Sparîr le porte di piropo; gli ampi
Di gemme tempestati appartamenti,
E l’alte sale di cristallo, ov’era
Dal riflesso fedel centuplicata
Di tue convulse voluttà la scena.
Ogn’incanto svanì, tranne quest’uno
Paradiso di terre e di marine
Che si nomina Italia, e malïardo
Vince il desío d’ogni pupilla umana.
Ieri su la raccolta ora de’ vespri
Del Circello volgendo a le nembose
Cime lo sguardo, vidi il laureato
Fantasima d’un veglio ire baciando
Le antiche are del sol, qual chi commosso
Torna a dimore per ricordi care.
Di rapito era il volto; era l’intonsa
Canizie cinta da la benda greca,
Era di poveretto il vestimento.
Ei procedea, come fa il cieco; innanzi
Tentando l’aura con un’arpa argiva,
Che luminose avea le corde, e il suono
Pari a quell’arpe, onde si udîro, a giorni
Ben divisi da noi, soavemente
Di Lipari i giardini armonizzati,
E di musica piene eran le brezze
Che gonfiavan la vela ai pescadori.
Com’ei s’assise in faccia a la marina,
Toccò le corde, e per virtude arcana
Visibilmente uscivano le note
In mille forme di scintille d’oro
Che volando salieno ai firmamenti.
Lo riconobbi tosto. Era l’Antico