Quella cittade che ci sta di fronte.
Bëato allor di ville era quel piano
Che or s’impaluda. Giovinette in danza
Ivano al suon dei crotali, offerendo
Ghirlande all’are qua e là votate
Sotto una querce, o accanto una fontana,
A le propizie deïtà campestri.
La voluttade meriggiava all’ombra
Dei mirti dati a Venere, fra l’alte
Erbe adagiata, e l’usignol dal fresco
Ramo tessea sul bel capo ai felici,
Senza saperlo, molli epitalami;
Appresso i plaustri, che reddíen la sera
Carchi di spighe e d’olezzanti fieni,
Seguíen drappelli di sudati schiavi,
Che a le latine aure apprendean gli strani
Versi del suol natio: sì che a le Slave
Melodíe de la Dacia udivi a quando
A quando i figli replicar d’Arminio
Con le severe melodie del Reno.
E per un poco ne’ lor petti il chiuso
Affanno si molcea, poi che soave
Consolator ne le miserie è il canto.
Ma niuno allor certo sapea che a quello
Ebreo tapino che laggiù passava
Sollecito, la tunica succinta,
I calzari di polvere bruttati,
Ardea nel core d’abolir quell’are,
Quelle catene, e quei vaganti amori;
Ardea nel core di lottar con Giove
Fulminator, e di piantar sull’atrio
Del Campidoglio la derisa croce.
Folta la barba, folto il crine; il guardo