Questo mio paradiso, altro non era
Che un ordin lungo di selvaggi coni
Incoronati da perpetuo lampo,
Onde il mite Appennin s’ingenerava,
Un mare negro che giammai dal canto
Allegrato non fu del remigante,
Malinconicamente circonfuso
Tormentava le vergini scogliere,
L’aura bagnata di mortal rugiada
Con le tepide nubi invidïava
A la giovine terra il blando riso
De le giovani stelle. Ardea talora,
Come d’antico cimiterio i solchi,
L’onda d’erranti fiaccole azzurrine:
Talora in numerati anni bollía
Per reconditi ardori, e lento lento
Emergeva una molle isola calva;
E sur essa appariva a la sinistra
Lampana dei vulcani una infinita
Deformità di creature morte:
Mistico germe di venture pietre
E maraviglie. Intorno ala solinga
Primogenita usciano inaspettate
Altre sospinte da virtù segreta
Isolette sorelle, onde le dolci
Nostre pendici, e l’odorose curve
De le nostre convalli. Ivi un zampillo
Che ignoto allor non prevedea la gloria
Insuperata d’esser detto il Tebro,
Ai recenti dirupi era lavacro,
E sulla genitrice onda piovea
Con le pallide spume.
Oh! mesta assai