Commedia (Buti)/Inferno/Canto XXI
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto ventunesimo
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C A N T O XXI.
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1Così di ponte in ponte altro parlando,
Che la mia Comedia cantar non cura,
Venimmo; e tenevamo il colmo, quando
4Ristemo, per veder l’altra fessura1
Di Malebolge, e li altri pianti vani;
E vidila mirabilmente oscura.
7Quale nell’arzanà de’ Viniziani2
Bolle l’inverno la tenace pece
Per ripalmar i lor legni non sani,3
10Che navicar non ponno, e in quella vece4
Chi fa suo legno nuovo, e chi ristoppa
Le coste a quel che più viaggi fece:
13Chi ribatte da proda e chi da poppa,
Altri fan remi, ed altri volgen sarte,
Chi terzeruolo et artimon rintoppa;5
16Tal, non per foco, ma per divina arte
Bollia là giù una pegola spessa,
Che inveschiava la ripa d’ogni parte.
19Io vedea lei; ma non vedeva in essa6
Ma che le bolle che il bollor levava,7
E gonfiar tutta e riseder compressa.8
22Mentr’io là giù fisamente mirava,
Il Duca mio, dicendo: Guarda, guarda!
Mi trasse a sè del loco dov’io stava.
25 Allor mi volsi come l’uom che tarda
Di veder quel, che li convien fuggire,
E cui paura subita sgagliarda,
28Che per veder non indugia il partire:9
E vidi dietro a noi un diavol nero,
Correndo su per lo scoglio venire.
31Ahi quanto elli era nello aspetto fero!
E quanto mi parea nell’atto acerbo,
Con l’ale aperte e sopra i piè leggiero!10
34L’omero suo, ch’ era acuto e superbo,
Carcava un peccator con ambo l’anche,11
E quei tenea de’ piè ghermito il nerbo.12
37Del nostro ponte, disse: O Malebranche,
Ecco un degli anzian di santa Zita:
Mettetel sotto, ch’io torno per anche
40A quella terra, che n’è ben fornita.
Ognun v’è barattier, fuor che Bonturo:
Del no, per li denar, vi si fa ita.
43Là giù il buttò; e per lo scoglio duro
Si volse, e mai non fu mastino sciolto
Con tanta fretta a seguitar lo furo.
46Quel s’attuffo, e tornò su col volto;
Ma i demon, che del ponte avean coperchio,
Gridar: Qui non à luogo il Santo Volto;
49Qui si nuota altrimenti, che nel Serchio:
Però, se tu non vuoi de’ nostri graffi,
Non far sopra la pegola soperchio.
52Poi l’addentar con più di cento raffi,
Disser: Coverto convien che qui balli,13
Sì che, se puoi, nascosamente accaffi.
55Non altrimenti i cuochi ai lor vassalli14
Fanno attuffar nel mezzo la caldaia15
La carne con li uncin, perchè non galli.
58Lo buon Maestro: A ciò che non si paia,
Che tu ci sia, mi disse, qui t’acquatta16
Dopo uno scoglio, ch’alcun schermo t’àia.1718
61E per nulla offension che a me sia fatta,
Non temer tu, ch’ i’ ò le cose conte,
Perch’altra volta fui a tal baratta.19
64Poscia passò di là dal co del ponte,
E com’ el giunse in su la ripa sesta,
Mestier li fu d’aver sicura fronte.
67Con quel furore, e con quella tempesta,
Ch’escono i cani a dosso al poverello,
Che di subito chiede ove s’arresta;
70Usciron que’ di sotto il ponticello,
E volser contra lui tutti i roncigli;
Ma el gridò: Nessun di voi sia fello.20
73Inanzi che l’uncin vostro mi pigli,
Traggasi avanti l’un di voi che m’oda,
E poi d’arroncigliarmi si consigli.
76Tutti gridaron: Vada Malacoda;
Perchè un si mosse, e li altri stetter fermi,
E venne a lui, dicendo: Che li approda?
79Credi tu, Malacoda, qui vedermi
Esser venuto, disse il mio Maestro,
Sicuro già da tutti i vostri schermi,
82Sanza voler divino e fato destro?
Lasciame andar: chè nel Cielo è voluto,21
Ch’io mostri altrui questo cammin silvestro.
85Allor li fu l’orgoglio sì caduto,
Che si lasciò cascar l’uncino a’ piedi,22
E disse alli altri: Omai non sia feruto.23
88E il Duca mio a me: O tu, che siedi
Tra li scogli del ponte quatto quatto,2425
Sicuramente omai a me tu riedi.
91Perch’io mi mossi, et a lui venni ratto;
E’ diavoli si fecer tutti avanti,
Sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto.
94E così vidi già temer li fanti,
Ch’uscivan patteggiati di Caprona,26
Vedendo sè tra nimici cotanti.
97Io m’accostai con tutta la persona
Lungo il mio Duca, e non torceva li occhi
Della sembianza lor, ch’era non buona.
100Ei chinavan li raffi, e: Vuoi ch’io il tocchi,27
Diceva l’un con l’altro, in sul groppone?
Ei rispondean: Sì, fa che gliel accocchi.28
103Ma quel dimonio, che tenne sermone29
Col Duca mio, si volse tutto presto,
E disse: Posa, posa, Scarmiglione.
106Poi disse a noi: Più oltre andar per questo
Scoglio non si poria: perocchè giace30
Tutto spezzato al fondo l’arco sesto;
109E se l’andare avanti pur vi piace,
Andatevene su per questa grotta:
Presso è un altro scoglio, che via face.
112Ier, più oltre cinque ore, che quest’otta,31
Mille dugento con sessanta sei
Anni compièr, che qui la via fu rotta.
115Io mando verso là di questi miei
A riguardar, se alcun se ne sciorina:
Gite con lor, ch’ei non saranno rei.32
118Tra’ti avanti, Alichino e Calcabrina,
Cominciò elli a dire, e tu, Cagnazzo,
E Barbariccia guidi la decina.
121Libicocco vegna oltre, e Draghignazzo,
Ciriatto sanuto, e Graffiacane,33
E Farferello, e Rubicante pazzo.33
124Cercate intorno alle boglienti pane:34
Costor sien salvi infino all’altro scheggio,
Che tutto intero va sopra le tane.
127Oimè! Maestro, che è quel ch’io veggio?
Diss’io: Deh sanza scorta andianci soli,
Se tu sai ir, ch’io per me non la cheggio.
130 Se tu se’ sì accorto, come suoli,
Non vedi tu, che digrignan li denti,
E con le ciglia ne minaccian duoli?
133Et elli a me: Non vo’ che tu paventi;
Lasciagli digrignar pur a lor senno,
Ch’ei fanno ciò per li lesi dolenti.35
136Per l’argine sinistro volta dienno;
Ma prima avea ciascun la lingua stretta
Coi denti verso il lor duca per cenno,
139Et elli avea del cul fatto trombetta.
- ↑ v. 4. C. M. Restammo,
- ↑ v. 7. C. M. Qual nella tersana de’ Veneziani
- ↑ v. 9. C. M. i legni lor non sani,
- ↑ v. 10. Che navigar non ponno, o in quella vece
- ↑ v. 15. C. M. terzaruolo
- ↑ v. 19. C. M. Io vedea ben lei, ma non in essa
- ↑ v. 20. C. M. E in quelle bolle
- ↑ v. 21. C. M. Gonfiar tutta e riseder compressa.
- ↑ v. 28. C. M. Che per fuggir
- ↑ v. 33. C. M. sovra il piè
- ↑ v. 35. Non riuscirà ingrata agli studiosi la bella variante del Codice Antaldino - Calcava un peccator; la quale meglio si conviene con la lettura del nostro Butese. E.
- ↑ v. 36. C. M. del piè ingremito
- ↑ v. 53. C. M. che tu balli,
- ↑ v. 55. Vassallo; dipendente, soggetto. E.
- ↑ v. 56. attuffare in mezzo
- ↑ v. 59. C.M. qui t’agguatta
- ↑ v. 60. C. M. Dopo uno scheggio,
- ↑ v. 60. ’Àia; oggi abbia, da aiere. E.
- ↑ v. 63. C. M. Et altra volta
- ↑ v. 72. Fello; violento, fiero. E.
- ↑ v. 83. C. M. Lassami andar:
- ↑ v. 86. C. M. cader l’uncino
- ↑ v. 87. Feruto, participio di ferere, acconciato alla seconda coniugazione, come sentuto che si ode tuttora nel popolo. E.
- ↑ v. 89 Tra li scheggion
- ↑ v. 89. C. M. guatto, guatto.
- ↑ v. 95. C. M. Ch’uscitten
- ↑ v. 100. C. M. li graffi,
- ↑ v. 102. C. M. liel acocchi.
- ↑ v. 103. tenea sermone
- ↑ v. 107. C. M. non li potrà
- ↑ v. 112. Otta; per ora, è voce sempre viva in alcuni luoghi della Toscana,
e massimamente nella Val d’Elsa. E. - ↑ v. 117. ch’ei non
- ↑ 33,0 33,1 v. 122-3. C. M. sannuto… Farvarello
- ↑ v. 124. Pane; panie. Fognato al solito l’i, come in Pana per Pania. E.
- ↑ v. 135 C. M. per li lessi
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C O M M E N T O
Così di ponte in ponte ec. In questo xxi canto l’autor nostro tratta della quinta bolgia, ove si punisce il peccato della baratteria; e dividesi principalmente in due parti, perchè prima pone la descrizione del luogo; nella seconda pone l’apparecchiamento al processo più oltre e il processo, quivi: E il Duca mio ec. La prima si divide in sette parti, perchè prima descrive il processo della quarta bolgia nella quinta; nella seconda, come Virgilio fa cauto Dante per quello che appariva, quivi: Mentr’io là giù ec.; nella terza dimostra quel che fatto fu per colui che veniva, quivi: Del nostro ponte, ec.; nella quarta dimostra quel che feciono li demoni a una misera anima quivi arrecata, quivi: Quel s’attuffò, ec.; nella quinta, come Virgilio argomenta al pericolo che si potea incorrere andando sanza providenzia, quivi: Lo buon Maestro: ec.; nella sesta, come Virgilio va solo innanzi a provare 1, quivi: Poscia passò ec.; nella settima, come Virgilio induce la sua discensione 2, quivi: Credi tu, Malacoda, ec. Divisa adunque la lezione, è ora da vedere la sentenzia litterale. Dice adunque così: Del ponte quarto venimmo al ponte quinto, parlando altro che la Comedia mia cantar non cura, e tenavamo 3 il colmo del quinto ponte, quando noi restammo per vedere l’altra fessura di Malebolge; cioè la quinta, che così si chiamano tutte. E vidila mirabilmente oscura e quale bolle il verno la tenace pece nell’arzanà 4 de’ Viniziani, per rimpesciare li legni loro non sani che non possono navicare in quella vece; cioè in quel modo che sono; et a quello proposito, o vero esercizio, chi fa suo legno nuovo e chi ristoppa le coste a quel che più viaggio fece, e chi ribatte la proda e chi la poppa, et altri fanno remi et altri volgono sarte, e chi rintoppa terzeruolo et artimone; e tal bollia la giù nella quinta bolgia non per fuoco; ma per divina arte, una pegola spessa che invescava la ripa da ogni parte. E dice Dante che vedeva bene quella pegola; ma non chi era in essa: e la vedea in quelle bolle, che il bollore levava, gonfiare e poi risedere; cioè ritornare in giuso, tutta compressa. E dice che mentre che guardava 5 laggiù fissamente, il suo Duca; cioè Virgilio, dicendo: Guarda, lo trasse a sè del luogo ove stava prima. Allora dice Dante che si volse come l’uomo che tarda a vedere quello che li convien fuggire, e cui subita paura spaventa e toglie il valore, che non indugia il partire per vedere che cosa è; ma subito fugge. E dice che allora vide di rietro a loro venire correndo un diavolo nero su per lo scoglio; et aggiugne le condizioni sue, dicendo: Ahi quanto elli era fiero nell’aspetto, e quanto mi parea acerbo nell’atto, con l’alie aperte, e leggiero sopra i piè! E sopra la spalla sua acuta e superba caricava uno peccatore con amendue l’anche, e il dimonio tenea con li artigli suoi delle mani ghermito 6 il nerbo del piè del misero peccatore; e d’in sul ponte gridò: O Malebranche, ecco uno delli anziani di santa Sita, mettilo sotto la pegola, ch’io torno per anche a quella terra che n’è ben fornita, ch’ognuno v’è barattier fuor che Bonturo: quivi si fa del no sì per li denari. E dice che il gittò là giù, e volsesi per lo duro scoglio del ponte et andò sì velocemente, che con tanta fretta non va lo mastino sciolto a seguitare il furo: e quella misera anima ch’era gittata giuso, s’attuffò nella pegola e tornò su col volto; ma li demoni ch’erano sotto il ponte gridavano: Qui non si mostra il vostro Volto Santo, qui si nuota altrimenti che nel Serchio; e però se tu non vogli de’ nostri graffi, non far soperchio sopra la pegola. Poi l’addentaron con più di cento raffi, e dissono: E’ convien che tu balli coverto sì, che accaffi nascosamente se tu puoi. Non altrimenti i cuochi fanno attuffare alli vassalli loro la carne con li uncini in mezzo della caldaia, perchè non galli. Et allora disse Virgilio a Dante: A ciò che non si paia che tu ci sia, appiccati 7 qui dopo uno scoglio che ti ripari, e non temere per alcuna offensione che a me fosse fatta, ch’io so come queste cose stanno, perchè altra volta fui in tal barratta. E poscia Virgilio, detto questo, passò di la da capo del ponte; e com’elli giunse in su la ripa sesta, gli fu mestieri d’avere sicura fronte: imperò che i demoni uscirono di sotto il ponte con quel furore e con quella tempesta, ch’escono i cani a dosso al poverello, che chiede di subito ov’elli s’arresta, e tutti volsono i roncigli contro a Virgilio. Ma Virgilio gridò a loro: Nessun di voi sia fello: innanzi che li uncini vostri mi piglino, traggasi davanti l’uno di voi che m’oda, e poi fate consiglio d’arroncigliarmi o no. E tutti questi maladetti gridavano: Vada Malacoda; e per questo elli si mosse, e li altri stettono fermi; e venne a Virgilio, e disseli: Che vuoi tu dire? Allora Virgilio li disse: Credi tu, Malacoda, ch’io fosse venuto insino qui sicuro di tutte vostre derisioni, sanza voler divino e fato destro? Non te lo pensassi, e però ti dico: Lasciami andare, che nel Cielo è voluto ch’io mostri ad altrui questo cammin selvestro 8. Allora li fu l’orgoglio sì caduto, ch’elli si lasciò cadere l’uncino a’ piedi, e disse alli altri: Oggimai non sia ferito, poi che così è. E qui finisce la sentenzia litterale della prima parte del canto: ora è da vedere la esposizione del testo con le allegorie.
C. XXI — v. 1-18. In questi sei ternari l’autor nostro pone lo descenso della quarta bolgia nella quinta, ponendo lo passamento del ponte quarto in sul quinto, e descrivendo in parte la detta bolgia, facendo una similitudine, dicendo; Così di ponte; cioè quarto, in ponte; al quinto, altro parlando; Virgilio et io Dante, Che la mia Comedia; cioè questa opera la quale l’autore chiama comedia. Comedia 9 s’interpetra canto di villani, e tratta delle persone mezzane, et in mezzano stilo si dee comporre et incomincia da avversità e finisce in felicità, come fanno le favole di Terenzio e di Plauto. Sarebbe dubbio, se questo poema dell’autore si dee chiamare comedia o no; ma poi che li piacque chiamarla comedia 10 debbalisi concedere. Messer Francesco Petrarca in una sua epistola che comincia: Ne te laudasse pœniteat ec., muove questa questione e dice: Nec cur comœdiam vocet video. - cantar non cura; cioè descrivere: però che cantica chiama l’autore ciascuna delle tre parti principali, e le parti di ciascuna chiama canti; e però chiama scrivere, cantare: o vogliamo dire che seguiti la grammatica, che pone cantare per descrivere. E se si dimostrasse o vero domandasse, perchè non curò di descrivere quello che parlarono, puossi rispondere perchè sarebbe stato inconveniente replicare quello, che altra volta avea detto: imperò che possiamo convenevolmente pensare che il parlare loro fosse della selva, della quale fu fatta menzione di sopra cap. i; e il parlare di quella fatto per Virgilio, fu lo deliberare della ragione, se ne dovea far menzione o no. Venimmo; noi Dante e Virgilio, e tenevamo il colmo; cioè la sommità; cioè eravamo giunti in sull’arco del ponte quinto, quando Ristemo; cioè ci fermamo qui, per veder l’altra fessura; cioè l’altra fossa e vallone; cioè il quinto, Di Malebolge, perchè si chiami così, fu dichiarato di sopra cap. xviii, e li altri pianti vani; cioè non uditi, perchè i peccatori erano tutti sotto la pegola, sicchè non si poteano udire; e però dice l’autore che i pianti erano vani, quanto all’audito suo e di Virgilio: o vogliamo dire che tutti i pianti dell’inferno sieno vani, che non fanno alcuno utile come fanno quelli del mondo, che sgravano l’anima della colpa quando si fanno per contrizione; e così sono fruttevoli et utili, E vidila mirabilmente oscura: però che giù era la pegola nera. Et è qui da notare il peccato che l’autore finge che si punisca in questa bolgia e la pena ch’elli dà per convenienzia a questo peccato, e come moralmente si vede questa pena essere nelli mondani che operano sì fatto peccato. Et intende prima l’autore di trattare qui del peccato della baratteria, che per altro nome si chiama moccobellaria 11; e moccobellaria 12 è vendimento, o vero comperamento di quello che l’uomo è tenuto di fare per suo uficio o in cose publiche o private, per danari o per cose equivalenti. Et à questo peccato due spezie: imperò che elli si vende o si compra quel che si dee fare secondo debito di ragione, e questo è men grave, siccome s’io giudice a una corte, do una sentenzia giusta più tosto che non farei per alcuno prezzo ch’io ricevo della parte; l’altro modo si è, se si vende o compera quello che è contra ragione, siccome se io arbitro debbo dare la sentenzia per te, et io ingiustamente la do per altra parte, corrotto per prezzo o per dono ch’io n’abbia ricevuti. E questa spezie è molto più grave: imperò che si fa contra giustizia per avarizia; et ecci duppio 13 il peccato d’ingiustizia e d’avarizia; e similmente se io sono anziano e debbo dare l’ufizio a chi lo merita, et io lo darò a chi lo compera, e se addiviene che tralli compratori io lo dia al meno rio, non n’è perciò minore la baratteria, ch’io non ò guardato quello perchè io l’avrei dato a chi più me n’avesse dato. E se pur lo facessi studiosamente, potrebb’essere ch’io il farei perch’io nol potrei fare così copertamente, o per mostrare che ci fosse puro respetto di bene; e così in molti modi si può aggravare e più e meno questo peccato. Sono altri che sono mezzani a far fare questo, et igualmente deono essere puniti come quelli che il fanno, et igualmente il comperatore e il venditore: imperò che se non fosse il comperatore non sarebbe il venditore. E tutte le spezie di questo peccato igualmente si deono punire: imperò che in tutte igualmente si commette inganno e frode; lo comperatore inganna il venditore, dicendo: Tu puoi pigliare questo, ch’io tel dono: non ti posso io donare il mio? Et in questo modo lo inganna quanto alla parte di Dio; e quanto al mondo dice: Niuno 14 il saprà. E similmente il venditore inganna il comperatore per indizi e per indugi e per mezzani e per certi atti sì, che s’avvegga di quello che vuole; e così perchè sono sotto uno genere di baratteria e spezie di froda, àe fatto l’autore una medesima pena. E la pena ch’elli à ordinata a questo peccato è questa, ch’elli finge che tali peccatori sieno messi sotto una pegola bogliente, nera et oscura, spessa et inveschiativa et addentati con più di cento raffi e guardati da’ demoni chiamati Malebranche, armati di graffi; e queste pene degnamente si convengono a tali peccatori: imperò che come sono stati impaniati nel mondo dai danari o d’altro dono equivalente, sicchè non ànno avuto poi podestà di seguire la ragione, così sieno di là impegolati; e come nel mondo sono arsi dall’avarizia, così di là bollano; e come nel mondo ànno cercato con fraude appiattamento e scurità alla loro baratteria, così sieno messi sotto la nera et oscura pegola; e come sono stati impacciatori l’uno dell’altro nelli ofici, così siano inveschiati nella spessa pegola; e come l’uno à tirato dall’altro la pecunia, così sieno di là afferrati e tirati dai demoni con li uncini; e come ànno avuto l’animo disideroso di rapina e sono stati rapaci con le mani uncinute a tirare a sè, così sieno guardati dai demoni, chiamati Malebranche con li graffi e raffi che li graffino con essi, in vendetta della loro rapina. E queste medesime condizioni che l’autor finge essere di là litteralmente, secondo moralità possiamo credere che allegoricamente intendesse per li mondani 15: però che stanno sempre nella pegola, in quanto stanno sempre occupati e non sono liberi a fare quello che deono per quello che ànno ricevuto; e però si può dire dell’oficiale corrotto: Elli è impaniato 16 e sta sotto: imperò che quanto può occultamente adopera in questo; e similmente il corruttore. E sono nella pegola bogliente, in quanto l’uno e l’altro è nell’avarizia inveschiato la quale sempre bolle; sono similmente nella nerezza et oscurità, quanto alla coscienzia che non è chiara, e quanto alla fama; sono inveschiati in quanto sono imbruttiti 17 d’uno peccato medesimo di fraude, con che l’uno inveschia l’altro et inganna; sono uncinati: imperò che l’uno tira e sgraffia, rapendo dall’altro: lo corrotto con l’opera del suo ofizio straccia lo corruttore, e corrottore 18 con la pecunia straccia lo corrotto, togliendogli la giustizia e la fama; sono guardati dalli demoni, detti Malebranche, coi graffi, in quanto l’uno e l’altro continuamente è tentato di rapire. Et a dimostrare le soprascritte pene, l’autore induce una bella similitudine, dicendo: Quale nell’arzanà de’ Viniziani; arzanà 19 è luogo ove si tengono e serbano, e si fanno li navili; li Viniziani sono cittadini di Vinegia la qual città è nell’ultima parte della Lombardia in verso levante, posta in acqua sì, che tutti sono navicanti, e per li tanti navili et artifici che vi si fanno più che nell’altre arzanà, però disse più tosto di quella, Bolle l’inverno; cioè di verno, perchè il verno, quando non si navica s’acconciano i legni, la tenace pece; questo adiettivo tenace si conviene alla pece, Per ripalmar; cioè impeciare, i lor legni non sani; cioè i navili che sono rotti per li viaggi che ànno fatti, Che; cioè li quali, navicar non ponno; se non s’acconciano, e in quella vece; cioè in quella condizione: imperò che son rotti; o in quella vece; cioè in quella volta, et allora va con quello che è di sopra, o vogliamo mandarlo a quello che è detto di sopra, dicendo in quello così fatto esercizio o vero vicenda a potere navicare; o in quella vece; cioè in vece di quel tempo che’ navichieri non li possono aoperare a viaggi utili a loro, fanno l’altro loro utile e comodo in quella vece et in quello scambio; cioè ch’elli racconciano e fortificano a potere navicare, Chi fa suo legno nuovo: delli maestri che sono nell’arzanà detta di sopra, e chi ristoppa Le coste a quel che più viaggi fece; a fine di poter navicare, Chi ribatte da proda e chi da poppa; per istoppinare: proda è la parte d’inanzi del legno, e poppa è quella di rieto, Altri fan remi; cioè li remai, ed altri volgen sarte: cioè li canapai che le volgono a torno, o vogliamo dire che li marinai le volgono quando l’ànno operate, Chi terzeruolo et artimon rintoppa; cioè rappezza: artimone è la maggior vela che abbia la nave, terzeruolo è la minore: imperò che la nave porta tre vele; una grande che si chiama artimone; una mezzana la quale si chiama la mezzana; et un’altra la minore che si chiama terzeruolo. Tal, non per foco, adatta ora la similitudine: dice che tale era quella pegola, non già per fuoco, come quella pece de’ Viniziani, ma per divina arte: imperò che per potenzia divina Bollia là giù; cioè in quella bolgia, una pegola spessa; tale, quale la pece nell’arzanà de’ Viniziani, Che inveschiava la ripa d’ogni parte; cioè tutta la ripa dall’un lato e dall’altro.
C. XXI — v. 19-36. In questi sei ternari l’autor nostro manifesta quello che finge che avvenisse, quando stava a guardare d’in sul ponte nella bolgia, dicendo: Io vedea lei; cioè la pegola, ma non vedeva in essa; cioè quel che v’era, Ma che le bolle; cioè non vedea altro che le bolle: imperò che i peccatori stavano sotto 20 in quelle bolle; cioè in quelle bolle, che il bollor levava; vedeva, s’intende, Gonfiar tutta e riseder compressa; cioè la pegola che tutta insieme s’inalzava e ritornava 21 giuso, come fa la pece quando bolle per la sua grossezza: imperò che l’umido vapor che v’è non può esalare come fa nell’acqua che è rara; e però quando l’acqua bolle, leva ora in uno luogo, ora in un altro, e sciala l’umido vapore per la sua rarità, e disfassi la bolla; ma nella pece e nella pegola si lieva tutta, et in quello levare sciala, e però risiede poi. Mentr’io; cioè Dante, là giù; cioè in quella pegola, fisamente mirava, Il Duca mio; cioè Virgilio, dicendo: Guarda, guarda; a me Dante! Mi trasse a sè del loco dov’io stava; qui fa l’autore una similitudine, dicendo: Allor mi volsi; io Dante, come l’uom che tarda; cioè indugia, Di veder quel che li convien fuggire; avendo paura, pur fugge presto e partesi del luogo dove è subito; ma non sa determinatamente ove debba ricoverare, e però dice, E cui; cioè lo quale, paura subita sgagliarda; cioè impaurisce, Che per veder non indugia il partire; e non sa ove vada: E vidi; io Dante, voltomi e partitomi, dietro a noi, cioè a Virgilio e a me Dante, un diavol nero, Correndo su per lo scoglio venire; cioè del ponte del quale m’era partito. Ahi; questa è una intergezione che significa ammirazione, quanto elli era nello aspetto fero; cioè quel diavolo, E quanto mi parea nell’atto acerbo; esso demonio, Con l’ale aperte: però che venia volando, e sopra i piè leggiero: imperò che andava co’piedi e volava con l’alie! E però significa la sua velocità e pone lo singulare per lo plurale; tutte queste condizioni se li appropiano: imperò che gli è deforme e sozzo, e questo significa la nerezza; appresso è crudele, e questo significa la sua ferità, quanto a vedere, e la sua acerbità nell’operare 22; appresso è leggieri, perchè è spirito. L’omero suo; cioè la spalla del detto demonio, ch’era acuto e superbo; cioè appuntato 23 et alto, Carcava un peccator con ambo l’anche; cioè che li stava in su le spalle quel peccatore a cavalcione, E quei; cioè lo demonio, tenea de’ piè; cioè del peccatore, ghermito il nerbo; cioè il garetto con li artigli suoi, perchè non gli fuggisse; e questo significa allegoricamente che il demonio tiene ghermita 24 l’affezione del peccatore, perchè non si parta da lui.
C. XXI — v. 37-45. In questi tre ternari l’autor nostro dimostra quel che finge, che facesse quel dimonio che recava il peccatore in sulle spalle, dicendo: Del nostro ponte; cioè dello scoglio in su che eravamo Virgilio et io Dante, disse: quel dimonio: O Malebranche; questo è il nome di tutti quelli demoni che sono posti a tormentare quelli, che ànno avute male mani ad unciare 25, e pigliare danari e doni di quello che non si dee pigliare; e però finge l’autore uno nome comune a tutti. Ecco un degli anzian di santa Zita; cioè di Lucca, dove è il corpo di santa Zita, e fannole li Lucchesi grande reverenzia; et usanza è de’ poeti di nominare li luoghi da diverse cagioni, per parlare pulito e retorico. E possiamo intendere che l’autor dica questo per irrisione 26, in quanto adorano quel corpo che non è canonizzato dalla Chiesa. Et è qui da sapere che costui che non è nominato, altri voglion dire che fosse Martino bottaio il quale morì nel mccc, l’anno che l’autor finge che avesse questa fantasia, il venerdi’ santo la notte sopra il sabbato santo, intendendosi del primo venerdi’ di marzo: e fu costui un gran cittadino in Lucca al tempo suo, e concorse con Bonturo Dati e con altri uomini di bassa mano, che reggevano allora Lucca. Onde andato una volta ambasciadore al Papa per lo suo Comune, ragionando un di’ col papa di sua condizione disse: Grollami, grollami, santo Padre, che mezza Lucca grollerai, quasi volesse dire ch’elli era uno de’ due che reggevano Lucca, e Bonturo Dati era l’altro: et allora che morì era anziano, e però disse: Ecco un degli anzian ec.; o forse che allora nell’anzianatico 27 di Lucca si solea usare baratteria, dando li offici per danari e facendo vender 28 li consigli per danari ch’erano da perdere. Mettetel sotto; cioè nella pegola, ch’io torno per anche; di questi peccatori, A quella terra; cioè a Lucca, che n’è ben fornita; cioè di barattieri, Ognun v’è barattier, fuor che Bonturo. Qui l’autor nostro usa due figure, che l’una si chiama iperbole che tanto è a dire quanto trapassamento del vero, e questo si fa a dimostrare la grandezza della cosa; e però dice: Ognun v’è barattier; a dimostrare la moltitudine che ve n’era, e passa la verità quando dice: Ognun: chè è da credere che ve n’era pur di quelli che non erano barattieri, et è da notare che l’autor finse che il dicesse lo demonio, che è padre di menzogna. Et in quanto dice fuor che Bonturo, usa un altra figura che si chiama antifrasis, et è quando s’intende il contrario di quello che si dice, e così si dee intendere qui fuor che Bonturo, che non è barattiere; ma più che barattiere: o vogliamo dire fuor che Bonturo, perchè era il maggiore, e il più manifesto barattier di Lucca. Questo fu Bonturo Dati da Lucca, lo quale fu grandissimo barattiere e fu grande cittadino in Lucca, et ogni barattaria fece per denari. Del no, per li denar, vi si fa ita; cioè in Lucca del no si fa sì per li denari; cioè a chi dè esser detto di no nelli offici è detto di sì; et a chi non à ragione è fatto che l’abbia per li denari. Là già il buttò; cioè lo demonio gittò giù nella pegola quello lucchese, e fa una similitudine, dicendo: e per lo scoglio duro Si volse; il demonio, e mai non fu mastino sciolto; cioè niuno cane mastino sciolto, dice, perchè si tengono legati e quando sono sciolti 29, Con tanta fretta a seguitar lo furo; che fugge della cosa 30, a che è venuto per furare.
C. XXI— v. 46-57. In questi quattro ternari dimostra l’autor nostro quel, che finge che avvenesse 31 poi dello anziano gittato, dicendo: Quel; cioè l’anziano gittato nella pegola, s’attuffò, e tornò su col volto; poi, Ma i demon, che del ponte avean coperchio; cioè ch’eran sotto il ponte, e però lo ponte era loro coperchio, Gridar: Qui non à luogo il Santo Volto; per questo si può intendere che colui tornato su dicesse: Santo Volto, aiutami; e però rispondessono così li demoni, altrimenti si può dire che qui sia una figura chiamata sarcasmos, che è irrisione che fa il nimico l’uno dell’altro; e così li demoni schernendolo dicessono: Fatti tu fuori, per vedere lo tuo Santo Volto da Lucca, e chiamalo perchè t’aiuti: qui no, non à luogo; e per questo si fa beffe l’autore de’ Lucchesi, che ànno in continuo parlare lo lor Volto Santo. E seguitando la derisione finge che dicessono: Qui; cioè in questa pegola, si nuota altrimenti, che nel Serchio. Serchio è uno fiume presso a Lucca, ove si sogliono bagnare i Lucchesi la state, et era consuetudine antica che per una festa; cioè di san Quilico 32, li cavalieri lucchesi andavano al monte san Quilici 33 e bagnavansi nel Serchio, entrandovi coi panni e passando di là: et alcuna volta convenia che notassono, e però dicessono schernendolo, Qui si nuota altrimenti, che nel Serchio; credi esser nel Serchio gelato, tu se’ nella pegola bogliente, credine uscir fuori a tua posta, come facevi del Serchio? Non ti verrà fatto: Però, se tu non vuoi de’ nostri graffi; cioè che noi ti percoliamo con essi, Non far sopra la pegola soperchio; cioè non uscir fuori della pegola, e non venire a uscir di sopra. Poi; ch’ebbono detto di sopra così: l’addentar con più di cento raffi; cioè li ficcarono a dosso i denti di più di cento raffi, attuffandolo 34 sotto; raffio tanto è a dire, quanto graffio: questo è uno strumento di ferro con li denti uncinuti, et ancor n’à uno appuntato 35 lungo, e con quello intende l’autore che l’addentassono. Disser: Coverto convien che qui balli; cioè sotto la pegola: questa è ancor derisione, che qui non li tenea ballare; Sì che, se puoi, nascosamente accaffi; cioè pigli, come se’ usato nel mondo di pigliare li moccobelli occultamente; e questo finge l’autore che dicessono ancora per ischerno. Non altrimenti i cuochi ai lor vassalli; cioè a’ lor servi e guatteri, Fanno attuffar nel mezzo la caldaia La carne con li uncin, perchè non galli. Qui fa l’autore una similitudine, dicendo che come li cuochi fanno ai guattari sospignere sotto l’acqua nella caldaia nel mezzo alcuno pezzo di carne, che stando dal lato sopra sta all’acqua e galleggia; così li demoni spinsono et attuffaron quell’anima ec.
C. XXI — v. 58-66. In questi tre ternari l’autor nostro finge come Virgilio lo fece appiattare, e come passò in su la ripa sesta a contastar 36 con li demoni, dicendo: Lo buon Maestro; cioè Virgilio, mi disse; cioè a me Dante: A ciò che non si paia, Che tu ci sia; cioè tu, Dante, qui t’acquatta; cioè ti nascondi in questo luogo, Dopo uno scoglio; cioè di questi ronchioni di questi sassi, ch’alcun schermo t’àia; cioè che t’abbia alcuno riparo che non sia veduto. E per nulla offension che a me sia fatta: cioè a me Virgilio, Non temer tu; cioè Dante, ch’i’ ò le cose conte; cioè imperò che io Virgilio ò queste cose manifeste: li pericoli provati certi e proveduti non ispauriscono l’animo forte; e però Virgilio, che significa la ragione superiore, lascia Dante appiattato; cioè la sensualità, la quale è timida. E così mostra il modo da dovere combattere la tentazione di questo peccato, e vincerla con la ragione: imperò che la sensualità non basterebbe a vincere le malebranche, che sono li tentatori di questo vizio, e questo ne intese l’autore allegoricamente. E notevolmente dice che s’appiatti dopo uno scoglio; cioè la sensualità stia dura, ferma e costante, insino che la ragione vince la tentazione. Perch’ altra volta fui a tal baratta; questo dice l’autore litteralmente: imperò che come detto fu di sopra, altra volta andò Virgilio del cerchio suo infino al cerchio di Giuda per uno spirito scongiurato da Eritone, costretto d’andare per lui, sì che allora fu ancora al partito con le malebranche. E pur secondo la lettera dice Dante, che Virgilio altra volta era ito infino al centro dell’inferno, per mostrare verisimile che Virgilio li possa mostrare la via e che la sappia: pone Virgilio propiamente per quello poeta, ond’elli trassi 37 fingendo che fosse scongiurato da Eritone, che non era possibile: imperò che Virgilio fu, poi che Eriton morì, per molti anni. Poscia passò; cioè Virgilio, di là dal co; cioè dal capo, del ponte; ch’ era sopra la quinta bolgia e la sesta, E com’el giunse in su la ripa sesta, Mestier li fu d’aver sicura fronte: cioè a Virgilio. E qui dimostra l’autore litteralmente 38 che l’ardire e la timidezza si dimostra nella fronte: imperò che lo levare significa ardire, e lo calare paura; e così la vergogna e la sfacciatezza.
C. XXI — v. 67-78. In questi quattro ternari l’autor nostro pone lo pericolo, a che finge che fosse Virgilio, quando pervenne in su la sesta ripa, facendo una similitudine, dicendo: Con quel furore, e con quella tempesta, Ch’ escono i cani a dosso al poverello, Che di subito chiede; per l’amor di Dio, ove s’arresta; cioè alla casa ove si regge, sanza fare altro proemio al suo parlare; Usciron que’: cioè li demoni, di sotto il ponticello: ov’ elli erano, E volser contra lui; cioè Virgilio, tutti i roncigli; cioè li graffi che aveano in mano; Ma el gridò; cioè Virgilio: Nessun di voi sia fello: cioè mal pensante: felle 39 è colui che pensa di mal fare ad altrui; e perchè Virgilio s’avvide ch’elli erano usciti addosso con mala intenzione, però parlò così. Et aggiugne: Inanzi che l’uncin vostro mi pigli; cioè innanzi che mi ficchiate a dosso alcun de’ vostri uncini, Traggasi avanti l’un di voi; dimoni, che m’oda; a ragione, E poi d’arroncigliarmi; cioè di straccarmi 40, si consigli; cioè si faccia consiglio e deliberisi tra voi. Tutti gridaron; li demoni: Vada Malacoda; costui era il caporale di tutta la brigata, e però fu mandato elli come più saputo; e questo nome Malacoda significa mal fine: e veramente mal fine è capitano de’ tentatori della barattaria, o uomini o demoni che sieno. Perchè un si mosse; cioè per la qual cosa uno si mosse; cioè Malacoda, e li altri stetter fermi; al luogo loro, E venne a lui; cioè Virgilio 41, dicendo: Che li approda; cioè che cagione è che lo fa venire a questa proda della bolgia? E questo si può intendere che dicesse a Virgilio e che dicesse alli altri demoni, o che il dicesse a sè medesimo: proda e ripa significano una medesima cosa; e però approdare è alla ripa arrivare e venire.
C. XXI — v. 79-87. In questi tre ternari l’autor nostro pone la risposta, ch’elli finge che Virgilio facesse a Malacoda, e quel che ne seguia, dicendo: Credi tu, Malacoda, qui vedermi Esser venuto; cioè a questo luogo: disse il mio Maestro; cioè Virgilio, Sicuro già da tutti i vostri schermi; cioè strazi che ò passato infino a qui, per tanti luoghi di demoni sanz’alcuno impedimento, Sanza voler divino e fato destro; cioè sanza la volontà di Dio che significa la sua providenzia, e felice esecuzione che è significata per lo fato destro quasi dica: Nol credere? E questo ti può provare l’essere venuto infino a qui sicuro, che sarebbe impossibile che io ci fossi venuto sanza questo. E però aggiugne et addomanda: Lasciame andar: chè nel Cielo è voluto; cioè da Dio, Ch’io mostri altrui questo cammin silvestro; cioè dello inferno, che ò ben cammino salvatico. Allor li fu l’orgoglio sì caduto; a Malacoda, Che si lasciò cascar l’uncino a’ piedi: però che alla volontà di Dio nessuno può resistere, E disse alli altri; demoni, Malacoda: Omai; cioè oggimai, non sia feruto; cioè ferito coi graffi Virgilio. E per questo vuole dimostrare l’autore che alcun peccato è, che pur per la grazia avuta nel battesimo si vince; et alcuno che non si vince, se non per special grazia che di nuovo si dia da Dio. E però disse di sopra l’autore che Virgilio non vinse li demoni duri, che li stessono 42 incontro fuori della città Dite; e qui pone che li vincesse. Seguita la seconda lezione.
E il Duca mio ec. Qui si comincia la seconda lezione, nella quale l’autor nostro dimostra il processo del suo cammino, e dividesi questa seconda lezione in sette parti: imperò che prima dimostra l’autore nostro il processo, o vero quel che addivenne a lui dopo il processo, o vero dopo la vittoria de’ demoni avuta da Virgilio, e come Virgilio lo chiamò; nella seconda si contiene com’elli fu schernito da’ demoni, e come Malacoda lo difese, quivi: Io mi accostai ec.; nella terza, come Malacoda insegna loro il processo del cammino, quivi: Poi disse a noi ec.; nella quarta, come Malacoda dà loro compagnia, quivi: Tra’ ti avanti ec.; nella quinta, come Dante temè, quivi: Oimè! Maestro ec.; nella sesta, come Virgilio lo conforta, quivi: Et elli a me ec.; nella settima pone il processo, quivi: Per l’argine sinistro ec. Divisa adunque la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale. Dice così adunque:
Poi che il Duca mio; cioè Virgilio, ebbe convinti li demoni, disse a me Dante: O tu, che siedi tra gli scogli del ponte appiattato, oggimai torna a me sicuramente. E per ch’ io mi mossi, dice Dante, e andai ratto a lui, quelli demoni si feciono tutti avanti sì, ch’io dubitai ch’essi non attenessino 43 il patto: e fa una similitudine che così vide temere li fanti che uscirono già per patto di Caprona, vedendosi tra tanti nimici; e però dice che s’accostò con tutta la persona a
Virgilio, e non torcea li occhi dalla sembianza loro che non era
buona. E dice che i demoni lo schernivano, e ch’elli chinavano li
graffi in verso lui, e dicea l’uno all’altro: Vuogli 44 ch’io lo tocchi in
sul groppone? E rispondeano tutti: Sì, fa che ben gliel accocchi. Ma
Malacoda, che avea parlato con Virgilio, si volse tutto presto e disse:
Posa, Scarmiglione; e poi disse a Virgilio et a Dante: Non si potrà
andare più oltre per questo scoglio, perchè giace tutto spezzato in
fino al fondo dell’arco sesto; e se pur vi piace andar più oltre, andatevene su per questa grotta: un’altro scoglio è presso che farà
via, come ponte sopra la bolgia. E manifesta lo tempo quando si
ruppe, dicendo: Ieri alle cinque ore più oltre che questa ora 45, compierono anni mcclxvi, che questo ponte si ruppe. Io mando in verso
là di questi miei a guardare, se alcun’anima si sciorina fuor della
pegola: andatevene con loro che non vi saranno rei. Et allora ne
chiamò dieci di loro, dicendo: Fatevi avanti, Alichino e Calcabrina e
Cagnazzo; e Barbariccia sia decurio 46 e guidi li altri come caporale:
venga ancora Livicocco 47, e Draghinazzo, Ciriatto sannuto e Graffiacane e Farferello e Rubicante il pazzo: cercate intorno le boglienti pane 48: costoro; cioè Virgilio e Dante, sieno salvi infino all’altro scheggio 49, che tutto va intero sopra le bolgie. Allora Dante dubitando di
tal compagnia, disse a Virgilio: Oimè! Maestro, che è quel ch’io veggio? Deh andiamo soli sanza questa scorta, se tu sai andare, ch’io
per me non la chieggio; e se tu sei accorto come suoli essere, non
vedi tu che digrignano i denti, e con le ciglia ne minacciano duoli?
Allora Virgilio rispose a Dante: Io non voglio che tu tema; lasciali
digrignare pur a lor senno, che fanno questo per li peccatori dolenti
che sono qui. Et aggiugne che dopo questo dierono volta per l’argine
sinistro; ma prima avea ciascuno stretto la lingua coi denti inverso
il loro capitano; et elli per cenno avea fatto trombetta della bocca
di sotto, sicchè camminavano a suono di sì fatta trombetta. Ora è
da vedere il testo con l’allegorie, o vero moralitadi.
C. XXI — v. 88-96. In questi tre ternari l’autor nostro dimostra com’elli fu chiamato da Virgilio, poi ch’ebbe fatti star cheti quelli demoni; e fa una bella similitudine a dimostrare com’ebbe paura, dicendo così: E il Duca mio; cioè Virgilio disse, s’intende, a me: Dante: O tu, che siedi Tra li scogli del ponte quatto quatto, Sicuramente omai a me tu riedi; cioè torna a me omai sicuramente. Perch’io mi mossi, et a lui venni ratto; E’ diavoli si fecer tutti avanti; cioè quelli ch’erano stati a parlar con Virgilio, Sì ch’io; Dante temetti ch’ei tenesser patto; cioè quello che aveano promesso a Virgilio. E fa una similitudine, dicendo: E così vidi già temer li fanti; cioè che così temette elli, come vide già temer li fanti, Ch’uscivan patteggiati di Caprona, Vedendo sè tra nimici cotanti. Caprona è uno castello del contado di Pisa, di lungi dalla città forse cinque miglia, che è ora disfatto; ma ancora appaiono le vestigie; cioè le mura d’intorno, et una torre: et è in su uno monte presso all’Arno, il quale fu tolto a’ Pisani con altre castella; cioè Avena 50, Quosa et Asciano, i quali sono ora disfatti et altri castelli del contado di Pisa, sicchè non rimase a’ Pisani, se non Vico, Pecciole 51 e Morrona, da’ Lucchesi e dalla parte guelfa di Toscana la quale era tutta collegata insieme contra Pisa. Et a questo pare che dovesse dare favore il conte Ugolino, che era allora signore di Pisa, e favoreggiava li nimici di Pisa, forse per arrecarla a tanto, ch’elli avesse più libera signoria; onde li Pisani, come si dirà di sotto, lo feciono poi coi figliuoli morire di fame in prigione. Questo castello era sì forte che per battaglia non si poteva avere, onde avvenne che, fatto poi capitano di guerra per li Pisani il conte Guido da Monte Feltro, acquistò a’ Pisani tutto ciò che avevano perduto, et ancora Caprona: imperò che, spiato per alcuno segreto modo che quelli dentro non aveano acqua, si mosse un di’ da Pisa et assediò Caprona; e non avendo più che bere, benchè avessono assai da mangiare, i fanti che v’erano dentro s’arrenderono a patto d’essere salve le persone. E quando uscirono fuori del castello et andavano tra’ nimici, v’erano di quelli che diceano e gridavano: Appicca, appicca: imperò che il conte Guido li avea fatti legare tutti ad una fune, acciò che non si partissono l’uno dall’altro, et andando spartiti non fossono morti da’ contadini; e facevali menare in verso Pisa, per conducerli a una via che andava diritto a Lucca, più breve che alcun’altra; e pertanto elli ebbono paura ch’el patto che era loro stato fatto, non fosse attenuto. E quando furono alla via d’Asciano, presso all’antiporto di pace, il conte li fece sciogliere e domandolli dove voleano andare; e rispondendo essi: A Lucca, disse loro: ecco la via; e proferendo loro compagnia, li lasciò andare, e sani e salvi n’andarono 52 a Lucca; e però dice: così vidi; cioè Dante: imperò che, benchè Dante fosse guelfo, come uscito di Firenze, era con li Pisani: imperò che la parte ghibellina di Toscana era in aiuto a’ Pisani; et altri vuol dire che Dante non vi fu, e che il testo dice: Non altrimenti dubitar li fanti; cioè li fanti lucchesi, Ch’usciron patteggiati; cioè per patto fatto, di Caprona; cioè del detto castello, Vedendo sè tra nimici cotanti: però che v’era gran moltitudine, perchè v’era l’esercito de’ Pisani, come temetti io Dante tra cotanti demoni.
C. XXI — v. 97-105. In questi tre ternari l’autor nostro dimostra la derisione che i demoni feciono di loro, o vero di lui, poi che fu giunto a Virgilio, dicendo così: Io; cioè Dante, m’accostai con tutta la persona; cioè mia, Lungo il mio Duca; cioè Virgilio, e non torceva li occhi; cioè miei, Della sembianza lor; cioè dell’apparenzia de’ dimoni, ch’era non buona; cioè ria. Ei; cioè quelli demoni, chinavan li raffi; verso me, e: Vuoi ch’io il tocchi; cioè Dante, Diceva l’un con l’altro; di quelli demoni, in sul groppone? Di Dante parlavano. Ei rispondean; li demoni l’uno all’altro: Sì, fa che gliel accocchi; e questa era una derisione giocosa, che si chiama antismos nelle figure che pone dottrinale. E questo finge l’autore che i demoni facesseno, perchè à finto che avesse paura di loro; e moralmente vuol dimostrare che i demoni 53 si schermiscono sempre coloro, che veggono timidi. Ma quel dimonio, che tenne sermone; cioè parlamentò, Col Duca mio; cioè con Virgilio, si volse tutto presto; cioè Malacoda, E disse: Posa, posa, Scarmiglione; e nomina questo demonio dal suo effetto 54. Scarmiglione si dice da schermo, mutando e in a che viene a dire alcuna volta difensione; et alcuna volta, derisione. Et in quanto Malacoda lo riprende, si può pigliare questa moralità, che il dimonio alcuna volta mostra benivolenzia ad altrui, per poterlo meglio ingannare; e così facea costui ch’era chiamato Malacoda; cioè mal fine, e però mostrava questa benevolenzia, per poterli al fine ingannare, come appare in quel che seguita.
C. XXI — v. 106-117. In questi quattro ternari finge l’autor nostro come Malacoda, sotto specie di bene, li volle ingannare come è usanza del dimonio, unde dice: Poi disse; cioè Malacoda, a noi; cioè a me Dante e Virgilio, poichè ebbe cattato benivolenzia, riprendendo Scarmiglione: Più oltre andar per questo Scoglio non si poria; parla dello scoglio ch’ avea fatto ponte sopra la bolgia in fin quivi; et assegna la cagione: perocchè giace Tutto spezzato al fondo l’arco sesto: però ch’era caduto giù; E se l’andare avanti pur vi piace; cioè a voi due, Andatevene su per questa grotta: cioè su per questa ripa sesta: Presso è un altro scoglio, che via face; in questo mentisce: imperò che in su questa sesta bolgia non v’è niuno arco intero, perchè tutti furono spezzati nella passion di Cristo, nella quale fu rotta la sinagoga de’ Giudei, e la fraude della ipocrisia de’ sacerdoti allora venne meno. E però finge Dante che i ponti sieno tutti rotti sopra la sesta bolgia; li quali ponti significano la fraude, come detto è di sopra, e Malacoda dice pur di quell’uno che vedevano, perchè nol potea negare; ma delli altri mentiva, dicendo ch’erano interi e questo facea per impedir l’andata di Dante. E questo finge l’autor, per mostrare a noi moralmente come ci dobbiamo guardare di credere ai demoni, dicendo ancora la verità: però che il fanno a fine d’ingannare. E seguita Malacoda, per dar fede alla sua bugia, et aggiugne la cagione occultamente, narrando il tempo quando fu rotto quel ponte che veniva verso loro, dicendo: Ier, più oltre cinque ore, che quest’otta; cioè che ieri fu venerdi’ santo, secondo che appare nel primo canto, più innanzi che quest’ora ch’ era la prima ora del sabato santo, cinque ore; e così s’intende che fosse alla sesta ora: imperò che cinque e una fanno sei, Mille dugento con sessanta sei Anni compièr; cioè compietter alla sesta ora, ieri, che qui la via fu rotta; cioè in questo ponte, e questo fu nella passion di Cristo: imperò che alla sesta, quando Cristo fu passato, s’apersono li monumenti e le pietre si spezzarono, e il velo del tempio si stracciò; et allora finge Dante che rovinasse la ripa del settimo cerchio, come appare di sopra nel xii canto, e questi ponti sopra la sesta bolgia, e la cagione fu assegnata di sopra. E per questo si può provare che Dante intendesse, per mezzo del cammin di nostra vita li 35 anni: imperò che Dante finge che avesse questa demostrazione dell’inferno la notte del venerdi’ santo, incominciando dalla sera; e stesse nell’inferno la notte del venerdi’ e il sabato santo; e la notte del sabato santo in sull’aurora n’uscisse, come Cristo stette nel limbo, quanto all’anima; e nel sepolcro, quanto al corpo, che correa quell’anno mcclxvi dalla passion di Cristo, e debbavisi aggiugnere anni xxxiii e mesi tre che Cristo era vivuto, e nove mesi che stette nel ventre della madre; e così sarebbono mccc, e Dante visse in questo mondo anni lvi, secondo che si truova, e morì nel mcccxxi secondo che appare nel suo monimento a Ravenna. Levando dunque di lvi anni li xxi anni, rimane xxxv, adunque Dante aveva xxxv anni quando si trovò smarrito nella selva, la notte del giovedi’ santo sopra il venerdi’ santo di marzo. E questo numero studiosamente puose l’autore, perchè si potesse comprendere quel tempo ch’elli intendea per lo mezzo del cammin di nostra vita; e quando ebbe elli questa fantasia, che fu nel mccc il venerdi’ notte, di’ primo di marzo sopra il sabato santo, et ancora la notte del sabato e lo sabato infino all’aurora della pasqua; e lo riconoscimento dell’errore il giovedì santo sopra lo venerdi’. Et aggiugne: Io mando verso là di questi miei: cioè compagni, dice Malacoda a Virgilio et a Dante, A riguardar, se alcun se ne sciorina; di quelli barattieri 55 fuor della pegola, Gite con lor; voi Virgilio e Dante, ch’ei non saranno rei; non può dire buoni: imperò che questo adiettivo non si può in veruno modo convenire al demonio, se non ad accrescimento di male, come se noi dicessimo: Lo demonio è buono 56 tentatore; et allora si pone impropriamente; cioè grande ingannatore. Et è qui da notare che per meglio potere ingannare, mostra di voler servire, e questa è l’arte diabolica la quale ànno imparato ancora molti mali uomini, da’ quali è impossibile potersi guardare, se Idio nol guarda.
C. XXI — v. 118-126. In questi tre ternari l’autor nostro finge quali e quanti fossono i demoni mandati da Malacoda a cercare; e fingendo che fossono chiamati, li nomina secondo le loro figure, offici et effetti, e mostra che fossono dieci, e finge che Malacoda li nomini, dicendo: Tra’ti avanti, Alichino; ecco il nome del primo chiamato, e Calcabrina; ecco il nome dell’altro, Cominciò elli a dire; cioè Malacoda, e tu, Cagnazzo; ecco il nome del terzo. E Barbariccia; ecco lo nome del quarto, guidi la decima; cioè sia decurio 57 e capitano delli altri. Libicocco vegna oltre; ecco il nome del quinto, e Draghignazzo; ch’è il nome del sesto, Ciriatto sanuto; il nome del settimo, e Graffiacane; il nome dell’ottavo, E Farferello; il nome del nono, e Rubicante pazzo; il nome del decimo. Cercate intorno alle boglienti pane; ecco che dà loro il comandamento che vuole che osservino; cioè che cerchino la pegola: Costor sien salvi; cioè Dante e Virgilio, dice Malacoda, infino all’altro scheggio; cioè all’altro scoglio, Che tutto intero va sopra le tane; et in questo mentisce Malacoda: imperò che sopra la sesta bolgia non ve n’era veruno, siccome apparirà nel terzo canto da questo, che tutti si spezzarono e caddono nella passione di Cristo nell’ora sesta, come finge l’autor nostro acconciamente. E però Malacoda parlava maliziosamente, mostrando di sicurarli 58 e niuna sicurtà dava loro: imperò che diceva: infino all’altro scheggio; e quel non v’era, sicchè non gli sicurava; ma perchè Virgilio e Dante s’assicurassono, però diceva così. Et è qui da notare questa allegoria; cioè che Dante finga questi dieci dimoni essere mandati a vedere, se alcuno de’ barattieri uscisse della pegola, intendendo moralmente di quelli del mondo, benchè parli litteralmente di quelli dell’ inferno 59; li quali barattieri sono guardati da x demoni, acciò che non escano della pegola; cioè della fraude della baratteria; e questi sono dieci mali che stanno con la baratteria. Lo primo è inchinamento d’animo a tale peccato, e questo è significato per Alicchino, che si può interpretare, alium vel alas inclinans; cioè inchinante altrui, o vero inchinante l’alie, cioè la volontà: imperò che come l’alie portano l’uccello, così la volontà porta l’uomo. Lo secondo è corruzione d’animo, quando à diliberato seguire tal peccato, e questo è significato per Calcabrina che si può interpetrare calcans pruinam 60; idest graliam, quia pruina gratiam significat; cioè dispregiante la grazia; e così fa 61 l’animo corrotto che perde la grazia di Dio. Lo terzo è maladizione: imperò che dopo il perdimento della grazia, si viene nella maladizione, e questo è significato per Cagnazzo; cioè cane mordente et abbaiante; è così è morso dalla maladizione lo barattiere, o vogliamo dire, che maladizione è parlare non ragionevole che fa l’uno barattiere con l’altro. Il quarto è la fraudolenta occupazione del vizio, significato per Barbariccia che il chiude con le braccia, e cela il vizio con fraude sì, che non possa apparere allora; e questo significa lo nome, Barbariccia, che la barba arricciata dimostra fraudulenzia. Lo quinto è occupazione d’opera per lo pigliamento del premio, ch’è significato per Libicocco, che è interpetrato libens coccum; cioè piacente dono, vel libido coquens; cioè avarizia cocente, per la quale si piglia il prezzo, o vero il dono. Il sesto è lo impedimento dell’affezione, che è significato per Draghignazzo che è drago inplicatore et avvelenatore dell’affezione, come apparirà di sotto, però s’interpetra implicatore. Lo settimo è l’offensione del prossimo che è significata per Ciriatto sannuto; cioè porco che ferisce con due sanne; l’una offende la persona, l’altra l’avere: e come noi diciamo al porco cin cin, così altri sono che dicono ciri ciri; e però Ciriatto è detto questo demonio, ch’è 62 figura et operazione di porco: imperò che ferisce e fa ferire. L’ottavo è lo disfamamento che è significato per Graffiacane, che à figura et operazione di gatta, e però è chiamato Graffiacane, che la gatta graffia con gli artigli, e massimamente il cane che è suo nimico; e così l’infamia straccia la pelle; cioè l’apparenzia di fuori, de’ barattieri quando scuopre la sua fraude. Lo nono è la mutascenzia 63 significata per Farfarello che digrigna, et à la sua similitudine di vitello o di toro e dicesi da far che in lingua ebrea significa toro, come dice Papia; lo quale animale è muto, e così fa mutolo lo barattieri, poi ch’è scoperta la sua baratteria, alla sua difensione et alla ragione che non può usarla contra altrui, poi che l’à incominciata a vendere 64 in uno. Lo decimo è furiosità significata per Rubicante pazzo; cioè furioso rossore; e questo è nel barattiere, che come furioso adopera poi la sua baratteria, non guardando nè contra cui, nè come, sì come ostinato nel vizio: e questo si manifesterà meglio per le operazioni, che attribuisce loro nel seguente canto.
C. XXI — v. 127-135. In questi tre ternari l’autor nostro finge ch’elli temesse di tal compagnia, e che Virgilio lo confortasse, dicendo: Oimè!; questo oi è intergezione che significa dolore, Maestro; cioè Virgilio, che è quel ch’io veggio; cioè io Dante? Diss’io; a Virgilio: Deh sanza scorta; cioè sanza guida, andianci soli; e questo è intergezione che significa deprecazione, esortazione, Se tu; cioè Virgilio, sai ir; per questo luogo, ch’io; Dante, per me non la cheggio; sì fatta guida. Se tu; cioè Virgilio, se’ sì accorto, come suoli, Non vedi tu, che digrignan li denti, E con le ciglia ne minaccian duoli; cioè dolori? Dimostra Dante li segni che lo spaurivano; cioè il digrignar de’ denti e l’alzar delle ciglia, le quali cose significano ira et arditezza. Et è qui da notare che il demonio sempre 65 conforta, et invigorisce; et aggiugne come Virgilio lo conforta: Et elli; cioè Virgilio disse, a me; cioè Dante: Non vo’ che tu paventi; cioè abbia paura: ecco come la ragione conforta la sensualità, Lasciagli digrignar pur a lor senno; cioè quantunque vogliono, Ch’ei fanno ciò per li lesi dolenti; cioè fanno questi atti per spaventare li miseri peccatori, lesi dolenti; cioè offesi dolorosi et appenati; o vuogli lessi, cioè cotti et afflitti.
C. XXI— v. 136-139. In questo ultimo ternario et un verso finge l’autor nostro lo lor movimento, dicendo: Li dieci demoni Per l’argine sinistro volta dienno; cioè in verso man manca, Ma prima avea ciascun la lingua stretta Coi denti; cioè che traevano la lingua fuori in derisione, verso il lor duca; cioè Barbariccia, del quale facevano beffe, per cenno; cioè per segno che seguitasse i compagni suoi, Et elli; cioè Barbariccia, avea del cul fatto trombetta; cioè sonava col foro di rietro 66 a modo d’una trombetta. E questo finge l’autore, a dimostrare che nell’inferno è ogni immundizia et ogni scherno e scostume e derisione; sicchè Barbariccia non facea meno beffe, nè deri-sione di loro, che essi di lui 67, anzi più. E qui finisce il canto vigesimo primo.
Note
- ↑ C. M. innanti a provvedere, quine:
- ↑ C. M. difensione,
- ↑ C. M. tenevamo
- ↑ C. M. nella tersania delli Veneziani, per impeciare
- ↑ Altrim. - mirava
- ↑ C. M. ingremito
- ↑ C. M. appiattati qui
- ↑ C. M. silvestro.
- ↑ C. M. Comedia s’appella canto villano e tratta delle persone villane et in mezzano stillo
- ↑ Fu avviso del ch. Dionigi Strocchi che Dante appellando Comedia il suo poema, intendesse della prisca comedia, la quale e lodando e biasimando nominava persone viventi. E.
- ↑ Il nostro Codice e cinque Laurenziani ànno qui ed altrove i nomi astratti - moccobelleria, e moccobello, - e talora eziandio il sostantivo comune maschile - moccobellatore; ma il Vocabolario della Crusca riferisce queste medesime parole del butese Commentatore sotto la voce -maccatelleria-. Noi confessandoci insufficienti a dichiarare l’origine di vocaboli sì fatti, ci rimettiamo di buon grado al giudizio de’ Filologi. E.
- ↑ C. M. moccabellaria
- ↑ C. M. doppio
- ↑ C. M. Nimo
- ↑ C. M. per li demoni:
- ↑ C. M. impainato
- ↑ C. M. sono bruttati d’uno peccato
- ↑ C. M. e lo corruttore con
- ↑ C. M. tersana è luogo di navili dove si serbano e dove si fanno, de’ Veneziani; questi sono
- ↑ C. M. e in quelle bolle; cioè in quelli bollori, che il bollor
- ↑ C. M. ritornava tutta giuso,
- ↑ C. M. nelle parole;
- ↑ C. M. puntente
- ↑ C. M. ingremita
- ↑ C. M. ad uncinare,
- ↑ C. M. per risïone,
- ↑ C. M. nell’offizio dell’anziano di Lucca
- ↑ C. M. vincer li consigli
- ↑ C. M. sciolti allora sono più veloci e desiderosi di correre, che quando stanno sciolti,
- ↑ C. M. della casa, alla quale è
- ↑ Avvenesse; per la riduzione della terza alla seconda coniugazione, come già si è visto al Canto i dell’Inf. «parea che contra me venesse» v. 46. E.
- ↑ C. M. Quirico,
- ↑ C. M. Quirici
- ↑ C. M. spingendolo
- ↑ C. M. puntente lungo,
- ↑ Si è supplito col Cod. M. da - e come - a - con li demoni - Contastare per contrastare trovasi frequentemente presso gli antichi. E.
- ↑ C. M. trasse
- ↑ C. M. moralmente
- ↑ C. M. fello è colui
- ↑ C. M. di stracciarmi con li roncigli, si
- ↑ C. M. cioè a Virgilio,
- ↑ C. M. li uscitteno incontra
- ↑ C. M. attesino lo patto:
- ↑ Vuogli; ora più comunemente vuoi, è frequente negli antichi, e proviene dall’infinito vogliere. E.
- ↑ C. M. che avale compietteno
- ↑ C. M. sia decimo, e
- ↑ C. M. Libicocco,
- ↑ C. M. bollenti pene:
- ↑ C. M. all’altro scollio,
- ↑ C. M. Avene, Chosa et Asciano,
- ↑ C. M. Peccioli
- ↑ C. M. Salvi si tornarono in Lucca;
- ↑ C. M. i dimoni schernisseno sempre
- ↑ C. M. dal suo affetto.
- ↑ C. M. di questi moccobellatori fuor
- ↑ C. M. è uno buono ingannatore;
- ↑ C. M. sia decimo, e capitano
- ↑ C. M. di fuggirli e
- ↑ C. M. liberamente dell’infernali; li
- ↑ C. M. pluinam ... pluina
- ↑ C. M. così sta l’animo
- ↑ C. M. che à figura
- ↑ C. M. la mutescenzia
- ↑ C. M. a vedere
- ↑ C. M. sempre spaurisce, come l’angiolo sempre conforta,
- ↑ C. M. con la bocca di sotto a modo
- ↑ C. M. di lui; ma anco più.