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c a n t o xxi. | 541 |
127Oimè! Maestro, che è quel ch’io veggio?
Diss’io: Deh sanza scorta andianci soli,
Se tu sai ir, ch’io per me non la cheggio.
130 Se tu se’ sì accorto, come suoli,
Non vedi tu, che digrignan li denti,
E con le ciglia ne minaccian duoli?
133Et elli a me: Non vo’ che tu paventi;
Lasciagli digrignar pur a lor senno,
Ch’ei fanno ciò per li lesi dolenti.1
136Per l’argine sinistro volta dienno;
Ma prima avea ciascun la lingua stretta
Coi denti verso il lor duca per cenno,
139Et elli avea del cul fatto trombetta.
- ↑ v. 135 C. M. per li lessi
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C O M M E N T O
Così di ponte in ponte ec. In questo xxi canto l’autor nostro tratta della quinta bolgia, ove si punisce il peccato della baratteria; e dividesi principalmente in due parti, perchè prima pone la descrizione del luogo; nella seconda pone l’apparecchiamento al processo più oltre e il processo, quivi: E il Duca mio ec. La prima si divide in sette parti, perchè prima descrive il processo della quarta bolgia nella quinta; nella seconda, come Virgilio fa cauto Dante per quello che appariva, quivi: Mentr’io là giù ec.; nella terza dimostra quel che fatto fu per colui che veniva, quivi: Del nostro ponte, ec.; nella quarta dimostra quel che feciono li demoni a una misera anima quivi arrecata, quivi: Quel s’attuffò, ec.; nella quinta, come Virgilio argomenta al pericolo che si potea incorrere andando sanza providenzia, quivi: Lo buon Maestro: ec.; nella sesta, come Virgilio va solo innanzi a provare 1, quivi: Poscia passò ec.; nella settima, come Virgilio induce la sua discensione 2, quivi: Credi tu, Malacoda, ec. Divisa adunque la lezione, è ora da vedere la sentenzia litterale. Dice adunque così: