Canti (Aleardi)/Il Monte Circello

Il Monte Circello

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Le prime storie Accanto a Roma
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IL MONTE CIRCELLO.

CANTO.

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PONGO SUL SEPOLCRO

DI

QUESTO CANTO

CHE VIVENDO EBBE CARO.

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CANTO.

     Alfine il tormentato aere si calma,
E in un rimoto lampeggío dilegua
La congiura dei nembi. Irrequïeto
Tergendo de la molle ala le piume,
Scuote i fogliami che gli fêro ombrello
L’augelletto, e giocondo vola via:
Manda il ramo una stilla, e par che pianga
Dell’ospite cantor la dipartita.
Nuvole d’oro di fugaci insetti,
Nati il mattino e al vespero già vecchi,
Quasi vispa e sottil polvere alata
Riedono ai balli vorticosi; e il capo
Mortificato dal flagel dei venti
Rïalzando, le candide ninfee
Tornan regine de la lor palude.
L’aura che novamente s’inzaffira,
Odorosa pei dittami percossi
E dai lavacri turbinosi astersa,
Ne le purpuree lontananze al guardo
Ogni rimoto päesel consente.
È quell’ora gentil, che rassomiglia

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Ad un bacio di pace; a quel soave
Bacio di pace, che talor ponesti
Sul mio fronte sdegnoso, Itala mia.

     Questo speco lasciam, che ne protesse
Da la súbita pioggia, e del Circello1
Or meco ascendi su la nuda vetta,
Là, da recenti folgori solcata.

     Addio, nata dal sole e da la bionda2
Ocëanide! simbolo vezzoso
Di ver tremendi, addio, sarmata Circe,
Adorabile e rea fascinatrice.
Più non germoglia su le tue scogliere
L’argentina alberella, onde spiccavi
Le magiche vermene: e da la pietra
Litorana sparîr le portentose
Cifre negli aurei plenilunî incise
Tra una cerchia di fatüe fiammelle,
Onde i gorghi profondi e le vaganti
Rëíne de lo spazio interrogavi
Lontanissime stelle; e scongiurate
Da la virtù di quelle cifre arcane
Con un balen ti rispondean dal cielo.
Dal tuo colle d’esilio i scellerati
Fiori sparîro, e i pòllini maligni
Che fuggendo rapivi a le montagne
De la tua Colco di veleni ricca
E di tragedie; donde poi stillavi
L’egre bevande di virtù nimiche,
Che imperituro meritâro un carme
Quando assopîr la regia Itaca volpe:

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Sparîr le porte di piropo; gli ampi
Di gemme tempestati appartamenti,
E l’alte sale di cristallo, ov’era
Dal riflesso fedel centuplicata
Di tue convulse voluttà la scena.
Ogn’incanto svanì, tranne quest’uno
Paradiso di terre e di marine
Che si nomina Italia, e malïardo
Vince il desío d’ogni pupilla umana.

     Ieri su la raccolta ora de’ vespri
Del Circello volgendo a le nembose
Cime lo sguardo, vidi il laureato
Fantasima d’un veglio ire baciando
Le antiche are del sol, qual chi commosso
Torna a dimore per ricordi care.
Di rapito era il volto; era l’intonsa
Canizie cinta da la benda greca,
Era di poveretto il vestimento.
Ei procedea, come fa il cieco; innanzi
Tentando l’aura con un’arpa argiva,
Che luminose avea le corde, e il suono
Pari a quell’arpe, onde si udîro, a giorni
Ben divisi da noi, soavemente
Di Lipari i giardini armonizzati,
E di musica piene eran le brezze
Che gonfiavan la vela ai pescadori.
Com’ei s’assise in faccia a la marina,
Toccò le corde, e per virtude arcana
Visibilmente uscivano le note
In mille forme di scintille d’oro
Che volando salieno ai firmamenti.
Lo riconobbi tosto. Era l’Antico

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Che alla Terra narrò l’ira d’Achille
E il generoso Prïamide avvinto
A la biga selvaggia e strascinato
Ne la fuga dei tessali cavalli
Per i funebri campi invan difesi:
Quei che sedè sull’errabonda prua
Dell’Itaco a ridirne i fortunosi
Veleggiamenti, e le vendette e il senno;
Che nei silenzi de la giovin terra
Fu solitario imperador del canto;
Cui fu spento il poter de la pupilla,
Forse perchè da le superbe altezze,
Dove il genio si leva, avea mirato
In troppo audace vicinanza Iddio.
Surse quel Greco, e la serena fronte
Reclinò sull’abisso, e con l’acuto
Fischio de’ venti, e col muggir dell’onde
Parve la glorïosa arpa accordasse:
Poi da le labbra gli sgorgaron inni
Inconcessi ai mortali; ed ogni sua
Malinconica nota era pöema:
Ma questi sol de lo ispirato carme
A me l’invidiosa aura assentiva
Nobili accenti:3
                                   “Vaghe anime umane,
Povere navicelle avventurose
Che navigate su l’arcano e amaro
Oceano di speranze e di desiri
Che appellan vita; oh! non vi punga mai
Cupidità di perigliarvi in questo
Paradiso di Circe ammalïate.
È voluttade un pauroso scoglio
Fascinatore, a cui naufraghe vanno

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Le più ferventi creature e belle;
Nè le costiere sicule, o le cento
Isole illustri che l’Egeo flagella,
Han più torbido mare e più sinistro
Di quel del core, allor che la tempesta
Rugge dei sensi a togliere le ingenue
Serenitadi; e l’intelletto langue;
E dall’anima vinta esce la belva
Crudele, insazïabile, codarda:
Onde poscia del solo oro la turpe
Onnipotenza; e su le tombe l’atea
Irrisïone a la seconda vita:
Onde l’ignavia cittadina, e il vile
Compatimento d’ogni rea catena;
E afflitta la virtude; e dei gagliardi
Le congiure impotenti, ed incompresa
Del pöeta la franca alma e la bile.”

     Non trepidare, Itala mia; da quelle
Vette di pietra l’incantesmo omai
È sparito. Sparì quel re mendico,
La cui stracciata tunica valea
Cento stemmate porpore: non altro
Resta di lui, che un ramoscel d’alloro,
Surto improvviso là dov’ei sedea,
E quell’allôr si curverà in corona
Quando in Italia sfolgori un pöeta.

     Vieni, allegrezza mia. Lassù di questa
Nobile terra e del tuo ciel nativo
Favelleremo, e in un pensier rapite,
Quali due frecce rapide ad un modo
Saliranno le nostre anime a Dio,

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Come nel giorno che ne vinse amore.
Vedi là quella valle interminata
Che lungo la toscana onda si spiega,
Quasi tappeto di smeraldi adorno,
Che de le molli deità marine
L’orma attenda odorosa? Essa è di venti
Oblïate cittadi il cimitero;
È la palude, che dal Ponto à nome.4
Sì placida s’allunga., e da sì dense
Famiglie di vivaci erbe sorrisa,
Che ti pare una Tempe, a cui sol manchi
Il venturoso abitatore. E pure
Tra i solchi rei do la Saturnia terra
Cresce perenne una virtù funesta
Che si chiama la Morte. - Allor che ne le
Meste per tanta luce ore d’estate
Il sole incombe assiduamente ai campi,
Traggono a mille qui, come la dura
Fame ne li consiglia, i mietitori;
Ed àn figura di color che vanno
Dolorosi all’esiglio; e già le brune
Pupille il velenato aëre contrista.
Qui non la nota d’amoroso augello
Quell’anime consola, e non allegra
Niuna canzone dei natali Abruzzi
Le patetiche bande. Taciturni
Falcian le mèssi di signori ignoti;
E quando la sudata opra è compita,
Riedono taciturni; e sol talora
La passïone dei ritorni addoppia
Col domestico suon la cornamusa.
Ahi! ma non riedon tutti; e v’à chi siede
Moribondo in un solco; e col supremo

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Sguardo ricerca d’un fedel parente
Che la mercè de la sua vita arrechi
A la tremula madre, e la parola
Del figliuol che non torna. E mentre muore
Così solo e deserto, ode lontano
I vïatori, cui misura i passi
Col domestico suon la cornamusa.
E allor che nei venturi anni discende
A côr le mèssi un orfanello, e sente
Tremar sotto un manipolo la falce,
Lagrima e pensa: Questa spiga forse
Crebbe su le insepolte ossa paterne.

     Mutiam dolore. Sull’estremo lembo
De la cerula baia, ove i fastosi
Avi ozïâr nei placidi manieri,
Ermo, bruno, sinistro èvvi un castello.
Quando il corsaro fe’ quest’acque infami,
La päura lo eresse. Ivi da lunghi
Anni una fila d’augurosi corvi
È condannata a cingere volando
Ogni mattin le torri: ivi sui merli,
Fingendo il suono di cadente scure,
La più flebile fischia ala di vento:
Ivi pare di sangue incolorata
L’onda che sempre ne corrode il fondo:
Poi che una sera sul perfido ponte,
A consumare un’opera di sangue,
In sembianza di blando ospite stette
Il Tradimento.5
                              Vuoi saperne il nome?
O fida come il sol, tu che non sai
Che sia tradire, deh! ségnati in prima

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Col segno de la croce, Itala mia.
È il castello d’Astura.
                                        Un giovinetto
Pallido, e bello, con la chioma d’oro,
Con la pupilla del color del mare,
Con un viso gentil da sventurato,
Toccò la sponda dopo il lungo e mesto
Remigar de la fuga. Avea la sveva
Stella d’argento sul cimiero azzurro,
Avea l’aquila sveva in sul mantello;
E quantunque affidar non lo dovesse,
Corradino di Svevia era il suo nome.
Il nipote a’ superbi imperatori
Perseguito venia limosinando
Una sola di sonno ora quïeta.
E qui nel sonno ci fu tradito; e quivi
Per quanto affaticato occhio si posi,
Non trova mai da quella notte il sonno.
La più bella città de le marine
Vide fremendo fluttuar un velo
Funereo su la piazza: e una bipenne
Calar sul ceppo, ove posava un capo
Con la pupilla del color del mare,
Pallido, altero, e con la chioma d’oro.
E vide un guanto trasvolar dal palco
Sulla livida folla; e non fu scorto
Chi ’l raccogliesse. Ma nel dì segnato
Che da le torri sicule tonâro
Come Arcangeli i Vespri; ei fu veduto
Allor quel guanto, quasi mano viva,
Ghermir la fune che sonò l’appello
Dei beffardi Angioíni innanzi a Dio.
Come dilegua una cadente stella,

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Mutò zona lo svevo astro e disparve.
E gemendo l’avita aquila volse
Per morire al natío Reno le piume;
Ma sul Reno natío era un castello,
E sul freddo verone era una madre,
Che lagrimava nell’attesa amara:
“Nobile augello che volando vai,
Se vieni da la dolce itala terra,
Dimmi, ài veduto il figlio mio?”
                                                       “Lo vidi;
Era biondo, era bianco, era bëato,
Sotto l’arco d’un tempio era sepolto.”

     E tu, bella del carme ascoltatrice,
S’io ti contristo, a me perdona, eterno
Novellier di sventure. Apresi ad una
Lagrima di rugiada il vedovile
Fior del giacinto; e per sbocciar dal core,
Necessità di pianto à l’inno mio.
Ma di’: sull’ampia terra una conosci
Valle felice, ove giammai non sia
L’eco sonata d’un lamento umano?
Dimmi, conosci una beata aiuola,
Sovra cui non cadesse una dolente
Stilla di queste crëature stanche?
Pure ne’ tuoi fissando occhi sereni
Combatterò contro le innate e pronte
Malinconie, si che men lento voli
Per la mia terra, e meno afflitto, il carme.

     Ultima, vêr lo ciel de le sultane,6
Mira là in fondo Terracina. Quale
A’ dì festivi di Muran le belle

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D’una piumetta tremula di vetro
Ornan le nere chiome, ella si pose
Un boschetto di palme in su la testa;
Siede su rupe candida; lavacro
Fa del Tirreno ai piedi; il guardo tende
Lontanamente al curvo mare, e prega
Perchè Sant’Elmo vigili le mille
Reti e le vele ai pescadori; e quando
Spunta una nube che a tempesta accenni,
Con le sue cento campanelle affretta
Al domestico lido i vagabondi.

     Ultima appare sopra argenteo golfo
Da quella banda ove ti batte il core,
L’antica navigante Anzio, che vinta
Patì la gloria dei rapiti rostri.7
Ma di tarde vendette a rallegrarla
Da’ fatali suoi scogli usciron due
Coronati avvoltoi che tra i fumanti
Balsami de le terme e dei tëatri
Con altri rostri diguazzâr nel sangue
Dell’antica rival. E in quella notte,
Che imperiale fiaccola destava
Il Palatin con le voraci fiamme,
Anzio gioì dal crudo letto; e intese
Sull’erma solitudine del golfo
Strider le Furie ed iterar gli spechi
Come uno scoppio di maniache risa.

     Dovunque il guardo tu raccogli in questa
Faticata di glorie e di sventure
Terra latina, se dei padri care
A te negli anni floridi l’eterne

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Pagine füro, e l’idïoma, e l’arte,
Sorge un ricordo: chè per noi l’istoria
È sapïenza ambizïosa e mesta;
È come stemma d’inclita progenie
Dai nepoti serbato ai dì pensosi
De la miseria; testimon crudele
D’una superba nobiltà scaduta.
Su que’ lividi stagni, ove ora un lento
Bufalo sfanga e guata a la ventura,
Volâro un gïorno cavalieri a nembi
Sovra destrier che non conobber mai
Le corse de la fuga, esercitati
Sol dei trïonfi a respirar la polve.
Ma quei potenti scesero nell’urne
Tutti; e coprì le stesse urne la terra
Con le sue canne; e i brandi seminati
Per entro i solchi non fruttaron spade.
Veggo la querce ancor tendere i rami,
Ma non veggo la man che ne spiccava
Aste da guerra. Su la via che cento8
Miglia correa tra i monumenti, bruna
S’alza una croce, e con le braccia afflitte
Di preci al passeggier si raccomanda
Per qualche ucciso. Poi che qui la Croce
Di chi sofferse, all’aquila successe
Di chi fece soffrir. Volse di molto
Secolo, e usci da quella eroica stirpe
Una stirpe viril di mandrïani:
E chi può dir che al mandrïano un giorno
Non rinascano eroi? E la. vicenda
De le cose quaggiù. L’orbe si gira
Intorno al Sole, e infaticabil Giano
À di tenebre un volto, uno di luce.

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Si gira l’orbe di ciascuna gente
Intorno al sole de la gloria, e quando
Compì la pompa de la sua giornata,
Dechina a sera. Luce per due volte
Di civiltà maravigliosa, e quale
A nessuno fu dato, avemmo in sorte
Noi d’inviar su la progenie umana
A illuminarla. Diuturno buio
Or ne possiede. Ad altre genti il raggio
Meridiano or brilla. Oh! sappian esse,
Senza macchiarsi di guadagni iniqui
O di superbe vïolenze, il lieto
Tempo goder de la stagion fugace
Magnanime. E al mio cor tu sei più cara
Dolce mia terra, ancor ne la tua notte.
Per l’oscuro tuo ciel tremoli veggo
Di qualche aurora boreale i lampi,
E risplendere d’Orse e di coruschi
Arturi, e di nembose Iadi le faci;
Sottile, in vero, e piccoletta luce:
Ma verrà la feconda ora che Dio
Al pöeta dirà: “Sali quel monte
E grida: Sorge l’alba.” Incontanente
Suso per l’erta salirà il pöeta;
Vedrà frattanto gli stranier la forca
Preparargli, e il capestro a le pendici
Indifferente; e griderà dall’alto:
“Italïani, sorge l’alba.” Asceso
Veggente, scenderà martire.
                                                       Tale,
Mallevador d’un’altra alba promessa
Da la Sibilla e dai profeti; un giorno
Un Divino movea là, vêr Pomezia,

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Quella cittade che ci sta di fronte.
Bëato allor di ville era quel piano
Che or s’impaluda. Giovinette in danza
Ivano al suon dei crotali, offerendo
Ghirlande all’are qua e là votate
Sotto una querce, o accanto una fontana,
A le propizie deïtà campestri.
La voluttade meriggiava all’ombra
Dei mirti dati a Venere, fra l’alte
Erbe adagiata, e l’usignol dal fresco
Ramo tessea sul bel capo ai felici,
Senza saperlo, molli epitalami;
Appresso i plaustri, che reddíen la sera
Carchi di spighe e d’olezzanti fieni,
Seguíen drappelli di sudati schiavi,
Che a le latine aure apprendean gli strani
Versi del suol natio: sì che a le Slave
Melodíe de la Dacia udivi a quando
A quando i figli replicar d’Arminio
Con le severe melodie del Reno.
E per un poco ne’ lor petti il chiuso
Affanno si molcea, poi che soave
Consolator ne le miserie è il canto.
Ma niuno allor certo sapea che a quello
Ebreo tapino che laggiù passava
Sollecito, la tunica succinta,
I calzari di polvere bruttati,
Ardea nel core d’abolir quell’are,
Quelle catene, e quei vaganti amori;
Ardea nel core di lottar con Giove
Fulminator, e di piantar sull’atrio
Del Campidoglio la derisa croce.
Folta la barba, folto il crine; il guardo

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D’aquila; il volto macero, ritinto
Dal sol di Spagna, egli venía reggendo
Le brevi membra su baston ferrato,
E mormorando di non so qual Dio
Defunto. Paolo lo dicean le genti
Già trïonfate da la sua parola.
Lui attendeva un popolo segreto
Di viventi sotterra, a fioco lume,
Fra un avello e un altar; o trascinato
Nei densi circhi a sazïar le tigri
D’Affrica, ad allegrar l’inclite noie
De le tigri di Roma, Egli venía
D’opere ricco desïando il forte
Riposo del martirio. E un giorno uscito
Da la porta Trigemina, il raggiante
Capo reciso abbandonò sul verde
D’un prato malinconico del Tebro.
Or per il fango di quegli egri campi
Non vedi più che qualche abbandonato
Palagio degli splendidi nipoti
Del santuario. Le cadenti imposte
Sbatte, e le gronde l’affannoso vento
Marino; e dentro le dorate sale
Liberamente vagola col volo
Tremolante la nottola a le stelle.
Or di Pomezia per le vie deserte
Sole, vestigia dell’antico fiore,
Escon dall’erbe i ruderi d’un tempio
Sacro a Saturno Fuggitivo. Oh! i numi
Fuggono anch’essi dall’età sospinti!
Ma il Dio di Paolo, di mia madre, e mio,
Non fuggirà mai da la terra. Bada,
O Vaticano, che da te non fugga!

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     Or presta attento, Itala mia, l’orecchio
Ad insolito canto.
                                   A te dinanzi9
Precinto dal solenne arco dei cieli
Vedi un ampio teatro, e le montagne
In colli umilïarsi, e le colline
Morir ne la pianura; e fra le dense
Macchie dei cerri e le pinete brune
Il bianco uscir de le romite ville,
Pari di cigni a candida famiglia,
Quando raccoglie il vol ne la vallea.
E fuvvi un dì, che umano occhio non vide,
Ma sopra un libro d’immortal granito
Il sapïente divinando lesse;
Nè l’illustre peccato avea commesso,
Immemore di Vesta e de la tomba,
Anco Silvia a la fonte; e non la molle
Velata Etruria, che legò ai venturi
Fin ne la lingua eredità d’arcani,
Negli ipogei funèbri era discesa;
E non ancor dalle paterne rive
Maledette ramingo iva il Pelasgo
Con le rancure dell’errante Ebreo
Tragicamente patria altra cercando:
Misterïoso popolo che passa,
Siccome lamentosa ombra coi dolci
Penati in su le spalle entro le scure
Nebbie dei tempi.
                                   Allora il Lazio a tanta
Ed unica sortito èra di gloria,
Che i muti e sonnolenti ora patisce
Anni di solitudine, giacea
Sepolto ancor ne l’onde prime. Italia,

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Questo mio paradiso, altro non era
Che un ordin lungo di selvaggi coni
Incoronati da perpetuo lampo,
Onde il mite Appennin s’ingenerava,
Un mare negro che giammai dal canto
Allegrato non fu del remigante,
Malinconicamente circonfuso
Tormentava le vergini scogliere,
L’aura bagnata di mortal rugiada
Con le tepide nubi invidïava
A la giovine terra il blando riso
De le giovani stelle. Ardea talora,
Come d’antico cimiterio i solchi,
L’onda d’erranti fiaccole azzurrine:
Talora in numerati anni bollía
Per reconditi ardori, e lento lento
Emergeva una molle isola calva;
E sur essa appariva a la sinistra
Lampana dei vulcani una infinita
Deformità di creature morte:
Mistico germe di venture pietre
E maraviglie. Intorno ala solinga
Primogenita usciano inaspettate
Altre sospinte da virtù segreta
Isolette sorelle, onde le dolci
Nostre pendici, e l’odorose curve
De le nostre convalli. Ivi un zampillo
Che ignoto allor non prevedea la gloria
Insuperata d’esser detto il Tebro,
Ai recenti dirupi era lavacro,
E sulla genitrice onda piovea
Con le pallide spume.
                                        Oh! mesta assai

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Del mattin del creato era quest’ora!
Pupilla umana seminar non vide
Quelle tepenti ceneri flegree;
E pure al bacio dei novelli soli
Fresche, vivaci rispondean le selve
Impetüose. Ed erano superbe
Tribù di felci, che coprian le fredde
Pomici con le foglie arabescate,
E d’altezza vincean le nasciture
Querce vocali. L’equiseto umíle
Che or l’egro degli stagni aere vagheggia,
Calamo poveretto, e si reclina
Al saltar greve de la gracidosa
Profetessa di pioggie, allor sublime
Sparso in vïali di colonne verdi
Popolava le ripe; ove giganti
Con lo squallido cespo i licopodi
Cresceano il mesto degl’intonsi prati
Nell’ampia solitudine. Natura
Tal per innumerati anni sedea
Vigorosa mendica; e ignota ancora
Per le selvagge primavere il riso
Era d’un fior, che ai pronubi favonî
Raccomandasse i vagabondi amori,
O il vaporar de le fragranze. Al lembo
Di qualche piano desolato alfine
Pullulava una palma, e fin d’allora
Forse dai cieli meritò la sorte
D’allegrare i deserti. Entro le valli,
Che a tante creature erano tomba,
Pullulava un cipresso; e quinci ei tolse
Forse il desío di custodir gli avelli.
L’eco ignorava ancor come piangesse

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La notturna elegía dell’usignolo;
Al limitar di nuzïal caverna
Non era apparsa ancor la lïonessa.
Salutando le selve col ruggito
Da imperadrice; per le fresche lande
Un segno di gemelle orme non anco
Il galoppo tradía d’una puledra;
E pur grande e fantastica, siccome
Visïon di profeta, era la vita
Che si agitava in su la terra.
                                                       Ai miti
Crepuscoli dei languidi mattini
Predestinata a veleggiar sui mari
La progenie dei nautili tendea
La vela vaporosa, onde fe’ liete
Quelle viventi navicelle Iddio;
E cullata dai fiotti iva girando
Per mezzo all’isolette di corallo
Come flottiglia che si vede in sogno
Movere in traccia di novelli mondi.
Di sotto ai muschi pallidi celato,
Molta col verde de le immani membra.
Striscia di lito misurando, stava
Perfido pescatore un coccodrillo;
E fiso con l’immoto occhio su l’acqua
L’avo gigante degl’Iddii del Nilo
D’un improvvido squalo iva spïando
Gli ultimi guizzi. Perocchè Natura
Con perenne di stragi e di battaglie
Alternarsi preluse al nascimento
Del suo re doloroso. E allor che un fiato
Di paradiso fe’ sbocciar quel fiore,
Caro elitropio che si gira a Dio,

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Che per corolla à la beltade, e spande
Per effluvio mollissimo l’amore,
Quel fior gentil che si nomò la donna;
Un immenso sepolcro era la faccia
Arida de la terra, ove confusa
Giacea d’alberi folla e d’animali,
Che un tempo fûr, nè torneran più mai;
Però che sul fecondo orbe regnava,
Inesorabil vergine, la Morte,
Mietitrice indefessa, ed indefessa
Seminatrice di novelle vite
In nuove forme.
                              Ai tremuli sedotta
Riverberi di luce, onde un vulcano
Imporporava le sinistre baie,
Remigando pel grigio aere veniva
Una nube crudel di volatori.
Valido d’Idra e flessüoso il collo,
Siepe acuta di denti, ale di pelle,
Onde le pronte fantasíe d’Atene
Divinarono il Drago. Allor che a volo
Passavan, come funebri bandiere,
Päuroso clamor si diffondea
Sopra i paludi, e rispondean dai torbi
Guadi con tristo sibilar le serpi.
E sovente quel gemito in acute
Strida mutava di duello, e forse
Fervean non viste aëree battaglie;
E forse allora vorticosamente
Scendea ferito a sbattere sul loto
Il fantastico augello; e quella lieve
Orma del piè, quella fugace posa
Dell’ale stanche diventâr di marmo;

[p. 90 modifica]

E dopo mille e mille anni avvertite
Fûr testimoni de la sua dimora.

     Accompagnato da la bianca ancella
Che illuminava quelle notti prime,
Bello così di vita il giovinetto
Mondo fendea con le prefisse fughe
I deserti d’azzurro. Allor che un giorno
Scontrò per via come un oceano d’oro,
Che lo inondò serenamente, ed era
Il vïatore Spirito di Dio.
Quale di verginella innamorata
Palpita il core, e palpitò la terra.
Tremebonde le vaghe ale dei nembi
Si composero in pace; e l’Infinito
Spazïò su la queta urna de l’acque.
E quando al ciglio d’una valle, un fiero
Gruppo di sette colli ardere Ei vide,
Simili ai sette candelabri accesi
Del venturo suo tempio; allora a quella
Misterïosa pleiade di fiamme
Volse uno spiro luminoso e disse:
«Tu sarai la mia Roma.» E l’armonia
Di quelle note infino alla suprema
Nebulosa che ai lembi è del crëato,
Come tocco di mille organi salse;
E tacque, e sparve. L’orbe le diurne
Danze riprese e l’immortal vïaggio;
Un diffuso i silenzi alti rompea
Sollecitar di piume: peregrine
Vedeansi in cielo scintillar pupille,
Ed era de’ seguaci angeli il coro.


Note

  1. [p. 131 modifica]Il monte Circello, roccia calcare in massima parte, onde si trae marmo ed alabastro, è collocato all’estremità occidentale delle Paludi Pontine. È l’antico Capo di Circe; e serba ancora sull’alto gli avanzi d’un tempio del Sole; e in una delle sue vaste caverne, il nome di Grotta della Maga, la quale; come osserva Bernardino di Saint-Pierre, fu la più antica botanica del mondo. Onde Ovidio nel Remedia amoris le volgea quel verso:

    «Quid tibi profuerunt, Circe, Parseides herbæ?»

    L’antiquario, il mineralogo, il botanico trovan tutti su quel monte argomento di studio.

  2. [p. 131 modifica]Circe possente Maga, figlia del Sole e di Perseide, una delle ninfe oceanine, era una seduttrice straniera di cui Omero canta a lungo nella Odissea.
  3. [p. 131 modifica]Ognun sa che il mito di Circe, con quel suo mutare in bestie immonde i meschini amatori, allude alle conseguenze delle brutali voluttà. Sarà forse perdonato all’autore, se osando mettere in bocca di Omero qualche verso milleottocentocinquanta e tanti anni dopo Cristo, gli fece dire quello che il pagano adulator dei vincitori non avrebbe ai suoi tempi detto di certo.
  4. [p. 131 modifica]Le Paludi Pontine compongono buona parte dell’Agro Romano; lunghe circa trenta miglia da Cisterna a Terracina; larghe meglio che venticinque da Sezza a Monte Circello, Secondo Plinio, ivi erano ventitrè città, oltre a innumerevoli ville. Ora la mal’aria tiene spopolata quella vasta pianura, la quale in molte parti è feracissima. I soli Sabini e gli Abruzzesi, sfidandone le febbri mortali, ardiscono scendere dai loro monti per guadagnarsi un pane colà al tempo della mietitura. La miserabile condizione di que’ mietitori è dipinta energicamente dalla risposta, che mentre io ero a Terracina, mi dicevan data a un viaggiatore. «Come si vive costì?» chiese questi passando. A cui l’Abruzzese: «Signore, si muore.»
  5. [p. 131 modifica]Corradino di Svevia, figlio del quarto Corrado e di Elisabetta di Baviera, sceso in Italia di sedici anni a riconquistare lo [p. 132 modifica]splendido retaggio della Sicilia caduto in mano di Carlo d’Angiò, fu sconfitto nell’agosto del 1268 a Tagliacozzo. Sfuggendo alla strage, riparò al castello di Astura; ma Giovanni Frangipane, signor di quello, consegnò per denaro l’ospite al vincitore. Giudicato lo Svevo a Napoli e condannato, gli fu mozza la testa nel 29 ottobre 1268 nella piazza del Mercato, dove gli venne eretta una cappella mortuaria, che non è più, Il racconto poi del guanto che dicono gittasse Corradino dal palco, acciò fosse consegnato a Pietro d’Aragona, non è bene accettato dalla storia.
  6. [p. 132 modifica]Terracina è l’antica Anxur. La sua collina ofre tuttavia il vago aspetto che sorrideva a Flacco:

    «Impositum saxis late candentibus Anxur.»

  7. [p. 132 modifica]Anxio, fiorente città un tempo, ora piccolo porto. I Romani come l’ebbero vinta, ornarono il suggesto, donde parlavano gli oratori nel Fòro, coi rostri delle sue navi. «Naves Antiatum partim in Navalia Romæ subductæ, partim incensæ, rostrisque earum suggestum in Fòro extructum adornari placuit. Rostraque id templum appellatum.» (Liv. cap. 12, lib. 8.) — Ad Anzio nacquero Caio Caligola e Nerone imperatori. Incerta era la patria di Caio: alcuni a Tivoli, alcuni a Treveri, lo facevan nato; ma Svetonio, nella vita di lui, toglie ogni dubbio scrivendo: «Ego in actis Antii ipsum invenio editum.» Quanto poi a Nerone, lo stesso Svetonio lo assicura con queste parole: «Nero natus est Antii post novem menses quam Tiberius excessit.» Strana corrispondenza di date! Forse i pasquini della Via Sacra e della Suburra avran detto, che l’anima di Tiberio, rifiutata perfino dallo Stige, s’era rifugiata nelle inique viscere di Agrippina, per rinascere rinsudiciata dentro alle forme di Nerone.
  8. [p. 132 modifica]La Via Appia da principio fino a Capua, poscia fino a Brindisi condotta, era costeggiata per modo da templi, da archi di trionfo, da mausolei, che la chiamavano la regina delle vie.
  9. [p. 132 modifica]Ad intelligenza dei seguenti versi, in cui l’autore tentò di vestire di poesia, come potè, alcuni fatti geologici, occorrerebbe qualche largo cenno sulla geologia: ma troppo lunga cosa riuscirebbe e noiosa. E forse questi versi non ne meritano la fatica. Non gli rimane però a fare che una preghiera, quella cioè di non essere troppo frettolosamente giudicato oscuro o strano da chi non conosca un poco questa giovine scienza.