Commedia (Buti)/Inferno/Canto V

Inferno
Canto quinto

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Inferno - Canto IV Inferno - Canto VI
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C A N T O   V.





1Così discesi del cerchio primaio
     Giù nel secondo, che men loco cinghia,
     E tanto à più dolor, che pugne a guaio.
4Stavvi Minos, e orribilmente ringhia:
     Esamina le colpe nell’entrata,
     Giudica e manda, secondo ch’avvinghia.
7Dico, che quando l’anima mal nata
     Li vien dinanzi, tutta si confessa;
     E quel conoscitor delle peccata
10Vede qual luogo d’inferno è da essa;
     Cingesi con la coda tante volte,
     Quantunque gradi vuol che giù sia messa.
13Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
     Vanno a vicenda ciascuna al giudicio:
     Dicono et odono, e poi son giù volte.
16O tu, che vieni al doloroso ospicio,
     Disse Minos a me, quando mi vide,
     Lasciando l’atto di cotanto officio,
19Guarda com’entri, e di cui tu ti fide:
     Non t’inganni l’ampiezza dell’entrare.
     E il Duca mio a lui: Perchè pur gride?

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22Non impedir lo suo fatale andare:
     Vuolsi così colà, dove si puote
     Ciò che si vuole, e più non dimandare.
25Or incomincian le dolenti note
     A farmisi sentir; or son venuto
     Là, dove molto pianto mi percuote.
28Io venni in luogo d’ogni luce muto,
     Che mugghia, come fa mar per tempesta,
     Se da contrari venti è combattuto.
31La bufera infernal, che mai non resta,
     Mena li spirti con la sua rapina,
     Voltando e percotendo li molesta.
34Quando giungon dinanzi alla ruina,
     Quivi le strida il compianto e il lamento,
     Biasteman quivi la virtù divina.
37Intesi ch’a così fatto tormento
     Enno dannati i peccator carnali,
     Che la ragion sommettono al talento.
40E come li stornei ne portan l’ali
     Nel freddo tempo, a schiera larga e piena;
     Così quel fiato li spiriti mali
43Di qua, di là, di giù, di su li mena:
     Nulla speranza li conforta mai,
     Non che di posa, ma di minor pena.
46E come i gru van cantando lor lai,
     Facendo in aere di sè lunga riga;
     Così vid’io venir, traendo guai,
49Ombre portate dalla detta briga.
     Perch’io dissi: Maestro, chi son quelle
     Genti, che l’aura nera sì gastiga?1

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52La prima di color, di cui novelle
     Tu vuoi saper, mi disse quelli allotta,
     Fu imperadrice di molte favelle.
55A vizio di lussuria fu sì rotta,
     Che libito fe licito in sua legge,
     Per torre il biasmo in che era condotta.
58Ella è Semiramìs, di cui si legge
     Che succedette a Nino, e fu sua sposa:2
     Tenne la terra, che il Soldan corregge.
61L’altra è colei, che s’ancise amorosa,
     E ruppe fede al cener di Sicheo:
     Poi è Cleopatras lussuriosa.
64Elena vedi, per cui tanto reo
     Tempo si volse, e vedi il grande Achille,
     Che con amore al fine combatteo.3
67Vedi Paris, Tristano; e più di mille
     Ombre mostrommi, e nominolle, a dito,4
     Che amor di nostra vita dipartille.
70Poscia ch’io ebbi il mio Dottore udito
     Nomar le donne antiche e’ cavalieri,
     Pietà mi vinse e fui quasi smarrito.5
73Io cominciai: Poeta, volentieri6
     Parlerei a quei due, che insieme vanno,
     E paion sì al vento esser leggieri.
76Et elli a me: Vedrai, quando saranno
     Più presso a noi; e tu allor li priega
     Per quel disio che i mena, e quei verranno.7

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79Sì tosto come il vento a noi li piega,
     Mossi la voce: O anime affannate,8
     Venite a noi parlar, s'altri nol niega.
82Quali colombe, dal disio chiamate,9
     Con l'ale alzate e ferme al dolce nido
     Vegnon per l'aere; dal voler portate
85Cotali uscir della schiera, ov'è Dido,
     A noi venendo per l'aer maligno:
     Sì forte fu l'affettuoso grido.
88O animal grazioso, e benigno,
     Che visitando vai per l'aer perso
     Noi, che tignemo il mondo di sanguigno,
91Se fosse amico il Re dell'universo,
     Noi pregheremo lui della tua pace,
     Poi ch'ài pietà del nostro mal perverso.
94Di quel ch'udire, e che parlar vi piace,
     Noi udiremo, e parleremo a vui10,
     Mentre che il vento, come fa, si tace.11
97Siede la terra, dove nata fui,
     Su la marina, dove il Po discende,
     Per aver pace co' seguaci sui.
100Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
     Prese costui della bella persona
     Che mi fu tolta, e il modo ancor m'offende.
103Amor, che a null'amato amar perdona,
     Mi prese del costui piacer sì forte,12
     Che, come vedi, ancor non m'abbandona.

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106Amor condusse noi ad una morte:
      Caina attende chi in vita ci spense.13
      Queste parole da lor ci fur porte.
109Da ch’io intesi quell’anime offense,
      Chinai ’l viso, e tanto il tenni basso,
      Fin che il Poeta mi disse: Che pense?
112Quand’io risposi, cominciai: O lasso,
      Quanti dolci pensier, quanto disio
      Menò costoro al doloroso passo!
115Poi mi rivolsi a loro, e parlai io,
     E cominciai: Francesca, i tuoi martiri
     A lagrimar mi fanno tristo e pio.
118Ma dimmi: Al tempo de’ dolci sospiri,
     A che, e come concedette Amore,
     Che conosceste i dubbiosi disiri?
121Et ella a me: Nessun maggior dolore,
      Che ricordarsi del tempo felice
     Nella miseria, e ciò sa il tuo Dottore.
124Ma se a conoscer la prima radice
     Del nostro mal tu ài cotanto affetto,14
     Farò come colui che piange, e dice.
127  Noi leggiavamo un giorno, per diletto,15
     Di Lancellotto, come amor lo strinse:
     Soli eravamo e sanza alcun sospetto.
130Per più fiate li occhi ci sospinse
     Quella lettura, e scolorocci il viso;
     Ma solo un punto fu quel che ci vinse.
133Quando leggemmo il disiato riso
     Esser baciato da cotanto amante,
     Questi, che mai da me non fia diviso,

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136La bocca mi baciò tutto tremante.
     Galeotto fu il libro, e chi lo scrisse:
     Quel giorno più non vi leggemmo avante.
139Mentre che l’uno spirto questo disse,
     L’altro piangeva sì, che da pietade 16
     Io venni meno sì, come io morisse,
142E caddi, come corpo morto cade.

  1. v. 51. C. M. l’aere nero
  2. v. 59. Il codice Antaldino à: Che sugger dette a Nino; Francesco Alunno ebbe trovato: Che succo dette a Nino. Il ch. prof. Nannucci fe buon viso alla lezione Antaldina, la quale, eziandio secondo gli antichi commentatori, vorrebb'essere preferita.  E.
  3. v.  66. Che per amore
  4. v.  68. C. M. e nominommi,
  5. v.  72. Pietà mi giunse
  6. v.  73. Poi cominciai:
  7. v.  78. Per quell'amor ch'elli menar, verranno.
  8. v. 80. C. M. Movo la voce:
  9. v. 82. C. M. Quai le colombe,
  10. v. 95. Vui, nui per voi, noi e simili adoperavansi in antico, per l'amistà delle due vocali o ed u. E.
  11. v. 96. ci tace.
  12. v. 104. C. M. di costui piacer
  13. v.107.  C. M. a vita
  14. v.125.  del nostro amor
  15. v.127. leggiavamo. I verbi della seconda e terza coniugazione, in antico piegavansi nelle prime persone plurali dell’imperfetto, come quei della prima.  E.
  16. v. 140. C. M. di pietade




C O M M E N T O


Così discesi del cerchio ec. Questo è lo quinto canto della prima cantica, nel quale l’autore tratta del secondo cerchio dell’inferno, dove pone1 che si puniscano li lussuriosi, che ànno peccato per incontinenzia, e questo canto si divide in due parti principalmente, perchè prima descrive il descendimento nel secondo cerchio, lo cerchio, lo giudice, e le pene, e le persone che2 vide antiche, delle quali è fama per li autori; nella seconda fa menzione di quelle di nuovo tempo che non è fama per li autori, quivi: Io cominciai: Poeta ec. Quella prima, che è la presente lezione, si divide in otto parti: chè prima descrive lo cerchio secondo; nella seconda nomina il giudice che vi trovò, e descrive del suo cerchio ovvero del suo uficio, quivi: Stavvi Minos ec.; nella terza pone quello che Minos disse a lui, quivi: O tu, che vieni ec.; nella quarta pone quello che Virgilio rispose, quivi: E il Duca mio ec.; nella quinta descrive le pene che vi sono, quivi: Or incomincian le dolenti ec.; nella sesta domanda delle persone famose appo li autori che vi trova, quivi: E come i gru ec.; nella settima pone come Virgilio risponde, nominandone alquante, quivi: La prima di color ec.; nell’ottava Dante dimostra d’aver di loro compassione, quivi: Poscia ch’io ebbi ec. Divisa adunque la lezione è da vedere la sentenzia litterale.
      Dice adunque: Così, come dissi di sopra, seguendo Virgilio discesi del primo cerchio giù nel secondo dell’inferno che è minor del primo, et à più pena: però che quanto più discende, tanto sono minori li cerchi, perchè ristringono; e tanto v’è più di pena, quanto più si scende: imperò che più si dilunga dal cielo, e va inverso [p. 149 modifica]il centro della terra. E dice che in questo cerchio trovò uno3 giudice ch’à nome Minos il quale esamina le colpe dell’anime, ch’entrano in quel cerchio, e giudicale di quel luogo che sono degne, cignendosi con la coda tanti4 gradi, quanti vuole che giù sia messa, e dice che sempre à molto che fare: tante ve ne vanno. E come vide Dante, lasciò l’ufficio suo, e disse a Dante: Guarda com’entri, e di cui tu ti fidi, non t’inganni l’entrata larga. Onde Virgilio risponde: Non impedir lo suo fatale andare: chè si vuol così nel Cielo. Poi Dante dice che cominciò a sentire le dolenti note e che venne in luogo provato d’ogni luce, che mugghia come fa il mare, quando à tempesta, per contrari venti che il combattono; e che quivi era un vento ch’elli chiama la bufera, che percotendo menava quell’anime ch’erano dannate nel secondo cerchio in su et in giu, et in traverso straboccandole, e molestandole; e quelle così fatte anime erano quelle de’ lussuriosi che sottomettono la ragione alla volontà. Onde dice che vedendo venir con guai una gran turba, domanda Virgilio chi sono; e Virgilio nomina alquante di quelle anime: onde Dante dice che n’ebbe compassione, udendo nominare le donne antiche, e li cavalieri che si nominano nel testo, onde quasi fu smarrito dal sentimento, e questa è la sentenzia litterale. Ora è da vedere il testo.

C. V. — v. 1-3. In questo solo ternario, che è la prima parte, descrive lo secondo cerchio, ponendo lo suo discorso dicendo: Così; seguendo Virgilio io Dante, discesi del cerchio primaio; ove à posto lo limbo, come à detto di sopra, Giù nel secondo; s’intende cerchio, che men loco cinghia; cioè circonda meno che il primo, E tanto à più dolor; che il primo, che pugne a guaio; cioè che la puntura e il tormento fa guaiolare5 l’anime tormentate in esso; e nel primo cerchio non erano se non sospiri, come fu detto. E qui è da notare che, benchè l’autore litteralmente dica dell’inferno, allegoricamente intende di quelli del mondo, intendendo che nel mondo sono uomini virtuosi; ma non ànno la fede cristiana, e questi sono nel primo grado della dannazione: e però secondo la lettera si dicono essere nel primo cerchio dell’inferno. Et ancora vi sono uomini peccatori infestati per incontinenza dal peccato della lussuria, che per altro sarebbono buoni; e questi sono in maggior dannazione che i primi, e però finge che siano nel secondo cerchio, e che lo secondo cerchio sia più basso del primo: imperò che costoro sono molestati6 dal vizio medesimo, e dalla coscienzia per la colpa; e però finge che guaioliscano7 e lamentinsi per li tormenti che sentono. Ma i primi che [p. 150 modifica]non ànno coscienzia di colpa, non ànno tormento di guai; ma ànno sospiri, imperò8 ànno desiderio di beatitudine e non ànno certa speranza: imperò che non ànno vera fede, la quale partorisce speranza vera, com’esposto fu di sopra cap. iv. nel suo luogo. Perchè lo desiderio è cagione de’ sospiri, si può dire che sieno tormentati da sospiri9 causati dal desiderio; sicché sono tormentati continuamente dal desiderio, sanza avere speranza che acquieti tale desiderio.

C. V - v. 4-15. In questi quattro ternari lo nostro autore manifesta il giudice che trovoe nel secondo cerchio, nominandolo e descrivendo lo suo uficio, e fa due cose: chè prima nomina il giudice e pone in somma l’uficio suo; nella seconda parte lo descrive più particolarmente, quivi: Dico, che quando ec. Dice prima: Stavvi Minos; cioè nel secondo cerchio, il quale Minos è giudice nell’inferno. Et in questo l’autore seguita Virgilio, che similmente lo pose giudice dell’inferno; e questa è fizione poetica, la quale dice che tre figliuoli di Giove; cioè Minos, Eaco e Radamanto, sono giudici nell’inferno. Di Minos e Radamanto dice Virgilio nell’Eneida nel vi; di Eaco dicono le tragedie. Questo Minos si dice figliuolo di Giove e d’Europa, e fu re di Creta, e fu di tanta giustizia in punire li mali, siccome dice Ovidio Metamorphoseos, nel vii et viii libro, mostrando quanto fu giusto in porre debita pena alli Ateniesi che li avevano morto il suo figliuolo Androgeo per invidia, straboccandolo10 della torre di Minerva; et in porre legge ai Cretensi e similmente a quelli d’Alcitoe che fu città del re Niso, lo quale traditte Scilla figliuola del detto re, portando il capo del padre a Minos e dandoli la città, benchè il poeta fingendo, dica lo capello dell’oro. La quale Scilla Minos cacciò via abominando e spregiando il gran male ch’avea commesso; cioè il patricidio e tradimento della propria città, per l’amore ch’avea posto al re Minos. E similemente in punire Dedalo, per cui ingegno trovò che la moglie sua; cioè la reina Pasife ebbe concezione del toro e fece lo Minotauro, mentre che il re Minos fu assente per vincere li Ateniesi; benchè la verità di questa fizione fosse che la reina per mezzo di Dedalo ingravidò del cancelliere del re11, ovvero sacerdote, che avea nome Tauro, e nacquene uno figliuolo che chi lo reputava figliuolo del re Minos, e chi del cancelliere; e però fu chiamato Minotauro. Lo quale fingono li poeti che fosse fiera ferocissima, e che lo re Minos lo facesse rinchiudere nella prigione che fece Dedalo, che si chiamava laberinto, che chi v’entrava non ne sapesse uscire; e che poi Teseo figliuolo del re Egeo d’Atene mandato in Creta, secondo la legge che [p. 151 modifica]avea posta Minos alli Ateniesi, che per vendetta d’Androgeo suo figliuolo ogni anno mandassono sette loro cittadini al Minotauro in Creta, essendo uno dei sette cavati per poliza, l’uccise per consiglio di Dedalo, et uscie del laberinto, e menonne furtivamente le figliuole del re Minosse; cioè Fedra et Arianna. E per questo, indegnato il re Minos, mise Dedalo e il suo figliuolo Icaro, in una torre ch’era in pregione, della quale fingono i poeti che uscissono volando, fabricandosi l’alie12 delle penne delli uccelli che pigliavano; benchè la verità fosse che furtivamente ne uscissono e fosseno portati via per mare, e navigando annegò Icaro, onde fu poi chiamato il mare icareo. E però fingono i poeti che Minos, perchè fu giusto latore delle leggi, fosse giudice costituito dell’infernali; ma lo nostro autore finge che questo uficio sia di uno demonio, il quale per servare in parte la poesi de’ poeti; cioè secondo il nome; egli lo nomina Minos: imperò che non è consonante alla ragione che li uomini sieno posti per giudici dell’inferno. E questo finge per fare verisimile la fizione; ma, quanto alla verità, nell’inferno non è bisogno di giudice: imperò che l’anima giudica sè medesima, come si parte dal corpo, di quello che è degna, costrignentela a ciò la coscienzia sua. E questo intese l’autore per Minos; cioè la coscienzia umana, la quale è vero giudice in ciascuno che la à, e questo dico per molti che, mentre che vivano, non pare che abbino coscienzia, benchè alla fine la convegna loro avere, costrignendoli la divina Giustizia. E questo finge l’autore ancora, per verificare l’allegorico intelletto, lo quale è dello stato de’ mondani: imperò che ciò che dice litteralmente dell’inferno, allegoricamente s’intende de’ mondani che sono viziosi e peccatori, come già è detto; li quali ànno giudice nel mondo che li giudica secondo che di loro vede, e questo è lo giudicio umano non sempre dirizzato dalla ragione: però che alcuna volta s’inganna, e però seguita: e orribilmente ringhia. Ringhiare, secondo il volgare, è suono che fa lo cavallo che si dice annitrire: puossi ancora appartenere al porco, come dice il Grammatico, et intendesi il detto Minos orribilmente; cioè facendo orribile e spaventevole suono, ringhia; cioè fa come il porco, o come il cavallo. E notantemente attribuisce lo suono delli animali bruti al dimonio: però che secondo la lettera è convenevole, et anche secondo l’allegoria: imperò che il giudicio umano spesse volte giudica contra ragione e spaventevolmente diffama altrui. Esamina le colpe; dell’anime, nell’entrata; del cerchio: Giudica e manda, secondo ch’avvinghia; cioè secondo che comprende essere colpevole, così giudica e manda l’anime al cerchio dovuto a loro. E ben fece l’autore a porre il giudice in questo secondo [p. 152 modifica]cerchio, nel quale si comincia a trattare de’ peccati, secondo la fizione litterale, et ancora secondo allegoria: imperò che l’umano giudicio non giudica se non i peccatori, o quelli che li paiono peccatori. Dico, che quando l’anima mal nata. Detto in generale l’uficio di Minos, qui lo dichiara in speciale, e dice: Dico; io Dante, che quando l’anima mal nata; mal nata è l’anima13 umana a perdizione, Li vien dinanzi; al detto Minos, tutta si confessa; non lasciando alcuna colpa, E quel conoscitor delle peccata; cioè Minos, Vede qual luogo d’inferno è da essa; cioè si conviene all’anima confessata. Cingesi con la coda tante volte; Minos, Quantunque gradi vuol che giù sia messa. Per fare verisimile la fizione litterale, per mostrare Minos essere demonio, li attribuisce coda di dragone, con la quale mostra segno a’ ministri e ufficiali dell’inferno; cioè alli altri demoni, di quanta colpa sia l’anima esaminata, et a che grado di pena sia da essere menata. E sotto questo intende che la coscienzia con la coda; cioè con l’ultimo atto del peccato e della iniquità in della14 quale all’ultimo si muore, che come veleno serpentino uccide l’anima riconoscendo i gradi e i modi del peccato suo, sè medesima condanna di quello che è degna. E questo allegoricamente si verifica di quelli del mondo, i quali la coscienzia sua medesima con la coda; cioè con l’ultimo atto del peccato, nella specie del quale s’è fermato per consuetudine, mostra a sè et alli altri uomini, quanti gradi dè essere messa da basso la sua condizione; et elli medesimo vi si mette usando con li simili a sè, e da li altri v’è messo dispiacendolo, et avendolo a vile. Sempre dinanzi a lui; cioè a Minos, ne stanno molte; dell’anime, e per questo litteralmente si mostra la moltitudine de’ dannati. Vanno a vicenda; cioè secondo che tocca a ciascuna; onde Virgilio nel vi dell’Eneida dice: Quæsitor Minos urnam movet: ille silentum Conciliumque vocat, vitasque, et crimina discit. E questo secondo la lettera è vero, che ciascuno va quando è chiamato al giudicio, et ordinatamente, e non preoccupa l’uno l’altro, o lo luogo l’uno dell’altro. Ciascuna al giudicio; di Minos, secondo la lettera, che è lo giudicante. Dicono; le loro colpe, et odono; la loro dannazione da Minos, e poi son giù volte; secondo che sono15 condannate da Minos; la qual cosa Minos dimostra col cigner della coda, come detto è di sopra. Et allegoricamente di quelli del mondo, prima si dimostra la moltitudine de’ peccatori, e [p. 153 modifica]come tutti vanno al giudicio della loro coscienzia, e de’ giudicatori, e vanno con ordine, secondo l’ordine de’ tempi16, dicono essi medesimi di sè, et odono dire d’altrui, e poi son volti giù in dispregio, et in viltà nel cospetto de’ buoni, o di sè17 medesimo.

C. V — v. 16-20. In questo ternario e due versi dell’altro l’autore dimostra quel che Minos disse a lui, quando lo vide sgomentandolo, e dicendo così: O tu; cioè Dante, che vieni al doloroso ospicio; cioè all’albergo dello inferno, che è pieno di dolori: Disse Minos a me; cioè Dante, quando mi vide; cioè quando vide me Dante, Lasciando l’atto di cotanto officio; cioè lasciando l’esaminazione, e la giudicazione dell’anime che è l’uficio suo, come appare di sopra. Guarda com’entri; tu Dante, che tu non entri solo, e di cui tu ti fide; cioè di che guida tu ti fidi, che ti meni per questi luoghi, perchè ognuno non è sofficiente guida; anzi niuno sanza la grazia di Dio, che poi n’esca come ne vuoi uscire tu. Non t’inganni l’ampiezza dell’entrare. Quasi dica: Non guardare perchè la via sia ampia dell’entrare: chè all’uscire è molto stretta, anzi strettissima. Questo che l’autore finge che li fosse detto per Minos, è verisimile quanto alla sentenzia litterale: imperò che il demonio ogni bene vuole storpiare18 e con paura impedire; e così finge l’autore che facesse a lui, che finge essere ito per l’inferno, e spaventare sè medesimo da’ vizi per le pene che quivi sono, et appresso, in persona sua, li lettori. Ma allegoricamente di quelli del mondo intese, i quali entrati, per considerare tra li viziosi e li peccatori la vita viziosa, nella quale è grande pericolo ad entrare, grida la lor coscienzia significata per Minos, gridano li santi e buoni uomini del mondo: Guarda com’entri, e di cui tu ti fide. Quasi dica: Non entrare e non ti fidare di te stesso, nè d’altri, se non della grazia di Dio: imperò che sanz’essa chi entrasse nella vita viziosa, quantunque vi entrasse pur per considerare, vi rimarrebbe: tanto è ampia la via viziosa per li diletti mondani e falsi beni, che sono in essa e per la fragilità umana. Gridano ancora quelli medesimi viziosi, mormorando di loro come i Farisei che diceano: Cum publicanis et peccatoribus manducat magister vester.

C. V — v. 21-24. In questo verso e uno ternario lo nostro autore pone la risposta che finge che facesse Virgilio, la quale secondo la lettera è sofficiente, dicendo: E il Duca mio; cioè Virgilio, a lui; cioè Minos rispose: Perchè pur gride? Ben si può riprendere lo demonio di gridare: imperò che gridare è parlare con ira, contra [p. 154 modifica]ragione: chè 19 rade volte grida chi parla con ragione Non impedir lo suo fatale andare. Quasi dica: Non impedir l’ andar suo che è conceduto dal fato; cioè dall’ ordine che la divina provvidenzia à imposto alle cose che si muovono. E perchè 20 s’ intenda dalla necessità fatale, che molti meno savi vogliono venire di sopra dalle cagioni seconde nelli atti umani, aggiugne: Volsi così colà, dove si puote Ciò che si vuole; cioè in paradiso, ove non si vuole, se non quel che è bene, e ciò che è bene si può; onde dice Boezio nel v libro della Filosofica Consolazione: Nam supernis divinisque substantiis et perspicax iudicium, et incorrupta voluntas, et efficax optatorum praesto est potestas. Quasi dicesse: Vuole così Idio, il quale ciò che vuole può. E questa è sofficiente risposta ad ognuno; Dio vuol così, e non dee l’ uomo cercare più in là, nè i demoni possono più resistere, quando odono: Così vuole Idio. e più non dimandare; tu, Minos, e così impose silenzio Virgilio a Minos, mostrando di averli dato la risposta bastevole. Et allegoricamente intendendo di quelli del mondo, si pone che Virgilio; cioè la ragione, risponde a Minos; cioè alla coscienzia: perchè pur gride; cioè perché parli contra ragione? Non impedire lo suo fatale andare, che li è concesso da Dio, e non domandare più: chè li basta la grazia di Dio, e risponde alla riprensione de’ buoni et alla mormorazione delli altri.

C. V — v. 25-45. In questi sette ternari, che è la quinta parte della lezione, il nostro autore comincia a trattare del peccato che si punisce in questo secondo cerchio, e delle pene convenienti ad esso. Dice adunque prima così: Or incomincian le dolenti note; cioè voci: però che le voci sono note delle passioni che sono nell’ anima, come dice Aristotile. A farmisi sentir; cioè a me Dante; or son venuto Là, dove molto pianto mi percuote. Quasi dica: Io son venuto a quello luogo, dove molto pianto mi percuote la mente a compassione. Io venni. Qui descrive le pene che sono in questo luogo; cioè in questo secondo cerchio specialmente. Io venni; cioè io Dante, in luogo d’ ogni luce muto; cioè privato d’ ogni chiarezza, Che mugghia, come fa mar per tempesta. Qui fa comparazione del mugghio ch’ era nell’ inferno nel secondo cerchio, a quel del mare quando è tempestoso, e però dice: Se da contrari venti è combattuto. Non è maggior tempesta in mare, che quando è combattuto da contrarietà di venti, onde aggiunge: La bufera infernal, che mai non resta. Bufera è aggiramento di venti, lo quale finge l’ autore che sempre sia nel secondo cerchio dell’ inferno a debita pena de’ lussuriosi, come si mosterrà di sotto; [p. 155 modifica]e che mai non resti, dice a differenzia del vento naturale del mondo che resta, e questo è conveniente: chè le pene de’ dannati mai non avranno fine. Mena li spiriti con la sua rapina, Voltando e percotendo li molesta; cioè l’anime dannate nel secondo cerchio, et in questo mostra la pena de’ dannati che sono voltati e percossi. Quando giungon dinanzi alla ruina. Per questo mostra l’autore, che sieno straboccati21. Quivi le strida, il compianto e il lamento; cioè sono: stridono per la pena, compiangonsi e lamentansi insieme, come insieme peccarono. Biasteman quivi la virtù divina. Quivi si mostra la loro ostinazione, et odio che ànno contro a Dio. Intesi ch’a così fatto tormento; come è detto, Enno22 dannati i peccator carnali; cioè li lussuriosi, Che la ragion sommettono al talento; cioè fanno la volontà signoreggiare la ragione: li lussuriosi fanno della volontà legge ovvero del parere legge; e della volontà, ragione. E come li stornei ne portan l’ali. Qui fa una comparazione, che come li stornelli volano con le loro ali, Nel freddo tempo; cioè nel verno, a schiera larga e piena. Questo pone a differenzia delle grue che vanno ad una ad una, e per questo nota la moltitudine de’ lussuriosi. Così quel fiato li spiriti mali; cioè di quella23 bufera, di che fu detto di sopra, li dannati lussuriosi. Di qua, di là di giù, di su li mena. Qui nota la incostanzia, della quale si dirà di sotto, la quale è data per pena conveniente ai lussuriosi; siccome in questa vita sono stati inconstanti da pari a pari, et da minori e maggiori24, e da maggiori a minori, e però notamente pone questi quattro movimenti. Nulla speranza li conforta mai; e qui nota la disperazione della quale si dirà. Non che di posa ma di minor pena; cioè non che si debbano riposare; ma eziamdio minorare la pena.

     Veduto il testo, ora è da vedere sopra questo, acciò che si mostri che l’autore à detto questo del peccato della lussuria, del quale qui si tratta, quello che è e le sue specie, e le sue compagnie che li vanno d’inanzi, di dietro e d’intorno, e le sue figliuole. E prima, lussuria presa generalmente è immoderato amore di diletto, secondo il tatto, e questa à sei specie; cioè soavità di vestimenti, e soavità di diletti, e soavità d’unguenti, soavità di bagni soavità di toccamenti di membri che non sono atti a generazione, e soavità di toccamento di membri che sono atti a generazione, che si chiama coito; e questa ultima spezie strettamente si dice lussuria, et à sotto di sè queste specie; fornicazione, adulterio, [p. 156 modifica]stupro, sacrilegio, incesto, e peccato, contro a natura. Fornicazione è congiunzione carnale di soluto con soluta; adulterio è d’ammogliato con maritata, o pur che l’uno sia legato a matrimonio; stupro è corrompimento di verginità; sacrilegio è di persone consacrate, o pur che l’una sia consecrata; incesto si commette tra’ parenti; peccato contro natura, per sè medesimo s’intende, e però non è da parlarne. Ancora è da sapere che la lussuria si distingue in tre specie; cioè spiritual tanto, corporale tanto, spirituale e corporale; spirituale tanto è quella che si commette25 con la volontà solamente, et è vie peggio che la corporale tanto; corporal tanto è quando l’animo non consente, siccome fu Lucrezia che non consentì con l’animo; corporale, e spirituale è quella che si commette col corpo, consenziente l’animo. Ora è da sapere che questa lussuria mena sempre seco questa compagnia; ansietà, paura, penitenzia, puzza, vergogna, e bruttura. L’ansietà e la paura vanno innanzi all’atto carnale; l’altre seguitano nell’atto; la penitenzia seguita poi, sì come dice Boezio della prima e dell’ultima nel terzo della Filosofica Consolatione: Quid autem de corporis voluptatibus loquar, quarum appetentia plena est anxietatis, satietas vero poenitentiae? Onde Demostene filolosofo, perchè sapeva che dopo l’atto carnale seguitava pentimento, quando andò a Taide, et ella li dimandò talenti cento per lo suo consentimento, elli ragguardò il cielo e disse quelle parole che in volgare suonano così: Io non compro26 tanto prezzo uno pentere. In grammatica27 disse: Non emo tanti unum poenitere; e lasciolla. E questa sì fatta compagnia assai dimostra sì fatto peccato esser da schifare; ma ella à sue figliuole le quali vie più dimostrano cotal vizio essere da fuggire, e queste sono le pene che induce: chè ogni peccato induce pena, e questo è lo frutto del peccato; cioè la pena. E queste figliuole sono otto; cioè cechità di mente, inconsiderazione, incostanzia, precipitazione, amor di sè, odio di Dio, appetito del presente secolo, desperazione delle cose celestiali. Cechità di mente è quando la ragione superiore, che è da considerare le cose celestiali che ci inducano a sapienzia, sta sì occupata28 et attuffata per lo detto peccato, che delle cose di sopra non pensa niente, se non come animale bruto. Inconsiderazione è quando la ragione inferiore, la quale è da considerare le cose di quaggiù che ci inducono a scienzia, è sì [p. 157 modifica]
   [v. 25-45] c o m m e n t o 157
occupata per lo detto peccato che l’uomo lascia andare male ogni cosa, e non si cura d’onore se non come uno animale. Niuno peccato abbatte29 tanto la ragione, quanto la lussuria, e fallo simile ad animale bruto: imperò che, quando l’uomo è a quello atto non si ricorda che sia uomo; ma seguita l’impeto della lussuria come bestia. Incostanzia è volubilità, a che la lussuria induce l’uomo. Precipitazione è cadimento nelli pericoli e vizi e peccati, nelli quali la lussuria strabocca l’uomo. Amor di sè si è, perchè lo lussurioso non ama, se non la carne sua. Odio di Dio è perchè lo lussurioso vede alcuna volta impedire i suoi diletti, e reputa che Dio lo impacci o possa impacciare; e però l’à in odio. Amore del presente secolo è quando lo lussurioso vorrebbe sempre vivere, per potere sempre lussuriare. L’ultimo è desperazione delle cose celestiali, quando il lussurioso desperando delle cose di sopra, si dà a queste terrene. E queste otto figliuole à mostrate l’autore nel testo, come mosterrò in quel che è detto esserne parte, et in quel che è a dire esserne l’altra parte. Et è da notare che le pene che l’autore adatta a quelli dell’inferno litteralmente, secondo convenienzia del peccato, allegoricamente si deono intendere di quelli del mondo, et imperò, mostrato ch’io l’avrò nel testo, sia30 chiaro l’allegorico intelletto. E però dico che l’autore intese la prima figliuola; cioè cechità di mente, e la seconda; cioè inconsiderazione quando disse in questo canto di sopra: Io venni in luogo d’ogni luce muto. Il luogo31 de’ lussuriosi, mentre che sono nel mondo, è sanza luce, perchè ànno cechità di mente; e questa è la prima e seconda pena che finge essere a loro per convenienzia: chè chi è stato cieco nel mondo, degna cosa è che sia in cechità nell’inferno. La terza; cioè incostanzia intese quando disse: La bufera infernal ec. Li lussuriosi nel mondo sono menati dalla vanità del peccato, e volti, e percossi; e questa è la terza parte32 che finge essere a loro per convenienzia ancora: chè chi è stato nel mondo incostante, sia nell’inferno menato dal vento; e come nel mondo s’è girato di spezie in spezie di lussuria, così nell’inferno sia volto e percosso: e questo medesimo dimostra ancora quando dice: Di qua, di là ec. E perchè vento non può essere sanza aere, però finge che i lussuriosi sieno puniti dal vento nell’aere; dal vento, per mostrare la loro incostanzia e volubilità; nell’aere, per mostrare la loro debolezza, e fragilezza: chè agevolmente l’aere cede al vento et ad ogni cosa. La quarta; cioè precipitazione, intese quando disse: Quando [p. 158 modifica]giungon dinanzi alla ruiua ec. Li lussuriosi nel mondo sono precipitati in molti altri vizi e pericoli; per quello però convenientemente finge che di là sieno precipitati. La quinta; cioè amore di sè stesso, intese quando disse: Quivi le strida, il compianto e il lamento. I lussuriosi nel mondo sono stati amatori della sua carne, e compiagnitori e lamentatori e gridatori, quando ànno cantato e composti, sonetti e canzoni d’amore; e però per conveniente pena finge l’autore che di là; cioè nell’inferno, stridano, e compiangansi e lamentinsi, se di qua ànno cantato per amore disonesto, et amatosi troppo. La sesta; cioè odio di Dio, intese quando disse: Biasteman quivi la virtù divina. Li lussuriosi nel mondo ànno in odio Idio, et insurgono contra lui; e però degnamente finge l’autore che similmente sieno nell’inferno in sì fatta ostinazione. La settima; cioè appetito della presente vita, intese quando dirà di sotto: Et ella a me: Nessun maggior dolore. Li lussuriosi ànno grande amore al mondo; e però degnamente finge che per tormento abbino quel medesimo amore nell’inferno, acciò che l’assenzia della cosa amata faccia loro dolore. L’ottava; cioè desperazione, intese quando disse: Nulla speranza li conforta. Li lussuriosi si disperano in questa vita delle cose celestiali; e però convenientemente finge che questa desperazione abbino nell’inferno: Quia in inferno nulla est redemptio. E qui finisce l‘allegorica esposizione insieme con33 la adattazione della lettera.

C. V. — v. 46-51. In questi due ternari pone l’autore una similitudine, et appresso una domanda ch’elli fa a Virgilio per quel che vede; e prima pone la similitudine, dicendo: E come i gru ec. La gruga34 è uno uccello che fa passaggio il verno alle parti caldo, e la state alle parti fresche: e quando volano per aere vanno in brigata et in ordine, sicchè alcuna volta mostrano una figura, et alcuna volta un’altra; quando a modo d’un V, quando a modo d’un L, quando a modo d’un I, e così dell‘altre figure, e vanno gridando al lor modo, e però aggiugne: van cantando lor lai; cioè lor grida, Facendo in aere di sè lunga riga: però che vanno in ordine l‘una dietro all‘altra, sicché mostrano varie figure come detto è. Così vidi’io venir, traendo guai. Qui aggiugne l‘ assimigliato alla similitudine; cioè in quell’ordine e così gridando suoi lamenti. Ombre; cioè anime, portate dalla detta briga; cioè da quella bufera della quale fu detto di sopra. Perch’io dissi: Maestro. Qui pone la sua dimanda; come perciò domandò Virgilio: chi son quelle Genti, che l’aura nera sì gastiga? Di sopra l’autor pose in generale li [p. 159 modifica]peccatori che in quel cerchio si ponivano35, ora pone specialmente nominandone alquanti; e però pone prima la sua domanda, appresso seguita la risposta. Et è qui da notare che l’autor finge che domanda Virgilio sempre di quelle persone, che si trovano appo li autori e fanne risponditore Virgilio; e dell’altre no: però che la sensualità l’à comprese per alcuno de’ sentimenti; in quell’altre à compreso l’intelletto e la ragione per lo leggere.

C. V — v. 52-69. In questi sei ternari lo nostro autore pone la risposta che Virgilio continuò alla sua dimanda, manifestando e nominando singularmente alquanti, e poi riducendosi alla generalità. Dice prima: La prima di color, di cui novelle Tu vuoi saper, mi disse quelli; cioè Virgilio, allotta, Fu imperadrice di molte favelle; cioè signoreggiò genti di diverse lingue. A vizio di lussuria fu sì rotta; cioè corrotta inchinandosi a essa, Che libito fe licito; cioè ogni volontà e piacere36 licenziò, in sua legge; cioè che fece legge, che ognuno si potesse congiugnere, per vincolo matrimoniale, con chiunque volesse, non facendo veruna eccezione. Per torre il biasimo in che era condotta; cioè per levare biasimo a sè, ch’avea fatto contra l’usanza delle genti sue, come appare nella istoria. Ella è Semiramis37, di cui si legge. Dice Virgilio quella, di che io parlo ch’ebbe così nome. Che succedette a Nino; nel regno, et anche in combattere et acquistare, e fu sua sposa; cioè moglie: Tenne la terra, che il Soldan corregge; cioè Babilonia. Sopra questo è da vedere la storia. Dice Paulo Orosio nel primo libro, che innanzi alla edificazione di Roma per mcccc anni, Nino re delli Assiri incominciò prima ad infestare le parti vicine per signoreggiare, e movendosi del Mare Rosso andò infino nella Scizia infestando tutte quelle gente e avvezzolli ad effusione di sangue, et a crudeltà, che prima si viveano umanamente de’ lavori della terra e di bestiame, e cinquanta anni non fe altro che combattere, et uccise il re Zoroastro de’ Battriani; cioè de’ Persi che fu trovatore dell’arte maica38; all’ultimo fu morto elli, quando racquistava la città che se gli era rebellata, per uno colpo d’una saetta. Dopo lui succedette Semiramis [p. 160 modifica]sua donna, la quale seguitò lui in combattere con li prossimi popoli, e xlɪɪ anni tenne quelle parti in guerra, non contenta de’ termini che li avea lasciato Nino suo marito; ma ancora acquistò l’Etiopia, e fe guerra all’Indi che mai non fu alcuno che facesse lor guerra, se non essa et Alessandro di Macedonia. Questa fu sì ardente in lussuria che perciò fece molti stupri et omicidi: imperò che quelli, che ella tenea un tempo, poi li uccidea: et alla fine prese uno suo figliuolo, nato d’adulterio, per marito; et allora per escusarsi, fece legge che ognuno potesse contrarre qualunque matrimonio volesse, perchè l’altre la seguitassono et ella fosse fuori di biasimo. Questa Semiramis accrebbe Babilonia e murolla di mattoni, secondo che dice Lucano, et una volta ricoverò Babilonia che si rebellava, con la treccia mezza al capo avvolta, e l’altra giù per le spalle per fretta, come era quando il messo le venne: et andata al soccorso in cotal modo e non acconcia altrimenti, la ricoverò; e però fu fatta in Babilonia una statua per lei in quell’atto, che era quando la ricoverò. L'altra è colei, che s’ancise amorosa. Ora dimostra l’altra, la quale dice che fu Dido reina di Cartagine che s’uccise per amore, come dice Virgilio nel quarto dell’Eneida. E ruppe fede al cener di Sicheo; perchè non li tenne castità come avea promesso al cener del corpo di Sicheo marito suo, come finge Virgilio. Questa fu la reina Dido di Cartagine, la qual venne di Tiro per paura di Pigmaleone suo fratello, che per avarizia del fratello, ovvero del tesoro e del regno uccise Sicheo marito di Didone; onde manifestato in visione a Didone la morte sua, la confortò che dovesse fuggire col tesoro ch’elli aveva nascoso 39, manifestatole il luogo dov’era. Ond’ella prese il corpo suo et incenerollo, e mise la cenere in uno suo vasello 40 e prese il tesoro. Con quelli cittadini che la vollono seguitare, montò in su la nave ch’era apparecchiata nel porto per altra cagione, e pervenne in Affrica, e comperò dal re Giarba tanto terreno, quanto potesse girare uno cuoio di toro, e fatto filare li peli e tagliare lo cuoio sottilmente, circondò grande parte di terreno e fece la città, che fu chiamata Cartagine da carta che significa cuoio in quella lingua, e giurò al cener di Sicheo che avea portato seco, e fattoli in onore uno tempio, e sacrificatoli come a suo ldio che mai non si mariterebbe. Ma poi per più anni, come pone Virgilio, Enea troiano che navicava 41 in Italia fu menato dalla fortuna a Cartagine, onde Dido s’innamorò di lui, e tennelo seco un pezzo, poi Enea se ne venne in Italia, ond’ella per lo dolore si uccise; e per tanto l’autore la pone in questo secondo cerchio, perchè morì per amor [p. 161 modifica]disonesto, seguitando Virgilio; ma secondo la verità non fu così: imperò che dice santo Girolamo nel primo libro che fece contra Gioviniano, che Dido fu castissima donna, et innanzi volle ardere sè medesima nella pira, et uccidersi, che maritarsi al re Giarba che la voleva per moglie, assegurando42 che Cartagine fu edificata da castissima donna, et in segno di ciò finie in grandissima castità: imperò che quando fu disfatta da’ Romani43, ch’era presa et ardea ogni cosa, la donna d’Annibale per non perdere sua castità, si gittò nel fuoco con due suoi figliuoli: e questo dice Geronimo. Ancora si trova che volendo il re Giarba, che le aveva venduto il terreno, lei per moglie, essa Dido non volle mai acconsentire, e menollo un tempo per parole: alla fine non potendolo più ingannare, perch’elli venia ad assediare Cartagine per averla, essa s’uccise acciò che non fosse cagione di male a’ suoi cittadini; e non fu mai vero che Enea capitasse a Cartagine: però che Livio n’avrebbe fatto menzione. Ancora santo Agostino nel primo libro delle Confessioni conferma questo; e però Virgilio fece molto male a dare tale infamia a sì onesta donna, per fare bella la sua poesia; e lo nostro autore Dante fece peggio a seguitarlo in questo, che credo che avesse veduto Geronimo e li altri che di ciò parlano: potrebbesi scusare; ma le scuse non sono sofficienti, però le lascio. Poi è Cleopatras lussuriosa. Cleopatra, o vuogli Cleopatras, fu moglie del re Tolomeo re d’Egitto e sua sirocchia, e fu tanto lussuriosa che per questo il marito la tenne in prigione molto tempo; ma quando Cesare venne in Egitto, ella corruppe le guardie della pregione et andò a Cesare e dormì con lui: e poi ancora dopo la morte di Cesare si stette con Marco Antonio e fu sua moglie, quando andò per fortificarsi in Egitto e venire contra ad Ottaviano. Onde sconfitto Marco Antonio in Grecia, in mare ad uno monte che si chiama Leucade, ovvero Azio, andò in Egitto, e Cleopatra li venne incontro44 per pigliare lui, come avea presi li altri; ma elli la dispregiò, onde ella per disdegno si mise due aspidi alle poppe et uccisesi. Ma Lucano dice che essendo in mare con Marco Antonio quando fu sconfitto, prese Cleopatra Ottaviano, le fe porre li aspidi alle poppe, e perchè peccò molto di lussuria, l’autore la pone in questo luogo. Elena vedi, per cui tanto reo Tempo si volse. Parla ancora Virgilio, e dice: Tu Dante, vedi Elena per cui cagione si volse tanto reo tempo, quanto fu quello che li Troiani stettono [p. 162 modifica]assediati da’ Greci, e li Greci stettono lontani dalle loro abitazioni: imperò che da x anni durò l’assedio di Troia. Questa Elena fu reina di Micene città di Grecia e fu moglie del re Menelao, la quale fu bellissima donna, e fu rapita, da Paris figliuolo del re Priamo di Troia; il quale Paris per vendicare la ingiuria stata fatta al re Priamo nella prima destruzione di Troia, nella quale fu rapita Ensiona sirocchia del re Priamo, e tenuta dal re Telamone, et ancora innamorato della bellezza d’Elena, andò in Grecia e tolsela e menolla a Troia. Onde Menelao commosse tutta la Grecia e venne con Agamennone suo fratello e con li altri regi e baroni di Grecia a vendicare la sua ingiuria et a racquistare sua donna, e pose l’assedio a Troia, e stettevi x anni; e finalmente la disfece, et acquistò Elena la quale avea lussuriato con Paris, e, poi che Paris morì, con l’altro fratello ch’ebbe nome Deifobo, secondo che pone Virgilio. e vedi il grande Achille, Che con amore al fine combatteo. Dice ancora Virgilio a Dante: Vedi ancora tra questi il grande Achille che combatteo al fine; cioè all’ultima di sua vita, con amore; cioè innamorato: e dice il grande a differenzia delli altri che ve n’erano assai chiamati Achille; ma questi era il grande a rispetto dalli altri45. Questo Achille fu re di Larissa di Grecia, sanza il quale non si sarebbe potuto vincere Troia come dicevano li oracoli delli Idii; onde Ulisse e Diomede furono mandati a cercarlo, perchè il padre Peleo, e Teti sua madre, l’aveano nascoso46 nell’isola chiamata Schiro del re Licomede, et a lui l’aveano raccomandato, perchè sapeano che s’elli andasse a Troia, dovea esservi morto. E perchè non fosse saputo, l’aveano celato sotto veste di femmina, et a re Licomede dierono a intendere che fosse femmina, sicch’elli lo tenea tra le sue figliuole tra le quali era una che si chiamava Deidamia della quale s’innamorò: e trovato ch’ebbono per sottil modo, come dice Stazio nell’Achilleide, lo menarono a Troia; e perch’elli era gagliardissimo, molti Troiani uccise, tra’ quali uccise Ettor e Troiolo figliuoli del re Priamo. E perchè nella morte d’Ettor si fe tregua, et Achille andò a vedere l’esequie che si faceano d’Ettor, vedendo Polissena sirocchia d’Ettor, la quale era bellissima, s’innamorò di lei e fecela domandare al re Priamo, e promise di non combattere più contra li Troiani, se gliela dessono per moglie. Ma essendo un di’ molti de’ suoi morti, non lo attenne47 et andò a combattere, et allora uccise Troiolo. Onde la reina Ecuba madre d’Ettor e di Troiolo, sempre cercò la morte d’Achille; onde un di’ li mandò a dire che venesse a parlamentare col re Priamo nel tempio d’Appolline, per accordarsi [p. 163 modifica]con lui del matrimonio48 di Polissena, che liela voleano dare per moglie. Et allora vi venne accompagnato con alquanti de’ suoi, e Paris allora si pose in aguato, e saettollo et ucciselo. Vedi Paris. Continua ancora Virgilio con Dante e dice: Vedi ancora con quelli Paris. Questi fu figliuolo del re Priamo, del quale è detto di sopra, che rapì Elena, e dopo la morte d’Achille fu morto in una battaglia, e poi si perdette Troia, che mentre che vivette, la difese bene; e perchè rapì Elena, però Virgilio lo nomina fra li altri. Tristano. Ancora continua Virgilio a Dante, e dice: Vedi ancora Tristano. Questo Tristano fu nipote del re Marco di Cornovaglia, et innamorossi della reina Isotta moglie del re Marco, onde il re Marco l’uccise, trovatolo un di’ in camera con la reina Isotta, e con quella medesima sua lancia ch’avea lasciata fuori mettendola per uno buco ch’era all’uscio; sì che lo ferì e della detta ferita in fine morie, benché ne vivesse alcun tempo, e la reina Isotta morì sopra di lui, secondo che dice la storia della Tavola Ritonda, e però Virgilio lo nomina con li altri. e più di mille Ombre mostrommi, e nominolle, a dito, Che amor di nostra vita dipartille. Qui finisce il parlar di Virgilio, e parla l’autore e dice: Virgilio mi disse, come detto ò di sopra, e mostrommi a dito; cioè additando ognuna, e nominommi, così parlando, più di mille ombre ch’erano partite di nostra vita per cagione d’amore; e però dice ch’amore dipartille; cioè partì loro di nostra vita; cioè di questo mondo dove noi viviamo. E qui non à alcuna allegoria.

C. V — v. 70-72. In questo ultimo ternario della prima lezione l’autore nostro mostra avere compassione a coloro che Virgilio li à nominato; cioè tutti cavalieri, e donne ch’erano reputati degni, secondo il giudicio umano, di tale dannazione. Lo quale giudicio umano procede secondo la fama, e però dice: Poscia ch’io; cioè Dante, ebbi il mio Dottore udito; cioè Virgilio, Nomar le donne antiche e’ cavalieri; de’ quali fu detto di sopra, Pietà mi vinse; cioè me Dante, e fui quasi smarrito; cioè alienato da’ sensi e dalla ragione, e dice quasi, perchè non fu al tutto. E qui è da notare secondo la lettera che nominando la ragione, che è significata per Virgilio a Dante, che significa la sensualità, le donne e i cavalieri famosi essere dannati per sì fatto peccato a che conduce la natura e la carne, pietà vinse la sensualità; cioè ch’ebbe pena49 alla pena di coloro e fu quasi alienato dalla ragione, che vuole che chi disubbidisce Iddio, sia punito. Ma pur non si smarrì, e però dice quivi50, che ben che si dolesse della dannazione di coloro, non si dolse che non volesse che fossono dannati; ma dolsesi che avrebbe voluto [p. 164 modifica]che non avessono peccato, e che non avessono meritato quella pena: chè della giustizia di Dio ciascuno dee essere contento. E moralmente intendendo di quelli del mondo, e’ bene dice che la sensualità si muove a pietà, quando la ragione li mostra che li uomini famosi e di grande affare, caggiono in sì fatta abominazione, e quasi si smarrisce dalla ragione, non dolendosi della loro pena; ma del loro difetto. Ma allora in tutto si smarrirebbe dalla ragione, se fosse dolente della pena, e perciò disse nel testo quasi smarrito. Seguita l’altra lezione.
     Io cominciai. Questa è la seconda lezione del canto, nella quale tratta l’autore di persone di nuovo tempo, de’ quali non è fama appo li autori, e dividesi questa in sette parti: però che prima la deliberazione e la licenzia piglia da Virgilio di parlare con due che vede andare insieme; nella seconda, come li chiama, avuta la licenzia, quivi: Sì tosto come il vento ec.; nella terza, come quelle due anime chiamate vengono e parlano con Dante: quivi: O animal grazioso ec.; nella quarta, come Dante fu mosso a compassione, quivi: Da ch’io intesi quell'anime offense; nella quinta, come cominciò a parlare della origine del lor peccato, quivi: Poi mi rivolsi; nella sesta pone la risposta loro, quivi: Et ella a me: Nessun ec.; nella settima et ultima pone la sua compassione conchiudendo lo canto, quivi: Mentre che l’uno ec. Divisa adunque la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale.
     Dice adunque così: Poi ch’io Dante, fui ritornato a me cominciai: O poeta; cioè Virgilio, volentieri parlerei a quelli due i quali vanno insieme, i quali paiono sì essere leggieri al vento. Allora Virgilio dandoli la licenzia, dice: Quando saranno più presso a noi51, pregali per quel disio che li mena, et elli verranno a te. E come Dante li vide piegare verso loro, li chiamò dicendo: 0 anime affannate, venite a parlare a noi, s’altri nol niega: et aggiugne una similitudine che vennono, come le colombe chiamate dal desiderio del nido con l’ale alzate e ferme; così vennono per l’aere portate dal volere, della schiera ove era Dido e li altri nominati di sopra, venendo in verso Dante e Virgilio: sì forte fu l’affettuoso chiamare di Dante. E poi che furono giunti incominciò a parlare, dicendo: 0 animale grazioso e benigno, che vai visitando per l’aere scuro, se fosse amico a noi ldio, noi pregheremmo lui della pace tua, da che tu ài pietà del nostro male; ma di quello che vuogli udire e parlare con noi, noi parleremo e udiremo, mentre che il vento ci lascia in posa come fa ora. Et aggiugne nella narrazione come fu nata da Ravenna la quale mostra per circuizione, e pone molte notabili sentenzie [p. 165 modifica]dell’amore, le quali si vedranno nel testo. Et aggiugne che quando udì ciò, fu mosso molto a compassione, e quel che rispose a Virgilio che dal pensiere lo levò. E poi si rivolse a quell’anime, e parlò con loro domandando delle circustanze del peccato, et elle risposono come si dirà nel testo. Onde elli udendo il modo, mosso a compassione considerando l’umana fragilità, cadde giù come morto; e qui finisce la sentenzia litterale. Ora è da vedere il testo.

C. V — v. 73-78. In questi due ternari l’autor nostro, ritornato in sè dalla pietà che l’avea quasi vinto, parlò a Virgilio manifestandoli lo suo desiderio, al quale Virgilio condiscende, e dalli il modo; e però questa parte à due parti, et è la seconda: Et elli a me. Dice adunque: Poi ch’io fu’ ritornato, Io; Dante, cominciai; a parlare a Virgilio, dimostrandoli lo mio desiderio, dicendo: Poeta; cioè Virgilio, volentieri Parlerei a quei due, che insieme vanno. E questo mostra Dante ch’elli avesse desiderio di parlare a’ due che vedea andare insieme, e di ciò piglia licenzia da sua52 guida; cioè Virgilio. E quivi è da notare che allegoricamente l’autore intese che volendo dire di quelli del mondo, dee pigliare deliberazione con la ragione l’uomo, se è da fare o no. Et è qui bella moralità che ci ammaestra che ci dobiamo consigliare con la ragione, innanzi che parliamo de’ fatti altrui; e convenientemente disse: Vanno insieme, perchè ànno commesso insieme una medesima colpa, però vanno insieme ad una pena. Allegoricamente s’intende di quelli del mondo, che peccando insieme vanno insieme ad una infamia. E paion sì al vento esser leggieri. Questo è per convenienzia di quello ch’à detto di sopra che sono menati dal vento in giro; e questi più che li altri, e però dice più di costoro che delli altri: però che doveano avere più fermezza nel mondo, perchè furono cognati, come si dirà di sotto. E però per conveniente pena mostra che sieno più girati, e menati dal vento; e quanto al mondo, allegoricamente quanto l’uomo è in maggior stato, tanto quando falla è più diffamato. Et elli a me. Qui pone la risposta di Virgilio, dicendo: Et elli; cioè Virgilio, disse, s’intende, a me; Dante, Vedrai, quando saranno; quelli due, Più presso a noi; e tu allor li priega Per quel disio; cioè desiderio, che i mena; cioè, che mena loro, e quei verranno; cioè a noi. Altro testo dice: che li mena; cioè che mena loro, e verranno; s’intende a noi. Allegoricamente finge l’autore che vuole Virgilio che Dante li chiami e sappi da loro domandando, perchè non sono persone per li autori nominate; et notantemente finge che Virgilio l’insegni che li prieghi per l’amore che li mena: però che quella medesima affezione dura nelli dannati, nella quale sono morti, [p. 166 modifica]secondo Virgilio nel sesto dell’Eneida; ma secondo la sacra Teologia tra li dannati est summum odium, come tra li beati è somma carità. Ma finge l’autore per mostrare che sono ostinati nel peccato, et allegoricamente per quelli del mondo. Et è notabile che ciascuno per quello che li piace, pregato, s’inchina più a compiacere che se fosse pregato per altro. E questo veggiamo che osservano li poeti inducendo li giuri, e li scongiuri farsi sempre per quelle cose, che l’uomo più ama.

C. V — v. 79-87. In questi tre ternari lo nostro autore dimostra come, avuta licenzia di Virgilio, elli chiamò quelli due de’ quali disse di sopra, ch’avea desiderio di parlare con loro, e fa tre cose: chè prima pone come li chiama; nella seconda pone la similitudine del loro venire alle colombe, quivi: Quali colombe ec.; nella terza adatta la similitudine, quivi: Cotali uscir ec. Dice adunque prima: Si tosto come il vento; che menava quelle anime, a noi; cioè a me Dante, e Virgilio, li piega; cioè quelli due de’ quali disse di sopra, Mossi la voce; io Dante, dicendo: 0 anime affannate. Erano53 della pena che sosteneano, secondo la fìzione dell’autore, la qual pena fu dichiarata di sopra. Venite a noi parlar, s’altri noi niega; cioè se non v’è vietato. Quali colombe, dal disio; cioè dal desiderio de’ figliuoli che ànno lasciati nel nido, chiamate. Questo disio si pone per lo istinto naturale. Con l’ale alzate e ferme. Veggiamo spesse volte le colombe volare sanza battere alie. al dolce nido Vegnon per l’aere; dal voler portate. Nelli animali sanza ragione, non è volontà propriamente54; ma ponsi quivi la volontà per lo istinto della natura. Cotali uscir; quelli due ch’io chiamai, della schiera, ov’è Dido; cioè nella quale era Dido, della quale fu detto di sopra, cap. v. A noi venendo per l’aer maligno; che era in quel cerchio secondo. Si forte fu l’affettuoso grido; col quale io li chiamai. Quasi dica: Sì grande affetto mostrai nel forte chiamare. E qui non à altra esposizione.

C. V — v. 88-108. In questi sette ternari l’autore induce a parlare l’uno di quelli due spiriti chiamati, e fa due cose, perchè prima pone lo acquistamento della benivolenzia che finge l’autore che faccia nello esordio quella che parla; nella seconda pone la sua narrazione dopo l’esordio, quivi: Siede la terra ec. Dice adunque prima nello esordio: 0 animai grazioso e benigno. Qui parla a Dante uno di quelli due spiriti che furono chiamati da lui, dicendo lui essere animale grazioso, però55 sanza grazia non era che elli andasse [p. 167 modifica]così vedendo le pene de’ dannati; e benigno dice intanto, che mostrò inverso loro benignità, in quanto disse: 0 anime affannate, et aggiunse: Venite a noi parlar, s’altri nol niega. Che visitando vai per l’aer perso; cioè nero, e questa è una delle pene che fu toccata di sopra: e chi; cioè vai visitando? Noi, che tignemmo il mondo di sanguigno; perchè è da intendere che furono morti e sparsono lo loro sangue in terra, e così tinsono il mondo di sangue: però che tutti coloro che nominò di sopra in quella schiera, erano morti per amor illicito. Se fosse amico il Re dell’universo; cioè Idio, che è re di tutto il mondo, e di tutti i secoli, lo quale non era amico loro, perch’erano dannati, Noi pregheremmo lui della tua pace; cioè della tua salute: imperò ch’allora è l’uomo in pace, quando per morte è uscito delle turbolenzie di questo mondo, e venuto alla salute eterna. Poi ch’ài pietà del nostro mal perverso; cioè poi che veggiamo ch’ài pietà del nostro amare, male perverso: perciò che lo amore ch’era licito pervertirono in non licito; e parla qui per sè e per lo compagno. Di quel ch’udire, e che parlar vi piace. Notamente disse qui in più, e di sopra disse in uno, a dimostrare che la pietà venia pur da la sensualità importante per Dante; ma udire e parlare procede dalla ragione importata per Virgilio, et ancora dalla sensualità importata per Dante, e però dice in plurali vi piace. Noi udiremo, e parleremo a vui, Mentre che il vento, come fa, si tace. Dice di sè, noi, perch’erano due, e parleremo a vui, ancora perch’erano due; Virgilio e Dante, e questo sarà tosto, o vero, tanto quanto il vento si lasciarà stare. E qui si può movere dubbio; se di sopra disse: La bufera infernale, che mai non resta ec., qui dice si tace, pare che si contrari a sè medesimo. A che si può rispondere; cioè che quel vento mai non resta per rispetto di tutti quelli dannati; ma per respetto di questi due, bene restava, perchè aveano licenzia di parlare con Dante; e però molti testi ànno, ci tace; cioè a noi due. Siede la terra. Qui incomincia la narrazione, e però doviamo sapere innanzi ch’andiamo più oltre, che l’autore finge che parla qui una di queste due anime; cioè la femmina ch’ebbe nome Francesca, come appare di sotto nel testo. E questa fu figliuola di messer Guido di Polenta da Ravenna, signor di Ravenna, e fu maritata a Lanciotto figliuolo di messer Malatesta da Rimino. Questa era bellissima del suo corpo; il marito era sozzissimo, et era sciancato, e questo Lanciotto avea uno suo fratello che avea nome Paolo, ch’era bellissimo giovane, onde s’innamorarono insieme Francesca e Paolo. Onde dice che stando un di’ soli in una camera, sicuramente come cognati, e leggendo come Lancellotto s’innamorò della reina Ginevra, e come per mezzo di messer Galeotto si congiunsono insieme; Paolo acceso [p. 168 modifica]d’amore baciò Francesca e cognobbonsi56 carnalmente, e dopo quello venne tanto palese il loro amore et usanza insieme, che venne alli orecchi di Lanciotto: onde apostatili e trovatili un di’ insieme, confisse l’uno insieme con l’altro, con uno stocco, sì che amendue insieme morirono. E però finge l’autore che vanno insieme ad una pena: però che furono insieme ad uno peccato, et ad una morte, e però dice: Siede la terra; cioè Ravenna, dove nata fui; io Francesca, Su la marina, dove il Po discende; cioè in mare. Il Po è uno fiume di Lombardia, che va in Romagna, et a Ravenna entra in mare, et esce del monte Appennino, et in esso entrano molti altri fiumi di Lombardia. Per aver pace co’ seguaci sui; cioè a ciò che si riposi elli e tutti li altri fiumi ch’entrano in lui: imperò che tutte le acque corrono, infino che sono in mare, e poi che sono in mare si riposano; e però s’intende con li seguaci suoi; cioè elli e li suoi seguaci. Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende. Questa sentenzia è vera; cioè che l’animo gentile; cioè virtuoso che abbi abito eligente, non può fare che non ami la cosa bella. Ancora l’autore nel processo del libro cap. xvıı Purg. dice: Nè Creator, nè creatura mai fu sanza amore; e questo dice perchè l’animo ragionevole non può essere sanza amore; ma quando questo amore passa il modo, allora si parte dalla virtù, et è vizio; ma quando sta col modo, è virtù. Prese costui; e dimostra Paolo che era con lei, della bella persona; intende della sua persona, che fu bella, Che mi fu tolta. Questo dice perchè fu uccisa, come appare di sopra, e il modo ancor m’offende; cioè il modo di questo amore, che fu disordinato e smodato. Parla qui l’autore non propriamente: imperò che lo smodamento propiamente57 non si può chiamare modo; ma dice, come si dice ordine lo disordine delle cose estraordinarie. Ancora offende me Francesca; prima m’offese nel mondo58: chè ne perdei la persona e l’onestà59, et ancora m’offende: imperciò che ora ne perdo la vita spirituale, in quanto per questo sono dannata. Altrimenti si può intendere più leggiermente; cioè il modo dell’amore, che prese Paolo della mia bella persona, fu tale, che m’offese nel mondo; cioè m’inaverò, e ferimmi il cuore, e così ancora m’offende; cioè così m’inavera, e ferisce ora che l’amo fortemente: e questo conferma la sentenzia che seguita. [p. 169 modifica]Potrebbesi ancora referire questo modo a quel che dice che mi fu tolta; cioè il modo con chi60 mi fu tolta la persona m’offese quando mori’: chè fui uccisa; la qual cosa mi dispiacque forte, et ancora mi dispiace, o vero perchè allora ne fui diffamata per lo mondo, et ancora al presente ne sono diffamata. Seguita: Amor, che a null’amato amar perdona; cioè che l’amore il quale constrigne sempre chiunque è amato, ad amare, e così non perdona a chi è amato, amare: impossibile è che chi è amato non amai colui che ama lui, in quanto elli lo sappia. Mi prese; cioè prese me Francesca, del costui; cioè di Paolo, piacer; cioè a me Francesca, sì forte; cioè si fortemente, Che, come vedi; tu Dante, ancor non ’abbandona: imperò che vo insieme con lui: chè se questo amor m’avesse abbandonato, non anderei con lui. E questo è secondo la fizione dell’autore, non secondo la verità della Teologia, come detto fu di sopra. Amor; cioè avvicendevole che elli ebbe a me, et io a lui, condusse noi; cioè Paolo, e Francesca, ad una morte: imperò che, come detto è di sopra, Lanciotto trovatili insieme, insieme li uccise. Caina attende chi in vita ci spense; cioè quel luogo ove sono i traditori del propio sangue, che si chiama Caina, del quale si dirà nell’ultimo di questo poema, attende; cioè aspetta, chi ci spense in vita; cioè Lanciotto che uccise Paolo suo fratello e me, a modo di traditore. Queste parole da lor ci fur porte; cioè a me Dante, et a Virgilio da Francesca parlante per sè e per Paolo. E questa parte non à allegoria

C. V — v. 109-114. In questi due ternari dimostra l’autore come si mosse a compassione, udito lo parlamento de’ detti spiriti; onde dice: Da ch’io; cioè poi ch’io Dante, intesi quell’anime offense; dal peccato della lussuria, o vero dell’uccisione, o vero dalla infamia, come è detto di sopra, Chinai ’l viso; io Dante, e tanto il tenni basso; per dolore e compassione ch’ebbe al peccato loro, che fu cagione de’ loro martìri, e tormenti, incominciato da onesto amore e licito, e per fragilità umana caduto in disonesto, Fin che il Poeta; cioè Virgilio, mi disse: Che pense? Qui può essere allegoria, che la sensualità significata per Dante per le cose mondane si muove et attristasi; ma la ragione significata per Virgilio la sveglia, a ciò che di quel vano pensiere esca. Dice adunque: Che ài tu Dante, o vero, che pensi, che stai col capo chinato, che è segno di pensamento? Quand’io; cioè Dante, risposi; a Virgilio, cominciai: O lasso; me Dante, che è parlare di dolore e compassione. E possiamo allegoricamente intendere che l’autore abbi compassione all’umana natura che cominciando spesse volte con grande virtù, cade per sua [p. 170 modifica]fragilità61 in vizio, e però seguita: Quanti dolci pensier, quanto disio; cioè desiderio licito et onesto, o vogliamo intendere mondanamente, quanti dolci pensieri avuti innanzi, e quanto desiderio avuto tra l’uno e l’altro, Menò costoro; cioè Francesca e Paolo: al doloroso passo; dell’amore onesto al disonesto, e dalla fama all’infamia; e dalla vita alla morte! Del quale passo da dolerne è fortemente, pensando come l’uomo cade agevolmente dalla virtù al vizio, per la debilità umana. E questo non à altra allegoria; ma è molto morale e notabile.

C. V — v. 115-120. In questi due ternari parla l’autore a quelli due da’ quali ebbe risposta, e de’ quali parlò di sopra con Virgilio, dicendo: Poi mi rivolsi a loro; cioè a questi spiriti io Dante, poi ch’io ebbi risposto a Virgilio, e parlai io; Dante, E cominciai: Francesca, i tuoi martiri. Francesca era il nome di quella ch’avea parlato di sopra. A lagrimar mi fanno tristo e pio; cioè mi fanno tanto tristo, e pietoso, che mi conducono a lagrimare. Ma dimmi: Al tempo de’ dolci sospiri. Chiamò il tempo de’ dolci sospiri il tempo del loro innamoramento: sospiri qui si piglia; cioè desidèri, perchè sospiro viene da desiderio perchè il cuore attediato dal suo desiderio sospira; dice dolci perchè paiono: chè al passionato par dolce la sua passione, benché non sia. A che; cioè a che fine, e come; cioè e per che modo, concedette Amore; che è buono in quanto non passa il modo, Che conosceste i dubbiosi disiri; cioè che veniste a tanto, che l’uno conobbe il desiderio dell’altro; cioè che l’uno avea dubbio di manifestare all’altro? Molti innamorati trarrebbono62 a fine il loro desiderio, se conoscessono piacere alla femmina quello che piace all’uomo, et è converso; ma la dubitanza fa molti non avere ardimento, pensando: Forse non piace all’altra parte quello che piace a me: chè se l’uno sapesse dell’altro, ciascuno porrebbe giù la vergogna, se vedesse essere concordia nelli pensieri: imperò che quando l’uomo ama, benché si vegghi amare, porta dubbio se l’amore è nella persona amante, con quel desiderio che è in lui; ma quando si manifestano li desidèri, allora si conoscono. E qui non à altra esposizione.

C. V — v. 121-138. In questi sei ternari risponde Francesca alla domanda di Dante, e mostrasi l’affetto e l’appetito del presente secolo; cioè l’affetto di sempre vivere nel peccato, che sempre dura quando con quello si muore; et è una delle figliuole della lussuria, come è mostrato di sopra. Dice adunque così: Et ella; cioè Francesca, a me; Dante, rispose: Nessun maggior dolore, Che [p. 171 modifica]ricordarsi del tempo felice Nella miseria. Reputa questa vita felice la quale non è, benché per rispetto de’ dannati assai si può dire felice: questa è sentenzia di Boezio nel secondo libro della Filosofica Consolazione. E dice l’autore: e ciò sa il tuo Dottore. Questo dice perchè li dannati stanno con quello appetito del peccato col quale morirono, et ancora vorrebbono essere nella vita presente, e starci sempre, e sempre peccare, perchè reputano quella felicità; e quando sono morti si veggono privati di quella, e reputansi per quello miseri oltre alla privazione della gloria. Perchè Virgilio era morto com’ella; cioè Francesca, e ricordavasi della vita mondana che reputava felice, però dice: e ciò sa il tuo Dottore; cioè quel ch’ io ò detto. Due gravissime pene oltre all’ altre ànno li dannati; la prima che si veggono aver perduto il sommo bene, il quale sempre desiderano, e non ànno speranza di mai averlo; la seconda che ellino si veggono aver perduto quello che nel mondo soprapposono et amarono più che il sommo bene. Ma se a conoscer la prima radice Del nostro mal tu ài cotanto affetto. Continua il parlar Francesca, e mostra a Dante: Benché sia dolore a ricordarmi del tempo felice, se tu ài cotanto desiderio di conoscere la prima radice; cioè lo primo motivo del nostro male (qui intende del male che patiscono ora, e di quel che commisono nel mondo, e sostennono; lo quale non possono non volere, perchè sono ostinati) Farò come colui che piange, e dice: cioè, dirò piangendo, non per contrizione del peccato; ma perchè ò perduto quello che reputava felicità; cioè poter peccare, come innanzi alla morte. Noi leggiavamo un giorno per diletto; cioè io Francesca, e Paolo, a nostro sollazzo e diletto. E qui è da notare che le lezioni oscene e disoneste si deono schifare, perchè inducono l’uomo a peccare. Di Lancellotto, come amor lo strinse. Qui è da notare la storia di Lancellotto, e della reina Ginevra i quali s’innamorarono insieme, e per mezzo di messer Galeotto ebbono congiunzione carnale insieme, come dicono i cantari, e perchè è istoria nota la passo, e lasciola alla investigazione de’ leggitori. Soli eravamo. Qui è da notare che donne et uomini non istanno mai bene soli, quantunque vi sia parentado, perchè il parentado cessa lo sospetto, et allora si fanno le cose più a sicurtà; e però aggiugne: e sanza alcun sospetto; altrimente si può intendere che non aveano sospetto d’essere il di’ compresi da alcuno, altrimenti non aveano sospetto l’uno dell’altro di tale amore: chè benché s’amassono, non v’ era sospetto di disordinato amore63, non aveva [p. 172 modifica]ancora veduto alcuno segno, perchè sospicasse che fosse nell’altro. Per più fiate li occhi ci sospinse; cioè a mirare l’uno l’altro, Quella lettura; del libro di Lancellotto, e scolorocci il viso; perchè divennimo pallidi, perchè sopra giunse la paura, che è una delle compagne della lussuria: imperò che ebbono paura del peccato, appresso d’essere compresi, appresso della infamia, per le quali cose si ratteneano. Ma solo un punto fu quel che ci vinse. Ora dichiara il punto che fece porre giù la paura. Quando leggemmo il disiato riso Esser baciato da cotanto amante; cioè il desiderato allegro volto della reina Ginevra, da Lancellotto. Lo volto ridente non può essere se non allegro, o vogliamo intendere la bocca che più dimostra il riso, che alcun’altra parte del volto: però che di sotto dice: La bocca mi baciò ec. Questi, che mai da me non fia diviso; cioè Paolo. Che questo Paolo sia congiunto con lei, e mai da lei non si debba dividere, questa è fizione poetica, et à in se questa verità; che sempre Francesca avea nel desiderio Paolo, come detto è di sopra, e non avea speranza d’averlo, sicchè lo desiderio fia tormento. La bocca mi baciò tutto tremante. Ecco lo segno della paura. Galeotto fu il libro, e chi lo scrisse. Qui fa comparazione, che come tra Lancellotto e la reina Ginevra fu mezzano messer Galeotto; così tra Paolo e Francesca fu lo libro che leggevano, e lo scrittore di quello. Quel giorno più non vi leggemmo avante; cioè più innanzi; e questo non à allegoria. Questo parlamento è fìzione poetica, e per questa fizione poetica intende che l’opera che fece Francesca con Paolo, divolgata per la fama, li manifesta ciò che è detto.

C. V — v. 139-142. In questo ternario et uno verso pone l’autore la conclusione del canto, e la compassione ch’ ebbe a’ sopra detti, dicendo: Mentre che l’ uno spirto questo disse; che detto fu di sopra; cioè Francesca, L’altro piangeva; cioè Paolo, sì, che da pietade Io venni meno; cioè io Dante, sì, come io morisse; io Dante, E caddi, come corpo morto cade. Fa comparazione del tramortire al morire, dal quale non à differenzia 64 se non che il tramortire dura a tempo, il morire dura sempre e mai non si ritorna; ma in quello stante è simile l’uno all’altro. E qui finisce il canto quinto.

Note

  1. C. M. dove finge
  2. C. M. che vi trovò antiche.
  3. C. M. uno dimonio giudice
  4. C. M. tante volte, quanti gradi vuole
  5. C. M. guaiulare
  6. C. M. infestati
  7. C. M. guailino
  8. C. M. imperò che ànno
  9. C. M. sospiri carnali per lo desiderio;
  10. C. M. precipitandolo
  11. C. M. cavalieri del re,
  12. C. M. ali
  13. C. M. l’anima che va a perdizione,
  14. in della quale. Qui l’in è un accorciamento dell’intus latino ed equivale a dentro della quale, e siffatto modo vive tuttora in sul labbro del popolo toscano. Anzi pare che una tale particella mostri in maniera molto spiccata il peccatore avvolto nella iniquità, donde non può liberarsi. E.
  15. C. M. sono dannate o vero condannate
  16. C. M. de’ peccati, dicono
  17. Medesimo è qui posto indeclinabile alla guisa de’ Latini. E.
  18. C. M. stroppiare
  19. Grida se non chi parla contra ragione grida se non chi parla con ragione leggesi nel nostro codice; e nel M. con ira: ragione è che rade volte grida chi parla con ragione. E.
  20. C. M. E perchè non s’ intenda
  21. C. M. che siano precipitati.
  22. Enno voce ancora vivente in Toscana, e risultante dallo solita aggiunta del no alla terza singolare, nella quale fu poi raddoppiato l’n. E.
  23. C. M. cioè quella bufera,
  24. C. M. da minori ad minori, e però
  25. Da — spirituale tanto — fino a — si commette — abbiamo emendato col Cod. M. E.
  26. Qui è supposta la particella indicante il termine di forma o il cambio; cioè a tanto, per tanto prezzo. E.
  27. Grammatica appo i nostri antichi sonava lo stesso che lingua latina; e grammatico, letterato, che sa il latino. E.
  28. C. M. assopita
  29. C. M. Niuno peccato assorbe tanto
  30. C. M. fia chiaro
  31. Dove il Cod. M. à luogo, il nostro Codice legge parte che ci siamo permessi, di cambiare colla scorta dell’edizione di Vindelino, Nidobeato, del Landino ed altre. E.
  32. C. M. la terza pena che
  33. insieme a l’adattazione
  34. C. M. La gruva
  35. Il Cod. M. legge — punivano — donde si vede come presso degli antichi era usitato lo scambio delle due vocali u ed o. Il medesimo troviamo avverato negli scrittori del Lazio, secondo Varrone e Quintiliano. E.
  36. C. M. piacere licito: — forse licitò in senso di far licito. E.
  37. Semiramis. Presso gli antichi i nomi propri latini s’incontrano spesso tali quali vengono dati dalla lingua madre. Così abbiamo Cato, Venus e simili. E.
  38. C. M. dell’arte magica. Noi abbiamo lasciato maica, siccome legge il nostro codice: perocchè non è nuova la fognatura anche del g nei padri nostri e nella parlatura dei Toscani. Nel Canto xxvii dell’Inferno trovasi anche loico. Così dicesi reina e simiglianti. E.
  39. C. M. avea appiattato, manifestato il luogo
  40. C. M. in uno vagello
  41. C. M. navicava per mare
  42. assegurando, assecurando. Gli antichi solevano mutare facilmente il c in g, ed anche oggi non si disdice un tale scambio, purché sia fatto con una certa naturalezza. E non torna lo stesso dire ago ed aco, lacrima e lagrima, consagrare e consacrare ec.? E.
  43. C. M. per li Romani,
  44. C. M. incontro adornata per
  45. C. M. delli altri.
  46. C. M. appiattato
  47. C. M. non l’attenne la promessa
  48. del coniugio
  49. C. M. ebbe compassione alla pena
  50. C. M. dice quasi,
  51. C. M. tu allora li prega
  52. C. M. dalla sua
  53. C. M. Affannate erano
  54. Anche dalle parole del nostro Commentatore si vede la comune punteggiatura del testo sbagliata, perchè dal voler portate appartiene ai due chiamati dal Poeta, come è bene chiarito nella sentenza letterale. E.
  55. C. M. però che sanza grazia
  56. Cognobbonsi, ora conobbonsi o conobbersi; ma in antico tali specie di latinismi venivano più frequenti. E.
  57. Gli antichi per una certa liscezza di lingua fognavano l’r in alcune parole, che oggi pure suonano così in Toscana, dove è frequentissimo propio, propiamente ec. E.
  58. Il Codice Gradonico, nella Gambalunghiana, legge - v. 102. Che mi fu tolta e ’l mondo ancor m’offende
  59. C. M. ne perdei l’onestà e poi la vita corporale, et ancora
  60. C. M. con che. — Il nostro Codice ne dà- con chi — e così abbiamo lasciato, perchè gli antichi usavano talora chi come relativo. E.
  61. Da - con grande virtù - sino in vizio - è racconciato col Cod. M. E.
  62. Altrimenti - arebbono a fine
  63. C. M. di disordinato amore, cioè l’uno dell’altro; chè benchè ciascun sapesse in se lo disordinato amore, non avea ancora veduto segno niuno, perchè
  64. C. M. a tempo e poi ritorna l’uomo in vita; ma il morire
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