Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto XIX
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto diciannovesimo
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C A N T O X I X.
1Ne l’ora che non può ’l calor diurno
Intepidar più il freddo de la Luna1
Vinto da Terra, o talor da Saturno,
4Quando i Geomanti lor maggior fortuna
Veggiono in oriente, inanti l’alba,
Surger per via che poco li sta bruna;2
7Mi venne in sogno una femina balba,
Nelli occhi guercia, e sovra ’l piè distorta,3
Co le man monche e di colore scialba.
10Io la mirava; e come ’l Sol conforta
Le fredde membra che la notte aggrava,
Così lo sguardo mio li facea scorta4
13La lingua, e poscia tutta la drizzava
In poco d’ora; e lo smarrito volto,
Come amor vuol, così lo colorava.5
16Poi ch’ella avea il parlar così disciolto,
Cominciava a cantar sì, che con pena
Da lei avrei mio intento rivolto.6
19Io son, cantava, io son dolce Sirena,
Che i marinari in mezzo mar dismago:
Tanto son di piacer a sentir piena.
22Io volsi Ulisse del suo cammin vago
Al canto mio; e qual meco s’ausa
Rado sen parte: sì in tutto l’appago.7
25Ancor non era sua bocca richiusa,
Quando una donna apparve santa e presta
Lunghesso me, per far colei confusa.8
28O Virgilio, o Virgilio, chi è questa?
Fieramente dicea; et ei venia
Colli occhi fitti pur in quella onesta.
31L’altra prendea, e dinanzi l’apria,
Fendendo i drappi, e mostrandomi ’l ventre;
Quel mi svelliò col puzzo che n’uscia.
34Io volsi li occhi; e il mio Maestro: Almen tre9
Voci t’ò messe, e dicea: Surge e vieni,1011
Troviam la porta per la qual tu entre.
37Su mi levai, e tutti eran già pieni
Dell’alto di’ i giron del santo monte,12
Et andavam col Sol nuovo a le reni.
40Seguendo lui, portava la mia fronte
Come colui che l’à di pensier carca,
Che fa di sè un mezzo arco di ponte;
43Quando io udi’: Venite, qui si varca;
Parlando in modo suave e benigno,1314
Qual non si sente in questa mortal marca.
46Coll’ali aperte che parean di cigno,
Volseci in su colui che sì parlòne,15
Tra du pareti del duro macigno.
49Mosse le penne sue e ventilòne,16
Qui lugent, affìrmando esser beati,
Che avran di consolar l’anime done.
52Che ài, che par che in ver la terra guati?
La Guida mia incominciò a dirmi,
Poco ambedu’ da l’Angel sormontati.1718
55Et io: Con tanta sospezion fa irmi
Novella vision che a sè mi piega,
Sì ch’io non posso dal pensar partirmi.19
58Vedesti, disse, quella antica strega,
Che sola sopra noi omai si piagne?
Vedesti come l’om da lei si slega?
61Bastiti, e batti a terra le calcagne;
Li occhi rivolge a logoro, che gira20
Lo Rege Eterno co le rote magne.
64Quale il falcon, che prima ai piè si mira,21
Inde si volge al grido e si protende
Per lo disio del pasto che lo tira;22
67Tal mi fec’io, e tal, quanto si fende
La roccia, per dar via a chi va suso,
N’andai io infin ove ’l cerchiar si prende.
70Com’io nel quinto giro fui dischiuso,
Viddi gente per esso che piangea,
Giacendo a terra tutta volta in giuso.
73Adhaesit pavimento anima mea,
Senti’ dir loro con sì alti sospiri,
Che la parola a pena s’intendea.
76O eletti da Dio, li cui soffriri23
E speranza e giustizia fan men duri,24
Drizzate noi verso li alti salliri.2325
79Se voi venite dal giacer sicuri,
E volete trovar la via più tosto,
Le vostre destre sian sempre di furi.
82Così pregò ’l Poeta, e sì risposto
Poco dinanzi a noi ne fu; perch’io
Nel parlar avvisai l’altro nascosto,
85E volsi li occhi alli occhi al Signor mio;
Ond’elli m’assentì col lieto cenno
Ciò che chiedea la vista del disio.
88Poi ch’io potei di me far a mio senno,
Trassimi sovra quella creatura,
Le cui parole pria notar mi fenno,
91Dicendo: Spirto, in cui pianger matura
Quel senza il qual a Dio tornar non possi,26
Sosta un pogo per me tua maggior cura.27
94Chi fosti, e perchè volti avete i dossi
Al su nudi; e se vuoi ch’io t’impetri28
Cosa di là, ond’io vivendo mossi.
97Et elli a me: Perchè i nostri deretri
A sè rivolga ’l Ciel, saprai; ma prima29
Scias quod ego fui successor Petri.
100Intra Siestri e Chiavari s’adima
una fiumana bella, e del suo nome30
Lo titol del mio sangue fa sua cima.31
103Un mese, e poco più provai io come
Pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,
Che più m’assembra tutte l’altre some.32
106La mia conversion, oimè! fu tarda;
Ma come fatto fui roman pastore,
Così scopersi la vita bugiarda.
109Viddi che lì non si quetava il core,
Nè più salir poteasi in quella vita;
Perchè di questa in me s’accese amore.
112Fin a quel punto misera e partita33
Da Dio anima fui, del tutto avara;
Or, come vedi, qui io son punita.34
115Quel ch’avarizia fa, qui si dischiara
In purgazion dell’anime converse;
E nulla pena il monte à più amara.35
118Sì come l’occhio nostro non s’aperse36
In alto, fisso a le cose terrene;
Così giustizia qui a terra il merse.
121Come avarizia spense a ciascun bene
Lo nostro amore, onde operar perdèsi;37
Così giustizia qui stretti ne tiene
124Nei piedi e ne le man legati e presi;
E quanto fia piacer del giusto Sire,38
Tanto staremo immobili e distesi.39
127Io m’era inginocchiato, e volea dire;
Ma com’io cominciai, et el s’accorse,
Solo ascoltando, del mio riverire.
130Qual cagion, disse, in giù così ti torse?
Et io a lui: Per vostra dignitate
Mia coscienzia dritta mi rimorse.
133Drizza le gambe, levati su, frate,
Rispuose, non errar: conservo sono40
Teco, e colli altri ad una podestate.
136Se mai quel santo evangelico sono,
Che dice: Neque nubent, attendesti,41
Ben puoi saper perchè così ragiono.42
139Vattene omai; non vo’ che più t’arresti:
Chè la tua stanza mio pregar disagia,43
Col qual maturo ciò che tu dicesti.
142Nipote ò io di là, ch’à nome Alagia,44
Buona da sè, pur che la nostra casa
Non faccia lei per esemplo malvagia;
145E questa sola di là m’è rimasa.
- ↑ v. 2. Più intepidar il
- ↑ v. 6. le sta
- ↑ v. 8. C. A. i piè
- ↑ v. 12. le facea
- ↑ v. 15. C. A. così la — C. M. il colorava.
- ↑ v. 18. C. A. Avrei da lei mio
- ↑ v. 24. C. A. sì tutto
- ↑ v. 27. C. A. Appresso me,
- ↑ v. 34. C. A. e il buon Maestro
- ↑ v. 35. C. M. l’ò messo,
- ↑ v. 35. C. A. Surgi e
- ↑ v. 38. del sacro monte,
- ↑ v. 44. C. M. soave
- ↑ v. 44. C. A. Parlare in
- ↑ v. 47. C. A. sì parlonne,
- ↑ v. 49. C. A. le penne poi e ventilonne,
- ↑ v. 54. C. A. donne.
- ↑ v. 54. Done; dono con la desinenza in e come fume, pome o cotali. E.
- ↑ v. 57. C. A. Che io non
- ↑ v. 62. C. M. al logoro,
- ↑ v. 64. C. A. Vastiti,
- ↑ v. 66. C. A. che là il tira;
- ↑ 23,0 23,1 vv. 76, 78, Soffriri, salliri. L’infinito in vece del nome sustantivo adoperano i Classici nostrali, seguendo l’esempio de’ Greci e de’ Latini. E.
- ↑ v. 77. C. A. giustizia e speranza
- ↑ v. 78. C. M. C. A. saliri.
- ↑ v. 92. C. A. puossi,
- ↑ v. 93. C. A. per te tua
- ↑ v. 95. C. A. Al su, mi dì,
- ↑ v. 98. C. A. Rivolgi il Ciel a sè saprai; e prima
- ↑ v. 101 C. M. fiumara
- ↑ v. 102. C. A. tien la cima.
- ↑ v. 105. C. A. che tutte altre
- ↑ v. 112. C. A. misera partita
- ↑ v. 114. C. A. qui ne son
- ↑ v. 117. C. A. al monte è più
- ↑ v. 118. C. A. non si aderse
- ↑ v. 122. Perdèsi; si perdè, come adoperavano gli Antichi i quali non duplicavano la consonante della particella aggiunta, comechè il verbo terminasse accentuato. E.
- ↑ v. 125. C. A. dell’alto
- ↑ v. 126. C. A. e sospesi.
- ↑ v. 134. C. A. chè servo sono
- ↑ v. 137. C. A. intendesti,
- ↑ v. 138. C. A. puoi veder
- ↑ v. 140. C. A. mio purgar
- ↑ v. 142. Alagia del Fiesco, moglie che fu di Moroello Malaspina, marchese di Giovagallo, ebbe in tanta reverenza il sommo Poeta che indusse il marito a rendersi amico del Bianco Allighieri. E.
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C O M M E N T O
Ne l’ora che non può ’l calor diurno ec. In questo xix canto lo nostro autore finge come, seguendo Virgilio poi che fu svelliato da la visione che avea avuta, pervenne a la scala che sallie al quinto balso, dove finge che si purghi il peccato de l’avarizia. E principalmente si divide questo canto in due parti: imperò che prima finge come, svelliato da la visione seguitando Virgilio, pervenne a la montata al quinto balso; e come montando, dimandato da Virgilio perchè andava sì pensoso, manifesta la sua visione; e Virgilio lo conforta al montare suso, e montato su, dice quel che prima quive vede et ode. Ne la seconda manifesta lo peccato, che quive finge che si purghi e ’l modo de la purgazione: e come ebbe parlamento con alcuno di quelli spiriti che vi trovò, et incominciasi quive: O eletti da Dio ec. La prima, che serà la prima lezione, si divide in cinque parti: imperò che prima descrive lo tempo, et una femina che li apparve ne la sua visione; ne la seconda descrive quil1 che quello facea, e come un’altra n’apparia che confondea la prima, et incomincia quive: Poi ch’ella avea ec.; ne la tersa finge come, volto a Virgilio è sollicitato da lui del montare2, e come l’angiulo l’assolve del peccato dell’accidia, e mostra la via da montare al quinto girone, et incomincia quive: Io volsi li occhi ec.; ne la quarta finge come, andando pensoso, Virgilio lo dimanda quel ch’elli à, e come el manifesta, lo conforta e come3 Virgilio, quive: Che ài che par ec.; ne la quinta finge come, confortato sallitte al quinto girone, e quello che quive uditte cantare, et incomincia quive: Quale il falcon ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co l’esposizione litterale, allegorica e morale.
C. XIX — v. 1-15. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come quive4 s’addormentò, come ditto è nel precedente canto ne la fine, elli ebbe una visione la quale descrive ora; e prima descrive lo tempo, quando ebbe questo sogno, dicendo così: Ne l’ora che; cioè ne la quale, non può ’l calor diurno; cioè lo caldo che cagiona lo Sole lo di’ co la reflessione dei suoi raggi: lo Sole scalda co la reverberazione che fa coi suoi raggi, Intepidar; cioè fare tepido e scaldare, più il freddo de la Luna: la Luna non è fredda in sè; ma è effettiva di freddo coi raggi del Sole che percuotono in essa, et ella li riflette giuso; e la reflessione che viene di su giù cagiona freddo, come quella che è di giù su cagiona caldo, e però la Luna la notte raffredda l’aire e la terra, e lo Sole la mattina incomincia a scaldare l’aire e la terra in tanto, che caccia via la freddura infine, a tersa, e poi scalda infine a la sera, sicchè rimane caldo l’aire e la terra infine a mezza notte; ben che la freddessa de la Luna tutta via manchi ’l caldo et induca lo freddo, sicchè passata mezza notte, cacciato via lo caldo, incomincia lo freddo, e quanto più s’approssima a la mattina più crescie5 lo freddo e ’l caldo nol può intepidare; sicchè a punto vuole dire nell’ora de la mattina presso all’alba, Vinto da Terra; s’intende del caldo: imperò che la terra di sua natura è fredda e secca; sicchè, passata mezza notte, mette fuora la sua freddezza et aiuta la freddezza de la Luna; e così è vinto lo caldo de la freddura de la Luna per l’aiuto de la terra, o talor da Saturno: Saturno è lo più alto pianeto che sia in cielo et è effettivo di freddo e di secco, sicchè quando à dominio, aiuta lo freddo de la Luna; e però dice l’autore, tale ora; cioè alcuna volta, perchè questo non addiviene sempre; ma solamente quando Saturno à dominio; e poi che à descritto lo tempo ad uno modo, lo descrive ad uno altro, dicendo: Quando i Geomanti; cioè allora quando li Geomanti, che sono l’indivinatori che indivinano coll’arte che si chiama Geomanzia, detta così da la terra, et è una specie dell’arte magica, come appare ne la prima cantica canto xx: imperò che indivinano con certi punti, o vero linee che fanno ne la polvere in terra; e massimamente questa loro arte fanno al mattino inanti l’alba, perchè all’ora l’animo umano e ’l corpo è più disposto all’obedienzia de le inclinazioni celesti che in altro tempo, e però li Geomanti osservano questo tempo e volliano che i punti si faccino sensa pensamento e sensa numero: imperò che l’omo può esser mosso da tre cagioni; cioè prima, da la propria volontà, mossa d’alcuna passione che6 nasce da elezione fatta per lo libero arbitrio. La seconda cagione è da volontà come per troppa replezione e vacuità di stomaco, o per troppa resoluzione d’omori, o inammazione7 di spiriti vitali. La tersa cagione è da inclinazione naturale, la quale cagiona lo movimento del cielo; e questa ultima cagione accetta la Geomanzia, e l’altre esclude. E per escludere la prima, vuole che i punti si faccino sensa numero e pensamento; e per escludere la seconda, vuole che si faccia al tempo preditto, quando è fatta la digestione e sono più posate le passioni tutte che in altro tempo, sicchè ’l movimento vegna pure secondo la inclinazione celeste, e non per altro modo; e per questa medesima cagione si dice che li sogni fatti in tale tempo sono più veritieri: imperò che sono cagionati pure da infìuenzie celesti, e non da cure d’animo o da passione di corpo. lor maggior fortuna; cioè loro maggior felicità, a fare l’arte loro, Veggiono in oriente; cioè l’attitudine del tempo la quale cognosceno, guardando in ver l’oriente, inanti l’alba; ecco che manifesta lo loro tempo, Surger; cioè levarsi da l’orizonte; questa è quella costellazione ch’elli osserveno8 che si levi, per via; cioè per lo cammin del cielo, che; cioè la qual via, poco li sta bruna; cioè poco dura l’aire nero: imperò che incontenente vene l’alba, all’ora descritta, Mi venne in sogno; cioè a me Dante; e dice studiosamente, a denotare quale specie fu di sogni in sogno: imperò che sogno è, come dice Macrobio, quando si vede confusamente quello, che poi chiaramente si cognosce; ma non inanti che avvegna; et insomnio si chiama quello che l’omo chiaramente vede; ma addiviene, perchè n’à avuto pensieri inanti. E però si potrebbe dire che insogno fusse una parte e non due, e che l‘autore chiami questo insogno, perchè prima n’ebbe pensamento, come appare di sopra, e puòsi intendere che siano due parti; la quale cosa è più vera, volendo dire che questo fusse sogno, perchè chiaramente non mostrava lo sogno quello che significava; e descrive lo sogno suo, dicendo: una femina balba; ecco che dimostra che li apparisse una femina che avea queste cinque condizioni; prima che era balba: imperò che non potea espeditamente parlare, Nelli occhi guercia; ecco la seconda condizione, che non potea guardare diritto, e sovra ’l piè distorta; ecco la tersa condizione, ch’era sciancata, Co le man monche; ecco la quarta condizione, ch’era monca; cioè9 contratta et inoperabile le mani, e di colore scialba; ecco la quinta condizione, ch’era pallida. Questa femina descritta, così imperfetta, significa la falsa felicità mondana, la quale li omini pognano in cinque particulari beni; cioè in ricchesse, signorie, onori, fama10 e diletti carnali, li quali sono tutti imperfetti e fallaci; sicchè, come dice Boezio nel terzo libro de la Filosofica Consolazione, per tutto quello libro come appare a chi lo legge, e ne la prosa seconda dice: Atque hæc sunt, quae adipisci homines volunt; eaque de causa divitias, dignitates, regna, gloriam, voluptatesque desiderante qui per hæc sibi suffìcientiam, reverentiam, potentiam, celebritatem, laetitiam credunt11 esse venturam. E però finge che la lingua sia balba, per mostrar l’imperfezione de la fama che sta ne la lingua; sia guercia, per mostrare la imperfezione delli onori che stanno ne la fronte e ne li occhi, come dice Virgilio nel primo de la sua Eneide: Restitit Æneas, claraque in luce refulsit, Os, humerosque Deo similis: namque ipsa decoram Cæsariem nato genitrix, lumenque iuventæ Purpureum, et lætos oculis afflarat12 honores — ; sia sciancata, per mostrar la imperfezione de le ricchezze, in su le quali li omini si fermano, come lo corpo in su piedi; sia monca, per mostrare la imperfezione de le signorie che stanno nell’opere significate per le mani; sia pallida, per mostrare la imperfezione dei diletti carnali, che stanno in apparenzia come ’l colore. E però finge che li apparisse in sogno: imperò che intendea a trattare ingiummai dell’amore immoderato inverso lo bene imperfetto e falso, lo quale o va ad esso pur col desiderio, et allora si cagiona l’avarizia; o va ad esso col desiderio e coll’opera, e se così va o seguita l’amore lo diletto pur del sentimento del gusto, et allora si cagiona la gola; o del sentimento del tatto, et allora si cagiona la lussuria. De’ quali tre peccati à a trattare l’autore ingiummai; prima, de la avarizia, che si stende a tutti questi beni imperfetti; poi de la gola, che si stende ai diletti del gusto; poi de la lussuria, che si stende ai diletti del tatto. Io; cioè Dante, la mirava; cioè questa femina così descritta; e fa una similitudine, e come ’l Sol conforta Le fredde membra; cioè delli animali sensibili et anco dei vegetabili, come sono le rami13 e le frondi dell’erbe e delli arbori, che; cioè li quali, la notte aggrava; col suo freddo, facendo sentire alli animali sensibili le membra, e chinando l’erbe e li rami e le follie in verso la terra; e poi lo caldo del Sole ristora le membra fredde, e caccia col caldo la debilità del dolore generato per lo freddo, e così rileva l’erbe, li rami e le follie. Così; ecco che adatta la similitudine, lo sguardo mio; cioè lo ragguardamento, ch’io facea in verso quella femina, li facea scorta; cioè parlevile et intelligibile, La lingua; la quale prima era balba, e poscia tutta; cioè quella femina, ch’era così torta et imperfetta, la drizzava; cioè lo mio sguardo, In poco d’ora; cioè in poco spazio di tempo, e lo smarrito volto; di quella femina, amor; cioè immoderato, che l’omo àe ad essa, lo colorava; cioè li dava colore, Come vuole; cioè se la rappresentava tale, quale la volea. Per questa finzione dà ad intendere che la mondana felicità imperfetta e falsa pare a l’omo tale, quale elli se la rappresenta; e però che ella ci paia perfetta e vera, questo è per lo falso nostro vedere. E però dice Boezio nel terso libro della Filosofica Consolazione: Igitur te pulcrum videri non tua natura; sed oculorum spectantium reddit14 infirmitas; e nel secondo dice: Adeo nihil est miserum, nisi cur putes; contraque beata sors omnis est aequanimitate tolerantis. Et ecco che l’autore àe fatto qui quello, che finse che dicesse Virgilio nell’ultima parte del canto xvii, dove disse: Altro bene è che non fa l’om felice ec., Ma come tripartito si ragiona, Tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi.
C. XIX — v. 16-33. In questi sei ternari lo nostro autore finge che, poi che per lo sguardo suo quella femina descritta di sopra fu mutata et appiattata la sua imperfezione, ella incominciò a cantare e mostrare chi ella era; e come n’apparve un’altra15, che ella fece manifesta, dicendo così: Poi ch’ella; cioè poi che quella femina, avea il parlar; cioè la lingua con che si parla, così disciolto; come ditto è di sopra, per lo sguardo mio, Cominciava a cantar; la femina descritta di sopra, sì; cioè per sì fatto modo, che con pena; cioè con fatica, Da lei avrei mio intento; cioè mia intenzione io Dante, rivolto. E dice quel ch’ella cantava: Io son, cantava; la ditta femina di sè medesma dicea, cantando: io son dolce Sirena: le Sirene16 sono dette mostri di mare, e sono ditte tre, de le quali l’una canta con voce, l’altra con ceramelle, e l’altra con corde; e quando i marinari passano per lo mare, u’ elle sono, per loro dolce canto s’addormentano, et elle fanno periculare lo legno e pilliano la robba. Queste funno filliuole d’Acheloo, et erano con Proserpina quando fu rapita da Plutone; e però l’andonno tanto cercando, che funno mutate mostri alati e con code di pescio e volti umani, e funno traslatate in certe insule di mare presso a la Grecia. La verità fu che queste funno tre meretrici, le quali arrecavano quelli, che passavano per le loro insule, a povertà; e sono ditte avere ale et unghie: imperò che l’amore vola e ferisce; sono dette stare in mare: imperò che Venere, dia della lussuria, è finta nata in mare; e però dice l’autore che quella femina cantava: io son dolce Sirena; cioè io sono dolce, come una di quelle Sirene, cantava la femina descritta di sopra, Che i marinari in mezzo mar dismago; cioè consummo17. Tanto son di piacer a sentir piena; cioè tanto piaccio a chi mi sente cantare. Io volsi Ulisse del suo cammin vago; questa finzione fu posta ne la prima cantica, canto xxvi18, dove dice quivi: Mi diparti’ da Circe, che sottrasse Me più d’un anno là presso a Gaeta ec.: ne la quale finzione appare come Circe ritenne Ulisse seco uno anno col suo amore e col suo piacere, e levòlo dal suo cammino, come appare quive, Al canto mio; questo dice, perchè ’l diletto de la lussuria tenne Ulisse con Circe, che la fizione de le sirene e d’Ulisse non à qui luogo: imperò che Ulisse, come savio campò da loro, impeciandosi li orecchi, e legandosi all’albaro de la nave; e però si dè intendere de lo innamoramento di Circe, come ditto è, e qual meco s’ausa; dice ancora la ditta femina, cantando, che quello omo che con lei s’ausa, Rado sen parte; cioè da me, sì in tutto l’appago; cioè sì in tutto lo faccio contento, ch’elli non si sa partire da me. Questa finzione à posto l’autore qui, a dimostrare che chi mira la felicità mondana, defettuosa et ingannevile, sicchè ne pilli piacere, ella l’incanta; cioè la fama di lei suona come ella è ingannevile come la sirena, e come ella fa poveri del sommo bene li omini del mondo, che sono come marinari in mare. Questo mondo è similliato al mare per le tempestadi che ci sono, e per li mutamenti; e chi s’involge in esso è marinaio: ogni mondano è marinaio. Et assegna la cagione dicendo, per ch’ella è tanto piacevilc alli omini, ch’ella li pillia; cioè qual con richesse, qual con signoria, qual con onori, qual con fama, e qual con diletti carnali; e però pone l’esemplo d’Ulisse, lo quale ingannò co la lussuria, et ultimamente conchiude che chi s’ausa con lei, tardi se ne parte. Questa fama suona de la felicità mondana appo li autori, et appo li savi, et ella medesma ancora si dimostra ingannevile com’ella è; e niente di meno li omini mondani pur la seguitano, e da lei non si sanno partire. Ancor non era sua bocca richiusa; cioè di quella che cantato avea, Quando una donna apparve santa e presta; cioè mi parea che apparisse nel sogno, Lunghesso me; cioè allato a me Dante, per far colei confusa; cioè quella femina ditta di sopra: ecco la cagione, perchè venne quella donna santa; cioè per confondere la femina ditta di sopra. O Virgilio, o Virgilio, chi è questa? Fieramente dicea; cioè la santa donna dicea a Virgilio, quasi riprendendolo: Chi è questa, che tu ài lassato venire a Dante? et ei venia; cioè mi parea nel sogno che Virgilio venisse, Colli occhi fitti pur in quella onesta; cioè donna che l’avea chiamato. L’altra; cioè femina ditta di sopra questa santa donna, prendea; cioè mi parea che prendesse, e dinanzi l’apria, Fendendo i drappi; cioè sguarciando li suoi vestimenti, e mostrandomi ’l ventre; de la ditta femina, Quel; cioè lo dimostramento del ventre, o vero lo ventre, mi svelliò; cioè me Dante levò dal sonno, col puzzo che n’uscia; cioè di quil ventre. Ora è da vedere brevemente l’allegoria: l’autore essendo nel pensieri di trattare de la sua materia, come detto è, finge che s’addormentasse: imperò che la sensualità s’addormenta ne la felicità mondana, pilliandone piacere; ma non Virgilio, che significa la ragione19: sempre vede chi ella è. Questa donna santa e presta, ch’apparve allato a Dante e chiama Virgilio, è la Filosofia, che co la dottrina sua all’omo viene subita e muove Virgilio; cioè la ragione, chiamandolo a considerare la viltà e lo inganno de la felicità mondana; e la ragione ficca li occhi suoi in lei; cioè ne la detta Filosofia, che per mezzo de la grazia di Dio illumina la ragione e la sensualità, che cognosca lo inganno de la felicità mondana. Li occhi de la ragione sono la discrezione e lo intelletto, e fieramente: cioè fortemente lo dimanda chi è questa, per reducerlo in considerazione de la sua viltà: non per ch’ella non sapesse chi ella era: e levando et aprendo li fallaci adornamenti de la felicità mondana, dimostra lo suo frutto, che è saziamento del corpo. Lo quale corpo è puzza e fastidio, sì come si dimostra nel secondo e terso libro di Boezio de la Filosofica Consolazione, mostrando prima nel secondo, come questa mondana felicità è imperfetta, e nel terso quale è la vera e perfetta felicità; e però la sensualità ammaestrata e fatta avveduta di ciò, si svellia; cioè si leva dal suo piacimento, considerato lo frutto vilissimo, e però disse bene quil20 savio che disse: Ad maiora natus sum, quam ut sim mancipium corporis mei.
C. XIX — v. 34-51. in questi sei ternari lo nostro autore fino come svelliato, levato lo sole, sollicitato da Virgilio seguita lui, e vanno a la montata del quinto balso, dove li chiamò et inviò l’angiulo, dicendo così: Io; cioè Dante, volsi li occhi; cioè poi che fui svelliato in verso Virgilio, e il mio Maestro; cioè Virgilio dicea: Almen tre Voci t’ò messe; cioè tre volte t’ò chiamato. Queste tre voci sono tre chiamamenti, che fa la ragione a la sensualità; prima la chiama co la voce de la memoria, dicendo che s’arricordi del suo principio e del suo fine; secondo lo chiama co la voce dell’intelletto, dicendo che intenda che cosa è omo; e terzio lo chiama con la voce de la volontà diritta, dicendo che ami e desideri lo primo e lo vero bene perfetto. e dicea; ancora: Surge; cioè levati su, e vieni; di po’ me. Troviam la porta; da montare su, per la qual tu entre; cioè per la quale tu entri a montare suso al quinto girone. Su mi levai; cioè io Dante, e tutti eran già pieni Dell’alto di’; cioè del Sole ch’era già alto21, i giron del santo monte; cioè li balsi del monte del purgatorio, Et andavam; cioè Virgilio et io, col Sol nuovo; cioè col Sole nuovamente nato, ch’era loro inanti: e così era già lo terzo di’, che Dante era stato in purgatorio, a le reni; cioè di Virgilio. Seguendo lui; io Dante: imperò che m’andava inanti, et io andava a lui a le reni: e non si dè intendere che il Sole nuovo fusse loro a le reni: imperò che contradirebbe a quello che ditto è; che sempre andavano col Sole inanti, portava la mia fronte; io Dante, Come colui che l’à di pensier carca; cioè carica: ecco che fa similitudine; che andava col capo chinato, come va colui che à lo capo pieno di pensieri, Che fa di sè un mezzo arco di ponte; ben dice: imperò che due, stando l’uno contra l’altro a quel modo, farebbeno uno arco; dunqua l’uno non ne fa, se non uno mezzo. Quando io; cioè Dante, udi’: Venite; cioè l’angelo dire a noi: Venite qua, qui si varca; cioè si valica all’altro girone, Parlando in modo suave e benigno; questo era lo parlare dell’angiulo, Qual non si sente in questa mortal marca; cioè sì fatto parlare non si sente in questo mortale mondo: imperò che qui parlano li omini, e non li angiuli. Coll’ali aperte che parean di cigno; cioè sì bianche che pareano di cecino22, ch’è uno uccello tutto bianco: tale ali si convegnono a l’angelo, che significano purità, Volseci in su; cioè Virgilio e me Dante, colui che sì parlòne; cioè l’angiulo che disse: Venite, Tra du’ pareti del duro macigno; cioè tra du’ pareti del monte ch’era di pietra macigna, u’ era scala da montare in suso. Queste du’ pareti di pietra dura significano due costanzie e fermesse, che dè avere chi monta a purgarsi del peccato de la avarizia; cioè prima lo lato ritto duro a resistere, sicchè la felicità non lo corrompa; lo lato manco a resistere, che l’avversità non lo rompa, e così si purgherà del peccato de la avarizia. Mosse le penne sue; lo ditto angiulo, cioè quelle dell’ale, e ventilòne: cioè per la faccia a me Dante, e così m’assolvè23 dal peccato de l’accidia: queste due ale sono due grazie di Dio le quali spegnano lo peccato; cioè la grazia illuminante, e la grazia consumante, affirmando esser beati Qui lugent, Che avran di consolar l’anirne done; cioè ch’aranno dono di consolare l’anime loro. Questa è l’autorità de l’evangelio di san Matteo, cap. v quando dice: Beati qui lugent, quoniam ipsi consolabuntur; e questo finge l’autore che dicesse l’angiulo per conforto di coloro che si purgavano del peccato dell’accidia, e per conforto di Dante che n’era purgato; e questa è la voce, che l’autore finge che si canti di là, a conforto del bene operare che è contra l’accidia.
C. XIX — v. 52-63. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Virgilio lo dimanda de la cagiona del suo pensieri, e come la manifesta, e come lo conforta Virgilio de l’andare, dicendo: Che ài; cioè tu, Dante, dice Virgilio, che par che in ver la terra guati; sì vai col capo chinato, come va chi à pensieri? La Guida mia; cioè Virgilio, incominciò a dirmi; cioè a me Dante le parole ditte di sopra, Poco ambedu’ da l’Angel sormontati; cioè poi che amburo fummo montati su, partiti da l’angiulo. Et io; cioè Dante rispuosi: Con tanta sospezion fa irmi Novella vision; ecco che l’autore chiama lo sogno suo, o vero lo insomnio, visione, perchè l’uno vocabulo alcuna volta si pone per l’altro, sicchè avale visione si pillia per lo sogno, o vero insogno, che ditto è di sopra, che a sè mi piega; cioè la qual visione a sè inchina l’animo mio, Sì ch’io non posso dal pensar partirmi; cioè non posso rimuovere lo pensieri da essa visione, pensando quello che dimostra. Vedesti; tu, Dante, disse; Virgilio, quella antica strega; ecco che chiama la falsa felicità mondana antica strega: imperò che ab antiquo fu in fin dal principio del mondo; e chiamala strega: imperò che li vulgari diceno che le streghe sono femine, che si trasmutano in forma d’animali e succhiano lo sangue ai fanciulli; e segondo alquanti, se li magiano24, e poi li rifanno: unde Orazio: Neu pransæ lamæ vivum puerum extrahat25 alvo; la qual cosa è stoltia a credere, e così li uccideno. E così per simile questa felicità succhia l’amore che sta nel cuore umano, che à nutrimento da li spiriti, che evaporano del sangue tanto, che uccide l’anima, se poi nolla risuscita la grazia di Dio. Che; cioè la quale, sola sopra noi omai si piagne? Imperò che ingiummai non à a trattare se non de la avarizia, che ne tratterà ora nel quinto girone; e de la gola che ne tratterà nel sesto; e de la lussuria che ne tratterà nel settimo, e però ben dice sola e sopra noi. Vedesti come l’om da lei si slega; cioè da lei si sciolge26; cioè con la dottrina de la Filosofia che co le suoe ragioni dimostra la imperfezione de la falsa felicità? La quale la sensualità cognosce, ammaestrata da la ragione mediante la grazia illuminante di Dio, che co la dottrina de la Santa Scrittura a la quale è sottoposta la Filosofia e tutte le scienzie, fa partire la sensualità da essa, considerando la sua pussa e fetore che sta appiattata sotto la sua bellezza et adornamento. Bastiti; d’aver ciò veduto: imperò che a chi vuole fare penitenzia dei peccati contenuti sotto la falsa felicità vasta di cognoscere la sua imperfezione in prima, e poi dè procedere oltra coll’opera e coll’affezione; e però dice: e batti a terra le calcagne; cioè procede27 oltra nell’opera. Li occhi rivolge a logoro; cioè ragguarda lo richiamo; che Dio ti fa a la verità: logoro si chiama l’ala che gira lo falconieri, per fare ritornare lo falcone, lo quale molti chiamano lo richiamo28, che gira Lo Rege Eterno; cioè Iddio, co le rote magne; cioè co le grande revoluzioni. Qui parla l’autore per similitudine, dicendo che come lo falconieri richiama lo falcone, girando e rotando lo richiamo; così Iddio richiama l’anime co la bellezza dei suoi cieli, li quali sempre gira sovra noi e fannoci desiderosi d’andare a lui29; unde l’autore: Chiamavi il Cielo e intorno vi si gira, Mostrandovi le sue bellezze eterne, E l’occhio vostro pur a terra mira.
C. XIX — v. 64-75. In questi quattro ternari lo nostro autore finge, seguendo la similitudine del falcone incominciata, come pervenne diventato sollicito de la penitenzia in sul quinto giro, dove si purga lo peccato de la avarizia, dicendo così: Quale il falcon; cioè quale si fa lo falcone, che prima ai piè si mira: quale sia la cagione, che lo falcone si miri ai piedi, si può imaginare che sia per vedere s’elli li à impacciati o espediti, Inde si volge al grido; che fa lo falconieri, e si protende; cioè si stende tutto, et assegna la cagione: Per lo disio del pasto che lo tira; quando vede girare quella ala fabricata di penne al falconieri, Tal mi fec’io; cioè Dante, quale il falcone: imperò che prima mirai li miei piedi; cioè la mia affezione, come diritta e volontarosa era fatta a seguire ne la penitenzia; e poi mi volsi al grido di Dio, che sempre ci chiama co la dottrina evangelica et apostolica e continuamente si predica, e discesi30 la mia volontà per lo desiderio del cibo spirituale, e tal, quanto si fende La roccia; cioè de la parete del monte; cioè la pietra apre, unde si monta suso; e però dice: per dar via a chi va suso; cioè a l’anime che montano al quinto giro, N’andai io; Dante, infin ove ’l cerchiar si prende; cioè s’incomincia a girare lo monte del quinto balso; cioè con sì fatta volontà pronta. Com’io; cioè Dante, nel quinto giro fui dischiuso; cioè fui aperto e manifesto, Viddi gente per esso che piangea; ecco che descrive la pena, con che si purga l’avarizia, Giacendo a terra tutta volta in giuso; cioè giaceano tutti boccone e piangeano. Questo è conveniente a l’avaro, che è stato amatore de la terra e de’ beni de la terra più, che non se31 convenuto; che ricognoscendo l’errore suo e lo peccato suo, ragguardi la terra de la quale è stato troppo vago, e pianga del suo errore. Adhaesit pavimento anima mea; questo è uno verso del Salterio, lo quale significa: L’anima mia s’è accostata a la pianura de la terra: imperò che ’l pavimento è vocabulo in Grammatica, che significa lastrato32 et anco la paura; ma in questo luogo viene più a proposito per lastrato33: imperò che, fingendo che l’anime dicano questo verso, è mostrare che ricognoscano lo loro errore e peccato; cioè che si sono troppo accostate ai beni de la terra; e però dice: Senti’ dir loro; cioè io Dante, con sì alti sospiri; ecco che ben dimostra che ’l dolore fusse equivalente a la colpa, Che la parola a pena s’intendea; da noi: sì la proferiano con sospiri e con dolori. E qui finisce la prima lezione del canto xix, et incomincia la secunda.
O eletti da Dio ec. In questa seconda lezione del canto xix lo nostro autore finge come elli ebbe parlamento con alcuna di quelle anime, da la quale ebbe informagione de la sua condizione, e del peccato che qui ve si purga, e de la convenienzia de la pena. E dividesi questa lezione in parti sei: imperò che prima finge che Virgilio dimandasse quelli spiriti de la via, e come a ciò fu risposto; ne la seconda come, presa licenzia da Virgilio, l’autore andò a parlamentare con una di loro, et incomincia quive: Poi ch’io potei ec.; ne la tersa finge come quell’anima li rispuose, et incomincia quive: Et elli a me ec.; ne la quarta finge come quell’anima dichiara lo peccato, che quive si purga et in che modo, et incomincia quive: Quel ch’avarizia ec.; ne la quinta parte l’autore dichiara come di là34 non durano le dignità temporali del mondo, et incomincia quive: Io m’era inginocchiato ec.; ne la sesta finge come quell’anima lo licenzia, et incomincia quive: Vattene omai ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo coll’allegorica esposizione e litterale e morale.
C. XIX — v. 76-87. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Virgilio dimandò li spiriti, che trovonno, de la via; e come risposto li fu, dicendo così: O eletti da Dio: bene si conviene questo aditto35; cioè all’anime del purgatorio: però che sono in stato di grazia, e però sono eletti da Dio; e però dice l’Apostulo: Multi sunt vocati; pauci vero electi: imperò che ogni uno è chiamato a vita eterna; ma solo li beati sono eletti da Dio, li cui soffriri; cioè li martìri e le pene dei quali, che l’autore chiama soffriri da sofferire: imperò che con pazienzia si portano, E speranza e giustizia fan men duri; cioè meno vi sono faticose e dure le pene, che sostenete per la speransa che avete de la vita beata: imperò che giustizia è costante e perpetua volontà dell’animo, dante a ciascheduno la sua ragione; et è speransa, come dice Papia, speransa è espettazione dei beni che denno venire, la quale manifesta affetto d’umilità et ossequio di continua servitù; e pertanto l’anima, che è in stato di grazia, desidera per amore di iustizia la pena condegna al suo peccato, e per l’amore che avete a la giustizia, la quale richiede, a purgare lo peccato, condegna pena, Drizzate noi; cioè insegnateci, dirissandoci a la via unde si sallie in alto, verso li alti salliri; cioè alti montamenti. Se voi venite dal giacer sicuri; ecco la risposta, che finge facesse una di quelle anime che addimandate funno; cioè se voi venite per montare, e non per stare qui a giacere con noi, per purgare lo peccato de la avarizia, E volete trovar la via più tosto; cioè e volete più accortamente montare suso, Le vostre destre sian sempre di furi; cioè andate sempre co la mano ritta in verso l’aperto del giro, e non in verso la parete del monte; e questo era necessario, andando in verso mano diritta. Cosi pregò ’l Poeta; cioè Virgilio, come detto fu di sopra, e sì risposto Poco dinanzi a noi ne fu; cioè di quinde risposto fu a noi, come ditto fu di sopra, perch’io; cioè per la qual cosa, cioè per la qual risposta io Dante, Nel parlar avvisai; cioè nel parlare, che colui avea fatto, pensai o compresi, l’altro nascosto; cioè l’altro ch’io volea ch’elli sapesse; ma viddi ch’elli era appiattato; cioè ch’io era vivo: imperò ch’elli disse: Se voi venite dal giacer sicuri. Puòsi anco intendere: Io Dante m’avviddi ne la sua risposta esser appiattato l’altro, ch’io desiderava di sapere; cioè chi elli era, e perchè sostenea sì fatta pena; e però finge che, diventato desideroso di sapere, dimandò licenzia a Virgilio. Due cose volea Dante sapere da chi elli dimandava in somma; cioè chi elli era, e la cagione de la sua purgazione; cioè lo peccato, e lo modo. E di sè anco due cose volea che sapesseno; cioè ch’elli montava suso, e ch’elli vivo dovea anco tornare al mondo; e però dice che comprese l’altro nascosto nel parlar di colui, e però pilliò licenzia da Virgilio, e dice: E volsi li occhi; cioè miei: li occhi de la sensualità sono lo senso esteriore et interiore, e li occhi de la ragione sono la discenzione e la prudenzia, alli occhi al Signor mio; cioè alli occhi di Virgilio, per dimandarli licenzia. Ond’elli m’assentì; cioè mi consentì, col lieto cenno; cioè col lieto atto, cioè co li occhi ridenti. Ciò che chiedea la vista del disio; cioè l’apparenzia del desiderio: imperò che nell’apparenzia li mostrai lo mio desiderio, et elli in apparenzia mi rispuose; e questo finge, per mostrare che sensa mezzo la ragione intende quello che la sensualità36 vuole. Questa finzione à posto qui l’autore, per mostrare ch’elli fu in dubio, se in questo spirito dovea fare menzione, e non ardia sensa la deliberazione de la ragione.
C. XIX — v. 88-96 In questi tre ternari lo nostro autore finge com’elli, avuta la licenzia da Virgilio, andò sopra quello spirito ch’avea udito parlare e dimandòlo, dicendo così: Poi ch’io; cioè io Dante, potei di me far a mio senno; avuta la licenzia da Virgilio, Trassimi sovra quella creatura; cioè andai sovra colui, Le cui parole pria notar mi fenno; cioè lo parlar del quale mi fe notare quello che a lui era nascosto; cioè di me ch’io era vivo; e questo è secondo lo primo intelletto: e secondo l’altro intelletto; mi fe notare quello che era nascosto a me di lui; cioè chi elli era, e per che cagione sostenea quella pena. Due cose vuole sempre sapere l’autore di quelle37 che trova; cioè chi sono, e la cagione de la loro pena. Dicendo, io Dante: Spirto; cioè, o spirto, in cui; cioè nel quale, pianger matura; cioè la contrizione del cuore e ’l dolore arreca a fine e compie, Quel senza il qual a Dio tornar non possi; cioè la purgazione de la colpa del peccato, sensa la quale non si può tornare a Dio, Sosta un pogo per me; cioè indugia un pogo per me Dante, maggior cura; cioè tua maggior sollicitudine; cioè del purgare lo peccato tuo. Chi fosti; ecco che dimanda del nome suo, e perchè avete i dossi Al su nudi38; cioè per che cagione state coi dossi nudi volti in su, cioè bocconi col viso a la terra: ecco che dimanda quello che li era nascosto, e tocca in parte la pena che sostegnano li avari. Ma perchè di sotto la dichiara mellio, lassola stare in questo luogo. e se vuoi ch’io t’impetri; cioè ti dimandi da Dio, Cosa; cioè alcuna, di là; cioè nel mondo, ond’io; cioè Dante, mossi; cioè me, vivendo; cioè essendo ancora in vita corporale; cioè nel mondo, unde io vegno. E così li fa manifesto ch’elli vegnano siguri dal giacere.
C. XIX v. 97-114. In questi sei ternari lo nostro autore finge come lo spirito addimandato li risponde, e manifestali chi elli è; e perchè siano a sì fatto modo promette di manifestare poi, dicendo: Et elli; cioè quello spirito disse, s’intende: a me; cioè Dante: Perchè i nostri deretri; cioè li nostri dossi, A sè rivolga ’l Ciel; cioè tegnamo volti inverso ’l ciel, saprai; tu, Dante, poi, ma prima Scias quod ego fui successor Petri; questo versetto è in Grammatica39, e significa in vulgare: Sappi ch’io fui successor di s. Pietro: imperò che questi fu uno di quelli dal Fiesco che sono gentili omini di Genova, lo quale fu avara persona inanti che fusse fatto papa; poi, fatto papa, s’emendò e corresse del suo vizio, e visse papa nell’officio forsi uno mese40, e fu chiamato papa Adriano quinto e fu nel 1276, e stette papa uno mese e di’ viiii, e vacò allora la sedia papale di’ xviiii e poi fu eletto papa Innocenzio sesto che fu da Portogallo de la provincia di Spagna; e però dice che fu successore di s. Piero. Intra Siestri; questa è una terra ne la riviera di Genova, e Chiavari; anco è una terra ne la ditta riviera, e tra queste due terre corre uno fiume giù a la marina; e però dice: s’adima; cioè va a basso, una fumana bella: fiumane si chiamano in quel paese li rivi che scendono de’ monti, e tra li altri questo fiume è molto bello, e chiamasi Lavagno41; e da quello fiume erano dinominati quelli dal Fiesco conti di Lavagno; imperò che la contrada si chiama Lavagno, come lo fiume, e del suo nome; cioè del fiume che si chiama Lavagno, Lo titol del mio sangue: però che si chiamano et intitulano conti di Lavagno, fa sua cima; cioè fa sua altessa: imperò che infine a quil grado d’altessa montonno, che prima erano chiamati quelli dal Fiesco; poi ebbeno questa dignità, che funno chiamati conti di Lavagno. Un mese, e poco più; questo dice, perchè durò uno mese e viiii di’ nel papato, provai io; cioè papa Adriano, come Pesa il gran manto: cioè l’ammanto papale: per questo s’intende la gravezza de l’officio, lo quale per certo è di grande peso a chi vuole fare quello che s’appartiene al papa; cioè vivere santamente et onestamente; e però dice: a chi; cioè a colui lo quale, dal fango: cioè dal vizio e dal peccato, il guarda; cioè lo manto papale, che significa la dignità papale, Che; cioè lo quale ammanto, più m’assembra; cioè m’assimillia più, tutte l’altre some; cioè tutte l’altre gravezze che niuna altra gravessa che sia, si dè intendere. La mia conversion; cioè del peccato42 de la avarizia, oimè; ecco che se ne duole! fu tarda; questo dice, perchè penò troppo a correggersi di tal peccato. Ma come fatto fui roman pastore; cioè altresì tosto, com’io fui fatto papa di Roma, Così scopersi la vita bugiarda; cioè la vita de la felicità mondana, viziosa et imperfetta, la quale mostra quello che non è. Viddi; cioè io papa, che lì; cioè in questa vita mondana dei beni imperfetti, non si quetava il core; cioè non si contentava lo cuore umano, lo quale naturalmente cerca lo sommo bene; et infine che non l’à, mai non sta contento, Nè più salir poteasi in quella vita; cioè mondana; non si potea a sallire a più alta dignità, Perchè; cioè per la qual cosa, di questa in me s’accese amore; cioè creve43 lo desiderio di venire a la vita spirituale de la penitenzia, e purgazione dei peccati. Fin quel punto; cioè in fin ch’io penai a montare al papato, misera e partita Da Dio anima fui; cioè io papa Adriano, del tutto avara; cioè al tutto occupata da avarizia, Or, come vedi; cioè tu, Dante, qui; cioè in questo balso quinto, dove si purgano li avari che si penteno, io; cioè anima di papa Adriano, son punita; del peccato mio de la avarizia: veramente l’anima è in miseria, quando ella è in peccato et è partita da Dio, perchè ’l peccato e Dio non stanno insieme. Ogni uno, che è in peccato, è partito da Dio, e mai non ritorna a lui, se non cacciato via lo peccato e ritornato netto e mondo, come Iddio crea44 l’omo.
C. XIX — v. 115-126. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come lo detto papa li manifesta la pena, che quive sostegnano li avari per emendamento del loro peccato, dicendo: Quel ch’avarizia fa; cioè di male a l’anima, qui; cioè in questo luogo, si dischiara; cioè si manifesta, In purgazion dell’anime converse; cioè convertite da l’avarizia, e ritornate a Dio per penitenzia, E nulla pena il monte; cioè del purgatorio, à più amara; cioè più piena d’amaritudine e dolore, non più; ma bene altrettanto. E qui si muove dubbio; come finge l’autore che la pena, che purga lo peccato de la avarizia, sia pari a le più amare in amaritudine che siano nel purgatorio: con ciò sia cosa che li più gravi peccati richiedano più gravi pene, e li altri, dei quali è ditto di sopra, sono più gravi, dunqua denno avere più gravi pene; e se più gravi, dunqua più amare pene; e l’autore dice lo contrario, dunqua pare che dica male? A che si dè rispondere che l’autore dice bene che ’l monte del purgatorio niuna pena à più amara; ma tanto, sì: imperò che amaritudo è propria dell’animo, e la contrizione dell’animo dè esser equale in ogni peccato; cioè che tanto sè45 dè dolere, quanto può; e come in tutti è una medesma radice; cioè lo disordinato amore, così in tutti è una medesima purgazione; cioè tanto dolore quanto si può46; o vero che a la purgazione dei peccati, oltra la principale ch’è la contrizione del cuore, sono altre pene accessorie secondo le condizione dei peccati e le loro circustanzie47: imperò che oltra l’amaritudine de la mente, che dè essere tanta quanta si può avere che sodisfaccia per l’amore disordinato avuto ai beni mondani; unde sempre piange48, dicendo lo salmo: Adhæsit pavimento anima mea, e sospirano che sono segni de la amaritudine de la mente, ànno anco questa pena; che stanno colli occhi sempre49 volti giù a la terra, per sadisfacimento, che sempre ragguardonno li beni terreni, e non mai li celestiali. E come per lo desiderio di questi beni terreni ànno lassato l’amore del bene operare; così stanno ora legati le mani, che significano l’opere; e li piedi, che significano l’affezioni: e come sempre stetteno fermi in tal pensieri; così stanno in purgatorio immobili e distesi a la terra. E queste pene allegoricamente per quelli del purgatorio, e moralmente per quelli del mondo, non sono altro che ’l pensieri: imperò che, ripensando le condizioni e le circustanzie del peccato, l’anima s’affrigge50 e duolsi sopra esse, pentendosi d’averle avuto; e s’elli è nel mondo, proponendosi di non volerle più. E però dice: Sì come l’occhio nostro; dell’occhio mentale si dè intendere qui; cioè lo intelletto nostro, In alto non s’aperse; cioè in verso ’l cielo, a considerare lo sommo bene perfetto; ma pure a questo bene mondano, imperfetto, fisso; cioè fermato l’occhio nostro51, a le cose terrene; cioè pur ai beni terreni, Così giustizia; cioè divina, qui; cioè in purgatorio, o vero ne lo stato de la penitenzia, a terra il merse; cioè l’affondò, dandoli a ripensare lo suo peccato. Come avarizia spense a ciascun bene Lo nostro amore; cioè a ciascun vero atto, che risponda al sommo e perfetto bene, onde operar perdèsi; cioè che non s’operò: imperò che, tolto via l’amore del bene sommo e perfetto, si tollieno52 via li atti meritori che intendeno ad esso, Così giustizia; divina, qui; cioè in purgatorio, secondo la lettera; e nel mondo, secondo l’allegoria, stretti ne tiene; cioè noi, Nei piedi e ne le man legati e presi; e questo si dè intendere, come ditto è di sopra. E quanto fia piacer del giusto Sire; cioè quanto piacerà al giusto signore; cioè Iddio, Tanto staremo immobili e distesi; dice papa Adriano a Dante. E perchè di sopra ne la prima cantica, dove trattò de l’avarizia, io ne scrissi pienamente quanto fu besogno53 a la materia, però nollo replico qui, per non esser superfluo: chi lo vuole, cerchilo quive.
C. XIX — v. 127-138. In questi quattro ternari lo nostro autore finge com’elli vuolse54 riverire papa Adriano; ma elli lo riprese assegnandoli lo testo de l’evangelio di s. Matteo55, dicendo così: Io; cioè Dante, udito lo ragionamento di quell’anima che era stato papa, come ditto fu di sopra, m’era inginocchiato; per farli riverenzia sì, come a papa, e volea dire; forsi, santissimo padre, Ma com’io cominciai; come ditto è, che così s’usa di dire al papa, et el; cioè la ditta anima, s’accorse, Solo ascoltando: imperò che vedere non potea, che avea li occhi volti a la terra, sicchè co lo udire convenia che se n’avvedesse, del mio riverire; cioè de la riverenzia, ch’io li volea fare, Qual cagion, disse; cioè la detta anima a me Dante, dimandandomi: in giù così ti torse; cioè per che cagione ti se inginocchiato? Et io; cioè Dante, a lui; cioè a la ditta anima respuosi: Per vostra dignitate; cioè papale, che teneste nel mondo, Mia coscienzia dritta mi rimorse; di questo cioè che prima non avea fatto la debita riverenzia che si fa al papa nel mondo, al quale s’inginocchiano li cristiani e bacianoli li piedi, e dicenoli56: Santissimo padre; unde l’autore finge ch’elli rispondesse: Drizza le gambe; cioè sta ritto, levati su, frate; ecco che lo chiama fratello: imperò che tutti siamo fratelli in Cristo, Rispuose; cioè la ditta anima a me Dante, non errar57; cioè onorandomi in questo mondo, come m’aresti onorato nell’altro, conservo sono Teco, e colli altri; cioè in questa vita perpetua noi siamo tutti pari, e tutti siamo conservi; cioè insieme servi, ad una podestate; cioè a la divina potenzia. Et assegna la ragione per l’autorità de l’evangelio di s. Matteo58, nel quale nel cap. xxii si contiene come Cristo, rispondendo ai Saducei che non credevano la futura resurrezione e dimandonno lui, dicendo: Maestro, la femina che à avuto vii mariti, a quale s’accosterà nell’altra vita? Ai quali Cristo rispuose: Erratis, nescientes Scripturas, neque virtutem Dei. In resurrectione omnium neque nubent, neque nubentur; sed erunt sicut angeli Dei in cœlo; cioè nell’altra vita non si mariteranno; ma sono in cielo come angiuli di Dio, sicchè tutti seremo59 equali. E così nessuno risusciterà in dignità avuta nel mondo, ne la resurrezione dicendo: Se mai quel santo evangelico sono, Che dice: Neque nubent, attendesti; del quale è ditto di sopra, Ben puoi saper perchè così ragiono; cioè ben puo’ saper tu, Dante, perchè io ti dico ch’io sono a pari a te et alli altri, di po’ la vita mondana.
C. XIX — v. 139-145. In questi due ternari et uno versetto lo nostro autore finge come lo ditto spirito li diè cummiato: e come li dimanda ch’elli lo ricordi a la nipote, dicendo: Vattene omai; cioè ingiummai tu, Dante, non vo’ che più t’arresti; cioè non vollio che stii più; et assegna la cagione; cioè Chè la tua stanza; cioè imperò che il tuo stallo60, disagia; cioè sconcia, mio pregar; ch’io farei a Dio in questo mezzo, ch’io parlo teco, Col qual; cioè pregar, maturo ciò che tu dicesti; cioè di sopra, quando dicesti: Spirto, in cui pianger matura ec. E perchè mi t’ài proferto, s’io vollio che lo tuo prego impetri di là per me nel mondo, sappi che, Nipote ò io di là; cioè nel mondo, ch’à nome Alagia, Buona da sè; questa era santa e buona donna, nipote di papa Adriano dal Fiesco, pur che la nostra casa; cioè di quelli dal Fiesco, Non faccia lei per esemplo malvagia; cioè non faccia lei diventar ria per malo esemplo ch’ella pilli dalli altri, ch’ella ne può ben pilliare: tanto vi sono riei ne le nostra casa; ecco che onestamente l’autore accusa la casa dal Fiesco. E questa; cioè Alagia, sola di là m’è rimasa; che preghi per me: imperò che niuno altro mio parente prega per me; e se pur prega, non è esaudito: imperò che Iddio non esaudisce i preghi de li iniusti, et elli sono tutti riei, in fuor che questa. E qui finisce il canto xix61, et incomincia lo xx.
Note
- ↑ C. M. quello
- ↑ C. M. del montare al quinto girone, et incomincia
- ↑ C. M. liel manifesta, e come lo conforta Virgilio,
- ↑ C. M. come quando s’addormentò,
- ↑ cresce
- ↑ C. M. che nasce — da voluntà — si è levato dal Cod. Magl. E.
- ↑ C. M. d’umori, o in amozione di spiriti
- ↑ C.M. osservano
- ↑ C. M. cioè attratta et inoperabile delle mani, e di colore
- ↑ C. M. fama, carnalità, li quali
- ↑ putant esse
- ↑ afflaret
- ↑ C. M. li rami e le fronde
- ↑ facit
- ↑ C. M. come apparve un’altra femina che la fece
- ↑ Torquato Tasso nel suo Giudizio sovra la Gerusalemme, accennati questi versi dell’Allighieri, così espone «Si legge in Isaia, e dappoi in san Geronimo e in altri Teologi che delle Sirene nacquer figlie nell’Eufrate, fiume che divide la famosa città di Babilonia: nè altro significano le Sirene e le figliuole, che donne piacevoli, o pur i piaceri sensuali medesimi, le quali con dolcissima armonia lusingando i sentimenti, fanno addormentare gli animi invaghiti e presi dal diletto. Tuttavolta nel loro canto, come si legge ne’ versi d’Omero e in quelli che furono poi trasportati nella lingua latina da Cicerone, le Sirene promettono le scienze o il sapere, ingannandoci in questa guisa col senso dell’udito, come il serpente ingannò Adamo col sentimento del gusto». E.
- ↑ C. M. consumo.
- ↑ C. M. xxvi. quando dice: Quando Mi diparti’
- ↑ C. M. la ragione: la ragione sempre
- ↑ C. M. quel savio
- ↑ C.M. alto, che parea per tutta la terra, i giron
- ↑ Cecino, cicino, cecine dissero gli Antichi nostri, derivandolo dal cycnus de Latini, intramessovi l’i. E.
- ↑ Assolvè; naturale inflessione dall’infinito assolvere. E.
- ↑ C. M. alquanti lo mangiano e poi lo rifanno;
- ↑ abstrahit
- ↑ Sciolge; scioglie, dall’infinito sciolgere; la quale cadenza rifiutano gli Scrittori, quantunque ammettano svelge ed altre. Il Caro, lib. xi, Eneid. «Svelge dall’asta sua medesma il ferro». E.
- ↑ Procede; seconda persona singolare dell’imperativo, la quale varrà meglio a convincerne essere codesta la desinenza primitiva. E.
- ↑ C. M. lo richiamo, o vero luodoro che gira — Il logoro era una specie di finto uccello che s’aggirava alto col braccio, e in mezzo al quale si apprestava il cibo ai falconi od altri rapaci, ed al quale spesso appendevansi campanellette d’argento. E.
- ↑ Fa veramente maraviglia e piacere l’osservare come qui al nostro Commentatore si accordi il Filosofo subalpino, il quale nel II Vol. della Prot dice che questo logoro è il cielo, la parte più nobile del mondo, come mimesi è lo stesso che il cielo dotato di bellezze eterne, e chiamante gli uomini. E.
- ↑ Il Magl. sembra che dica — distesi la mia volontà. E.
- ↑ Se; è, voce regolare dall’infinito sere, donde viene pure se’, semo, serò ec. E.
- ↑ C. M. lastraco et anco
- ↑ C. M. per lastraco:
- ↑ Qui il nostro Codice leggendo — dichiara la domandita non durano — è stato emendato col Magliabechiano. E.
- ↑ C. M. questa purgazione; cioè
- ↑ C. M. la sensualità vuole.
- ↑ C. M. di quelli che
- ↑ La nostra copia del Riccardiano e Magliabechiano ci dà nel testo Al su mi dì; però il Magliab. riportando il verso nel Commento ne offre la variante Al su nudi; quindi nell’un codice e nell’altro nel Commento si à chiaramente nudi, e a questo ci siamo attenuti, come sempre si è fatto, correggendo il testo a seconda del Commento, avendo avuto principalmente intenzione di publicare l’opera del Da Buti. E.
- ↑ Grammatica; latino, lingua latina. E.
- ↑ Nel Commento di Iacopo Gradonico, il quale si conserva inedito nella Gambalunghiana di Rimino, si legge che Adriano fu eletto papa, correndo 1276 e vivette dopo la sua elezione uno mese, giorni otto. E.
- ↑ Dallo stesso Gradonico questo fiume viene appellato Lavagna. E.
- ↑ C. M. del peccato de la ira, oimè;
- ↑ Creve; antica desinenza del perfetto del verbo crescere, la quale è foggiata sul latino crevit, come cognove da cognovit, ed altre presso i nostri Antichi. E.
- ↑ Crea; potrebb’essere qui voce del perfetto senza accento, come adoperarono talora i padri nostri, e che dai Grammatici non è stato avvertito. E.
- ↑ C. M. se ne dè
- ↑ C. M. si può. E vero
- ↑ C. M. circustanzie, sì come è ora ne l’avarizia: imperò
- ↑ C. M. giungeno
- ↑ C. M. sempre molto giù a la terra per sodisfacimento
- ↑ S’affrigge; s’affligge, dove si manifesta come avvenga facilmente la mutazione delle due liquide l ed r. E.
- ↑ C. M. vostro
- ↑ Tollieno, intendeno; terze persone plurali, formate dalla terza singolare, aggiuntovi il no. E.
- ↑ C. M. era bisogno a l’avarizia, però
- ↑ Vuolse; dove l’u frammesso ne fa meglio distinguere questo perfetto da quello del verbo volgere. E.
- ↑ C. M. s. Marco, dicendo
- ↑ Bacionoli, dicenoli. I nostri Classici, aggiugnendo al verbo il pronome o la particella pronominale, non levarono sempre, come si usa oggi, l’estrema vocale. E.
- ↑ Non errar; non devi errare. Questa maniera ellittica dell’infinito preceduto da una particella negativa, nella vece della seconda persona dell’imperativo, ci venne tramandata dai Greci e dai Latini. V. Omero, Iliade V, v. 605, 606, Virg. Georg. iii v. 331, 335. E.
- ↑ C. M. s. Marco, nel quale
- ↑ Seremo: naturale piegatura dall’infinito sere, la quale mantiensi tutto di’ viva in alcune provincie d’Italia. E.
- ↑ C. M. stallo a lo tuo dimorare, disagia;
- ↑ C. M. xix, e seguita lo canto xx.