Commedia (Buti)/Inferno/Canto VI
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto sesto
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C A N T O VI.
1Al tornar della mente, che si chiuse,
Dinanzi a la pietà di due cognati,
Che di tristizia tutto mi confuse,
4Nuovi tormenti, e nuovi tormentati
Mi veggio intorno, come ch’io mi mova
E ch’io mi volga, e come ch’io mi guati.
7Io sono al terzo cerchio della piova
Eterna, maladetta, fredda e greve:
Regola e qualità mai non l’è nova.
10Grandine grossa, acqua tinta, e neve
Per l’aer tenebroso si riversa:
Pute la terra che questo riceve.
13Cerbero, fiera crudele e diversa,
Con tre gole caninamente latra
Sovra la gente che quivi è sommersa.
16Li occhi à vermigli, la barba unta et atra,1
Il ventre largo e unghiate le mani:
Graffia li spiriti, ingoia e disquatra.2
19Urlar li fa la pioggia, come cani:
Dell’un de’ lati fanno all’altro schermo:
Volgonsi spesso i miseri profani.
22Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
Le bocche aperse, e mostrocci le sanne:
Non avea membro che tenesse fermo.
25E il Duca mio, distese le sue spanne,
Prese la terra, e con piene le pugna
La gittò dentro alle bramose canne.3
28Qual è quel cane, ch’abbaiando agugna,
E si racqueta, poi che il pasto morde,
Che solo a divorarlo intende e pugna;
31Cotal si fecer quelle facce lorde 4
Dello demonio Cerbero, che introna
L’anime lì sì, ch’esser vorrien sorde.5
34Noi passavam su per l’ombre che adona
La greve pioggia, e ponevam le piante
Sopra lor vanità, che par persona.
37Elle giacean per terra tutte quante,
Fuor d’una, ch’a seder si levò, ratto
Ch’ella ci vide passarsi davante. 6
40O tu, che se’ per questo Inferno tratto,
Mi disse, riconoscimi, se sai:
Tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto.
43Et io a lei: L’angoscia, che tu ài,
Forse ti tira fuor della mia mente,
Sì che non par ch’io te vedessi mai.
46Ma dimmi chi tu se’, che in sì dolente,
Loco se’ messa, et in sì fatta pena, 7
Che s’altra è maggio, nulla è sì spiacente. 8
49Et elli a me: La tua città ch’è piena
D’invidia sì, che già trabocca il sacco,9
Seco mi tenne in la vita serena.
52Voi, cittadini, mi chiamaste Ciacco:
Per la dannosa colpa della gola,
Come tu vedi, alla pioggia mi fiacco.
55Et io anima trista non son sola:
Chè tutte queste a simil pena stanno10
Per simil colpa; e più non fe parola.
58Io li risposi: Ciacco, il tuo affanno11
Mi pesa sì, ch’a lagrimar m’invita;
Ma dimmi, se tu sai, a che verranno
61Li cittadin della Città partita;
Se alcun v’è giusto; e dimmi la cagione,
Perchè l’à tanta discordia assalita.
64Et elli a me: Dopo lunga tenzione
Verranno al sangue, e la parte selvaggia
Caccerà l’altra con molta offensione.
67Poi appresso convien, che questa caggia
In fra tre Soli, e che l’altra sormonti
Con la forza di tal, che testé piaggia.
70Alte terrà lungo tempo le fronti,
Tenendo l’altra sotto gravi pesi,
Come che di ciò pianga e che n’adonti.12
73Giusti son due; ma non vi sono intesi:
Superbia, invidia, et avarizia sono
Le tre faville, ch’ànno i cuori accesi.
76Qui pose fine al lacrimabil sono.
Et io a lui: Ancor vo’ che m’insegni,
E che di più parlar mi facci dono.
79Farinata e il Tegghiaio, che fur sì degni,13
Iacopo Rusticucci, Arrigo, e il Mosca,
E li altri ch’al ben far puoser l’ingegni,
82Dimmi ove sono, e fa ch’io li conosca:
Chè gran disio mi strigne di sapere,
Se il Ciel li addolcia o l’Inferno li attosca.
85E quelli: Ei son tra l’anime più nere:
Diversa colpa giù li grava al fondo,14
Se tanto scendi, li potrai vedere.
88Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
Pregoti ch’alla mente altrui mi rechi:
Più non ti dico, e più non ti rispondo.
91Li diritti occhi torse allora in biechi:
Guardommi un poco, e poi chinò la testa:
Cadde con essa a par degli altri ciechi.
94E il Duca disse a me: Più non si desta
Di qua dal suon dell’angelica tromba,
Quando verrà la nimica podestà: 15
97Ciascuna rivedrà la trista tomba,
Ripiglierà sua carne e sua figura,
Udirà quel che in eterno rimbomba.
100Sì trapassammo per sozza mistura
Dell’ombre e della pioggia, a passi lenti,
Toccando un poco la vita futura.16
103Per ch’io dissi: Maestro, esti tormenti
Cresceranno ei dopo la gran sentenza,
0 fien minori, o saran sì contenti? 17
106Et elli a me: Ritorna a tua scienza,
Che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
Più senta il bene, e così la doglienza.
109Tutto che questa gente maladetta
In vera perfezion giammai non vada,
Di là, più che di qua, esser aspetta.
112Noi aggirammo a tondo quella strada, 18
Parlando più assai, ch’io non ridico:
Venimmo al punto dove si digrada;19
115Quivi trovammo Pluto, il gran nimico.
- ↑ v. 16. C. M. la bocca unta
- ↑ v. 18. C. M. et ingola
- ↑ v. 26, 27. C. M. Prese la terra con piene le pugna Gittolla
- ↑ v. 31. C. M. Così si fecer
- ↑ v. 33. C. M. L’anime sì ch’esser vorreben sorde.
- ↑ v. 39. C. M. Quando ci vidde passarli davante.
- ↑ v. 47. C.M. et ài sì fatta pena,
- ↑ v. 48. Maggio dal majus de’ Latini, e vive tuttora nelle parole composte viamaggio, riomaggio ec. E.
- ↑ v. 50. C. M. rimbocca
- ↑ v. 56. C. M. tutti questi
- ↑ v. 58. Io cominciai:
- ↑ v. 72. di ciò pianghi
- ↑ v. 79. C. M. e Tegghiaio,
- ↑ v. 86. più li gravò
- ↑ v. 96. podestà. Ad esempio dei Latini i nostri antichi profferivano senza l’accento. E.
- ↑ v. 102. C. M. Trattando un poco
- ↑ v. 105. C. M. sì cocenti?
- ↑ v. 112. C. M. a torno a quella strada,
- ↑ v. 114. al ponte
C O M M E N T O
Al tornar della mente ec. In questo sesto canto l’autor mostra com’entra nel terzo cerchio, ove pone li golosi, e dividesi in due parti principali; nella prima pone l’autore come si truova nel terzo cerchio e quel che vi truova; nella seconda pone alcune domande e risposte di quelli, quivi: Io li risposi ec.1. La prima che fia la presente lezione si divide in sei parti, perchè prima pone i tormenti che vi truova, e come si truova nel terzo cerchio; nella seconda, come truova Cerbero, quivi: Cerbero ec.; nella terza pone come li volle impedire, e come Virgilio remediò, quivi: Quando ci scorse ec.; nella quarta, come continua lo suo andare, quivi: Noi passavam ec.; nella quinta pone come un’anima lo domanda, e com’elli risponde, e domanda quivi: O tu che se’ ec.; nella sesta, come quell’anima risponde, e domanda quivi: et Elli a me. Divisa la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale.
Dice adunque in questa prima parte del canto, che poichè fu tornato in sè, elli si trovò nel terzo cerchio dell’inferno, ove trovò nuovi tormenti, e nuove anime tormentate, e per ogni verso che s’aggirava; e questi erano i tormenti. Prima l’aria nera, poi una pioggia d’acqua tutta tinta, neve, e grandine putente, che facea putire la terra: e trovò Cerbero demonio che è fatto come uno cane,
et à tre capi et abbaia con quelli tre capi, e spaventa la gente che sta a vedere, o vero a giacere in terra et è percossa dalla pioggia. Descrive le condizioni di Cerbero, e quelle si toccheranno nella esposizione testuale, secondo l’allegorico intelletto: e dice che quando le vide, incominciò a crucciarsi contra loro; onde Virgilio prese le terra con amendue2 le mani, e gittolla dentro a quelle gole onde si racchetò: e poi passarono oltre scalpitando3 l’anime de’ golosi che stavano a giacere in terra, onde una si levò e domandò Dante che la riconoscesse: chè ben l’avea veduto nel secolo. E Dante risponde che non lo riconosce forse per la bruttura nella quale elli è; onde elli si nomina per lo nomignuolo, e dice che fu chiamato Ciacco, e per lo vizio della gola è posto in quelli tormenti. E questa è la sentenzia litterale della prima lezione. Ora esporrò lo testo, aggiugnendo l’allegorico intelletto, o vero morale, ove si converrà.
C. VI - v. 1-12. In questi quattro ternari l’autore pone i tormenti che trova nel terzo cerchio, e come si trova in esso, e dice: Al tornar della mente; di me Dante; cioè quando la mente mia fu ritornata, ch’era attuffata4 per lo tramortimento, che si chiuse. Pone Dante che la mente si chiuda quando l’uomo tramortisce, perchè si chiudono tutti i sentimenti per li quali la mente riceve impressione, et ancor non sa la mente in quel punto ove sia; e se pure à sentimento di sè, nulla può producere di fuori. Dinanzi alla pietà di5 due cognati; cioè Francesca e Paolo, de’ quali fu detto di sopra, cap. v, Che di tristizia tutto mi confuse. Qui dice l’autore ch’ebbe pietà del tormento in tanto ch’elli tramortì, e questo s’intende della sua sensualità: chè i primi movimenti non sono in nostra podestà, benchè la ragione non voglia che s’abbia pietà della giustizia di Dio. Ma potrebbesi ancora scusare, che non ebbe pietà della giustizia di Dio; ma del peccato, per lo quale aveano meritato quella pena. E questa fizione del tramortimento à indotto lo autore assai verisimilmente nel testo, per dare ad intendere questa allegoria, o vero moralità di quelli del mondo che si trovano com’elli nel terzo cerchio, e non sa come; così nel peccato della gola: imperò che l’uomo vi s’induce assai agevolmente, e non sa come: imperò che cominciando a mangiare per fame s’induce nella golosità, come si mosterrà ancora meglio di sotto, quando si tratterà di questo peccato. Nuovi tormenti, e nuovi tormentati. Quali sieno li tormenti e li tormentati si dirà di sotto; ma nuovi dice, perchè sono diversi da quelli che à detti di sopra. Mi veggio intorno; a me Dante, come ch’io mi mova; andando più oltre, E ch’io mi volga; o adietro, o innanzi, o a destra, o a sinistra, e come ch’io mi guati; o d’appresso, o da lunga, o in qua, o in là; e per questo m’avveggio ch’io sono in altro cerchio che il secondo nel quale tramortii, poi ch’io veggio nuove cose, e non in quel di prima. Io sono al terzo cerchio della piova Eterna, maladetta, fredda e greve. Finge l’autore che in questo terzo cerchio la pena sia e lo tormento, la pioggia, come nel secondo cerchio, il vento, e pone quattro condizioni; prima che è eterna, perchè non dè mai avere fine; maladetta, perchè è pur posta a nuocere, e non far pro come quella del mondo; fredda, perchè fa l’uomo freddo di ogni carità; e greve, perchè dà gravità, come si dirà di sotto. Regola e qualità mai non l’è nova; cioè che questa pioggia non muta mai regola; cioè modo nè qualità: però che sempre è fredda e greve, e non viene mai meno. Grandine grossa, acqua tinta, e neve. Dichiara di che condizione è quella pioggia; cioè di grandine grossa, acqua tinta e neve. Per l’aer tenebroso si riversa; e questo s’intende che quivi sono tenebre, come per tutto l’inferno, salvo che ne lo limbo ove pose una lumiera. Pute la terra che questo riceve. Dice che questa pioggia era sì fatta, che facea putire la terra che la ricevea: imperò che ella era putrida; e questo non dice sanza cagione, come si dirà di sotto; e di quello che è detto di sotto, si porrà l’allegoria.
C. VI - v. 13-21. In questi tre ternari finge l’autore come trovò, oltre a’ detti tormenti, uno demonio preposto a questo terzo cerchio ove si puniscono li golosi, descrivendo le sue condizioni, dicendo: Cerbero. Questo è lo nome del dimonio, che l’autore finge preposto a questo cerchio. fiera crudele. Questo è apposito a Cerbero, et è aggiunzione del proprio adiettivo: chè non è fiera che non sia crudele. e diversa; dell’altre fiere, Con tre gole caninamente latra. Qui manifesta in che è diverso da tutte l’altre fiere: imperò che dice che latra con tre gole, e per questo mostra che abbia tre capi; e perchè dice caninamente latra, mostra che sia fatto a modo di cane: imperò che latrare è propriamente del cane. Sovra la gente che quivi è sommersa; cioè sopra la gente di questo cerchio, che sta affogata in questa pioggia. Li occhi à vermigli; questo Cerbero, che significano accendimento d’ira e di desiderio, la barba unta et atra; che significa devorazione, e golosità, Il ventre largo; che significa insaziabilità, e unghiate le mani; che significa rapacità. Graffia li spiriti; con le mani unghiate, ingoia; per lo gran ventre che à, e disquatra; con la bocca e con le mani; e così tormenta li spiriti golosi. Urlar li fa la pioggia, come cani. Dimostra la pena ch’ànno quelli spiriti per la pioggia detta di sopra. Dall’un de’ lati fanno all’altro schermo; cioè fanno difensione del lato ch’è stato in terra a quel, ch’è stato di sopra, che à ricevuta la pioggia quando è fracassato. Volgonsi spesso i miseri profani. E per quel ch’è detto di sopra, dice che si volgono spesso li miseri stolti e maladetti; e questa è la sentenzia litterale. Ora è da vedere del peccato della gola, e delle sue specie, compagne e figliuole, e poi l’adattazione del testo, secondo la fizione, e poi l’allegorico intelletto de’ mondani.
E prima, la gola è immoderato amore di diletto6 che è secondo lo gusto, e le specie sue sono principalmente due; cioè commessazione7 et ebrietà; e ciascuna di queste può avere specie x; cioè prevenzione di tempo; cioè mangiare e bere innanzi l’ora: curiosità; cioè apparato di cibi con troppa cura: lautizia; cioè delicatezza8; cioè ghiottornia: studiosità; cioè sollicitudine di mangiare e di bere: varietà di vivande, o di vini: frequentazione; cioè quando troppo spesso si mangia, e bee: novità; cioè quando si cerca nuove, e disusate vivande: ambizione; cioè quando si cerca preziose vivande, per mostrare che l’uomo possa spendere. Le compagne che à seco questo vizio, sono; decezione, che sotto nome di necessità, inganna; vilipensione: però che fa l’uomo tenere vile; deformità, cioè sozzezza: chè sozza cosa è a vedere lo goloso: infermità: imperò che quindi vengono sotto fianchi et altre passioni; servitù: imperochè l’uomo è servo del suo goloso ventre; immundizia, perchè il goloso non può essere che non sia brutto fetore: però che per lo disordinato mangiare, pute la bocca e lo stomaco. E l’ebrietà per sè à queste compagnie; cioè leggerezza9 d’animo: imperò che niuno segreto è ove regna l’ebriachezza; stolta credulità: ogni cosa crede l’ebriaco, e porta ferme speranze; temerità: imperò che l’ebriaco disarmato entra tra’ ferri; inconsiderazione: imperò che niuno pensieri porta l’ebbro de’ fatti propri; presunzione di sapere; loquacità perchè è parlatore; e prodigalità perchè gitta lo suo. E le figliuole di questo vizio sono; grossezza d’ingegno; sconcia letizia, come ballare, e cantare; scurrilità, parlamenti disonesti, et ingiuriosi fatti; multiloquio; cioè parlamenti vani e oziosi; l’ultima è morte temporale e spirituale. Dichiarato questo, è da vedere che l’autore convenientemente finse l’infrascritti tormenti rispondere a’ golosi nell’inferno: imperò che l’aere tenebroso si conviene alla grossezza dell’ingegno; la pioggia, che significa superfluità superfluità d’acqua, contra la commessazione et ebrietà; l’acqua tinta, che significa sozzezza, contro la lautizia10 del goloso; neve che significa freddura, si conviene alla ghiottornia che è stata contra la carità; la grandine grossa contro alla scurrilità che à usato lo goloso inverso il prossimo; la puzza si conviene al fetore del goloso; lo demonio Cerbero; cioè lo tentatore di sì fatto peccato, si conviene per tormentare lo goloso: imperò che sempre la coscienzia de’ peccati tormenta li dannati. Cerbero s’interpetra divoratore di carne: assomigliato al cane, perchè lo cane è animale divorabile; con gli occhi vermigli, che significano l’ardore del desiderio del goloso; con la barba unta, che significa la ghiottornia, et atra che significa la sozzezza; col ventre largo che significa la voracità; con le mani unghiate che significa la rapacità. Graffia li spiriti, ingoia e disquatra. Finge l’autore questo in vendetta della scurrilità che ànno operato verso altrui; l’abbaiare sopra loro, è per vendicare lo vano parlare; le tre gole si convengono, perchè di tutte le tre parti del mondo11 vanno all’inferno, per lo peccato della gola, sicchè sopra ciascuna gente grida questo demonio: imperò che la coscienzia del peccato grida contro a ciascuno, come detto è che la coscenzia del peccato grida contra li dannati. Et ancora si può dire che finga tre gole a Cerbero per le tre golosità che ànno avuto nel mondo; cioè di vivande, di confetti, e di vini. Che la gente sia sommersa, e a vedere, o vero a piacere, si conviene, perchè nel mondo sono stati pur terreni e dati alle cose vili; per essere scalcati, si risponde alla loro vilipensione; urlare risponde alla inetta letizia ch’ebbono nel mondo. Et allegoricamente queste cose à finto per quelli del mondo, i quali sono continuamente nelli predetti tormenti: imperò che continuamente sono in iscurità li golosi, continuamente giacciono in terra per vilipensione, sopra loro viene12 pioggia; cioè superfluità, la quale è di grandine grossa, che significa obgiurgazione13 e villania, che fa il goloso contra il prossimo; d’acqua tinta che significa sozzezza che pone a sè il goloso; di neve che significa freddezza d’ogni carità in verso il prossimo: chè lo goloso ogni cosa vuole per la bocca sua; e questa è eterna perchè mai non à fine ne’ golosi ostinati; maladetta perchè non è, se non a male; fredda perchè li fa freddi d’ogni amore e carità; e greve, perchè la golosità dà gravezza all’anima e al corpo d’ogni bene aoperare; e mai non l'è nuova regola, nè qualità, perchè mai li golosi ostinati non ànno regola, nè qualità altro che quella ch'ànno presa di meglio cenare la sera, se ànno ben mangiato la mattina. E ben dice che la terra, che riceve questo, pute, che significa che li uomini che ricevono questa superfluità nelli stomachi, nello stomaco loro putono a sè medesimi et ad ognuno e veramente sopra costoro grida Cerbero, che quanto a quelli del mondo significa il peccato della gola, o vero lo demonio che di ciò à a tentare: imperò che sempre il peccato grida sopra coloro che stanno sommersi in esso, e latra con tre gole canine. Et à le condizioni dette di sopra a significare che questo peccato grida contra tutte le tre parti del mondo; cioè Asia, Affrica, et Europa: imperò che in ogni parte del mondo si trovano golosi14; cioè con golosità di vivande, con golosità di confetti, con golosità di vini; et a lui si convengono le condizioni dette di sopra. E questo basta alla esposizione allegorica. E poi seguita: Urlar li fa la pioggia, come cani; cioè la pioggia che detta è di sopra, fa metter urli a' detti peccatori, come fossono cani; e questo dice per tormento di quelli dell'inferno, fingendo che la pioggia sopraddetta li fragelli, perchè ciascun peccatore nell'inferno sarà tormentato dal vermo della coscienzia del suo peccato; e questi assomiglia alli cani, perchè, come è detto, lo goloso è simile al cane; e per quelli del presente secolo, allegoricamente si può intendere che questa abondante superfluità che viene sopra i golosi, li fa urlare come cani, perchè cagiona in loro gotta, fianchi, et altre infermità che fanno urlare. Dell'un de' lati fanno all'altro schermo. Questo verisimilmente finge de' dannati che venendo sopra loro, che giacciono, la pioggia che li tormenta, per refrigerare l'uno lato volgono l'altro, e però seguita: Volgonsi spesso i miseri profani; cioè miseri stolti per rifrigerarsi. Ogni peccatore è stolto; ma più lo goloso: imperò che in ciò è più simile alle bestie, che in altro peccato. Et allegoricamente di quelli del mondo si può intendere che dell'una infermità fanno scusa all'altra, dicendo quel del fianco, che vuole li vini sottili, e le vivande delicate per lo fianco; e quel delle gotti15, che vuole li cibi delicati, e vini grandi e grossi per le gotti; e così quel dello stomaco si scusa per lo fianco, e quel del fianco per lo stomaco; e così si volgono spesso li miseri stolti di volere in volere, e d'uno appetito in altro.
C. VI - v. 22-33. In questi quattro ternari l'autore nostro pone prima come Cerbero volle impedire lo loro passare, appresso come dice, Virgilio rimediò, quivi: E il Duca; e pone una similitudine: Qual è ec., Dice prima: Quando ci scorse; cioè me e Virgilio, Cerbero, il gran vermo. Finge l’autore che Cerbero sia gran vermo: imperò che è grande cane, e dice lo vermo perchè finge che sia nell’inferno nelle caverne della terra. Le bocche aperse. Dice le bocche perchè di sopra à finto che ne avesse tre, e mostrocci le sanne; a me, e a Virgilio, e ben dice sanne perchè di sopra à finto che sia in specie di cane. Non avea membro che tenesse fermo. Qui dimostra l’autore la natura del cane, che è litigioso e corruccioso animale, e quando si corruccia tutto triema; e questo finge che facesse per impedire la loro entrata, ovvero andata; e questo finge verisimilmente: imperò che il dimonio è dolente d’ogni bene, e però volea impedire l’andata di Dante, perchè sapea ch’era a fine di bene. E il Duca mio; cioè Virgilio, distese le sue spanne; cioè le sue mani. Spanna è il palmo; cioè l’apertura della mano. Prese la terra, e con piene le pugna, La gittò dentro alle bramose canne; cioè gole di Cerbero, e dice canne per verificare quel che disse di sopra: Con tre gole caninamente latra. Questo rimedio, finge l’autore, che pigliasse Virgilio per non essere impedito dal Cerbero; e verisimilmente alla voracità, posta di sopra di sì fatto dimonio, si conveniva, a farlo star cheto, saziamento; e quivi non era cosa più atta che la terra. Allegoricamente intendendo de’ mondani, dimostra l’autore che questo peccato vuole impacciare coloro, che camminano alla virtù; ma la ragione significata per Virgilio, piglia della terra con amendue16 le mani, e gittala dentro alle tre gole; cioè remedia a queste tre fami, e golositadi con li cibi vili, saziando la fame, la quale saziata, cessa la golosità. Qual è quel cane, ch'abbaiando agugna. Qui fa l'autore una similitudine dicendo, che come il cane abbaiando, preso il pasto, agogna; cioè non apertamente abbaia, E si racqueta, poi che il pasto morde; e poi che comincia a mangiare cessa l'abbaiare, e lo agognare, Che solo a divorarlo intende e pugna; cioè per lo pasto morso; Cotal si fecer quelle facce lorde. Dice faccie, perchè à finto che abbi tre capi. Dello demonio Cerbero. Demonio significa giù rovinante, ovvero incolpatore: però che demonio s'interpetra molto sapiente; questi nomi si convengono al demonio Cerbero, e sposto fu di sopra. che introna L'anime lì. Questo dice, per quel che fu detto di sopra, con tre gole ec. sì, ch'esser vorrien sorde; cioè per non udire il suo intronamento. Questa fizione risponde a quello ch'à detto di sopra, e non à allegoria.
C. VI - v. 34-39. In questi due ternari lo nostro autore continua lo suo andare, e dice: Poi che Cerbero fu acquetato, Noi; cioè Virgilio et io, passavam su per l’ombre; cioè l’anime, che adona; cioè fa stare giù e doma, La greve pioggia, dell’acqua tinta, della grandine e della neve, della quale fu detto di sopra, e ponevam le piante; de’ piedi, cioè Virgilio, e io Dante, Sopra lor vanità; cioè sopra quell’anime che pareano esser corporee, e non erano se non d’aereo corpo, che è visibile, e non palpabile, come si dirà di sotto nella seconda cantica; e però dice: Sopra lor vanità. Vanità è quivi: la cosa pare e non è. che par persona. Dichiarato è per quel che è detto, che parer persona, è parer aver corpo: imperò che persona si dice cosa che per sè suona, e niuna cosa17 può sonare se non corporea; e però quest’anime pareano persone, perchè aveano corpo aereo, nel quale parlavano, rideano e piangeano; ma non si poteano palpare, come è detto. Elle; cioè le sopraddette anime, giacean per terra tutte quante; cioè tutte stavano a giacere, Fuor d’una; cioè salvo ch’un’anima, ch’a seder si levò, ratto; cioè tosto, Ch’ella ci vide passarsi davante; cioè quando vide me, e Virgilio passarsi dinanzi. In questi due ternari è bella allegoria: imperò che Dante intende di quelli del mondo, benchè litteralmente dica di quelli dell’inferno, volendo significare che li golosi che sono nel mondo giacciono tutti per terra, considerando la loro intenzione che non è, se non nelle cose terrene, e sono adonati dalla grave pioggia; cioè inchinati a stare giù dalla golosità. E la ragione significata per Virgilio, e la sensualità significata per Dante che in ciò non s’avviluppa, passa sopra loro per eccellenzia di vita, e pone le piante, scalpitando la loro vile condizione e dispregiando, sopra la vanità di tali peccatori: però che la golosità è grande vanità, e lo goloso pare persona; cioè uomo, e non è: imperò ch’egli è come bestia. Et in quanto dice che tutte giacciono per terra, intende quanto alla viltà del peccato; in quanto ne eccetta una che si levò a sedere quando li vide, vuole significare che alcuna volta il goloso vedendo dinanzi a sè li virtuosi, riconosce il suo vizio, et allora si dice levare a sedere, riconoscendo sè degno di tal pena, come finge Dante che facesse quell’anima.
C. VI - v. 40-48. In questi tre ternari l’autor nostro fa tre cose: imperò che prima pone quello che li disse l’anima di che à fatto menzione di sopra; nella seconda pone la risposta sua; nella terza pone un’altra sua domanda. La seconda è quivi: Et io a lei. La terza, quivi: Ma dimmi ec. Dice adunque, che quell’anima della quale à detto di sopra, quando li vide disse così: O tu, che se’ per questo inferno tratto; cioè, o Dante, che se’ tratto per questo inferno da altrui; cioè Virgilio, Mi disse; cioè quell’anima a me Dante, riconoscimi riconoscimi; cioè riconosci me: se sai: Tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto; cioè tu nascesti innanzi ch’io morissi, sì che ben mi puoi riconoscere. Et io; cioè Dante dissi, a lei: L’angoscia, che tu ài, Forse ti tira fuor della mia mente; cioè della mia memoria, Sì che non par ch’io te vedessi mai; cioè io Dante, vedesse mai te, anima, nel mondo. Ma dimmi chi tu se’. Ora domanda Dante perchè propiamente si nomini, dicendo: Ma dimmi chi tu se’; tu anima, che in sì dolente Loco se’ messa; come è questo dell’inferno, et in sì fatta pena; cioè se’ tu anima, Che s’altra; cioè pena, è maggio; cioè maggiore, nulla è sì spiacente; come questa che tu sostieni. Questa parte pose l’autore per continuare la sua fizione parlando dell’inferno; ma volendola intendere allegoricamente per quelli del mondo si può dire, che per questo l’autore voglia mostrare che tali uomini viziosi, quando veggono li virtuosi, si fanno loro innanzi, e voglionsi fare conoscere, e farsi reputare nel cospetto loro qualche cosa, o per parentado, o per ricchezza, o per altra vanità del mondo; ma lo savio risponde, che benchè lo dovesse conoscere e reputar qualche cosa per le dette condizioni, è tanto vile lo peccato nel quale sono, che ogni cosa di reputazione18 che sia in loro, è oscura. E così conchiude che non sono d’avere fama; ma più tosto infamia, et induce loro medesimi a manifestazione e riconoscimento del loro vizio. E questo significa la domanda sua, nella quale dimostra che dolente è la condizione del goloso ancora nel mondo, e à19 pena più spiacente che sia: imperò che il luogo del goloso nel mondo è tra bestie, e la pena sua è angoscia, in quanto desidera di saziare la gola; e pentimento in quanto si pente poi che l’à saziata, o per male di stomaco, o di capo, o di fianco, o di gotte, o d’altra maniera, ch’elli sente per la sua golosità.
C. VI - v. 49-57. In questi tre ternari pone l’autore come quell’anima si manifestò prima all’origine20 dimostrando di quale città fosse; appresso manifesta la colpa sua e la pena; appresso mostra d’avere questa consolazione in questa sua pena, ch’elli avea grande compagnia: e ciascuna di queste parti si contiene nel suo ternario. Dice nel testo l’autore: Et elli; cioè quell’anima disse, a me; cioè Dante: La tua città; cioè Firenze, la quale è la città dell’autore, ch’è piena D’invidia; e per questo dimostra li Fiorentini essere invidiosi molto, sì, che già trabocca il sacco; cioè ch’ella trabocca, come il sacco quando vi si mette più che non può tenere, Seco mi tenne; la tua città, in la vita serena; cioè nella vita del mondo, la quale è serena per rispetto di quella dell’inferno. Voi, cittadini; cioè Fiorentini, mi chiamaste Ciacco. Ciacco dicono alquanti, che è nome di porco; onde costui era così chiamato, per la golosità sua. Questo Ciacco fu fiorentino, e fu infame del vizio della gola, e però l’autore lo pone in questo cerchio; e benchè fosse goloso, pure era intendente, et eloquente come sono comunemente li Fiorentini; e però Dante lo induce a parlare delle cose presenti, et ancora delle future, come appare nella seguente lezione. Per la dannosa colpa della gola. Qui manifesta lo suo peccato. Come tu vedi, alla pioggia mi fiacco. Qui manifesta la sua pena. Et io anima trista non son sola. Qui pone l’autore che conosca la sua miseria, in quanto dice trista; e questo è vero che i dannati conoscono la lor miseria per maggior loro pena. E nota che dice non sono sola, per iscusare sè, benchè non vi scusa che gli altri abbino ancora fatto male; ma per consolazione di sè: chè è consolazione a’ miseri avere compagni, e massimamente a’ rei, che sono contenti del male altrui e tristi del bene per invidia che portano; o questo disse per infamare li altri. Chè tutte queste, e dimostrò la turba che quivi giacea, a simil pena stanno; che sto io Ciacco, Per simil colpa; cioè per la golosità com’io, e più non fe parola; cioè non parlò più, detto questo. E sopra questo non cade allegoria, e così finisce la prima lezione.
Io li risposi ec. In questa seconda parte l’autor nostro pone alcune domande e risposte che fa con Ciacco, e dividesi questa lezione in otto parti: però che prima pone le domande che fa Dante a Ciacco; nella seconda pone la risposta di Ciacco, quivi: Et elli a me; nella terza, altre domande che fa Dante a Ciacco, quivi: Et io a lui; nella quarta, la risposta di Ciacco, quivi: E quelli: Ei son tra l’anime ec.; nella quinta, la sentenzia di Virgilio, quivi: E il Duca disse; nella sesta, la continuanza del processo, et una domanda di Dante, quivi: Sì trapassammo; nella settima, la risposta di Virgilio, quivi: Et elli a me; nell’ottava, il processo del cammino, quivi: Noi aggirammo ec. Divisa adunque la lezione, è da vedere la sentenzia litterale.
Dice così: Poi che Ciacco mi manifestò21, Io; Dante, cominciai: Ciacco, lo tuo affanno mi pesa; cioè grava, sì che m’invita a lagrimare; ma dimmi, se tu sai, a che verranno li cittadini della Città partita; cioè di Firenze, che à divisione in sè; e dimmi se alcuno è giusto in quella città, e dimmi la cagione perchè tanta discordia à assalita quella città. Allora Ciacco rispose a Dante che dopo molta tenzione verranno all’effusione del sangue, uccidendo l’uno l’altro; e la parte che è chiamata selvaggia, caccierà l’altra parte con molta offensione; poi conviene che quella parte selvaggia, caggia in fra tre anni, e che l’altra parte ritorni, e monti in istato con la forza di tale, che ora si fa indifferente; e lungo tempo durerà in istato, tenendo li altri sotto, a mal suo grado. In quella città sono due uomini giusti, e non vi sono intesi; e la cagione che questi cittadini à sommossi, è superbia, et invidia, et avarizia. E qui finisce Ciacco. Allora Dante domanda lui: Che è di messer Farinata, e di Tegghiaio, Iacopo Rusticucci, Arrigo, e il Mosca, e li altri che posono l’ingegni al ben fare: però ch’io ò voglia di sapere se sono in inferno, o in paradiso? Allora Ciacco risponde che sono in più basso luogo d’inferno, per più grave colpa, e che li potrà vedere, se tanto scenderà; e priega Dante, che quando sarà nel mondo, l’arrechi nella mente ad altrui, e pone come cadde giù da sedere a giacere. Allora Virgilio rispondendo a Dante, dice sua sentenzia di Ciacco, e delli altri dannati, infino al di’ del giudizio. Poi Dante pone il suo processo del cammino, e il ragionamento ch’ebbe con Virgilio della vita futura; e più oltre pone la risposta di Virgilio che è notabile, et apparirà quando sporrò la lettera; et oltre pone il processo del cammino, ponendo come aggirarono per lo cerchio tondo infino al punto ove si discende nel quarto cerchio, ove sta Plutone grande nimico, del quale si dirà di sotto.
C. VI - v. 58-63. In questi due ternari il nostro autore fa due cose; prima mostra compassione a Ciacco per farlosi benivolo a rispondere; appresso il domanda del fine della sua città, e delle cagione della discordia, quivi: Ma dimmi ec., dicendo: Io; cioè Dante, li risposi; dopo le parole di Ciacco: Ciacco, il tuo affanno; cioè la tua pena, Mi pesa sì; cioè m’aggrava tanto, ch’a lagrimar m’invita; cioè m’induce a piangere. E qui è da notare che la sensualità di Dante era quella ch’avea compassione a Ciacco, non la ragione: chè la ragione è contenta della divina Giustizia. Ma dimmi; cioè tu Ciacco a me Dante, se tu sai. Giustifica lo suo domando: imperò che mal può rispondere chi non sa. a che verranno Li cittadin della Città partita; cioè di Fiorenza, nella quale era divisione, e questa è prima domanda. Se alcun v’è giusto; de’ cittadini della detta città s’intende, e questa è la seconda domanda, e dimmi la cagione, Perchè22 l’à tanta discordia assalita; cioè la detta città, e questa è la terza domanda. E qui non cade altra esposizione.
C. VI - v. 64-76. In questi quattro ternari e uno verso l’autore nostro pone la risposta di Ciacco alla sua domanda, profetando e dicendo di quello che dovea venire a’ cittadini di Firenze; e poi la risposta ad una particella della domanda di Dante, quivi: Giusti son due ec.; ultimamente, la cagione della discordia, quivi: Superbia, invidia ec. Dice adunque prima: Et elli; cioè Ciacco, a me; Dante, risponde così alla prima domanda: Dopo lunga tenzione Verranno al sangue; cioè dopo la discordia e dissensione, che dureranno molto tempo, verranno ai fatti; cioè a toccarsi con li ferri, e a spargimento di sangue. e la parte selvaggia. Qui è da sapere che Ciacco, come predicendo, dice che l’una delle due parti ch’erano in Firenze; cioè la parte de’ Bianchi, la quale elli chiama selvaggia, perchè di quella parte erano li Cerchi, li quali erano venuti di contado; cioè del piovier d’Acone23, onde dirà di sotto nel xvi canto della terza cantica: Sariensi i Cerchi nel piever d’Acone. Caccerà l’altra; cioè la parte de’ Neri, della quale erano capi antichi cittadini. con molta offensione; dice, perchè nella cacciata i Neri da’ Bianchi ricevettono molta offensione. Poi appresso convien, che questa caggia; cioè quella de’ Bianchi, In fra tra Soli; cioè in fra tre anni, significando tre anni24 per tre corsi solari, de’ quali ciascuno dura un anno, e che l’altra sormonti; cioè la parte de’ Neri monti su. Con la forza di tal, che testè piaggia. Intende qui con la forza25 di papa Bonifacio VIII il quale regnava in quel tempo che fu questa cacciata de’ Bianchi, e che ne fu cagione; e che testè piaggia; cioè ora si sta di mezzo et indifferente; cioè non dà vista d’essere da l’una parte, nè dall’altra, perchè piaggiare è andare fra la terra e l’alto mare. Così facea il detto papa quando da prima si mossono le dette parti, e poi convocò di Francia Carlo sanzaterra; ma del sangue de’ Reali, mostrando di volere che mettesse pace tra le dette parti; ma affine che cacciasse la parte de’ Bianchi, e favoreggiasse li Neri; e così fece il detto Carlo, che entrato in Firenza cacciò li Bianchi e mise in istato i Neri. E della forza di costui parla ancora l’autore nella cantica di Purgatorio cap. xx ove dice: Tempo vegg’io non molto di po’ ancoi ec. Intende qui l’autore con la forza del re Federigo di Francia; e piaggia intende sta in mezzo, e indifferente dall’una parte e dall’altra, perchè piaggiare è andare fra la terra e l’alto mare. Così lo re Federigo quando prima si mossono le parti, all’una e l’altra favoreggiava; ma poichè Carlo sanzaterra, con volontà dell’una e dell’altra parte intrò in Firenze, cacciò i Bianchi, e mise in istato i Neri; e della forza di costui intende l’autore nel testo: chè costui fu figliuolo del re Federigo. Alte terrà lungo tempo le fronti; cioè che starà lungo tempo quella parte delli Neri, Tenendo l’altra; cioè la parte de’ Bianchi, sotto gravi pesi; cioè facendo molte gravezze, Come che di ciò pianga e che n’adonti. Quasi dica: Benchè tu Dante ne pianghi, e n’abbi onta e dispetto26. Giusti son due. Risponde qui alla seconda domanda, dicendo quali fossono questi due. Disse frate Guido del Carmino27, nello scritto che fe sopra li 27 canti della prima cantica, che questi due erano Dante, e messer Guido Cavalcanti. e non vi sono intesi; cioè non era dato loro luogo28. Superbia, invidia, et avarizia sono Le tre faville. Favilla è reliquia del fuoco, onde si ripara, et accende il fuoco, soffiando e ponendovi le cose aride che li dieno nutrimento; così li sopradetti vizi sono le radici e prime cagioni, ch’ànno i cuori accesi; dell’un cittadino contra l’altro, e dell’una parte contra all’altra. Qui risponde al terzo domando dicendo: Che la cagione della discordia sono questi tre peccati, come tre faville ch’ànno accesi i cuori ad ira et odio, l’uno contro l’altro. La superbia per esaltazione di sè, fa l’uomo cercare depressione del prossimo suo; la invidia solamente, per non vedere ad altri meglio di sè; l’avarizia, per potere usurpare quello del prossimo, e quello del comune. Qui pose fine al lacrimabil sono; cioè qui finì il suo dire, ch’era induttivo di lagrime, a me Dante. E qui è da notare che, benchè l’autore induca Ciacco a predire queste cose, sì come persona ch’era parlatore: imperò che i golosi sono parabolani29, e massimamente Ciacco fu nel tempo suo, l’autore si dee intendere che sia quelli che predice, benchè secondo la verità non predisse. Imperò che queste cose erano state in quel tempo, ch’elli penò a fare questo canto; ma non erano ancora state la notte nell’anno mccc, che finge ch’avesse questa visione, della quale fu detto di sopra; e però parendo che dica cose future, dice cose ch’erano state, quando questo scrisse.
C. VI - v. 77-84. In questi due versi, e due ternari l’autore pone la domanda ch’elli fece ancora a Ciacco dicendo: Et io a lui; cioè io Dante dissi a lui Ciacco: Ancor vo’; cioè voglio, che m’insegni; cioè a me Dante, E che di più parlar mi facci dono; e così benignamente lo induce a rispondere. Farinata e il Tegghiaio ec. Qui addomanda l’autor due cose; prima, del luogo dove sono questi due cittadini; appresso domanda segno di poterli conoscere, dicendo: Farinata e il Tegghiaio. Questi due cittadini di Firenze, con li altri tre che nomina incontanente aveano in vulgo buona fama, benchè fossono rei. E per tanto sottilmente induce l’autore Ciacco a dire generalmente qui della colpa loro: imperò che di sotto nel processo dell'opera, parlerà ancora di loro, e qui si manifesta la loro condizione: che fur sì degni; secondo la reputazione del vulgo; e perchè furono infetti nel vizio della gola, però domanda di loro. Iacopo Rusticucci, Arrigo, e il Mosca, E li altri ch’al ben far puoser l’ingegni. Puossi intendere che l’autore parli per lo contrario: però che costoro furono uomini viziosissimi, ben che fossono famosi: però che costoro furono della setta dei Neri, contra la sua, e perchè erano onorati per la parte, bene che fossono viziosissimi uomini; e però parla così di loro, per mostrare che oltre al vizio della gola, ebbano30 altri maggiori vizi, e però dice che fur sì degni; cioè reputati. E li altri ch’al ben far puoser l'ingegni; cioè pareano ponere, Dimmi ove sono; Ciacco: imperò che dovrebbono essere teco, perchè furono golosi; ovvero ne domanda lui, perchè furono d'una setta questi cinque con Ciacco. e fa ch’io li conosca. Quasi dica: Dammi segni ch'io li conosca: Chè gran disio; cioè desiderio, mi strigne di sapere; com’è de’suoi cittadini famosi e viziosi, Se il Ciel li addolcia; cioè dà loro dolcezza, o l'Inferno li attosca; cioè dà loro amaritudine: imperò ch’erano reputati nella città e da partefici loro, tali che meritavano d’essere in cielo, e secondo ch’erano viziosi meritavano d’essere tormentati nell’inferno.
C. VI — v. 85-93. In questi tre ternari l’autor nostro fa tre cose: però che prima pone la risposta di Ciacco alla sua domanda; nella seconda pone lo priego di Ciacco, quivi: Ma quando ec.; nella terza pone lo modo che tenne a ritornare nel suo stato, quivi: Li diritti occhi ec. Dice adunque: E quelli; cioè Ciacco rispose a me Dante, Ei son tra l'anime più nere; cioè più viziose; cioè quelli cinque, de’ quali mi domandi, Diversa colpa; dalla mia, giù li grava al fondo; dello inferno, Se tanto scendi; tu Dante, li potrai vedere; quelli cinque de’ quali tu mi domandi. Ma quando tu sarai nel dolce mondo; cioè nella vita di sopra mondana; e qui parla come peccatore che s’inganna del mondo, chiamandolo dolce, perchè pare; ma non è, Pregoti ch’alla mente altrui mi rechi; cioè alla memoria altrui arrechi me Ciacco. E qui litteralmente, e notantemente l’autore finge l’anime delli infernali desiderare fama per accordarsi con Virgilio, che pone che Palinuro godesse, quando intese lo monte dovere essere denominato da lui; et allegoricamente di quelli del mondo, che quanto più sono viziosi e vili, più fanno procaccio d’esser nominati. Più non ti dico; io Ciacco a te Dante; cioè non ti domando più, e più non ti rispondo; a’ tuoi domandi. li diritti occhi ec. Qui mostra l’autore come Ciacco ritornò alla sua pena dicendo: Li diritti occhi torse allora in biechi; cioè in traverso, quasi dica: Come prima mi mirava31 a diritto, poi mi rimirò a traverso, volendosi chinare e tornare a giacere, come era prima. Guardommi un poco; cioè me Dante, e poi chinò la testa; verso la terra, Cadde con essa a par degli altri ciechi. Questo è detto notabile, secondo quelli del mondo, che chi seguita la gola cade con l’altezza della sua condizione, quantunque sia grande, al pari de’ ciechi della mente: imperò che chi seguita la golosità, è cieco della mente. E litteralmente intende che cadesse a terra a pari delli altri golosi ch’erano ciechi stati nel mondo, quanto alla mente, e caduti sono quanto alla testa32; cioè con la loro altezza e nobiltà di condizione che abbino, o per natura, o per fortuna.
C. VI — v. 94— 99. In questi due ternari pone l’autore una sentenzia di Virgilio de’ dannati, che è vera secondo la nostra fede; cioè resurgeranno al di’ del giudicio, dicendo: E il Duca; cioè Virgilio, disse a me; cioè Dante, Più non si desta; cioè si sveglia33 Ciacco, s’intende, Di qua dal suon dell'angelica tromba; cioè innanzi che sia il di’ del giudicio, quando li due angeli soneranno due trombe; l’una per li giusti, e l’altra per li dannati, che vengano all’ultimo giudicio, ove si darà l’ultima sentenzia del nostro Salvatore che salverà li giusti, e dannerà li peccatori. Quando verrà la nimica podesta; de’ dannati; cioè Cristo, lo quale come giudice con somma podestà verrà a dare l’ultimo giudicio, il quale sia34 nimico et odioso a’ dannati. Ciascuna rivedrà la trista tomba; cioè ciascuna anima ritornerà alla sua sepoltura a pigliar sua carne e sue ossa; e dice trista: però che è materia di tristizia ad ognuno, et ancora a lor fia materia di tristizia: chè risurgeranno a maggior pena. Ripiglierà sua carne e sua figura; cioè ciascuno risurgerà nella propria carne, e sua figura; cioè uomo d’uomo, e femina di femina, et in quello stato ch’erano quando morirono, risurgeranuo li dannati; ma li salvati risurgeranno in megliore figura, sanza difetto, con tutta perfezione, non mutato però lo sesso della natura. Udirà quel che in eterno rimbomba; cioè udirà l'ultima sentenzia che rimbomba; cioè risuona in eterno: cioè nell’eternità: però che Idio ab eterno così ordinò e dispose; o puossi intendere ancora, che in eterno rimbomba; cioè che non avrà fine in eterno; cioè in perpetuo, ponendo lo vocabolo non propriamente nella sua significazione, per licenzia poetica e colore retorico.
C. VI — v. 100-105. In questi due ternari si pone il processo del cammin dell’autore e la quistione che Dante move a Virgilio, quivi: Per ch’io ec. Dice adunque: Sì trapassammo; cioè io Virgilio, et io Dante, per sozza mistura Dell'ombre e della pioggia; come detto è di sopra, a passi lenti; dice perchè andavano adagio, Toccando un poco la vita futura; cioè trattando dello stato dell’anime dopo la resurrezione. Per ch’io dissi: Maestro. Qui muove Dante quistione a Virgilio se li tormenti de’ dannati cresceranno, o mancheranno dopo la resurressione nell’ultimo giudicio, e però dice: esti tormenti, cioè de’ dannati, Cresceranno ei dopo la gran sentenza; cioè dell’ultimo giudicio, O fien minori; che non sono al presente, o saran sì contenti; come sono ora? Sì che domanda tre cose; cioè se cresceranno, o se mancheranno, o se saranno in quello medesimo stato. Allegoricamente si dee intendere, che queste quistioni fa la sensualità alla ragione.
C. VI — v. 106-111. In questi due ternari si pone la risposta di Virgilio alla quistione proposta da Dante, dicendo che i tormenti cresceranno. Dice adunque: Et elli; cioè Virgilio disse, a me; cioè Dante, rispondendo alla quistione: Ritorna a tua scienza; cioè alla filosofia, e per questo dimostra che fosse filosofo, Che vuol, quanto la cosa è più perfetta; come sarà l’anima congiunta col corpo, che sarà più perfetta che separata, Più senta il bene, e così la doglienza; cioè come sente più il bene, così sente più il male; e questo si vede nelli animali, che’ più perfetti, più sentono il bene e il male, che i men perfetti. Tutto che questa gente maladetta. Parla qui de’ dannati; questo dice perchè sono due perfezioni; l’una vera la quale è de’ beati che ànno le quattro dote che danno la glorificazione al corpo; cioè agilità, sottilità, clarità, et impassibilità; e l’altra falsa che è de’ dannati, che non ànno queste dote. Et usa qui una conclusione corollaria che seguita per le premesse; ma non è di principale intenzione, nè del principale dubbio: il principale dubbio era, se li tormenti doveano crescere, o mancare, o stare in uno medesimo essere; et a questo fu data la risposta, còme di sopra appare. Ora da quella risposta induce questa conclusione, dichiarando uno dubbio che altri potrebbe muovere dicendo: Tu ài detto che quanto la cosa è più perfetta ec.: dunque li dannati ànno perfezione. A che risponde che sì; ma non vera, e però facendo avversazione dice: Tutto che questa gente maladetta; cioè avvengadio che questa gente maladetta, In vera perfezion giammai non vada; cioè che sieno veramente perfetti come i salvati, Di là, più che di qua, esser aspetta; cioè aspetta d'esser più perfetta, s’intende, di là da la gran sentenzia del di’ del giudizio; cioè poi che fia data la gran sentenzia: chè allora sarà il corpo con l’anima, che di qua sia perfetta innanzi alla detta sentenzia: imperò che al presente 35 è pur l’anima sanza lo corpo. E così sta che dopo il giudicio cresceranno li tormenti, perchè l’anime dannate saranno più perfette che non sono al presente che sono sanza il corpo, et allora saranno col corpo, benché la loro non sia vera perfezione, come sarà quella dei beati.
C. VI — v. 112-115. In questo ternario et uno verso pone l’autore lo suo processo e il discendimento del terzo cerchio nel quarto, e fa due cose, perchè prima mostra il discendimento 36; secondo mostra quel che vi trovò, quivi: Quivi ec. Dice adunque: Noi; cioè Virgilio et io Dante, aggirammo a tondo; cioè in circuito, quella strada; cioè del cerchio terzo, Parlando più assai, ch’io non ridico; in questa mia cantica, Venimmo al punto dove si digrada; cioè venimmo al punto ov’era il discendimento nel quarto cerchio, Quivi; cioè in quella entrata del quarto cerchio, trovammo Pluto, il gran nimico. Pluto pone qui l’autore per lo demonio che à a tentare e punire dell’avarizia e prodigalità, de’ quali vizi si tratta nel seguente canto. E questo finge l’autore perchè Pluto 37 s’interpetra terra, e l’avarizia è per rispetto delle cose terrene; benché li autori pongano Pluto essere signore dell’inferno, perchè nel centro della terra si finge essere lo inferno, e le fizioni si possono mutare, secondo che l’uomo vuole. E benché litteralmente l’autor ponga lo suo discenso di cerchio in cerchio, il quale fu per considerazione, e finge discenso, perché considerare il discenso del peccato, o vero il peccato, è descendere, e quanto è maggiore, tanto si discende più; allegoricamente si può intendere di quelli del mondo, che di vizio discendono in vizio: imperò che dalla infidelità può venire la lussuria che è più grave; e dalla lussuria, la gola ch’è ancora più grave; e della gola, la ira et accidia e li altri peccati che sono più gravi, come apparirà di sotto. E qui finisce il canto sesto e comincia il settimo.
Note
- ↑ Altrimenti - Io cominciai
- ↑ C. M. amburo le mani,
- ↑ C. M. scalcando l’anime
- ↑ C. M. era assorta per
- ↑ Di per dei imitando il de latino. Anche Fra Guittone disse di per del, «Di qual proprio è nemico». E.
- ↑ Benchè il Codice nostro leggesse intelletto abbiamo col Magliabechiano corretto con diletto E.
- ↑ C. M. due; commestione et ebrietà;
- ↑ C. M. delicatezza e nettezza di cibi: nimità; cioè soperchio di cibo: avidità; cioè vaghezza troppa che è ghiottoneria; studiosità;
- ↑ C. M. cioè la grossezza d’animo:
- ↑ C. M. contra la letizia o perchè si conviene all’immundizia del goloso;
- ↑ Ora che le parti del mondo sono cinque, le tre gole di Cerbero non risponderebbero a codesta interpretazione. E.
- ↑ C. M. sopra loro cade nieve, pioggia;
- ↑ Il Vocabolario à obiurgazione e potrebbe accogliere anche obgiurgazione, perchè la j de’ Latini si cambia sovente in gi. E.
- ↑ C. M. golosi, o vero che in tre modi lo ditto peccato occupa li omini golosi; cioè
- ↑ Gotti è plurale di gotte, come carti da carte, lodi da lode, porti da porte ec. E.
- ↑ C. M. con amburo le mani,
- ↑ C. M. niuna cosa per sè può sonare se non è corporea;
- ↑ C. M. di reputazione pensano che sia
- ↑ A queste parole del Commentatore si accorda la lezione del Codice Estense ed Antaldino e dell’edizione del Landino e Nidobeato, che è «in sì dolente Loco se’ messo, et ài sì fatta pena» v. 46-47. E.
- ↑ C.M. prima quanto all’origine
- ↑ Qui il verbo manifestò è adoperato assolutamente, sottintesovi l’oggetto sè o si; cioè sè mi manifestò o mi si manifestò. E.
- ↑ Il Cod. M. e il nostro qui legge pure «Perchè tanta discordia l’à assalita».
- ↑ C. M. del piever d’Acrone,
- ↑ C. M. tre anni; cioè tre corsi solari,
- ↑ C. M. con la forsa del re Federico di Francia; e piaggia intende stato in mezzo,
- ↑ Altrimenti - Quasi dica: Benchè se ne doglia e che n’abbi dispetto.
- ↑ Questo frate Guido conosciuto ancora col nome di frate Guido da Pisa compilò il prezioso libretto - I Fatti d’Enea -, la cui lettura non si può mai raccomandare a bastanza. E.
- ↑ C. M. cioè non è dato loro fede, nè non ànno luogo.
- ↑ C. M. parabolari,
- ↑ Ebbano ora è voce da non usare, quantunque non rada nel contado toscano. È una delle riduzioni de’ verbi della seconda coniugazione alla prima, comuni anzi che no in sul formarsi della nostra lingua. E.
- ↑ C. M. prima m’avvisava
- ↑ C. M. caduti sono con la testa; cioè
- ↑ C. M. cioè non si sveglia
- ↑ Il C. M. à — lo quale fi’ nimico et odioso — donde si vede che sia, adoperato spesso dal nostro Commentatore, è voce del futuro come fi’, fia, fie. E.
- ↑ G. M. imperò che avale è pur
- ↑ Secondo; cioè secondamente o in secondo luogo, è maniera ellitica, la quale tiene del latino e piacque al nostro Commentatore, che fino dal principio à terzio e terzo per terzamente ec. E.
- ↑ Forse qui Pluto s’interpetra terra, perchè la terra è produttiva, e Pluto potria derivare da πλουτέω; sono ricco, abondo. In fatti si reputò il Dio delle ricchezze. E.