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184 | i n f e r n o vi. | [v. 40-48] |
Virgilio et io, passavam su per l’ombre; cioè l’anime, che adona; cioè fa stare giù e doma, La greve pioggia, dell’acqua tinta, della grandine e della neve, della quale fu detto di sopra, e ponevam le piante; de’ piedi, cioè Virgilio, e io Dante, Sopra lor vanità; cioè sopra quell’anime che pareano esser corporee, e non erano se non d’aereo corpo, che è visibile, e non palpabile, come si dirà di sotto nella seconda cantica; e però dice: Sopra lor vanità. Vanità è quivi: la cosa pare e non è. che par persona. Dichiarato è per quel che è detto, che parer persona, è parer aver corpo: imperò che persona si dice cosa che per sè suona, e niuna cosa1 può sonare se non corporea; e però quest’anime pareano persone, perchè aveano corpo aereo, nel quale parlavano, rideano e piangeano; ma non si poteano palpare, come è detto. Elle; cioè le sopraddette anime, giacean per terra tutte quante; cioè tutte stavano a giacere, Fuor d’una; cioè salvo ch’un’anima, ch’a seder si levò, ratto; cioè tosto, Ch’ella ci vide passarsi davante; cioè quando vide me, e Virgilio passarsi dinanzi. In questi due ternari è bella allegoria: imperò che Dante intende di quelli del mondo, benchè litteralmente dica di quelli dell’inferno, volendo significare che li golosi che sono nel mondo giacciono tutti per terra, considerando la loro intenzione che non è, se non nelle cose terrene, e sono adonati dalla grave pioggia; cioè inchinati a stare giù dalla golosità. E la ragione significata per Virgilio, e la sensualità significata per Dante che in ciò non s’avviluppa, passa sopra loro per eccellenzia di vita, e pone le piante, scalpitando la loro vile condizione e dispregiando, sopra la vanità di tali peccatori: però che la golosità è grande vanità, e lo goloso pare persona; cioè uomo, e non è: imperò ch’egli è come bestia. Et in quanto dice che tutte giacciono per terra, intende quanto alla viltà del peccato; in quanto ne eccetta una che si levò a sedere quando li vide, vuole significare che alcuna volta il goloso vedendo dinanzi a sè li virtuosi, riconosce il suo vizio, et allora si dice levare a sedere, riconoscendo sè degno di tal pena, come finge Dante che facesse quell’anima.
C. VI - v. 40-48. In questi tre ternari l’autor nostro fa tre cose: imperò che prima pone quello che li disse l’anima di che à fatto menzione di sopra; nella seconda pone la risposta sua; nella terza pone un’altra sua domanda. La seconda è quivi: Et io a lei. La terza, quivi: Ma dimmi ec. Dice adunque, che quell’anima della quale à detto di sopra, quando li vide disse così: O tu, che se’ per questo inferno tratto; cioè, o Dante, che se’ tratto per questo inferno da altrui; cioè Virgilio, Mi disse; cioè quell’anima a me Dante, ri-
- ↑ C. M. niuna cosa per sè può sonare se non è corporea;