Canti (Aleardi)/Accanto a Roma

Accanto a Roma

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Il monte Circello I fuochi dell'Appennino


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ACCANTO A ROMA.

PRELUDIO.

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A MIA SORELLA BEATRICE

AMORE BENEDIZIONE

ALLEGREZZA SERENA

DELLA MIA VITA AGITATA

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I.
 
     Signor, ch’è mai questo terribil giuoco
De la fortuna? quel finir quïeto
Di Silla, e l’aspro argomentar di Bruto
Morïente a Filippi? Un dì la croce
Si glorïò d’aver infranta e spersa
La statüa granitica dell’orba
Deità del Destino: ond’è che il vecchio
Nume, pare che ognor si rinnovelli
D’arcana vita, e calpestando il giusto
Misero, e l’are dell’amabil Dea
Provvidenza, vi salga inesorato
Derisore? Perchè questa perenne
Felicità dei vïolenti? e questa
Rea servitù che sol muta di nome?
Iddio d’amor, perchè questo implacato
Odio di schiatte? e per ghermire un santo
Dritto, questo passar per una via
Di congiure, di forche, e di ferocie
Ne le battaglie? Ov’eri tu, Signore,
Quando per fieri e lunghi anni una gente
Flagellò la sorella? E dove sei

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Or, che non odi il secolar lamento
D’Italia, e le plebee risa dei fulvi
Carnefici d’intorno a la sua croce?
Perchè ci tenti? La crudel vicenda
D’un popolo che sorge, ascende, brilla,
Declina e cade su la via del tempo,
Come sfinito vecchierello, e i crudi
Vicini lo calpestano passando,
Ch’è dunque innanzi a Te? Forse una pula
Che l’aura investe, innalza, ed abbandona
Questo indefesso accumular d’etadi
Sull’universo che dovrà perire,
Ch’è dunque innanzi a Te? Forse il fugace
Volo d’un’ora pel tuo Sol perpetuo
Che non conosce alba, nè sera. Oh, il Tempo
Irrevocabil passa per la ignota
Eternità, qual garrulo uccelletto
Che valica un silente interminato
Emisperio di mar, nè sa che un giorno
Senza indizio lasciar pure d’un’orma
Vi cadrà stenuäto. E tu frattanto.
In questa ora sollecita di vita
I maestosi firmamenti aprivi
Tra i confini del nulla come tenda
In deserto, d’argentee, tremolanti
Margarite trapunta. E se lo sguardo
Noi leviamo, meschini! a que’ profondi
Eserciti di stelle, a quella arena
Luminosa di mondi, e tu ne schiacci
Atterriti di te. Pur non di meno
Ci divora il desir dell’infinito
Che in noi ponesti. Ond’io ne la promessa
De’ tuoi Santi m’affido; e so che vive

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Chiusa, inquïeta, in un granel di polve
A te simíle una gentil fattura
Di cui senza tramonto è la giornata,
Ed è la poveretta anima umana.
E le preci di lei, le sue battaglie
Faticose ti premono sì forte,
Che t’è men dolce udir s’ella ti chiama
Sire de gli astri, di quel sia col nome
Confidente di padre. Oh, se un’offesa
Anima sventurata a Te riesce
Più cara d’una stella, ascolta il grido
Che mando a Te dal mio granel di polve.

II.

     Ò adorato i miei padri, e questa adoro
Terra de’ padri miei. Sento una stanca
Pietà de’ suoi lunghi dolori; sento
L’alterezza gentil d’essere figlio
De la grande Infelice. - Arde in secreto
In mille case a gli oppressori occulte
Una nobile fiamma dall’amore
Di pazïenti Forti alimentata,
Cui servon da vestali, anime schive
Di carezze straniere. - In cima a mille
Itale torri immota pende, illesa
Dai geli d’oltramonte, una campana.
Era la squilla che nei dì per fasto
Illustri e per valor, co’ suoi rintocchi
Del popolo la voce accompagnava
Quando avido di feste e di vendette
Irrompeva, e la piazza era ad un tempo

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Reggia, tribuna e arena di battaglie.
Ora a lungo oblïata, almeno un giorno
Di patria rabbia fieramente anela
Di sonare a martello. — Un vaticinio
Che parla di redenti esce da i mille
Incliti avelli, ond’è gremita questa
Terra custode d’immortali morti. —
Si solleva dall’isole, da i monti,
Da le cento cittadi una preghiera:

     Iddio, se mai novellamente a questa
Lagrimevole valle il vïatore
Tuo Spirito ritorna, oh ti ricordi
Che cinta da tre mari àvvi una patria
Che si nomina Italia; e Tu le sparte
Sue membra ricomponi. Ivi nel mezzo
Fra le cento cittadi è una cittade
Da bugiardi profeti affaticata
Che si nomina Roma; e tu la rendi
Ai nipoti de gli avi. In fuor di noi
Chi puote dir che ne la sua famiglia
L’eredità di Romolo discenda?
Quella ruina veneranda è nostra;
Ella composta de le nostre argille:
Se cosa alcuna di straniero è in essa,
Sono il pianto e le ceneri dei servi
Ch’ivi traemmo da la vinta terra.
Scendete pure, o barbari, dall’Alpe
A ritorvi quel pianto. - E tu, Signore,
Fa’ che non scemi d’alimento mai
Quella nobile fiamma: affretta il giorno
Che suoni ad ira la campana antica:
Odi la prece: il vaticinio adempi.

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III.

     O voi, cui regge i passi de la vita
Intelletto di patria, alme sbocciate
Sotto il calor de le speranze nuove;
Giovani arditi da la bella fronte,
Onde spira il divino alito e il genio,
E del poeta la gentil baldanza;
Se più cara ai Celesti è la preghiera
Di molte voci in armonia raccolte,
Qui, divisi dal volgo sonnolento
Che compra e vende, ignora il resto, e ride,
Leviamo un inno a le reliquie eterne
De la Stella Latina. A la feconda
Arbore de gli sterili deserti
Benefattrice, che le curve palme
Ai vincitori e ai martiri dispensa,
Chiediamo il legno da compor la cetra;
Togliamo a plettro un doloroso chiodo
Del crocifisso; con le lunghe chiome
D’una fanciulla che moría d’amore
Componiamo le corde; e se fiorire
Lo strumento vi piace all’uso antico,
Lo cingeremo di ginestre colte
Sopra illustri rovine. - Oh non è questa
La cetera che valga; e troppo molli
Son quelle corde per cantar di Roma.

IV.

     A piè d’un monte che si china e perde
Ne’ lucenti renai d’una riviera

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Sta la concava costa desolata,
Ove fu Sparta la città di ferro.
Ivi è un avello da la pia difeso
Carità de le Muse incontro ai nembi
Di grandine, che scagliano le vinte
Rupi messenie sul cantor defunto.
Presso la fossa per arcano istinto
Cavan lor nido, nell’aprile, i nivei
Cigni di quella greca aura amorosi.
Come brando fedele a cavaliero
Posa con le vocali ossa una lira;
E ben gli sta, però che un dì Tirteo
Si armò di lira, fulminò col verso,
Vinse cogl’inni. Da la viva fiamma
Di picciol lume se ne accendon mille,
E al fuoco di quel fiero estro d’Atene
S’accendeano i guerrier, che ne la mischia
Precipitavan misurando i passi
Sul metro audace de le sue canzoni
Trïonfatrici. — A lui togliam la ferrea
Corda de le battaglie.

V.

                                                  Invida turba
Di cortigiani con beffarde risa
Da una tragica reggia un dì cacciâro
Un grande malinconico. Pei campi
Pallido errò, limosinante, immondo,
Egli il gentile cavaliere, e in forse
De lo intelletto. Gli parea nei balzi
De la sua fantasia, dopo le spalle

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Il galoppo sentir di un palafreno
Che perpetuo il seguisse a ricondurlo
Ne la turpe Sant’Anna. A sè d’intorno
Vedea bizzarri Lèmuri che i canti,
Sudati indarno, gli rapían di mano
Sperdendoli pei solchi e per le fosse
Che limitavan la deserta. via.
E dubitò dell’anima. Gli parve
Sogno il suo genio e l’immortal poëma;
Sogno i Tancredi e le Clorinde, usciti
Da la sua Musa; e maledì Sorrento
Bella, e la vita, e Leonora, e il mondo;
E dubitò di Dio. Quando da lunge
Gli occorse un chiostro sul pendío d’un colle,
E anelando salì come a rifugio,
Come a la casa, ove una madre attenda.
Là vergognoso e stanco inginocchiossi
Sopra la soglia e domandò per Dio
La cortesia d’un solo ultimo pane,
Un guancial da posar la moribonda
Sua testa di poëta, e la suprema
Carità di un sepolcro. Ed ivi ancora
Dormono l’ossa di Torquato in pace.
E allor che da le celle escono i lenti
Padri, come li trae de le severe
Mense il desio, su le pareti bianche
Del cenacolo passa e si disegna
Nobil conviva la figura santa
D’un’ombra laureata a ringraziarli.
E allor che scendon taciti, di notte,
A la preghiera, lungo i tenebrosi
Intercolunnii mormorar si ascolta
Non so che pianti di Gerusalemme;

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Simili a quelle meste melodie
Che si propagan sopra la laguna
Se canta il gondolier con le sue rime.
O divino infelice, a te fu l’estro
Patimento; l’amore assenzio; il genio
Follía; la vita un carcere; l’alloro
Serto funebre. All’ombra de la quercia,
Ove per uso ti assidevi, io pure
M’assisi un vespro; ed ero triste; e piansi
Pensando a te. Pensando a quell’arcano
Terror d’un uom che il primo istante sente
L’intelletto smarrir: a quell’acuta
Gioia del rïaverlo: a quel selvaggio
Brancolar del pensier fra le tenèbre
Rotte dal lampo traditor degli egri
Sensi: a quell’ora d’infinita angoscia,
Quando lo spirto disperato tenta
Aggrapparsi a un’idea, come nell’onde
A una trave, e si vede a poco a poco
Franar in un incognito profondo
Dove scompare Iddio, dove il delirio
Ebete ride, o scompigliato corre,
E si rovescia e voltola facendo
I sonagli squillar de la follía.
Infelice poëta, anch’ella ormai
In questa terra dove tutto cade,
La tua quercia è caduta. Altro non resta
Che una fonte, una lapida, e l’eterno
Riso de la Campagna. - Or tu concedi
Che, riverenti, a la tua cetra d’oro
Togliam la corda che cantò la gloria.

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VI.

     Nei dì secondi a Babilonia, al ciglio
D’un pomerio per freschi orti odoroso,
Grigio sorgeva un cumulo di pietre.
L’ebrea fanciulla che al vicino fonte,
Con l’anfora sul crin nero librata,
Traeva all’alba per attinger acqua,
Dal diritto sentier si disvïava
Per la paura di passarvi accanto.
Poi ch’ivi sotto, al par d’un assassino,
Si giacea con la infranta arpa sepolto
Un lapidato. O Geremia, quel Dio
Che ti conobbe assai pria che tu fossi
Ne le materne viscere concetto,
Disse a te pure un dì: «Dal vïolento
Settentrïone piomberà ruina
Su le tue valli, e lutto in sui viventi.»1
E tale or piomba, e tale ancora offende
L’italo Engaddi, l’italo Carmelo.
O nobile sospiro di Giudea,
Qual core avesti allor che ne le amare
Notti vegliate in servitù, piangevi
Col metro dell’afflitto inno caldeo
La vedovanza de la tua cittade?
E forse intorno a te turbe di calvi,
D’adolescenti laceri e di donne
Fremeano attente in pose di dolore,
E agli esuli una lagrima cadea
Trepida al lume di straniere stelle?

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Con gli anèmoni sempre una ritorna
Settimana accorata per le chiese,
Che ancora dopo tanti anni il tuo verso
Piange dall’Alpi ai Calabri dirupi;
E maritato a le armonie gementi
Di Palestrina, suona per le mille
Cupole, e per gli altar come singhiozzo
D’un popolo che langue in agonia,
E muor dall’Alpi ai Calabri dirupi.
La fatidica corda or tu ne dona
Che pianse, è ver, ma profetò vendette
Liete pur anco, e l’ora del ritorno
Al Giordano natio. Così che il nostro
Inno di Roma impaziente ardisca
Vaticinar d’un popolo che in arme
Sorge dall’Alpi ai Calabri dirupi.

VII.

     Ogni altra corda che ne manca sia
D’odio, d’amore, di terror, di calma,
Di magnanima bile o di pietade,
Solitario Alighiero, a te dimando.
Lo stilo, onde vergasti il tuo volume
Che assolve e danna uomini e tempi, a noi
Plettro sarà. Ma pria lascia che umíle
Ti riverisca con la mia canzone,
Però che tu mi affàscini, mi annulli
Ne la mia polve, e nondimeno io t’amo,
O terribile altezza. - Tra le furie
Che ruggían per le piazze cittadine,
E il scintillío de le fraterne spade

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Per le infami convalli e per i monti
Splendida stella del mattin sorgevi
A fugare i fantasmi e la selvaggia
Nordica notte che velava il mondo.
Nè pria nè dopo s’è giammai veduta
Stella, come la tua, che fiammeggiasse.
E lungo la Penisola si sparse
Un fremito di carmi e d’armonia
A mattinar la nuova civiltade,
Qual si mattina una recente sposa.
Severo fior di lagrime irrigato
Spuntò il tuo genio da una tomba; poi
Che il casto amore d’una bella morta
E di Firenze il perfido rifiuto
Ti fecero per l’ombre ir pellegrino,
Tu scegliesti, esulando in fra le plebi
Faconde, il conio de la tua parola
Sicura; e dal macigno ancora informe
Dell’idïoma italico traesti,
Scultor sovrano, nudità robuste
D’immortali figure, che, varcata
L’onda infernal su la funerea barca,
Seminasti qua e là per i diversi
Orizzonti di tenebre e di luce
Dei regni spenti. E colaggiù, siccome
Ti fossi assiso all’origlier di morte,
Di tutti che perîro a’ giorni tui
Ne giudicasti l’anima, i nemici
Cadaveri scagliando a le gemonie;
Di soavi Piccarde e di Cunizze
Provvedendo i tuoi cieli. Ivi dall’alto
Tu saettasti il Vaticano, e i sacri
Sardanapali de l’altar, ingordi

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De la caduca signoria del mondo,
Inesorato giustizier. Ma intanto
Qui, tra i viventi, irrequïeto, e indarno
Desïoso del tuo bel San Giovanni
Limosinavi con offesa fronte
Pane ai castelli, pace ai monasteri.
Nè quando a’ dì supremi, in su la spiaggia
Adriaca, o pei sentier de la selvosa
Pineta malinconica, mutavi
I passi stanchi di chi muore in breve,
Oh non credevi mai che il poco avello
Là di Ravenna avria valso un intero
Cimiterio di Re. Qual alto seggio
T’abbia assegnato Dio ne le sue glorie,
Alighiero, non so. So che la tua
Italia ti locò nel più sublime.
So ch’ella sempre t’obbliò nei giorni
De la viltà: ma ai dì de la speranza
Legge il tuo libro; e ormai più non t’obblia.

VIII.

     Non blandimento, ma flagello ai vacui
Itali sogni e all’ozio, eccovi l’arpa
Che vi composi con le illustri e sante
Reliquie del passato. Or qua venite,
Giovine e mesta pleiade di vati
Che il lungo buio de la nostra notte
Di speme consolate e d’armonie:
Qual tra voi di fiacchezza à immune il petto,
E più d’estri sfavilla, e più confida
Nel valor del suo canto, apra le piume

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A l’altissimo volo. E quando oscure
Requian le cose, e al raggio de la luna
La tremula del mare onda s’ingiglia,
Tu dal drappello glorioso eletto
Sul sommo balzo, onde è custode un nume,
Del vocale ti assidi arduo Soratte,
Nè ti sgomenti colassù ’l profondo
Servil silenzio che da l’Appennino
Al doppio mar gli indifferenti campi
Occupa e le città fatue, gremite
Di tali vivi che ti paion morti:
Ma al scintillar de le serene stelle
Con la fede nel cor spargi a le quattro
Plaghe dei venti l’elegia di Roma,
Sdegnosa Niobe da perpetui dardi
Ferita sì, ma non uccisa mai.
Voce smarrita in un deserto allora
Forse quel canto ti parrà; ma pensa
Che in faccia a Dio non va perduto il zillo
D’un insetto calpesto in mezzo all’erba
Nè il boccheggiar dell’uccellin che spira
Sotto le strette di crudel fanciullo;
E credi a me, v’à un dì ne l’avvenire
Che i tuoi lamenti troveranno un’eco.
E forse il bambinel che la tua strofa
Adesso inconsapevole balbetta,
Quando che sia, ne l’ora de le patrie
Pugne cresciuto a battagliero audace.
Ne l’avventarsi sui nimici il verso
Ripeterà del libero poeta.

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IX.

     Ma dimmi innanzi quanta luce in mente
Ti splenda: e quanta carità ti scaldi
Il cor; però che prima Musa è il core.
Di’, senti tu continüa, profonda
Una pietade d’ogni altrui sventura
Con sùbito desio di consolarla?
Pietà de l’egra tapinella assisa
Sul canto de la via che leva il croceo
Occhio a chi passa, e le febbrili palme;
Pietà d’un servo popolo che indarno
Ringhia di sotto il piè che lo calpesta;
Pietà di tutto cui quaggiù castiga
La inevitabil legge del dolore;
Pietà persino de le inerti cose
Che forse (e chi lo sa?) soffrono anch’esse?
Dimmi, in qualche animoso impeto santo
Ài tu sentito balenarti in petto
Per fin la brama di cadere un giorno
Martire de l’idea che ti governa?
Ài tu patito in solitario affanno
A la perfidia d’un amico, o de la
Donna che amavi? — Ài pianto in sul ferètro
Di creature che ti fûr dilette?
Di’, renitente invano a la soave
Vïolenza del bello de la forma,
Ardi tu sempre di gentile amore?
Adori tu le maraviglie eterne
De la natura, e senti la segreta
Voce di Dio che parla da le cose?

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Dimmi, poeta, se talor t’avviene
Di notar, nel pensoso ozio fecondo
Dei solinghi passeggi, o le deposte
Sopra la sabbia ricamate valve
D’una conchiglia, o di lontan le immense
Fosche e lucenti linee del mare:
Il laro che precipite si tuffa
Ne l’onde, o il turbin che da l’onde sale;
Se talora seduto a la campagna
Vedi ne l’aria animaletti in danza
Sul tuo capo ondeggiar; vedi per terra
Un vorticoso brulichío di vite
In socïali uffici affaccendate
Pei labirinti de le lor dimore;
Se guardi al cielo, e pensi a gli infiniti
Soli ristretti in un argenteo punto
Di nebulosa; se ti guardi dentro
E nel mondo de l’anima contempli
Ombre di colpe, lampi di virtude,
E un tumulto d’amor, d’odii, di sogni,
Di desir, di speranze e di memorie
Agitato vagar; se le stupende
Grandezze ammiri, e gli stupendi nulla
De l’universo: di’, non senti i sacri
Turbamenti de l’arte, e il provocato
Estro non t’arde; e dentro non ti parla
Di Dio, di patria, di virtù, di gloria,
Di mille cose, onde il mortal si eterna?

X.

     Ahi sventura! I possenti avi peccâro
D’oltracotanza, ed è per noi fatale

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Scontarne con servili anni le colpe.
Una letal vacüità di canti
Paghi a ridir le molli primavere,
I ruscelletti queruli, l’argenteo
Luccicar dei sereni astri su l’acque
Spirò per l’aure torpide. Ricinta
Di papaveri il crin, venne la Musa
Verginella per l’orgie, e per le scale
Patrizie, e per le reggie affaticata:
Ivi guastava la sua vesta, il puro
Idïoma natio, d’oltramontane
Bende e d’orpelli; in fin che tralignata
A lo stranier, che ne dispregia, i voli
De la libera mente assoggettava;
E come fosse figlia a nebulosi
Scaldi, cresciuta a stille d’idromele,
Cantò treggende, e per le fosche lande
Illuminate dai folletti, i salti
De le lubriche streghe, e l’unghia fessa
Del satanico capro, e le macabre
Danze. Cantò le tacite badíe,
E gl’infingardi fraticelli; e l’urne
Covi di spettri: e su veroni acuti
Furtivi amor di eterne castellane
Che obbliano in adúlteri sospiri
La lontananza del fedel crociato:
E angoscie finse, e simulò letizie
Con quell’accento che non vien dal core.
Ahi! Ghibellin che non lasciasti erede!

Note

  1. Ier. C. I, 14.