D’aquila; il volto macero, ritinto
Dal sol di Spagna, egli venía reggendo
Le brevi membra su baston ferrato,
E mormorando di non so qual Dio
Defunto. Paolo lo dicean le genti
Già trïonfate da la sua parola.
Lui attendeva un popolo segreto
Di viventi sotterra, a fioco lume,
Fra un avello e un altar; o trascinato
Nei densi circhi a sazïar le tigri
D’Affrica, ad allegrar l’inclite noie
De le tigri di Roma, Egli venía
D’opere ricco desïando il forte
Riposo del martirio. E un giorno uscito
Da la porta Trigemina, il raggiante
Capo reciso abbandonò sul verde
D’un prato malinconico del Tebro.
Or per il fango di quegli egri campi
Non vedi più che qualche abbandonato
Palagio degli splendidi nipoti
Del santuario. Le cadenti imposte
Sbatte, e le gronde l’affannoso vento
Marino; e dentro le dorate sale
Liberamente vagola col volo
Tremolante la nottola a le stelle.
Or di Pomezia per le vie deserte
Sole, vestigia dell’antico fiore,
Escon dall’erbe i ruderi d’un tempio
Sacro a Saturno Fuggitivo. Oh! i numi
Fuggono anch’essi dall’età sospinti!
Ma il Dio di Paolo, di mia madre, e mio,
Non fuggirà mai da la terra. Bada,
O Vaticano, che da te non fugga!