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[v. 77-84] | c o m m e n t o | 189 |
nel testo: chè costui fu figliuolo del re Federigo. Alte terrà lungo tempo le fronti; cioè che starà lungo tempo quella parte delli Neri, Tenendo l’altra; cioè la parte de’ Bianchi, sotto gravi pesi; cioè facendo molte gravezze, Come che di ciò pianga e che n’adonti. Quasi dica: Benchè tu Dante ne pianghi, e n’abbi onta e dispetto1. Giusti son due. Risponde qui alla seconda domanda, dicendo quali fossono questi due. Disse frate Guido del Carmino2, nello scritto che fe sopra li 27 canti della prima cantica, che questi due erano Dante, e messer Guido Cavalcanti. e non vi sono intesi; cioè non era dato loro luogo3. Superbia, invidia, et avarizia sono Le tre faville. Favilla è reliquia del fuoco, onde si ripara, et accende il fuoco, soffiando e ponendovi le cose aride che li dieno nutrimento; così li sopradetti vizi sono le radici e prime cagioni, ch’ànno i cuori accesi; dell’un cittadino contra l’altro, e dell’una parte contra all’altra. Qui risponde al terzo domando dicendo: Che la cagione della discordia sono questi tre peccati, come tre faville ch’ànno accesi i cuori ad ira et odio, l’uno contro l’altro. La superbia per esaltazione di sè, fa l’uomo cercare depressione del prossimo suo; la invidia solamente, per non vedere ad altri meglio di sè; l’avarizia, per potere usurpare quello del prossimo, e quello del comune. Qui pose fine al lacrimabil sono; cioè qui finì il suo dire, ch’era induttivo di lagrime, a me Dante. E qui è da notare che, benchè l’autore induca Ciacco a predire queste cose, sì come persona ch’era parlatore: imperò che i golosi sono parabolani4, e massimamente Ciacco fu nel tempo suo, l’autore si dee intendere che sia quelli che predice, benchè secondo la verità non predisse. Imperò che queste cose erano state in quel tempo, ch’elli penò a fare questo canto; ma non erano ancora state la notte nell’anno mccc, che finge ch’avesse questa visione, della quale fu detto di sopra; e però parendo che dica cose future, dice cose ch’erano state, quando questo scrisse.
C. VI - v. 77-84. In questi due versi, e due ternari l’autore pone la domanda ch’elli fece ancora a Ciacco dicendo: Et io a lui; cioè io Dante dissi a lui Ciacco: Ancor vo’; cioè voglio, che m’insegni; cioè a me Dante, E che di più parlar mi facci dono; e così benignamente lo induce a rispondere. Farinata e il Tegghiaio ec. Qui addomanda l’autor due cose; prima, del luogo dove sono questi due
- ↑ Altrimenti - Quasi dica: Benchè se ne doglia e che n’abbi dispetto.
- ↑ Questo frate Guido conosciuto ancora col nome di frate Guido da Pisa compilò il prezioso libretto - I Fatti d’Enea -, la cui lettura non si può mai raccomandare a bastanza. E.
- ↑ C. M. cioè non è dato loro fede, nè non ànno luogo.
- ↑ C. M. parabolari,