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fetti. La poesia magra ha per substrato necessario una lingua senza mute. La pienezza delle parole nelle quali la voce non trova dei vuoti, la varietà degli accenti, suppliscono all’apparente disordine del ritmo. Le parole francesi risuonano, le parole italiane suonano. La poesia italiana deve rinunciare di partito preso alle risonanze.

Non c’è in Dante soltanto l’istinto dei limiti che la poesia non può oltrepassare, ma quello dei limiti della nostra lingua. E siccome ogni cosa d’arte è fatta di rinunce, non si lascia prendere da inutili nostalgie.

Non c’è in Dante il gusto delle parole, del suono delle parole c’è il gusto di rendere esatto un sentimento, e il piacere di trovare un’armonia che corrisponda all’armonia intima (a quell’armonia vaga che dentro l’animo del poeta avviluppa i concetti come una nebbia gli alberi della foresta), e che è la più difficile a rendere. Questa nebbia in parole non può diventare che musica. (Sviluppare questo).

Tutto questo è il contrario degli scrittori imitativi, è il metodo di Beethoven nella VI (Pastorale). Bach e Beethoven si rifiutano di adoperare i suoni per quel che possono contenere di gradevole all’orecchio — tendono a delle frasi musicali in cui le note componendosi diventino coordinate e spirituali come un’idea.


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