior voler ec. Questo è lo canto xx de la seconda cantica di Dante, nel quale l’autore nostro tratta ancora dell’avarizia, e principalmente fa due cose: prima conta lo cammino suo per lo quale fu guidato da Virgilio, e come venne a parlamento con uno di quelli spiriti; ne la seconda finge che quello spirito continui anco lo suo parlare, e come sentitte cantar: Gloria in excelsis Deo, di po’ uno grande tremuoto che diè lo monte, e come ebbe grande vollia di sapere la cagione, et incomincia la secunda quive: L’altro, che già ec. La prima parte, che serà la prima lezione, si divide in parti vii, perchè prima continua come si partitte da quello spirito ch’era stato papa, e come guidato da Virgilio, lungo la ripa, vidde grande moltitudine di spiriti iacere ne lo spasso1 del balso bocconi, unde fa una esclamazione al cielo, et una esclamazione a l’avarizia; ne la seconda finge che, andando, uditte uno spirito fortemente chiamare la Virgine Maria e laudare la sua povertà, quive: Noi andavam coi passi ec.; ne la tersa finge come uditte ancora nominare e laudare Fabrizio romano, quive: Seguentemente intesi ec.; ne la quarta finge che andasse a dimandare quello spirito, che parlava, che condizione era la sua, e chi elli era, e come elli li rispuose, quive: O anima, che tanto ec.; ne la quinta finge come quello spirito li manifesta chi elli fu, e la sua successione, quive: Io fui ec.; ne la sesta finge come quello spirito, continuando suo parlare, dimostra come creve lo titulo dei suoi descendenti, quive: Mentre che la gran dote ec.; ne la settima finge come lo ditto spirito narra ancora d’un altro suo discendente, quive: Tempo vegg’io ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo co la sua esposizione litterale, allegorica e morale.

C. XX — v. 1-15. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come si partitte non sazio da lo spirito ditto di sopra; e seguitò suo cammino lungo la ripa, e fa esecrazione contra l’avarizia et esclamazione al cielo, dicendo: Contra millior voler voler mal pugna; cioè mal combattimento è quando una volontà, che non sia sì buona come un’altra, combatte contra quella ch’è milliore; cioè che vollia contra quel, che vuole quella ch’è milliore, Ond’io; cioè e per questo io Dante, contra ’l piacer mio; cioè contra la volontà mia, per piacerli; cioè al detto spirito di sopra, Trassi dell’acqua non sazia la spugna; cioè cavai la spugna fuor dell’acqua, non piena d’acqua [p. 466 modifica]quanto n’arebbe preso: e fa qui similitudine, cioè che la volontà sua era come una spugna2, e che li desidèri, ch’elli avea di sapere altre cose da quello spirito, rimaseno non sazi, come rimane la spugna2 quando si cava dell’acqua, inanti che sia tutta piena. E questo feci, usando discrezione: imperò ch’io non dovea, per saziare lo mio volere che non era sì buono come ’l suo, che era di far penitenzia del suo peccato; e ’l mio era di sapere ancora più da lui di quelli de la città sua, e de la casa sua, che non era sì buono volere come il suo, considerato la cagione preditta contastare e contradire al suo volere, Mossimi; cioè io Dante, e ’l Duca mio; cioè Virgilio, si mosse per li Luoghi espediti; cioè spacciati e non occupati da quelli spiriti, che stavano a diacere bocconi, legati le mani et i piedi, a far penitenzia dei loro peccati, pur lungo la roccia; cioè da lato del monte, che dall’altro lato non sarebbeno potuto andare, che non fusseno caduti: sì v’era pieno; e fa similitudine, dicendo: Come si va per muro stretto ai merli; cioè così andavamo stretti a la parete dell’altro balso, come su per le mura de le città allato ai merli, per non cadere da luogo voito; et assegna la cagione: Chè; cioè imperò che, la gente, che fonde; cioè che mette fuora, a goccia a goccia Per li occhi; cioè lagrimando, il mal; cioè la colpa dell’avarizia e de la prodigalità: imperò che insieme si purgano, come si mosterrà di sotto, che tutto ’l mondo occùpa: imperò che questo peccato tutto il mondo à preso, Dall’altra parte; cioè del monte, in fuor troppo s’approccia; cioè troppo s’approssima in fuora, sicchè non vi si potea andare. Questa fizione induce qui l’autore, per dimostrare allegoricamente che quelli del mondo denno tenere ogni estremo avuto nel tempo passato nel ditto peccato ne la mente, e considerarlo e dolersene quanto possano ne la sua penitenzia, per emenda de l’estremo ch’ànno3 tenuto de la avarizia e ne la prodigalità, e lassino lo spazio in verso lo balso in sul quale si purga lo peccato de la gola: imperò che l’avaro per avarizia non sazia la gola, sicchè ad essa non s’accosta; ma alli altri piggiori peccati e più gravi sta a periculo di cadere. E secondo la lettera, per convenienzia finge questo di quelli del purgatorio, che mostri l’attitudine che ànno avuto a cadere nelli altri più gravi peccati per questo peccato dell’avarizia, e però finge che stiano sì a lo stremo; et ancora, per mostrare la grande moltitudine de’ peccatori che caggiono in sì fatto peccato, mostra che sia pieno lo balso infine a lo stremo, e solamente rimagna lo voito brevissimo da potere andare verso la parete del balso dove si purga lo peccato della gola, che l’avaro non si tollie fame quanto ad effetto; può esser goloso quanto a la volontà; [p. 467 modifica]et adiunge l’autore una esecrazione a l’avarizia, dicendo: Maladetta sii tu, antica lupa; ecco che maladisce l’avarizia, la quale chiama lupa, per osservare la fizione posta da lui nel primo canto de la prima cantica, quando disse: Et una lupa che di tutte brame Mostrava carca ec.; e dice antica: imperò che questo peccato incominciò nel mondo in fin da Cain filliuolo d’Adamo che, secondo lo maestro de le storie scolastice4, fu trovatore de’ pesi e de le misure, Che più che tutte l’altre bestie ài preda; cioè tu ài più obietti che non ànno li altri vizi e peccati figurati per animali, come la superbia per lo leone, e la lussuria per la lonza, e così delli altri: imperò che niuno peccato si stende a tante cose, quanto l’avarizia: imperò che la superbia solamente ad eccellenzia e grandezza, la lussuria a saziare li appetiti carnali, e così delli altri; ma l’avarizia si stende a tutti beni mondani che sono grandi, come è la terra, come sono li metalli, sicchè bene à maggior preda che li altri peccati figurati per le bestie, Per la tua fame; cioè per la tua cupidità, senza fine cupa; cioè cava sensa fondo: imperò che mai non si sazia et ad ogni cosa si stende, come mostrato è ne la prima cantica dove si tratta d’essa; e tutti li più omini per lo bisogno, che ànno dei beni5 mondani, cadeno in essa, desiderandoli immoderatamente. E perchè questa fame è insaziabile, però si cercano più cose per saziarla, e non se ne trovano però tante ch’ella si sazi, e però ben dice che la fame insaziabile sia cagione de l’abbondanzia de la preda. E per questo entra l’autore in una esclamazione inverso ’l cielo, ne la quale si manifesta quello ch’elli intese per lo veltro nel canto primo de la prima cantica, quando disse: infin che il veltro Verrà, che la farà morir con doglia. Questi non ciberà terra, nè peltro; Ma sapienzia, amore e virtute, E sua nazion sarà tra feltro e feltro. Ecco che ora dichiara chi è questo veltro; cioè influenzia celeste, e feltro intese per lo cielo, e però disse: O ciel; ecco che dirissa lo suo parlare al cielo, nel cui girar par che si creda Le condizion di qua giù; cioè del mondo, trasmutarsi; cioè mutarsi d’una in un’altra, e di contraria in contraria, secondo li Matematici; ma secondo li Teologi, secondo la volontà di Dio si mutano le cose mondane; e questo si può recare a concordanzia: imperò che se i cieli sono cagioni del mutamento de le cose del mondo co le loro influenzie, che danno secondo le suoe revoluzioni, et Iddio è prima cagione dei movimenti dei cieli, dunque Iddio è cagione d’ogni nostro mutamento, secondo che dice s. Augustino: Voluntas Dei est prima, et summa causa omnium corporalium et spiritualium motionum: nihil enim ec. — Quando [p. 468 modifica]verrà per cui questa disceda; cioè quando verrà quil veltro; cioè quella influenzia del cielo, per la quale questa avarizia si cessi del mondo e ritorni ne lo inferno, unde lo Lucifero la cavò e seminò nel mondo per invidia ch’elli ebbe a la umana generazione; e per ciò dimanda l’autore Quando, per mostrare lo grande desiderio ch’elli n’à; imperò che de l’avarizia avea grande dispiacere.

C. XX — v. 16-24. In questi tre ternari lo nostro autore finge come, andando al suo cammino, tra quelli spiriti atterrati uditte esempli incitativi a povertà che caccia l’avarizia, quando viene con volontà de l’omo. E prima pone l’esemplo de la nostra Donna e del nostro signore Gesù Cristo lo quale vuolse nascere e venire in questo mondo poverissimamente, nascendo ne la stalla de le bestie dove la mangiatoia li fu ghieculo, e lo bu’6 e l’asino scaldatori co lo loro fiato; lo quale esemplo dovrebbe ricontraere7 ad amore di povertà ogni uno da l’appetito de le ricchezze, che nasce d’avarizia; e però dice; Noi; cioè Virgilio et io Dante, andavam; per lo luogo ditto di sopra, coi passi lenti e scarsi; imperò che per lo luogo stretto non si potea ampliare, nè spesseggiare lo passo, Et io; cioè Dante, attento; cioè andava, all’ombre ch’io sentia Pietosamente pianger e lagnarsi; le quali si purgavano del peccato de l’avarizia. E per ventura udi’; cioè io Dante dire ad una, o vero da più di quelle anime; Dolce Maria, Dinanzi a noi; cioè a Virgilio et a me Dante, chiamar così nel pianto; ch’elle faceano per purgazione del loro peccato, Come fa donna che in parturir sia; ecco che fa la similitudine propria: imperò che le donne che sono al parturire, per lo dolore e per la pena con voce piangulosa gridano: Dolce Virgine Maria. E seguitar; uditti poi ne le parole: Povera fusti tanto; tu, Virgine Maria, Quanto veder si può per quell’ospizio, cioè per quello albergo, Dove sponesti; cioè parturisti, il tuo portato santo; cioè lo tuo santissimo Filliuolo, che avei portato nel tuo ventre nove mesi, che fu in uno porticale, dove si tenevano le bestie lo di’ del mercato. E benchè questo fusse per accidente, che volse così Iddio per esemplo a noi nascere in luogo strano e forestieri e sì vile; niente di meno la Virgine Maria da sè, benchè fusse di stirpe reale, fu poverissima che non avea pur una casa che fusse sua, come afferma Cristo ne l’Evangelio: Nostræ terræ habent cubilia, volucres cœli habent nidos; filius autem hominis non habet ubi reclinet caput suum. Questo è assai commotivo esemplo contra l’avarizia; e però finge l’autore che quelle anime del purgatorio lo dovesseno a sè ricordare in confusione de la loro avarizia avuta nel mondo. Et [p. 469 modifica]allegoricamente, quelle del mondo lo dobbiano avere nel cuore ripensandolo, e ne la bocca raccordandolo l’una all’altra, quando fanno penitenza de la loro avarizia.

C. XX — v. 25-33. In questi tre ternari lo nostro autore finge come anco quello spirito, che ditto avea di sopra de la povertà de la nostra Donna, per esemplo induttivo al contentamento de la povertà, dicea ancora l’esemplo di Fabrizio e di s. Nicolao, dicendo: Seguentemente; cioè seguitando di po ’l primo esemplo, intesi; io Dante dire a lo spirito, che parlò di sopra: O buon Fabrizio; Questi fu romano, povero, molto virtuoso, del quale si legge ne le storie romane che, essendo mandato contra Pirro re de li Epiroti e tentato da lui che s’elli volesse tradire la republica di Roma, elli li darebbe molto oro, al quale8 Fabrizio rispuose, che li Romani non desideravano oro; ma signoreggiare a coloro che possedevano l’oro, e povero si morì, sicchè convenne che l’esequie si facesseno de la republica; e però dice: Con povertà volesti anzi virtute; cioè volesti inanti vivere virtuoso, Che gran ricchezza posseder con vizio; cioè diventar ricco et esser traditore de la patria tua, che serebbe stato grandissimo vizio. Queste parole; che ditte funno prima de la Virgine Maria, e poi di Fabrizio dice l’autore, m’eran sì piaciute; cioè a me Dante, Ch’io mi trassi oltra; cioè più inansi andai, per aver contezza; cioè cognoscenzia, Di quello spirto onde; cioè del quale, parean venute; le parole ditte de la Virgine Maria e di Fabrizio. Esso; cioè spirito, parlava ancor de la larghezza, Che fece Nicolao a le pulcelle; cioè santo Nicolao che fu vescovo di Bari: essendo giovanetto servo di Dio ne la città sua, che si chiamava Ameria ch’è in Grecia, et avendo revelazione che uno povero gentile omo era ne la città che avea tre filliuole bellissime, e non avendo di che notricarle, nè di che vivere, nè poterle maritare, s’era disposto di metterle nel luogo disonesto a guadagnare vitoperosamente, si mosse di notte con una tasca di denari che fosse sofficiente a la dota d’una di queste pulcelle, e sì la gittò in casa del suo povero cittadino; unde questi levato la mattina, andando per casa vedendo la tasca de la moneta e cognoscendo ch’era dono di Dio, levossi dal proposito e maritò la maggiore. Possa s. Nicolao andò anco di notte a la casa del ditto gentile omo, e gittò9 l’altra per la segonda, e poi l’altra per la tersa; sicchè lo gentile omo maritò tutte le filliuole, e condussele ad onore per la larghezza di s. Nicolao, che non fu avaro; ma larghissimo per [p. 470 modifica]l’amore di Dio: e però dice l’autore: Per condur ad onor lor giovanezza; cioè ad onor di matrimonio, e levarle del biasmo del meretricio.

C. XX — v. 34-42. In questi tre ternari lo nostro autore finge come, venuto a lo spirito che li parea che avesse ditto le parole ditte di sopra, elli lo dimandò chi elli era, et elli li rispuose, dicendo O anima, che tanto ben favelle; quant’io abbo udito di sopra. Dimmi chi fosti, dissi; cioè io Dante, e perchè sola Tu queste degne lode rinnovelle; questo dice, perchè parea a lui avere udito pur lui; ma, come apparrà di sotto, questo parlare era di tutte. Et acciò che ’l dica più volentieri, li promette premio di fama; e però dice: Non fi’ senza mercè; cioè sensa premio, la tua parola; cioè lo parlare che mi farai, S’io ritorno a compier lo cammin corto Di quella vita; cioè mondana, che al termine vola; ecco che li promette di darli fama, s’elli ritornerà al mondo; e questo serà la mercè che li promette. Et elli; cioè quello spirito rispuose: Et io dirò, non per conforto Ch’io attenda di là; cioè ch’io aspetti ne la vita mondana: ecco che dimostra l’anime passate non curarsi più de le cose mondane, come dice Boezio nel secondo della Filosofica Consolazione: Sin vero sibi mens bene conscia, terreno carcere resoluta, cœlum libera petit, nonne omne terrenum negocium spernet. Quæ se cœlo fruens, terrenis gaudet exemptam? etc.; e così l’anime del purgatorio che sono in espettazione de la salute eterna, ma perchè tanta Grazia in te; cioè Dante, luce; cioè risplende tanta grazia di Dio in te, che vai vedendo lo purgatorio, et ài veduto lo inferno, et ài a vedere lo paradiso, prima che sii morto; cioè passato de la vita mondana; la qual grazia Dio fa a poghi, cioè che vadino co lo ingegno e co lo intelletto considerando l’altra vita e le condizioni, meriti e demeriti de’ passati, come vai tu; e però ti vo10 rispondere di quello che dimandi.

C. XX — v. 43-60. In questi sei ternari lo nostro autore finge come lo spirito, dimandato da lui, li risponde de la sua condizione e de la sua origine; e qui si manifesta la mutazione del sangue de’ regi11 di Parigi, come chiaramente dice lo testo. Dice così: Tu dimandi chi io sono, io tel dico: Io fui radice de la mala pianta; cioè principio de la generazione dei regi di Francia, poi che la stirpe di Carlo Magno venne meno; e dice mala pianta, perchè questi funno rii a rispetto dei discesi da Carlo Magno, che tutti funno santi e buoni; e però dice lo testo de la mala pianta, Che; cioè la qual pianta, [p. 471 modifica]aduggia; cioè adombra, tutta la terra cristiana: imperò che si è cresciuto lo reame di Francia, che tutti li altri riami dei cristiani avansa, e massimamente, poi che la chiesa romana fu di là; e però dice che questa pianta è sì grande, che adombra tutta la cristianità, Sì che buon frutto rado se ne schianta; questo si riferisce a la mala pianta, dicendo che ella è sì ria, che rade volte n’esce buon frutto; cioè buoni descendenti; ma pur alcuna volta n’esceno: non addiviene come dell’arbaro12 tristo, che non può mai fare buono frutto; ma ben può fare buoni polloni, e così l’omo rio non può fare mai buone operazioni; ma ben può fare boni filliuoli. Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia; queste sono città di Flandia13 ch’è vicina a la Francia, e sono state oppresse dai regi di Francia, sicchè ànno odio contra di loro; e però nomina esse e dice: Potesser; cioè avesseno potenzia, tosto ne serea14 vendetta: imperò che li baroni di Flandia sporrebbeno sì fatti regi, se avessono potenzia; ma noll’anno, e però nol fanno. Et io; cioè Ugo principio del sangue secondo dei regi di Francia, la chieggio; cioè la vendetta de’ miei riei descendenti, a Lui; cioè a colui, cioè a Dio, che; cioè lo quale, tutto giuggia15; cioè tutto iudica e vede. Chiamato fui di là; cioè nel mondo, Ugo Ciapetta; ecco che si nomina. Questi16, nel canto xxvi come dirà di sotto, fu filliuolo d’uno17 tavernaio di Parigi, e fu sì virtuoso ch’elli divenne conte di Parigi, maggiore siniscalco che avesse lo re di Francia, et era del suo stretto consillio, e quasi tutto lo regno si governava per le suoe mani; et essendo in quello stato, prese per donna una de la stirpe reale; unde venendo a morte lo re di Francia, non avendo filliuoli, e non essendo alcuno altro a cui cadesse l’eredità del regno, se non ad uno ch’era fatto religioso et andava vestito di panni bigi e non volse la corona, fu coronato uno filliuolo che avea Ugo Ciapetta, nominato Roberto de la sua donna ch’era de la stirpe reale, in re: tanto seppe operare lo ditto Ugo coi suoi denari e co la sua potenzia e co la sua amistà. E di quello suo filliuolo sono poi discesi li regi di Francia, che sono venuti ai nostri tempi; e però dice: Di me son nati i Filippi e i Loigi; cioè del mio filliuolo, che era per madre de la casa di Francia, sono nati li re di Francia che tutti sono chiamati o Filippi o Loigi 18, Per cui; cioè per li quali, novellamente è Francia retta: però che tutta via è poi durata la sua schiatta. Filliuol fui; cioè io Ugo, d’un beccar; cioè che vendea carne, e chiamansi beccari dai becchi che vendeno li cavernai19 di Francia, [p. 472 modifica]di Parigi; perchè era nato di Parigi, Quando li regi antichi venner meno Tutti; cioè quelli de la casa di Carlo Magno, li quali, come si dice, tutti aveano una croce impressa ne la carne in su la spalla ritta, funno morti tutti, fuor ch’un redutto in panni bigi; cioè eccetto uno che era fatto frate o romito, e non volse venire a la corona, Trova’mi stretto ne le mani il freno Del governo del regno; perch’io era conte o maggior siniscalco, e tanta possa Di nuovo acquisto; cioè tanta potenzia di richesse acquistate di nuovo e sì d’amici pieno; cioè con tanta amistà, Che alla corona vedova; ch’era morto lo re, e non v’era altro successore, fu promossa La testa di mio fillio: imperò che fu Roberto coronato re, dal quale; cioè mio filliuolo, Comincior di costor le sacrate ossa; cioè di questi regi ch’io abbo nominato Filippi e Loigi e che sono ora, e dice sacrate ossa: però che tutti li re cristiani sono consecrati co la crisma20, come li diaconi de l’Evangelio; e però quando disse Iddio: Nolite tangere Christos meos, intese dei regi come dei sacerdoti. E per questo si vede come la casa di Francia è degenerata, benchè dal lato materno sia servata l’origine; e però cautamente indusse l’autore che Ugo fusse di ciò parlatore: però che nessuno potea più attamente dire queste cose che elli, e non sono cose che si trovino appo li autori; e però usoe l’autore questa finzione.

C. XX — v. 61-69. In questi tre ternari lo nostro autore finge come lo spirito ditto di sopra, continuando lo suo parlare, dice de le condizioni dei discendenti de la casa sua, dicendo così: Mentre che la gran dote provensale Al sangue mio non tolse la vergogna; cioè infino a tanto che ’l mio sangue non s’imparentò coi conti di Provensa: imperò che Loisio primo genito, e Carlo discesi del sangue di Ugo; cioè filliuoli del re Filippo presono per donne due filliuole del conte di Provensa; cioè di Ramondo Berlingieri21, del quale dirà ne la tersa cantica, et ebbono per dote la Provensa et allora incomincionno ad avere richessa e forsa e funno nobilitati, che infine a quel punto si stavano li re di Francia umilmente nel regno suo, e possedevano lo ditto regno con vergogna, come chi l’à usurpato; ma poi che ebbeno quella dote, incomincionno ad insuperbire e cerconno d’acquistare più; e però dice: Pogo volea; cioè lo mio sangue, ma pur non facea male: imperò che si stava ne’ termini suoi e nel regno suo. Lì; cioè quive in Provensa, cominciò; cioè lo mio sangue, con forza e con menzogna; cioè co la forsa de l’arme e co le bugie, promettendo e non attenendo22, La sua rapina; cioè la sua rubbaria, rubbando e tolliendo le terre altrui, e possa, per ammenda; cioè per ammendamento de la rapina fatta la fece maggiore; et è [p. 473 modifica]qui ironia; cioè parlare per lo contrario: imperò che questo non fu ammendare la rapina; ma fu accrescerla; e però dice: prese Ponti; che è una provincia, vicina a questa e seguente, e Normandia; che è provincia al lato a la seguente et a Ponti, e Guascogna; che confina co la Spagna: questa è una provincia prossima a quelle due di sopra; cioè Ponti e Normandia, e tutte sono presso a la Francia, e tutte queste23 terre occupò lo re di Francia. Carlo venne in Italia; questo Carlo fu lo fratello del re Loisi ditto di sopra, lo quale fu fatto conte di Provensa, pilliando donna del detto contado, erede come detto è; e partitosi di Provensa et andato a Roma nel 1266 fu fatto senatore di Roma e stato da 4 mesi e va, come si contiene nel canto iii di questa cantica. Elli venne in Italia24 e coniunse lo reame e sconfisse et uccise lo re Manfredi, e tenne la Pullia e la Sicilia, in fin che ’l re di Ragona liela tolse, poi li rimase pur la Pullia. E questo Carlo, fatto re per la chiesa di Sicilia, et essendo conte di Provensa e signore de la Pullia, come si contiene nel canto xxviii de la prima cantica25, venne in Italia Curradino filliuolo de lo imperadore Currado, filliuolo de lo imperadore Federico secondo, e rimase Curradino nel ventre de la madre quando morì lo imperadore Currado; e però fu chiamato Curradino provocato dai ghibellini d’Italia, li quali erano oppressi dal re Carlo preditto. E temendo lo re Carlo di lui, combattette con lui e vinselo; e venutoli nelle mani per tradimento, li fece talliare la testa et a molti altri con lui, tra’ quali fu lo conte Gaddo di Pisa; e però dice l’autore: e per ammenda; intendendo per lo contrario, cioè adiungendo male a male, Vittima fe di Curradino; cioè fece sacrificio di lui, che l’uccise iniustamente e lui e li altri, come ditto è, e poi; qui tocca l’altro mal fatto, che fe lo re Carlo preditto, molto abominevile. Et intorno a ciò debbiamo sapere che ’l ditto re Carlo, poi che fu fatto re, volse seco santo Tomaso d’Aquino, dottore novello, lo quale avea studiato in Parigi e fatto era quive maestro in Teologia, per avere lo consillio, benchè pogo lo osservasse; e venendo caso che la chiesa di Roma fece lo suo concilio a Lione sopra Rodano di Provensa, nel quale si raunonno tutti valenti cherici del mondo, fu mandato per santo Tomaso; unde elli, partendosi da Napuli, andò al re Carlo notificandoli la sua partenza, per sapere se ’l re li volesse imponere26 niente; e nel parlamento lo re li disse: Maestro Tomaso, se ’l s. padre vi dimandrà di noi, che li direte voi? Rispuose s. Tomaso: Signore, io li dirò pur lo vero; e partito lo ditto santo Tomaso et ito a suo cammino, lo re Carlo venne [p. 474 modifica]ripensando sopra la risposta di s. Tomaso, e ripensando la condizione sua che era viziosa, e sentivasi avere sì bene operato nel reggimento del regno, che sapendo lo papa la verità elli lo priverebbe del regno, incominciò ad avere grande malanconia; e venuto in agrimonia27 d’animo stava come malato. Unde li medici suoi avvedendosi di ciò, lo dimandonno che pensieri elli avesse preso che li cagionava quella infirmità; e che se volea guarire, era mestieri che si tolliesse quello pensieri. Unde lo re Carlo manifestò lo suo segreto ad uno de’ suoi medici lo più segretario e confidente ch’elli avesse; allora lo medico disse: Di questo vi libererò, se voi volete. Et allora disse lo re: Fa ciò che ti pare da fare; e lo medico disse: Non c’è altro modo, se non di levarli la vita onestamente, inanti che iunga là. Disse lo re: Fa ciò che ti pare; allora lo medico andò di rieto a santo Tomaso, et iuntolo disse: Lo signor re m’à mandato, che sa che siete defettuoso, ch’io vi faccia compagnia e per onore de la sua corona. Allora s. Tomaso disse: Io sono contento di ciò che piace al signore. Andando per cammino, questo medico da inde a du’ di’ unse lo luogo, dove s. Tomaso andò, per fare l’agio de la natura, con uno veneno sì acuto che, postovisi a sedere, in poco tempo s. Tomaso uscitte fuora di questa vita; sicchè non giunse al sinodo, e così perfidamente operò lo medico, che s. Tomaso niente potette riferire del re Carlo al sinodo et al consillio, nè al s. padre; e però dice l’autore: e poi Ripinse al Ciel Tomaso; cioè s. Tomaso dottore novello. Tutte l’anime nostre sono create da Dio, e però si può dire che vegnano dal cielo, in quanto Iddio che le crea è in cielo; e però ben dice l’autore che Carlo ripinse; cioè fece ripingere al medico col veneno l’anima di s. Tomaso al cielo, unde era discesa per la potenzia di Dio creativa, che l’avea creata nel ventre de la madre sua, organizata e compiuto d’organizare lo corpo suo. per ammenda; cioè per ristoro et emendamento dell’altre cose mal fatte; et anco si dè intendere per lo contrario, et àe usato qui l’autore questo vocabulo ammenda in tre versetti per consonanzia, che non l’abbo ancora trovato più altro, se non in altra significazione; ma non in una medesma, come qui. Molte possano essere le cagioni, che a ciò lo indussono; cioè o per mostrare che si possa fare, o per fare colore retorico che si chiama traduzione28, che si fa in uno medesimo vocabulo preso in una medesima significazione, et in diverse.

C. XX — v. 70-78. In questi tre ternari lo nostro autore finge come lo ditto spirito; cioè Ugo Ciapetta, continuando lo suo parlare di quelli de la casa sua, manifesta e predice a Dante d’uno altro Carlo che venne in Toscana, che fu chiamato Carlo sensa terra, lo [p. 475 modifica]quale fece peggio che tutti li altri, dicendo: Tempo vegg’io; io Ugo, ancoi; cioè ancora; e parla in questa forma, che questo che dirà ora non era anco stato, quando l’autore finge ch’avesse questa fantasia; e però finge ch’elli lo dica inanti: imperò che l’autore ebbe questa fantasia nel 1300 del mese di marso, e questo fu poi a mesi parecchi, non molto di po’29 ancoi; cioè a questo tempo del 1300, Che; cioè lo quale tempo, tragge un altro Carlo fuor di Francia; cioè Carlo sensa terra, ditto così perchè nessuno titulo avea, nè niuna signoria: questi fu filliuolo del re Loisi preditto, lo quale ebbe due filliuoli, Filippo primogenito, e Carlo; e perchè lo primogenito succede nel regno, succedè Filippo; e Carlo venne in Toscana solo, e con inganni e tradimenti si fece co li guelfi di Toscana, et in Fiorensa seminò grande divisione e fece cacciare li Cerchi e li altri casati ghibellini di Fiorensa, e con pogo onore e con nessuno acquisto tornò in Francia; e però dice: Per far cognoscer mellio sè e i suoi: imperò che per le suoe viziate opere fece cognoscere sè vizioso, e quelli de la casa sua mellio che non avea fatto l’altro Carlo suo zio, conte di Provensa e re di Pullia e di Sicilia. Senz’arme: imperò che non menò seco gente d’arme, n’esce solo; cioè di Francia: imperò che esercito non venne con lui; non è da credere che qualche compagnia non avesse, e co la lancia; cioè esce di Francia, Co la qual; cioè lancia, giostrò Giuda; cioè Giuda Scariot, lo quale traditte lo nostro Signore Gesù Cristo, suo maestro; e però vuole significare che ’l ditto Carlo fu traditore et ingannatore, e quella; cioè lancia, ponta; cioè poggia, ; cioè per sì fatto modo, che a Fiorenza fa scoppiar la pancia: imperò che la reca in divisione. Quindi; cioè di Toscana e di Fiorensa, non Guadagnerà terra: imperò che niente acquistò, però finge l’autore che Ugo predìca così, ma peccato et onta; cioè vergogna guadagnerà co le sue perfide opere, per sè; dice: imperò che ’l peccato e la vergogna tornerà sopra lui, tanto più grave; cioè che non sarebbe, Quanto più lieve simil danno conta; cioè tanto è più grave lo peccato e la vergogna, quanto meno se ne cura: imperò che mostra che sia ostinato e stolto, e questo li è maggior vergogna e maggior peccato. E qui finisce la prima lezione del canto xx. Seguita la secunda.

L’altro, che già uscì ec. Questa è la secunda lezione del canto xx, ne la quale l’autore finge che lo spirito ditto di sopra continui ancora lo suo parlamento, e come sentitte un grande tremuoto30 con un grande canto, e come ebbe desiderio di sapere la cagione dei ditti accidenti. E dividesi questa lezione in 5 parti, perchè prima finge come Ugo preditto, continuando lo suo parlare, predìca [p. 476 modifica]ancora del re Carlo, padre del re Roberto; ne la seconda finge che predìca la persecuzione di papa Bonifazio fatta per li suoi, et incomincia quive: E perchè paia ec.; ne la tersa finge che ’l ditto spirito dichiari lo parlare che fanno lo di’, e quello che fanno la notte, et incomincia quive: Ciò che io dicea ec.; ne la quarta finge come, partito da lui, elli sentitte lo tremuoto e ’l canto, quive: Noi eravam partiti ec.; ne la quinta finge come, fermati per l’accidente, cessato l’accidente et inteso lo canto, procedettono al loro cammino, quive: Noi restavamo immobili ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co la esposizione testuale, allegorica e morale.

C. XX — v. 79-84. In questi due ternari lo nostro autore finge come lo ditto spirito li denunzia lo terso Carlo, lo quale fu filliuolo del primo; cioè del re Carlo di Pullia e di Sicilia e conte di Provensa, lo quale fu schiantato31, e fu padre del re Roberto; e però fu detto Carlo sopra ditto principe o vero prense32, lo quale essendo giovenetto, convenne il padre, cioè lo re Carlo fratello del re Loisio avendo già perduta la Cicilia che lie l’avea tolta lo re di Ragona, andare a corte; et andando comandò ai suoi baroni che stesseno a buona guardia e non s’arrecasseno mai a battallia col re di Ragona, che tenea la Sicilia e guerreggiava con lui, infine a la sua tornata. Essendo partito lo re Carlo nel 1284, addi’ 8 di giugno, Ruggieri di Lori ammirallio di don Piero di Ragona venne con molte galee di Sicilia, e forsi quattro intronno nel porto di Napuli rubbando chiunqua v’era, e dispregiando lo re Carlo quanto poteano; unde lo filliuolo, vedendo tanta onta, non volse stare al consillio dei baroni; ma uscitte contra loro con molte galee. Unde quelle 4 di Sicilia si trasseno fuor del porto, e scaramucciando mandonno uno palamaio sotto la galea di Carlo zoppo, lo quale la forò in più parti; et uscite fuora del porto le galee di Sicilia, e quelle di Napuli seguitandole, sopra giunseno 16 galee di Sicilia che stavano appiattate; unde le galee di Napuli si ricolseno, salvo che quella u’ era Carlo zoppo, la quale era già piena d’acqua ch’era per affogare, se non che l’inimici la sopraiungeseno e presenola e menonnone pregione lo filliuolo del re, cioè Carlo zoppo, con otto altre galee che preseno oltra la sua. Tornato lo re Carlo, trovato questo, fece dicapitare quelli baroni che di ciò ebbeno colpa, e lo ditto anno moritte lo ditto re Carlo in Capua, e fu recato a Napuli, e lo regno di Pullia tenne lo conte Roberto d’Artesi co la principessa, e con Carlo Martello primogenito di Carlo zoppo, principe di Taranto; e lo ditto Carlo zoppo fu menato a Ragona, e quive era tenuto in prigione [p. 477 modifica]da don Piero. Poi morto don Piero, succede don Alfonso, e da lui lo re Odoardo d’Inghilterra cugino di Carlo zoppo principe ebbe libero di pregione lo ditto Carlo, promettendoli che Carlo filliuolo di Filippo re di Francia, rifiuterebbe con volontà del papa lo regno di Ragona, e rimarrebbe al detto Alfunso; et anco li darebbe per questo 30000 marchi di sterlini. E questo fu nel 1288, e diedeli per stadichi tre suoi filliuoli e 50 cavallieri di Provensa li milliori che vi fusseno, promettendo, se ciò che ditto è non osservasse, di tornare in prigione da ivi a tre anni; e tornato a regno, andò al papa a corte, e fu coronato re di Pullia e di Sicilia nel 1289 lo di’ de la Pentecoste; e nel 1295 fece pace con don Iacomo re di Ragona e diedeli una sua filliuola per mollie e fece rinnonsare33 a Carlo di Francia a reame suddetto, come avea promesso. E per questo lo ditto re Carlo diede al ditto Carlo di Francia l’altra sua filliuola, dandoli per dote lo ducato d’Angiò; e di po’ questi travalli lo ditto re Carlo Zoppo, poi che fu re fatto di po’ il 1300, avendo una filliuola, la maritò al marchesi d’Esti per denari che ebbe da lui; cioè a messere Asso marchese da Esti: Esti è una terra che confina con Ferrara, la quale è anco sotto ’l ditto marchese; e però dice l’autore: L’altro; cioè Carlo zoppo, filliuolo del re Carlo primo, che; cioè lo quale, già uscì preso di nave; quando scitte34 de la galea sua forata che annegava, e montò su in quella de’ nimici e fu pregione, Veggio vender sua fillia: imperò che s’arrecò a maritarla al marchese Asso da Esti per denari ch’elli ebbe da lui, sicchè ben fu come vendere, e patteggiarne; cioè farne patto; io ne vollio tante milliaia di fiorini, s’elli la vuole, Come fanno i corsal; cioè li rubbatori di mare che vendono le schiave ch’ànno rubbate, e patteggiano d’esse quando le vendono; e però dice, dell’altrui schiave; cioè de le schiave altrui che ànno rubbate; unde l’autore finge che Ugo Ciappetta, che parlava per indignazione mosso ad ira, parla contra l’avarizia e fa invettiva, dicendo: O avarizia, che puoi tu più farne; cioè contra me e i miei, Possa ch’ài ’l mio sangue a te sì tratto; cioè sì tratto a te, Che non si cura de la propria carne; cioè de la filliuola la quale si può dire che Carlo vendesse, in quanto per denari s’indusse a darla sì vilmente per rispetto di sè ch’era re? Questa istoria; cioè del maritamento de la filliuola al marchese, non de la presura che era stata inanti, come apparì di sopra; e l’altra di sopra, cioè di Carlo sensa terra, non erano anco state quando l’autore finge che avesse questa fantasia; ma bene erano passate quando le scrisse; e cosi quella che seguiterà ora, cioè di papa Bonifazio de la quale farà menzione ora, che fu poi nel seguente anno nel 1301 nel mese di settembre: [p. 478 modifica]imperò ch’elli ebbe la fantasia di marso a l’entrata dell’anno, e durò la visione, du’ di’ e du’ notti, de lo ’nferno; e 4 di’ e 4 notti, questa del purgatario; sicchè ciò che fu di po’ lo detto tempo era a venire, e però la fizione de l’autore è ragionevile.

C. XX — v. 85-96. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che Ugo Ciappetta, seguitando la sua orazione, manifesta quello che dè esser fatto per lo re di Francia suo escendente a papa Bonifazio, predicendo quello che, allora quando l’autore finge che avesse questa fantasia, era a venire; ma quando lo scrisse era avvenuto. Et intorno a ciò è da sapere che, essendo papa Bonifazio VIII natio d’Alagna nel 1301 nel papato, messer Benedetto da Gaetani da Pisa cardinale essendo in Roma, fu mandato delegato de la chiesa di Roma in Francia, per cagione del Vescovo di Palma che lo re avea meso35 in prigione; e non essendo onorato del re Filippo che era allora, nè lassatoli fare l’officio suo, sdegnato molto fortemente ritornato in corte disse al papa lo poco onore che avea ricevuto, e commosse tutta la corte incontra lo ditto re. Unde lo papa mandò uno suo legato al ditto re, con imbasciata che la corte di Roma volea sapere da cui lo ditto re teneva lo reame di Francia; de la quale imbasciata sdegnato e turbato lo re, comandò al ditto legato che in fra tre di’ dovesse avere sgomberato lo suo regno, a pena de la vita; e mandòli di rieto suoi officiali ch’el pilliasseno e rimenanselo36 a lui, se lo trovasseno di po ’l ditto termino nel suo regno; e di poi pogo tempo mandò una lettera e fecela ponere37 all’uscio de la camera del papa, la quale era scritta in questa forma: Filippo re di Francia per la grazia di Dio a te Bonifazio, tenente luogo di Papa, salute pogha38, o niuna. Sappi che lo regno di Francia tegnamo da Dio, e non da niuna persona del mondo; e chi altro volesse dire, noi reputiamo eretico. E per questo creve anco più lo sdegno tra la corte, e ’l detto re39; unde la corte di Roma scomunicò lo detto re, et indusse lo conte di Flandia a guerra col re di Francia, e fu sconfitto lo re di Francia; unde lo detto re s’accostò con quelli de la Colonna ch’erano inimici fatti di papa Bonifazio, scomunicati da lui per molti eccessi commessi da loro nel 1297, addi’ 12 di maggio, e poi ricomunicati nel 1298 del mese di settembre, e poi inanti che passasse l’anno anco da capo scomunicati. E perseguitò lo ditto papa tanto, che co le insegne reali uno suo barone40 con 4000 barbicendi suo’ cavalieri con quelli de la [p. 479 modifica]Colonna intronno per trattato in una terra, ch’è nel patrimonio che si chiama Alagna; e quive trovato papa Bonifazio, lo intorneonno perchè li ricomunicasse; et elli stette pertinace in su la sedia papale co l’ammanto di s. Piero, tre di’ e tre notti di verno; e guardandolo tre notti e tre di’ che non si partisse de la sua camera, di po ’l terso di’ funno cacciati d’Alagna, e ’l ditto papa se n’andò a Roma. Et in Alagna, et in Roma rubbonno li predittii la camera del papa; per la qual cosa lo ditto papa poi visse forsi41 4 di’ di po’ la presura sua in Alagna, e da sua antica infermità di fianco stretto più fortemente che l’altre volte, forsi per la malagevilessa che sostenne in quelli tre di’ e tre notti, che fu detenuto ch’era di verno, finitte la vita42. E però dice lo testo: E perchè paia ’l mal futuro e ’l fatto; quasi dica: Acciò che appaia lo male che denno ancora fare li miei e che ànno fatto, io ti vollio ancora dire quello ch’io veggio: può anco dire lo testo: Perchè mei paia; cioè acciò che mellio si vegga lo male che è a fare e quil ch’è fatto, dirotti quil ch’io veggio ancora a venire: e può anco dire: Perchè men paia; et allora s’intende per lo contrario; cioè acciò che più si paia; e questo cotale parlare si chiama ironia; e dice lo male futuro e ’l fatto: imperò che qui è di quello che era passato; la scomunicazione e la ricomuncazione e poi anco scomunicazione dei Colonnesi; e di quello che era a fare; cioè la pressura43 di papa Bonifazio, fatto poi nel 1301, Veggio; cioè io Ugo, in Alagna; cioè in quella terra che ditta è, intrar lo fior d’aliso; cioè lo gillio che è l’arme de la casa di Francia, cioè lo gillio ad oro, e lo rastello in campo azurro; e però dice fior d’aliso: imperò che lo gillio per Francia si chiama fior d’aliso, E nel Vicario suo Cristo esser catto44: imperò che quive fu preso papa Bonifazio, sicchè tre di’ e tre notti stette in su la sua sedia che non potette andare altrove; et essendo preso elli ch’era vicario di Dio, ben si può dire che fusse preso Cristo. Veggiolo un’altra volta esser deriso: imperò che quive fu papa Bonifazio schernito da coloro che l’aveano preso, come fu Cristo da Iudei; e però dice un’altra volta; e dice quil ch’era fatto al papa esser fatto a Cristo, perchè ’l papa è suo vicario, e ciò che si fa al vicario s’intende fatto al signore. Veggio rinnovellar l’aceto e ’l fele: imperò che poi che l’ebbeno intorneato e stavanlo a guardare stretti45, quelli tre di’ e tre notti, che non mangiò altro che uova fresche che li arrecava una sua notrice col testo de la bonna46 et in sua presenzia le scaldava; et elli [p. 480 modifica]se le pilliava e rompea con sua mano e beveale, e così visse quelli tre di’ per suspetto ch’avea d’essere avvenenato. E perchè questo era cosa di grande asprezza et amaritudine al detto papa, però dice: Veggio rinnovellar l’aceto e ’l fele; cioè che questo fui47 a lui, come a Cristo l’aceto e ’l fele, E tra’ novi48, ovvero vivi, ladroni esser ucciso; cioè tra coloro che lo stavano a guardare perchè non fusse cavato quinde, ch’erano vivi ladroni che arebbeno meritato d’esser morti per la loro iniquità; o vero nuovi, cioè di nuovo apparecchiati a compagnare lo ditto papa ne la morte, come li ladroni crocifissi e morti accompagnarono ne la morte lo nostro signore Gesù Cristo; dice esser ucciso: imperò che benchè nollo uccidesseno, tale fu: imperò che funno cagione ch’elli morisse, come ditto è. Veggio ’l nuovo Pilato; anco l’autore intese qui del re Filippo di Francia, lo quale chiama nuovo Pilato: però che fu cagione e fece fare al suo capitano et a Sciarra quil, che ditto è di sopra, a papa Bonifazio, sì crudele; contra lo papa e la s. madre Chiesa, Che ciò non sazia; cioè che quil ch’à fatto nol sazia, ma senza decreto; cioè sensa autorità conveniente a questo, Porta nel tempio; cioè nel tempio dei Frieri49 di s. Giovanni da Rodi, le cupide vele; cioè le grande superbie piene di cupidità et avarizia: imperò che si trova che ’l ditto re accusò li ditti Frieri d’eresia, e contra lor procedè come eretici, e spolliòli di molti beni per la ditta cagione. Li quali beni ellino aveano oltra monti, sicchè ciò che fece contra50 li detti Frieri, fece per avarizia; e però à ditto le cupide vele, che si può intendere le superbe et avare volontadi; e serebbe ipallage; cioè è portato nel tempio da le superbe e cupide volontadi; e ponsi lo plurale per lo singolare, cioè da la superbia e da la51 avara, e per tanta iniquità finge l’autore che lo ditto spirito esclami a Dio e dica: O Signor mio; cioè Iddio, quando serò io lieto; cioè io Ugo in paradiso, dove si sta con letizia, A veder la vendetta; cioè la debita pena de la iustizia, che punisca tanta iniquità, che; cioè la quale, nascosa nel tuo secreto: imperò che nessuno sa quando la punizione dè essere, e però sta occulta nel secreto di Dio, Fa dolce l’ira tua? In Dio non è ira; ma iustizia, e però si pone l’ira per la iustizia: l’aspettare che Dio fa, fa dolce la sua iustizia: imperò che in questo appare la sua misericordia; e de la iustizia di Dio, e del suo aspettare dirà di sotto ne la cantica iii, nel canto dove dice: La spada di quassù non tallia in fretta ec. [p. 481 modifica]

C. XX — v. 97-123. In questi nove ternari lo nostro autore finge come Ugo Ciappetta, seguitando la sua orazione, o vero diciarria52, poichè à manifestato a l’autore lo descenso dei suoi reali e li mali fatti e che debeno fare, manifesta quello che per lui fu nel pianto ditto, quando l’autore per lo pianto mosso andò a parlamentare con lui, dicendo così: Ciò che io; cioè Ugo, dicea; cioè nel pianto mio, di quella unica sposa De lo Spirito Santo; cioè de la Virgine Maria la quale si chiama sposa de lo Spirito Santo, perch’ella promisse e fece voto a Dio di servare sua virginità; la quale promissione si dice fatta a lo Spirito Santo: però che ardore di carità liela fece fare, lo quale viene de lo Spirito Santo e pertanto53, si dice Sposa de lo Spirito Sanito; cioè promessa a lo Spirito Santo, et ancora perchè lo Spirito Santo discese in lei e prese del suo purissimo sangue, e fece l’umanità di Cristo quanto a la carne; e l’anima Iddio padre creò di niente come l’altre anime umane, et unittevi la divinità del Verbo suo. e che li fece Verso me volger; cioè te Dante verso me Ugo, per alcuna ghiosa54; cioè per avere esposizione sopra quella parte, ne la quale lodava la povertà, quando disse: Povera fusti tanto ec.; cioè per sapere qual cagione ci movea a lodare sì la povertà, e però ti volgesti a me Ugo. Tanto è disposto; cioè solamente tanto il tempo è ordinato, a tutta nostra prece; cioè a tutti nostri preghi, Quanto ’l di’ dura; cioè che di di’ possiamo usare sì fatti preghi; cioè preghi che comendano la povertà, et ogni altri virtuosi preghi, ma quando s’annotta; cioè quando si fa notte, Contrario suon; cioè di biasmo dell’avarizia, prendiamo; noi anime che ci purghiamo, in quella vece; cioè in quella vicenda. E qui è da notare la fizione dell’autore, ne la quale dimostra allegoricamente di quelli del mondo; che tanto dura loro la loda de la virtù de la povertà, quanto ’l di’ dura; cioè quant’elli sono ne la grazia di Dio, la quale è luce e di’ e chiarezza dell’anima; ma quando la notte s’è fatta, cioè che si parte dell’anima la grazia di Dio, l’omo può bene avere dispiacimento del vizio et abominazione; ma non avere amore a la virtù: imperò che l’omo naturalmente può abominare lo vizio; ma non amare, nè operare la virtù sensa la grazia di Dio; e però dice: Noi ripetiamo Pigmalion allotta; cioè secondo la lettera, dice Ugo: Quando è notte noi del purgatorio ripensiamo e raccordiamo li viziosi nell’avarizia, avendone dispiacere; et allegoricamente s’intende di quelli del mondo che sono nell’atto de la penitenzia che, quando sensa la grazia di Dio e sensa la luce sua fanno penitenzia de la loro avarizia, arricordansi delli avari in quanta abominazione e [p. 482 modifica]dispregio sono appo Iddio et appo ’l mondo; e pero finge l’autore che Ugo dica: Noi ripetiamo Pigmalion allotta. Questo Pigmalion fu di Tiro o di Sidonia, ch’è in Siria, fratello di Dido55 donna di Sicheo di Fenicia, lo quale era ricchissimo et avea molto tesoro; per la qual cosa Pigmalion suo cugnato si dispuose ucciderlo, per avere lo suo tesoro; e cusì l’uccise, quando era nel tempio ad adorare sì come dice Virgilio nel primo de la sua Eneide; e però dice l’autore: Cui; cioè lo quale Pigmalion, traditor: imperò che a tradimento uccise Sicheo, essendo ito con lui, come cugnato, nel tempio ad orare, ladrone; perchè lo spolliò del suo tesoro e rubbòlo per rapina, e paricida; dice perchè fu ucciditore del cugnato, ch’era suo pari e come fratello; e chi uccide padre, o madre, o fratello, o è destruttore de la patria, in Grammatica56 si chiama paricida, Fece la vollia sua; cioè la sua volontà di Pigmalione fece lui traditore, ladrone e paricida, dell’oro ghiotta; cioè desiderosa dell’oro: imperò che, per avere l’oro di Sicheo, commise tradimento, rubbaria et omicidio di suo cugnato. E la miseria; repetiamo di notte noi anime di purgatorio, intendendosi, come di sopra ditto è, di quelle del mondo, de l’avaro Mida; questo Mida fu re di Lidia che confina con Tracia. Andando Baco per l’Asia, escendo di Tracia et intrando in Lidia, fu preso Silleno balio57 e guardiano di Baco e presentato al re Mida; unde venendo Baco in Lidia, lo re Mida lo ricevette onoratamente e rendetteli Silleno: unde Baco li disse che dimandasse qualunqua grazia volesse. Et elli, come avaro et ingordo dell’oro, dimandò che ciò che elli toccasse diventasse oro, e cusì ebbe; unde li avvenne che non potea mangiare, nè bere, e moria di fame e di sete: imperò che, se toccava lo pane, diventava oro, e così lo vino e l’altre cose; e così ne la grande abbondansa dell’oro moria per necessità. Unde avvedutosi del suo errore, mandò di rieto a Baco li suoi imbasciatori a dire che si pentia de la dimanda, e che li levasse la grazia. Ai quali Baco rispuose che, se volea essere liberato da quello, andasse al fiume Pattolo, e quive si lavesse tutto58, e cusì fece; e da quella ora inansi quello fiume ebbe l’arene dell’oro; e però dice l’autore: E ripetiamo la miseria: imperò che nell’oro era in miseria, che non avea che mangiare, nè che bere, de l’avaro Mida; cioè dell’avaro re Mida, Che; cioè la quale miseria, seguì a la sua dimanda ingorda; che dimandò che ogni cosa diventasse oro, ch’elli toccasse; e che se fusse stata moderata la dimanda; cioè che avesse dimandato pur di [p. 483 modifica]certe cose, non sarebbe venuto in quella miseria; ma la sua avarizia era insaziabile: e così addiviene a molti avari che non mangiano e che non beano, che ogni cosa pare loro oro. Per la qual sempre convien che si rida; per la qual dimanda ingorda sempre che l’omo se ne ricorda, ne ride pensando la stoltia di Mida, che fu sì stolto nel suo dimando. Del folle Acor59; cioè de lo stolto Acor, ciaschedun; di noi, si ricorda; cioè la notte, che non possiamo intendere a la virtù. Questo Acor lo quale, secondo l’ebreo, si chiamò Acan come si contiene ne la Bibbia, Iosuè cap. vii, fu filliuolo di Arin de la tribù di Giuda; et essendo lo popolo d’Israel, passato lo fiume Giordano in terra detta Canam sotto lo guidamento di Iosuè, furoe de le spollie di quelli de Ierico robba assai; cioè pali e moneta et altri adornamenti contra lo comandamento fatto da Iosuè al popolo per parte di Dio. Unde Iddio, corrucciato contra ’l popolo suo, lo lassava sconfiggere ai nimici; per la qual cosa Iosuè si lamentò a Dio, et Iddio li rispose che questo era per lo peccato di Acor. Allora Iosuè fece venire Acor; e, confessato lo fatto60, lo fece allapidare in una valle, che si chiama ancora la valle d’Acor, o vero d’Acan; e lo suo tabernaculo e tutta la robba sua e li filliuoli e le filliuole fece ardere, perchè aveano fatto contra lo comandamento di Dio61, che disse loro Iosuè per parte di Dio: Vos autem cavete, ne de his quæ, præcepta sunt, quippiam contingatis, et sitis prævaricationis rei, et omnia castra Israel sub peccato sint, atque turbentur. Quidquid autem auri, et argenti fuerit, et vasorum æneorum ac ferri, Domino consecretur, repositum in thesauris ejus. E punito questo peccato, fu possa lo populo d’Israel vincitore contra li suoi nimici, come si contiene ne la Bibbia, Iosuè cap. vii; e però dice: Del folle Acor; cioè stolto che fece contra lo comandamento di Dio, furando le spollie guadagnate da’ nimici di Ierico contra lo comandamento di Dio, ciaschedun; cioè di noi, che siamo a purgarci dell’avarizia, si ricorda; biasmandolo, Come furò; cioè lo ditto Acor, le spollie; cioè la robba acquistata dal populo di Dio sopra i nimici, ch’avea comandato Iddio che niente ne toccasseno, sì che l’ira Di Giosuè; lo quale lo fece allapidare, et ardere li filliuoli e tutta la sua robba, qui par che ancor lo morda; cioè in questo luogo del purgatorio: imperò che a quil modo lo riprendiamo noi con zelo, come lo riprese losuè con ira per zelo. Indi accusiam; cioè noi del purgatorio, col marito Saffira; questa fu mollie d’Anania lo quale, convertito a la predica di s. Piero, andò a vendere tutti li suoi beni per presentare li danari a s. Pietro, a ciò [p. 484 modifica]che li desse per l’amore di Dio e che li distribuisse ne la vita de li apostoli, come era usansa: chè s. Piero non riceveva niuno iudeo a l’apostulato se non a quil modo, come non riceve ancora oggi di’ la chiesa. Et avendo venduto Anania ogni cosa e volendo presentare li denari a s. Piero, disse la mollie Saffira: Non dare ogni cosa: riserbati qualche parte sì, che se noi ci pentissemo62 abbiamo di che vivere. Ad Anania parve buono consillio quello di Saffira, e però fece secondo lo suo consillio; et andato inanti a s. Piero63 piantò quella pecunia che volse; e san Piero, sapendo per virtù de lo Spirito Santo quello ch’aveano fatto, ripreselo. E cadde morto Anania, e così poi Saffira sua mollie, come si contiene cap. v Actuum Apostolorum: imperò che per avarizia peccarono, però l’induce l’autore in questa parte. Lodiamo i calci ch’ebbe Eliodoro; cioè noi anime del purgatorio lodiamo li calci che ebbe Eliodoro, perchè funno buoni per lui. Trovasi nell’istorie che in Asia fu uno re nominato Seleuco re de li Assiri ch’adorava Apolline; e questo suo iddio, per farlo venire in discordia col popolo di Dio, li disse ch’elli mandasse in Ierusalemme per li adornamenti del loro tempio, che elli n’aveano d’avanso; e che aveano oro et ariento e pietre preziose assai, e con quelle adornasse lo tempio suo e facesse sacrificio a lui, e farebbeli molti più beni, che nolli avea fatto in fine a quil tempo. Questo Seleuco e sì per piacere al suo iddio e perchè era avaro, per avere quelle preziose cose, mandò uno suo cavalieri, ch’avea nome Eliodoro, addimandare le preditte cose ai sacerdoti. Li quali negandoliele, prese partito Eliodoro o di furarle o di pilliarle64 per forsa; et intrato nel tempio per fare sua intenzione, li apparve uno grande cavallo con uno cavalcatore, molto adornato; lo quale cavallo si levò ritto e diedeli dei calci nel petto, e quasi l’uccise, e scacciò via lui e li compagni fuora del tempio. Allora Eliodoro, ricognoscendo che questa era facitura65 di Dio, pentitosi del fallo suo si convertitte a Dio, e tornò al re Seleuco a dirli lo miraculo, e scusarsi; e perchè ne seguitò questo bene che si convertitte, però dice che lodano li calci che ebbe Eliodoro. Et in infamia tutto il monte gira Polinestor; cioè la infamia di Polinestore è raccordata da tutti li spiriti di questo girone, dove si purga l’avarizia; e però dice che Polinestore gira tutto ’l monte in infamia: però che tutti lo diffamano. Questo Polinestore fu re di Tracia, e fu cugnato del re Priamo: imperò che Ecuba mollie del re Priamo era sua suore66; e vedendo lo re Priamo, quando era assediato da’ Greci, andare male li fatti de la città sua, [p. 485 modifica]morti già tutti li più suoi filliuoli, deliberò di mandare Polidoro suo filliuolo minore al re Polinestore con molto tesoro, acciò che, se le cose andasseno pur male, rifacesse la città, e così fece. E lo ditto re Polinestore, per avere lo tesoro, uccise Polidoro; e però l’autore ne fa menzione in questo luogo per abominazione de l’avarizia, e però dice: che ancise; cioè lo quale uccise, Polidoro; cioè filliuolo del re Priamo, che avea così nome. Ultimamente sì gridiamo: O Crasso, Dì tu, che ’l sai, di che sapore è l’oro; cioè dì tu, che ài assaggiato l’oro, di che sapore è. Questo dice, perchè Marco67 Crasso romano, mandato per lo senato e per lo populo di Roma a vincere li Parti, elli si lassò corrompere da loro per l’oro; et andato di notte occultamente dentro ne la città loro, per avere l’oro che li era stato promesso, fu preso68, nel cospetto de l’esercito in su le mura de la città li fu colato l’oro in gola, dicendoli: Tu ài avuto sete dell’oro, et oro bei; e però finge l’autore che quelle anime, secondo che finge che Ugo Ciappetta dicesse, parlasseno in vitoperio dell’avarizia. Talor; cioè talvolta, parliam l’uno alto; cioè con alta voce, e l’altro basso; cioè con bassa voce, Secondo l’affezion che a dir ci sprona: imperò che, secondo che l’omo è mosso dall’affezion dentro, così parla, Or a maggior et ora a minor passo; cioè secondo la materia maggiore e minore, de la quale noi partiamo: imperò che, secondo la materia, si muove l’affezione dentro. Et ora conchiude che quella voce, che uditte chiamare la Virgine Maria, fu la sua dicendo: Però al ben che ’l di’ ci si ragiona; cioè che ’l di’, come ditto è di sopra, non si ragiona se non de la virtù dell’umilità e povertà; et a quil bene parlare, Dianzi; cioè quando tu udisti quella voce, non era io; cioè Ugo Ciappetta, sol; cioè solo; ma tutti insieme parlavamo; ma perchè non udisti altra persona che me, ecco che assegna la cagione, ma qui da presso Non alzava la voce altra persona; che io, e però non udisti altri che me. E cusì mostra che Ugo Ciappetta finisce lo suo ragionamento.

C. XX — v. 124-138. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come, partiti da Ugo Ciappetta, andando al loro cammino, sentitte uno nuovo accidente; cioè tremare lo monte, et uno grido grandissimo che procedea da tutti li spiriti, che si purgavano che cantavano69: Gloria in excelsis Deo. E la cagione di questo accidente fu, come apporrà di sotto secondo che finge l’autore. perchè uno spirito, che elli nominò70, era Stazio poeta tolesano, compiuto di purgare del peccato de la prodigalità che si purgava in quil medesimo cerchio del monte co l’avarizia, si partia di quello girone e montava all’ [p. 486 modifica]altro per purgarsi de la gola, se in quello avesse avuto a purgare: chè impossibile quasi è che, stando nel mondo, non vi si pecchi in qualche modo, e cusì poi de la lussuria; e cusì era più compiuto di purgarsi. Dice adunqua così: Noi; cioè Virgilio et io Dante, eravam partiti già da esso; cioè da Ugo Ciappetta, E brigavam; cioè procacciavamo, di soverchiar la strada; cioè di passare la strada e la via di quello girone, Tanto, quanto al poter n’era permesso; cioè tanto quanto permesso c’era, e quanto potevamo. Quand’io; cioè Dante, senti’, come cosa che cada; ecco la similitudine che adduce; cioè che la cosa che cade prima trema, e così avvenne che sentì, Tremare il monte; e però dice: Tremare il monte; cioè del purgatorio in modo, che fa la cosa che cade, sicchè fu uno tremuoto come suole essere nel mondo, unde le persone temeno che la terra non sostegna, unde mi prese; cioè a me Dante, un gelo; lo quale venne da paura, come viene a quelli del mondo quando è tremuoto, Qual; cioè tale quale, suol prender colui che a morte vada; ecco che fa la similitudine che così aggelò, come colui che va a la morte. Et induce un’altra similitudine del tremare, secondo le fizioni poetiche dicendo: Certo; cioè certamente, non si scotea sì forte Delo; cioè quando era instabile, come si scotea lo monte del purgatorio, et è qui da notare la fizione poetica. Diceno li Poeti, come appare in Ovidio Metamorfosi lib. vii, che Astrea fu suore di Latona; et essendo ancora amata da Giove, fuggendo dinanti da lui per la rena si stancava, unde pregò li dii che la dovesseno mutare. Unde esaudita, fu mutata in coturnice, e Giove si mutò in sparvieri o vero aquila, e preseguitolla volando sopra il mare; unde ella pregò li dii che la dovesseno mutare, e però soffiando in lei l’aquila, fu mutata in una isula che si chiamò Ortigia prima, e poi Delo. E perchè stette appiattata grande tempo sotto l’acque e poi per prego di Latona Giove la tirò fuora de l’acqua, fu chiamata Delo; cioè cosa manifesta, et era questa isula allora instabile: imperò che si muovea. Ma poichè Latona sua suore71, pregna ancora di Giove, essendo presso al parto cacciata e perseguitata da Pitone serpente per cagione di Giunone che la facea perseguitare, fu ricevuta in essa e partorì quive Febo e Diana, li quali si diceno lo Sole e la Luna, la ditta isula fu fatta stabile e fu accresciuta, adiuntevi du’ altre isule; cioè Miconoe e Giaro. La verità di questa fizione fu che Astrea amata da Giove, volendo72 esser sforzata da lui fuggì con uno legno per mare che portava per insegna la coturnice, che in lingua greca si chiama Ortis, e Giove perseguitandola [p. 487 modifica]per mare con uno legno che portava per insegna lo sparvieri, o vero l’aquila, ella s’appiattò in una isula disabitata et ignota, la quale ella fe abitabile; et era instabile, perchè v’erano molti tremuoti li quali in processo di tempo cessonno, venutovi a stare con lei la sua suore Latona; e, partoritovi li du’ suoi filliuoli Febo e Diana, creve d’abitatori, venutovi di Miconoe e di Giaro molti abitatori ad abitare. Questa isula è in Romania in mezzo de le Ciclade, e però dice: Pria; cioè inansi, che Latona; suore d’Astrea, madre di Febo e Diana, in lei; cioè in Delo, facesse il nido; cioè la sua abitazione, come fa l’uccello quando vuole producere filliuoli, A parturir li du’ occhi del Cielo; cioè Febo che si dice lo Sole, e Diana che si dice la Luna, che sono li du’ luminari grandi che illuminano lo mondo, l’uno di di’ e l’altro di notte. E notevilmente l’autore li chiama occhi: imperò che come l’occhio è istrumento per lo quale l’animale vede: così lo Sole e la Luna sono du’ istrumenti per li quali tutti li occhi delli animali vedeno: imperò che sono la luce del mondo, e niuno vede se non per mezzo de la luce. Poi cominciò da tutte parti; del monte del purgatorio, un grido; questo fu lo grido de li spiriti, che per allegressa di colui, ch’era purgato del suo peccato, cantavano tutti: Gloria in excelsis Deo etc., come apparrà di sotto; e questo finge l’autore, per mostrare che quive sia carità perfetta, perchè sono in stato di grazia, che l’uno è allegro del beno73 dell’altro, Tal; cioè sì fatto fu lo grido, che ’l Maestro; cioè Virgilio, inver di me si feo; per confortarmi ch’io non avesse paura, Dicendo: Non dubbiar, mentr’io te guido; cioè son teco: non dè dubitar la sensualità, quando la ragione l’accompagna; et in74 de’ luoghi dubbiosi la ragione si dè fare in verso la sensualità a certificarla. Gloria in excelsis, tutti, cioè quelli spiriti del purgatorio, sia a Deo; cioè Gloria in excelsis Deo, Dicean; lo cantico sopra ditto che è cantico d’allegrezza, e però la Chiesa non lo canta nell’avvento, nè la quaresima, per quel ch’io; cioè Dante, da’ vicin campresi; cioè da quelli che m’erano presso, Unde intender lo grido si poteo; cioè da que’ vicini si potea intendere quello che gridavano. Et allegoricamente si dimostra come denno rallegrarsi quelli del mondo de la salute del prossimo suo, e ringraziarne Iddio; e convenientemente finge, secondo la lettera, che quelle anime del purgatorio ringraziasseno Iddio de la salute del prossimo suo, ch’era purgato di quello peccato.

C. XX — v. 139-151. In questi quattro ternari col versetto lo nostro autore finge come seguitò con Virgilio lo suo cammino; e come li nacque grande dubbio di quelli due accidenti ch’erano avvenuti; cioè [p. 488 modifica]del tremuoto e del canto, dicendo, Noi; cioè Virgilio et io Dante, restavamo immobili; cioè che non ci movevamo, e sospesi; cioè in dubbio di quel che significavano quelli due accidenti, Come i pastor; ecco che fa la similitudine che, come quando per l’angiulo fue annunziato ai pastori la natività del Verbo divino, inanti che discendesseno dai monti giuso a vedere Cristo nato, posto ne la mangiatoia quando uditteno li angiuli cantare l’inno, ovvero cantico; cioè Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonæ voluntatis, ebbeno grande stupore ne la mente loro, e stetteno immobili e sospesi in fine a tanto che l’angiuli non ebbeno compiuto lo canto e funno spariti et iti via; e così dice l’autore che stava elli e Virgilio, e però dice: Come i pastor; cioè stetteno immobili e sospesi, che non disceseno e non si mosseno; ma stetteno pensosi infin che non fu sparita l’apparizione angelica e lo canto cessato, che; cioè li quali prima udir quel canto; cioè Gloria in excelsis Deo ec.; e così stemmo Virgilio, et io, Fin che ’l tremar; cioè del monte, cessò; cioè che ’l tremuoto, che prima fu sentito, fu cessato, et ei; cioè quil canto: Gloria in excelsis Deo ec., compièsi; di dire tutto quanto da quelli spiriti del purgatorio, come dice la santa Chiesa: imperò che li angiuli non disseno, se non quel pogo che scritto è nell’Evangelio; ma poi la santa Chiesa lo compiè nel modo che ora si canta. Poi; cioè che fu restato lo tremuoto, e lo canto fu compiuto, ripilliammo; Virgilio et io Dante, il nostro cammin santo; cioè seguitammo la nostra via del purgatorio ch’è santa, secondo la lettera; e, secondo l’allegoria, la nostra via de la penitenza ch’è santa, Guardando; cioè ponendo mente, l’ombre che giacean per terra; col volto in giù, come fu detto di sopra, Tornate già in su l’usato pianto; lo quale àe finto di sopra che facesseno per contrizione e purgazione dei loro peccati. Nulla ignoranza; qui dimostra l’autore che mai non ebbe ignoransa, che tanto pensasse a cacciarla, quanto questa; e però dice: Nulla ignoranza mai con tanta guerra; cioè sì grande guerra, Mi fe; cioè a me Dante; cioè tanto tempo mai non mi occupò, desiderando di sapere; cioè avvegna Iddio ch’io desiderasse di certificarmi, e cacciar via la ignoranzia, Se la memoria mia in ciò non erra; cioè se io mi ricordo bene del tempo75 passato; e dice guerra, perchè la volontà quando desidera di certificarsi e non si può certificare dal suo intelletto, combatte con lui e vuole cavare da lui, potendo, la dichiaragione; o d’altrui, non potendolo76 avere da sè; e non avendola, non sta contenta e sempre pugna, sicchè la ignoranzia è cagione de la guerra, e del combattimento, Quanta; cioè guerra, mi parve; cioè a me Dante, allor; cioè in quella ora, pensando avere; ecco che [p. 489 modifica]dichiara in che modo elli avea la guerra; cioè col pensieri che pensava sopra la cagione di quelli accidenti, e lo intelletto non rispondea. Et ora risponde ad una tacita obiezione, ch’altri potrebbe fare; cioè perchè non ne dimandava Virgilio? A che risponde che, per non impedir la solicitudine dell’andare, non ne dimandava; e però dice: Nè per la fretta; cioè dell’andare, dimandare; cioè addimandare, era oso; cioè ardito io Dante. Et adiunge l’altra cagione di questa guerra tanto durata, cioè che per sè niente potea comprendere, Nè per me; cioè da me medesimo, ; cioè in quello luogo, potea; io Dante, cosa vedere; cioè alcuna che mi dichiarasse, Unde io; cioè Dante per la ditta cagione, m’andava timido; che non ardia addimandare Virgilio, e pensoso; per vedere se da me nulla potessi comprendere. E questo finge l’autore, per fare verisimile la sua fizione, ch’elli finge che questo manifesti Stazio tolosano che s’aggiungerà con loro, come apparrà nel processo. E qui finisce il canto xx, et incomincia il xxi.

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Note

  1. C. M. nello spazio del balso bocconi, e fa una esclamazione al cielo et esecrazione a l’avarizia;
  2. 2,0 2,1 C. M. spunga,
  3. C. M. che ànno avuto e tenuto ne l’avarizia
  4. Scolastice; fognata l’h al modo che s’incontra ne’ Classici nostrali. E.
  5. C. M. dei beni temporali e mondani,
  6. Bu’; bue, dove l’apostrofo indica il mancamento dell’estrema vocale come in du’, se’ per due, sei ec. E.
  7. C. M. ritraere
  8. Al quale; vogliamo avvertiti specialmente i giovani come qui il relativo torni soperchio; e che gli antichi, per non mancare alla chiarezza, esprimevano talora certe parole, quantunque non fossero necessarie. I Greci e i Latini ce ne possono fornire degli esempi. E.
  9. C. M. gittò la dota per la seconda, e poi altra volta per la terza;
  10. Vo; prima persona del presente indicativo si dee scrivere senza apostrofo, perchè è voce intera dall’infinito vore, o vorre. E.
  11. C. M. de’ regi di Francia e di Parigi,
  12. C.M. arboro
  13. C. M. Flandria
  14. Serea; desinenza oggi rifiutata; ma comune anticamente in luogo dell’altra in ia; seria, forse per mantenere l’e precedente l’estrema consonante di forem, amarem e via dicendo. E.
  15. Giuggiare; giudicare dal provenzale jutjar. E.
  16. C. M. nel dcccclxxvi, come dirà
  17. C. M. d’uno beccaro di Parigi,
  18. C. M. Loisi
  19. C. M. li beccari di Francia,
  20. C. M. cresma,
  21. C. M. Raimondo Berlengeri
  22. C. M. attendendo,
  23. C. M. queste tre occupò
  24. C. M. in Italia col cardinale di Cosensa è contra lo re Manfredi re di Pullia e di Sicilia, e coniunse
  25. C. M. cantica, che in mcclxviii venne
  26. Imponere; infinito alla foggia latina, come dicere, reducere e altrettali. E.
  27. C. M. egrimonia
  28. C. M. tradizione,
  29. C. M. di po’; a quello dell’altro Carlo, Che
  30. C. M. terremuoto
  31. C. M. fu scacciato, e fu
  32. Prense, prence, prenze, principe dal princeps dei Latini. E.
  33. C. M. rinonziare
  34. Scitte; uscitte, da iscire o scire, donde riscire nel Barberino, Docum. III. E.
  35. C. M. messo
  36. C. M. rimenassello,
  37. C. M. mettere a l’
  38. C. M. poca
  39. C. M. e ’l ditto re, et indusse lo conte di Flandria a guerra col re di Francia, e fu sconfitto lo re di Francia; unde la corte di Roma scomunicò lo detto re di Francia;
  40. C. M. barone lxxxxiiii milia barbute de’ suoi cavalieri
  41. C. M. forsi xl di’
  42. C. M. la vita sua in Roma nella camera sua. E però
  43. C. M. la presura del papa Bonifazio fatta
  44. Catto; preso, participio tolto dal latino captus. E.
  45. C. M. guardare, stette quelli
  46. C. M. della bruna et in sua
  47. Fui; terza persona singolare del perfetto, conforme al latino fuit levatone il t, come in dissi, trassi ec. Quantunque di tale voce primitiva ci abbia degli esempi fra gli antichi; l’uso però la rifiuta. E.
  48. C. M. tra’ vivi, ovvero novi ladroni
  49. C. M. dei Freri di san — Friere; frere, frate dall’antico francese frier. E.
  50. C. M. contra li Tempieri, fece
  51. C. M. e avara voluntà, e
  52. C. M. diciaria,
  53. Giunta del Magl. — e pertanto.....Santo; E.
  54. Ghiosa, chiosa; dal latino glossa. E.
  55. Dido. Molti nomi rinvengonsi presso gli antichi alla maniera de’ Latini, donde in gran parte si derivò il nostro idioma. Smettasi adunque una volta il vezzo della cagione della rima, quando s’incontrano di tali voci; crime, labore, vime e simili. E.
  56. Grammatica; filologia, letteratura. E.
  57. C. M. bailo
  58. C. M. quine si lavesse tutto, e così
  59. Frate Guido da Pisa ne’ Fatti d’Enea r. ii. ne dà la variante «Del folle Acam ancor vi si ricorda». E.
  60. C. M. confessato lo furto, lo fece
  61. C. M. di Dio, e disse
  62. Pentissemo; cadenza non accettata ora nelle scritture, sebbene sia la regolare e spontanea. Vive in parecchi luoghi d’Italia, e nacque dalla inflessione in emus dei Latini. E.
  63. C. M. Piero, presentò quella pecunia
  64. C. M. o di tollerle per forza,
  65. C. M. era figura di Dio,
  66. C. M. sorella;
  67. C. M. Mario Crasso
  68. C. M. che cantonno:
  69. C. M. preso e nel cospetto
  70. C. M. elli nominerà Stazio poeta tolosano,
  71. Suore, suora, suoro dissero gli antichi dal latino soror. E.
  72. Volendo; essendo presso, trovandosi in sul punto. E.
  73. C. M. bene. Il nostro Cod. à beno, che può stare come pomo, vaso ec. E.
  74. In; è un accorciamento dell’intus latina. E.
  75. C. M. nel tempo
  76. C. M. non potendola
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