Al parlamento austriaco e al popolo italiano/Parte seconda/III
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III.
TRENTO, TRIESTE E IL DOVERE D’ITALIA.1
Grazie, o cittadini, del fremente applauso con cui voi salutate le mie terre irredente; lo accolgo come augurale confortevole promessa. Ma permettetemi di aggiunger subito una preghiera: non applaudite più oltre. Io desidero parlare a voi da freddo ragionatore a dei ragionatori.
Un vostro concittadino, il deputato Calda, ha pubblicamente affermato che le ragioni dell’irredentismo sono ragioni vaganti nel campo della poesia, della storia, del sentimento, che contro queste ragioni ideali cozzano dati di fatto, ragioni pratiche, tangibili, positive. Io non condivido queste idee. Vorrei anzi, permettendomi una traslata interpretazione del verso carducciano
Tu sol — pensando — o ideal, sei vero
affermare che in politica non vi sia contrasto fra l’ideale e la realtà e credo altresì che quel vostro concittadino cui io accennavo, abbia egli pure, nell’intimo del suo cuore, fede e convinzioni uguali alla mia.
Ma poichè accanto alle ragioni del cuore e fusecon esse vi sono le ragioni che scaturiscono dalle vive necessità politiche, economiche, sociali, permettete che di queste specialmente discorra, permettete che cerchi di illuminare, di analizzare i complessi problemi dell’irredentismo. Io desidero che voi abbiate ad uscire di qui più che con l’animo tumultuante di passione, con una visione lucida e serena del problema dell’ora presente. Per questo vi prego di ricordarvi che se la vostra simpatia per gli irredenti mi commuove, è meglio che questa simpatia non esploda e che voi conserviate tutta la vostra freddezza per vedere se i miei argomenti sono buoni o no. Se sarò vincitore, se cioè ragionando con rigore e con calcolo potrò scuotere quelli che ancora per caso fossero in dubbio o fossero lontani dal mio spirito, dal mio pensiero, se a questo arriverò, io sarò ben felice e griderò alto: non appoggiate soltanto con l’entusiasmo la mia propaganda, appoggiatela anche, e sopratutto, con l’azione! È l’azione che a voi richiede il mio paese!
I problemi che in questi momenti si impongono alla attenzione del pubblico sono questi: Trento e Trieste vivono oggi in tristi condizioni politiche — e lo ammettono tutti: ma non sarebbe possibile ottenere un’Austria meno barbara, un’Austria più civile, un’Austria che lasciasse vivere in pace questi popoli italiani che sono entro la sua cerchia? E d’altra parte si domanda: la condizione degli italiani in Austria, se è politicamente triste, se dal punto di vista della libertà è cattiva, non è invece buona sotto l’aspetto economico? Ed altro problema che sorge è questo: il voler distruggere l’Austria non equivarrebbe a tórre di mezzo una potenza che costituisce l’equilibrio fra le grandi razze? E Trento e Trieste, aggiungendosi all’Italia, avrebbero un vantaggio economico diretto o non piuttosto danno? E l’Italia a sua volta avrebbe un compenso ai sacrifici sostenuti per ottenerle? Questi non sono tutti ma sono i più importanti problemi che giova affrontare.
V’è chi dice che in Austria si potrebbe arrivare ad una pacifica convivenza, ad uno sviluppo civile delle varie nazionalità, e ci addita la Svizzera come quello Stato dove tranquillamente possono coesistere tre diverse nazioni. Anzitutto conviene osservare che la posizione geografica della Svizzera rende molto eguali le condizioni economiche degli abitanti dei vari cantoni e delle varie plaghe e che una lunga tradizione, un passato glorioso è riuscito ad unire e ad amalgamare quelle popolazioni di differenti lingue.
Più ancora giova osservare che se la civiltà, se il progresso, se la democrazia, hanno ovunque sradicato numerose ingiustizie e ordinamenti antiquati, hanno invece lasciato l’Austria e il suo Governo nelle condizioni in cui si trovavano cinquanta, sessanta anni or sono.
C’è in Austria, è vero, una costituzione, c’è il Parlamento, c’è il suffragio universale, ci sono molte altre moderne istituzioni. Ma tutto questo è larva, è finzione, è menzogna. In realtà l’Austria è in balìa del militarismo e del feudalismo.
C’è una costituzione. Leggendone i singoli capitoli potreste credere che essa sia migliore, più liberale della costituzione di molti altri paesi civilissimi.
Vi è affermato il diritto alla libertà di pensiero, alla libertà di parola, di confessione; vi è affermato il principio che pareggia tutte le nazionalità dello Stato, il principio che non ammette differenza fra slavi, italiani, polacchi, boemi, ecc. Ma la realtà è un’altra. La costituzione è una burletta. Chiunque sul suolo austriaco, sulle terre italiane dell’Austria osi dire liberamente il suo pensiero, trova subito il poliziotto che lo denuncia, la spia che lo calunnia, il giudice che lo condanna.
È proibito leggere Carducci; la storia d’Europa dopo il 1815 deve esser non solo non commentata ma neppur narrata; le teorie del positivismo costituiscono un crimine, come crimine è ogni critica allo Stato. L’eguaglianza delle nazionalità, teoricamente sancita, si risolve di fatto nel dominio più sfacciato del tedesco, del magiaro e dello slavo sull’italiano. Unica legge è l’arbitrio del forte contro il debole.
Tutto questo perchè? Perchè della costituzione ha valore un solo paragrafo: quello che permette di distruggere da un momento all’altro ogni diritto, di affidare i poteri dell’impero in mano alla Corte, alla nobiltà, all’alto clero e di dirigere la barca dello Stato al modo con cui la si dirigeva un secolo fa ai tempi anteriori alla rivoluzione francese. È il famoso paragrafo 14 della costituzione col quale si può sopprimere il Parlamento, e rendere illusoria tutta la costituzione austriaca.
C’è in Austria il suffragio universale, ma è un suffragio che sancisce il privilegio di razza perchè dà ai tedeschi un’assoluta preferenza sulle altre nazionalità. Esso serve così a scagliare un popolo contro l’altro. C’è sì a Vienna e c’è anche a Budapest il Parlamento; ma questi Parlamenti sono diretti da Ministeri che non dipendono dai deputati, da Ministeri che non si piegano davanti al volere dei rappresentanti del popolo, da Ministeri che quando sono colpiti dalla sfiducia dei deputati dicono ad essi: Qui noi rappresentiamo l’imperatore e qui rimaniamo anche se voi ci siete tutti contrarii. Voi votate di migliorare le condizioni dei ferrovieri? Non ne vogliamo sapere, perchè voi volete andare troppo oltre. Voi votate questo o quest’altro diritto di nazionalità? Noi chiudiamo il Parlamento e facciamo una legge completamente in senso opposto. Voi osate riconoscere agli italiani il diritto ad una propria Università? Noi non presenteremo più per la seconda sanzione la legge già accolta in prima lettura e accolta da tutte le commissioni. Questo è l’impero degli Absburgo. Il Parlamento si riduce ad essere un salotto di cortigiani, di gente che va a dare al governatore il proprio consiglio ma che non è mai ascoltata. E se c’è della gente coraggiosa che nel Parlamento vuole affermare le proprie idee, deve star zitta, perchè assai spesso nell’impero degli Absburgo — si ricordino la presenza e le violenze della polizia nella Camera di Budapest — il Parlamento è l’anticamera della galera.
Voi vedete dunque come in questo Stato, quello che altrove ha giovato a portare un po’ di luce e di giustizia, non ha recato alcun beneficio. Mi si domanderà allora come mai ci siano nell’Austria-Ungheria dei partiti democratici, come ci sieno delle falangi operaie organizzate, come vi sieno dei socialisti e possa pur sempre ancora persistere un congegno così feudale che rispecchia il potere assolutistico dei tempi anteriori alla rivoluzione francese. Per un semplice fatto: che questo Stato congloba in sè dieci differenti nazionalità, che i Governi di Vienna e di Budapest hanno adoperato tutte le astuzie per mettere queste nazionalità l’una in lotta feroce contro l’altra; che le condizioni dello Stato variano immensamente dalle pianure della Galizia al porto di Trieste, dalle alpi del Trentino ai granai dell’Ungheria; e sopra questo miscuglio di genti diverse e di diversi interessi domina quello strumento di forza che è il militarismo, stretto in connubio col clericalismo e con la nobiltà cui sono riservati innumerevoli privilegi.
A cozzare contro questa tirannia una e trina ci vorrebbe la rivoluzione interna; ma la rivoluzione la fanno i fratelli, la fanno coloro che si amano, non la possono fare popoli di diverse razze, di diverse religioni, di diverse indoli, di diverse idee e di diversi interessi.
I vari popoli dell’Austria possono aver comune il programma di domani: quello internazionale, umanitario. Ma non hanno comuni gli interessi di oggi, gli interessi, i diritti nazionali il cui compimento è presupposto indeclinabile dell’internazionalismo).
Ci sono coloro che hanno provato, ed anch’io fui fra questi, a partecipare a quei moti interni che potessero demolire, scuotere alle basi il trono degli Absburgo. Ma si è constatato che alcune provincie (quelle tedesche in Austria, quelle magiare in Ungheria) hanno interesse, a mantenerlo perchè sono le provincie che sfruttano gli altri; e questo sfruttamento giova alla monarchia e giova in certo modo non solo alle classi borghesi ma anche al proletariato. Voi trovate di conseguenza in certe provincie un proletariato che cosciente od incosciente mantiene le forme feudali dello Stato e se proprio non favorisce, tollera almeno che sia rispettata questa compagine così contrastante alla civiltà ed allo spirito moderno. D’altra parte se di fronte ad una forza militare, difficilmente oggi, potrebbe vincere una rivoluzione in qualsiasi città, è impossibile addirittura una vittoria contro il militarismo austriaco, alla cui direzione partecipano solo elementi nobili, feudali, partecipano militari di casta, per spirito tradizionale di famiglia e mai elementi popolari borghesi accessibili alle idee del popolo e disposti in un dato momento a sposarne la causa.
Le sole forze interne non bastano per distruggere o per modificare l’organismo austro-ungarico; v’è bisogno, poichè troppo e troppo spesso sono divergenti, che ad esse si uniscano delle forze esterne.
Rilevata questa speciale forza del congegno burocratico austriaco passiamo ad esaminare il problema economico delle terre italiane soggette all’Austria. V’è una frase fatta che si ripete pappagallescamente da anni e anni in Italia. L’Austria, si dice, è indubbiamente il peggiore dei governi per quanto concerne la libertà, in compenso però è una buona amministratrice, è generosa dispensiera di benefici economici. Non è vero. È una fama usurpata almeno per quanto concerne gli italiani. Il Governo austriaco non solo ha lasciato nel più doloroso abbandono le provincie italiane, ma ha permesso nel Trentino lo sfruttamento più iniquo della popolazione italiana a tutto beneficio della popolazione tedesca del Tirolo, come nella regione adriatica ha eretto a sistema di governo la cacciata dell’elemento italiano indigeno per far posto nei pubblici uffici e nelle industrie e pubbliche e private all’elemento forestiero croato.
L’Austria che dominava nel Lombardo-Veneto sessant’anni fa, avea per suoi esponenti tipici il poliziotto e il croato. Polizia e militarismo. Polizia intesa nel senso più abietto, di spionaggio, di corruzione, di coercizione continua, feroce di ogni libertà; militarismo considerato non come elemento di legittima difesa della patria, ma come strumento di oppressione. L’Austria moderna ha scoperto nuovi congegni di tortura. Essa ha trasformato i popoli in poliziotti e gendarmi di altri popoli. Ha messo sul collo degli italiani del Trentino i rozzi tedeschi del Tirolo; alle calcagna degli italiani adriatici le fanatiche orde slave. E slavi e tedeschi, aizzati dal Governo, inferociscono contro gli italiani, e con esso cooperano per fare strazio dei loro cuori, ed anche delle loro magre risorse.
Il Trentino conta 380 000 abitanti, italiani tutti, meno una percentuale di stranieri oscillante dal 2 al 3, percentuale inferiore a quella dei tedeschi di Milano e di qualsiasi grande centro industriale dell’Alta Italia. Questi trecentottantamila italiani non hanno diritto di amministrarsi da sè, non costituiscono una provincia autonoma; contro il loro volere, malgrado le proteste che da settanta e più anni si rinnovano ininterrotte, sono uniti ai cinquecentocinquantamila tedeschi del Tirolo, di una provincia sotto ogni aspetto differente dal Trentino, per lingua, storia, arte, costumi, clima, suolo, prodotti. Nel Parlamento provinciale sessanta deputati tedeschi dettano legge ai trenta deputati italiani. E sono leggi che offendono gli italiani in ciò che hanno di più caro, la lingua, la cultura, la libertà; e leggi con cui si sanziona un esoso sfruttamento economico. Da cento anni vige l’imposta sulla polenta, sul grano turco, con la quale si sono ammassati milioni e tutt’oggi si ricava poco meno di due milioni all’anno; or bene questa odiosa imposta grava esclusivamente sugli italiani. Il contadino trentino, alla pari del contadino veneto e lombardo, ha giornalmente sul suo povero desco il misero cibo della polenta. Il contadino, l’operaio tedesco non lo conoscono neppure; mangiano patate e altri cibi. Ma quando viene il momento di spendere questi denari, spremuti dallo stomaco del contadino italiano, si è generosi con la parte tedesca, avari con l’italiana. E quella è oggi fiorente, solcata da ferrovie, da arterie stradali, bene avviata nelle industrie, nei commerci. La parte italiana invece, malgrado la sua potenzialità economica, è misera, anemica, abbandonata, con poche vie di ferro, senza speranza di un miglior avvenire. Quel che avviene con la tassa sul grano ha riscontro in tutto il sistema tributario provinciale. Per tutte le spese che sono maggiori nella regione italiana (scuole, medici, ecc.), si impone il coprimento distretto per distretto con forti percentuali di contributo distrettuale; si riserva il coprimento con fondi integralmente provinciali invece quando il minor beneficato è l’italiano. Più volte si è deciso di non annoverare fra le disgrazie elementari degne di aiuto provinciale la grandine; perchè la grandine se distrugge i vigneti del Trentino non fa male agli abeti, ai pini e ai prati del Tirolo. Tutta questa scellerata politica tributaria si sanziona nella Dieta del «Santo Tirolo» invocando quel Dio
Che non disse al tedesco giammai: |
Del pari nell’Istria, nel Friuli orientale, nella Dalmazia, il Governo ha fatto quanto era possibile per alienarsi con la sua assoluta trascuranza ogni simpatia degli italiani, stabilendo ogni sorta di privilegi per gli slavi che a mille a milite furono artificialmente importati a Pola, a Trieste, a Gorizia per occupare nei cantieri, negli arsenali, nelle ferrovie i posti legittimamente dovuti alla popolazione indigena italiana.
Nell’Istria sono completamente trascurate la pesca e l’industria idei mare. L’agricoltura è in uno stadio primitivo. Estesissime zone sono infruttuose per mancanza di arginazione a torrenti o per trascurata canalizzazione. Le strade dell’Istria sono in gran parte quelle che vi hanno costruito, i francesi durante il dominio napoleonico.
Sulla costa dalmata oggi cresce a stento l’erba, mentre al tempo dei romani essa era tutta un orto e un giardino. I romani vi aveano costruito una fittissima rete di strade militari e commerciali; oggi vi è assoluta mancanza di ferrovie, non avendo nessuna importanza quei piccoli tratti mozzi costruiti dall’Austria per scopi strategici.
Ma sento obbiettarmi: Non potrete dire altrettanto di Trieste, di questo grande porto, reso fiorente dall’Austria, beneficato con milioni e milioni.
È una menzogna anche questa. L’Austria non ha del tutto trascurato Trieste, nè nel suo interesse poteva farlo; ma le ha dato il meno che le era possibile.
Cito dei fatti:
Trieste ebbe la prima ferrovia di congiunzione col suo hinterland più immediato solo nel 1857 e fu una linea irrazionale, affidata per di più allo sfruttamento di una compagnia privata e straniera. Ciò mentre, fino dal 1851, i porti del Mare del Nord ed in prima linea Amburgo erano congiunti col centro della monarchia e pochi anni dopo anche più giù fino a Lubiana.
Occorsero poi ben cinquanta anni precisi prima che Trieste ottenesse ad onta di mille e mille richieste, una seconda congiunzione ferroviaria indipendente e statale. E quando questa congiunzione si ebbe, fu per ragioni militari scelta la linea dei Tauri, Caravanche-Wochein, enormemente dispendiosa e impotente a portare uno speciale sollievo nelle tariffe.
A ritardare lo sviluppo di Trieste, mentre Amburgo faceva progressi sorprendenti, contribuirono i ritardi nelle opere portuali. Appena nel 1883 Trieste ebbe un porto rispondente al nuovo stato di cose creato dallo sbocco di una ferrovia a Trieste. E quando fu ultimato si mostrò insufficiente ad accogliere le navi moderne. Le costruzioni posteriori, quella del Porto Nuovo e quella non ultimata a Sant’Andrea furono eseguite con immensi ritardi e in modo punto corrispondente agli accresciuti scambi commerciali.
Del resto a dare un’idea esatta dell’opera del Governo austriaco nel porto di Trieste, basti ricordare che l’Italia per la sola Genova spese finora 235 milioni di lire; l’Austria invece nello stesso periodo di tempo spese pel porto di Trieste — compresi i contributi del comune — 100 milioni di corone.
L’Austria proseguì col massimo zelo un sistema tariffario tendente a lasciare nella sfera d’attrazione dell’emporio di Trieste le provincie povere al di qua di una barriera che da Praga va al confine boemo-bavarese, oltre Norimberga e Monaco, fino al lago di Costanza; mentre i territorii ricchi, industriali, al di là di questa barriera si fanno gravitare tutti verso Amburgo, Anversa e Rotterdam.
L’Austria che lesinò i milioni a Trieste fu prodiga di miliardi per la costruzione dei canali galiziani.
Se del mio asserto un’altra prova si volesse ce la dànno ancora le cifre:
Trieste, l’unico porto di uno Stato di 28 milioni e mezzo di abitanti, aveva nel 1910 un movimento merci di 28,5 milioni di quintali, mentre Venezia, che non è nè il primo nè l’unico porto d’Italia e deve dividere con ben quindici altri porti il complesso dei traffici della penisola, aveva un movimento, pressochè uguale, di 26,7 milioni.
Questo è lo stato reale economico di Trieste, della città «beneficata» dall’Austria.
Che se noi dall’esame delle condizioni economiche fatte dall’Austria alle popolazioni italiane, passiamo a dare uno sguardo al trattamento politico, ci troviamo dinanzi ad una delle pagine più dolorose, più vergognose della storia d’Europa.
Domina nei paesi italiani irredenti non la giustizia ma la polizia, non lo spirito di civiltà ma esclusivamente il militarismo, la dittatura militarista. Ogni libertà è impedita. Nelle scuole vige l’inquisizione. Il giornalismo è soffocato dalla censura. Ogni manifestazione che abbia carattere di cultura, di italianità è impedita. L’uomo politico, se non è un servitore del Governo, non può esprimere le proprie opinioni. I magistrati e le autorità civili non hanno alcuna indipendenza; devono ciecamente ubbidire all’autorità militare. Trionfa lo spionaggio; tutti gli esseri più abbietti, gli avanzi delle carceri, i regnicoli rinnegati trovano la protezione e l’aiuto dell’i. r. Governo purchè si prestino a far opera di tradimento e di corruzione. I regnicoli onesti, che non rinnegano la patria, sono dall’Austria banditi come malfattori. Negli ultimi due anni sono stati sfrattati dall’Austria non meno di tremila cittadini del Regno. Non vi è giovane di vent’anni, che abbia il cuor generoso e la mente libera, che non abbia scontato con settimane o mesi di carcere i suoi sentimenti di fierezza.
E come questo non bastasse l’Austria si adopra con accanimento a soppiantare la lingua italiana, sopprimendo scuole italiane in territorii italiani e creando scuole tedesche nel Trentino, slave nella regione adriatica e magiare a Fiume.
Fiume ha 27 000 abitanti italiani e solo 6000 ungheresi, che son tutti impiegati e soldati. Orbene a Fiume tutte le scuole italiane governative italiane, dalle elementari alla media all’accademia nautica, furono soppresse. Al loro posto ci son scuole magiare. Al comune non fu permesso di erigere scuole italiane, a sue spese, che in misura ridotta.
Solo chi assiste al martirio che si fa di una povera creatura che dalle labbra materne ha appreso la dolce lingua del sì e a cui si fanno forzatamente apprendere le nozioni elementari in una incompresa lingua straniera, solo chi assiste a questo martirio e vede come con tale sistema si intorbidino le intelligenze, si sfibrino, si stanchino i cervelli teneri, si annientino le impronte della stirpe, del genio, è in grado di comprendere quanta barbarie ci sia in quest’opera snazionalizzatrice.
L’Austria sa benissimo di non riuscire a creare con le scuole straniere nè dei tedeschi, nè degli slavi, nè dei magiari. Sa di creare dei bastardi, degli esseri inferiori; essa vuol appunto coltivare l’homo austriacus, un essere cioè che sia un debole, un degenerato, che viva non con l’orgoglio di appartenere ad una stirpe gloriosa, non con sentimenti d’affetto per quelli che parlan la stessa lingua, ma che viva solo per piegar la cervice davanti alla potenza degli Absburgo e riconosca in questa le ragioni e il fine della sua esistenza.
La politica di terrore e l’azione di imbastardimento che l’Austria compie ci addimostrano come essa e con essa tutto il teutonismo siano assai più feroci e cattivi in tempo di pace, di quello che in tempo di guerra.
Lo stesso martirio dei belgi — e non si può nominare questo eroico popolo senza inviargli il saluto dell’ammirazione e della solidarietà — è tenue cosa in confronto dell’azione di odio, di veleno, di lenta tortura che si compie a danno degli italiani.
I belgi sono stati cacciati dai loro focolari. Sono oggi raminghi nelle ospitali terre di Bretagna e d’Olanda, nella terra generosa di Francia; gli scienziati, gli artisti belgi non hanno più i loro templi della bellezza, della scienza, dell’arte; gli operai non hanno più le loro meravigliose officine; i contadini sono privi delle loro terre ubertose; eppure, così colpiti, saccheggiati, scherniti posson gridar alto che non tutto fu loro tolto. Essi possono rispondere come Arrigo Heine rispondeva ai doganieri: «Frugate, cercate pure nelle mie valigie se c’è qualche cosa di pericoloso. C’è nel mio cuore, nel mio cervello qualche cosa che voi non potrete mai sequestrare.» Con pari fierezza possono i belgi proclamare che la loro coscienza, la loro fisionomia nazionale non sono state punto offuscate. Ma così non possiam dir noi, italiani dell’Austria. Con infinita angoscia noi dobbiamo riconoscere che qualche cosa della nostra individualità ci fu tolto, che sulle anime nostre s’è iniziata un’opera di disgregazione; e dobbiam riconoscere che se il nostro coraggio contro il teutonismo è oggi scarso, più scarso sarà domani quello dei nostri figli, dobbiam constatare come troppo spesso, fatalmente, di contro alla ferocia dei governanti sorga l’arma corruttrice e corrotta dell’ipocrisia; e come il prolungato martirio costringa tutte le anime fiere e libere all’esilio lasciando il paese ognor più povero e stremato.
Questa terribile situazione ci obbliga a riconoscere che quei germanici che a colpi di cannone abbattono le cattedrali di Reims e di Louvain sono meno barbari degli austriaci, che a colpi di spillo trascinano noi italiani in una lenta agonia e fra torture e spasimi voglion torci l’impronta della stirpe e del genio.
Il martirio degli ottocentottantamila italiani è noto. Nessuno osa negarlo. Ma questi italiani non rappresentano che la sessantesima parte della popolazione della duplice monarchia. E molti si domandano se, malgrado il sacrificio loro, l’Austria non abbia speciale ragione d’esistere ed una funzione speciale da compiere nell’interesse generale d’Europa.
Costoro si fanno banditori — un po’ in ritardo — della teoria proclamata trent’anni or sono da eminenti politici francesi, accolta poi dallo stesso Francesco Crispi, e compendiata nelle celebri parole: «Se l’Austria non esistesse, si dovrebbe crearla». Si dovrebbe crearla per avere nel centro d’Europa un cuscinetto atto a smorzare gli urti, gli attriti fra l’elemento latino e le razze slave e germaniche.
Io non sono di questo parere anche nei riguardi del passato; ma posso indulgere, posso credere che nel passato l’Austria abbia avuto questa funzione moderatrice degli attriti fra il mondo germanico, lo slavismo e l’elemento latino. Ma quello che valeva dieci anni fa, quello che forse valeva cinque anni or sono, quello che poteva valere pochi mesi or sono, non vale più in questo momento in cui l’Austria è diventata un magazzino di polveri in piena e completa esplosione.
L’Austria-Ungheria poteva costituire un elemento di equilibrio finchè tutte le varie nazionalità in essa conglomerate vivevano tranquille, obbedienti al Governo centrale senza avanzare diritti nazionali. Vi fu un tempo in cui i ribelli nell’impero erano solo gli italiani. Tutti gli altri popoli, eccezion fatta dei polacchi, si adattavano alla supremazia tedesca o polacca in Austria, al dominio magiaro in Ungheria.
Si adattavano perchè erano i popoli senza storia o i popoli decaduti, i popoli privi di proprie classi dirigenti. Per quindici anni dal 1878 al 1893 il ministro Taaffe governò contro il liberalismo tedesco con il suo famoso eiserner Ring, l’anello di ferro, formato dalle minori nazionalità rappresentate quasi esclusivamente da elementi reazionari. Mancava nei ruteni, negli sloveni, nei serbo-croati e in buona parte degli stessi ceki e rumeni una chiara e forte coscienza nazionale. Non eran popoli. Eran greggie. Ma ora si sono rapidamente, fulmineamente quasi ridestati.
L’industrialismo, l’allargamento dei diritti politici e per ultimo la grande riscossa balcanica furono gli elementi vivificatori della coscienza nazionale.
L’industrialismo, penetrato nelle provincie più remote, creò nuove classi dirigenti e culturali, che non vollero più subire la direzione morale di altre nazioni. La cultura cominciò a diffondersi da prima nella borghesia, poi negli strati popolari. Il capitalismo che altrove produce solo la lotta di classe, provocava qui le lotte nazionali. L’allargamento successivo dei diritti politici, reclamato per ragioni sociali dal proletariato delle grandi città, rese possibile la affermazione di tutte le nazionalità meno evolute.
Il movimento balcanico dette l’ultima grande spinta. Fu la scintilla incendiatrice.
È un vero orgoglio nazionale da cui sono state prese tutte queste nazioni; pare abbiano subito un’iniezione che abbia alterato il loro sangue. Sono tutte pervase da sentimenti d’odio contro chi fu fino a ieri il loro dominatore.
Prima dell’introduzione del suffragio universale al Parlamento austriaco i ruteni erano un elemento pressochè ignoto. Si accontentavano di mandare come loro rappresentanti dei latifondisti polacchi o tedeschi. Con la riforma elettorale essi mandano invece in Parlamento un gruppo compatto di gente uscita fuori dagli strati popolari. Mandano parecchi deputati contadini, artigiani, che non sanno una parola di tedesco, la sola lingua ammessa nei verbali parlamentari, e a scopo di protesta parlano ostentatamente ruteno, con discorsi che durano giornate. Essi scatenano lotte addirittura feroci che paralizzano a lungo l’attività del Parlamento.
Le cricche dominanti rimasero sbalordite; ma non vollero persuadersi d’esser di fronte ad un movimento infrenabile. Col bastone e soprattutto con la corruzione avean dominato sempre. Speravano quindi di soffocare quei sentimenti nazionali ai quali per secoli avean saputo sostituire il sentimento dinastico. Si illusero. Alla vigilia della guerra l’Austria boriosamente annunciava nei suoi comunicati ufficiali che il confine orientale della monarchia sarebbe stato validamente difeso dal popolo ruteno. La furia cosacca avrebbe trovato una diga nei petti dei ruteni, devoti alla Corona e allo Stato. I ruteni aprirono invece le braccia, agli eserciti dello Czar, acclamandoli come liberatori, aiutandoli e con le armi e con le astuzie più raffinate, dichiarando insomma preferibile l’impero russo alla tirannide austriaca.
La stessa direttiva dei ruteni della Galizia e della Bucovina mostrano chiaramente di voler seguire i rumeni e i serbo-croati.
Anche i rumeni, questi nostri fratelli latini, abitanti parte nelle provincie austriache, parte in quelle ungheresi, erano stati pel passato, timidi sotto il dominio degli Absburgo. Ma appena videro la magnifica risurrezione della loro patria, svincolantesi da ogni giogo ottomano, appena videro la Rumenia prendere un posto notevole fra le potenze d’Europa, avviarsi rapida verso la civiltà nuova, essi sentirono lo spirito di attrazione verso la madre patria e divennero irredentisti. Così ora non guardano più nè a Vienna nè a Budapest; il loro faro è Bukarest.
Nei territori meridionali della duplice monarchia v’è un complesso di famiglie slave costituenti i serbo-croati.
Sono quei croati che i padri vostri odiarono, che erano qui in Italia gli «strumenti ciechi d’occhiuta rapina». Erano i puntellatori del dominio degli Absburgo, oggi ne sono i nemici più accaniti. Anche in essi si è destata la coscienza nazionale e con essa è sorto fremente lo spirito irredentista. Perchè? Perchè hanno visto la madre patria, la Serbia, vincere superbamente la Turchia, affermarsi come grande nazione, assicurarsi un avvenire fiorente ed hanno compreso che anche per loro la civiltà e il progresso saranno possibili solo nell’unione coi fratelli del sangue.
Così tutte le nazionalità che prima vivevano indifferenti e rassegnate e si lasciavan guidare dalle cricche feudali dell’impero sono oggi pervase da sentimenti di ribellione.
Ora quest’Austria — da cui tutti i popoli cercan di fuggire, come si fugge la lebbra — non è più il cuscinetto pacificatore, non è un guanciale propizio ai sogni e ai sonni delle grandi razze, è semplicemente un organismo malato in stadio di dissolvimento e di putrefazione. Putrefazione che non può lasciare indifferenti gli italiani, giacchè l’Italia non può, non deve esser condannata al martirio di San Massenzio: di quel santo che fu condannato a portar strettamente legato a sè un morto, finchè il morto riusciva, con l’infezione sua, con la sua putredine, a uccidere il vivo. L’Italia deve tener da sè ben disgiunto il corpo canceroso dell’Austria.
D’altronde è proprio vero che le grandi razze per viver tranquille abbian bisogno di aver in mezzo un cuscinetto? Anche il Belgio doveva fungere da cuscinetto fra Germania e Francia e il cuscinetto se n’è andato in fiamme.
Per far cessare le ragioni dell’odio e dello sciovinismo, le ragioni della prepotenza, occorre il trionfo della giustizia nazionale, occorre che al posto di Stati artificialmente uniti, vi sieno Stati corrispondenti alle unità nazionali, alla coscienza storica delle popolazioni, alle loro aspirazioni. Occorre che ogni nazione sia padrona in casa sua e non voglia a sè soggetta alcun’altra nazione.
Noi possiamo ancora oggi ripetere il verso del poeta:
Ripassin l’Alpe e tornerem fratelli.
Ma si aggiunge da qualche anima molto timorata
un’altra obiezione: Con l’Austria noi fummo,
noi siamo alleati; un popolo cavalleresco come
l’italiano non deve venir meno ai patti, se non
vuol perder l’onore.
Sì, l’Italia fu per tanti anni alleata degli imperi centrali. Ma chiediamoci francamente: Fu questa una alleanza di popolo? Fu alleanza di cuori, di anime? Ci fu mai uno scatto di affetto del popolo italiano verso il sovrano di Vienna, verso i popoli tedeschi o slavi dell’Austria? No. Non fu neppur un’alleanza di cortesia. Se tale fosse stata, Francesco Giuseppe avrebbe dovuto degnarsi di render la visita al sovrano d’Italia a Roma. Fu alleanza di interessi. La Triplice nei riguardi dell’Italia va paragonata ad una società di commercianti che si uniscono per gestire in comune un’azienda e dopo molti anni si dividono, ciascuno apre bottega per conto proprio e diventano l’uno concorrente dell’altro, senza poter per questo esser tacciati da persone vili, sleali o disonorate. Solo ragioni di interesse spinsero l’Italia a entrare nella Triplice e poichè queste ragioni non esistono più, l’Italia può far sua la sentenza di Ottone di Bismarck: «Nessun popolo, sull’altare della fedeltà ad un trattato, potrà mai sacrificare le ragioni della propria esistenza».
L’Italia ufficiale ha ragioni speciali per dichiarar decaduto quel patto che il popolo non ha mai convalidato, ha diritto a rivendicarsi completa libertà d’azione.
Se nei trentanni di alleanza ci fu tra gli alleati chi venne meno agli impegni, tale addebito mai potè farsi all’Italia; mentre i due imperi centrali accumularono a danno nostro torti su torti e provocazioni su provocazioni. Non si schierò forse l’Austria in agguato dell’Italia quando la catastrofe di Messina avea portato in tutta la penisola lo sgomento e la desolazione? Non furono Austria e Germania che impedirono all’Italia di portare a facile e sollecito compimento con una battaglia navale la guerra coloniale di Tripoli, facendosi paladine della Turchia? E non è cosa d’ieri la cacciata da Trieste dei cittadini regnicoli, mentre s’era appena rinnovato il patto d’amicizia? E non era forse la Triplice una lega difensiva, con l’obbiettivo di mantenere l’equilibrio nei Balcani? La lega difensiva è stata dall’Austria e dalla Germania mutata in lega offensiva e non v’ha bisogno di soggiungere che l’equilibrio nei Balcani è stato turbato, distrutto anzi, dall’Austria con la sfida intimata alla piccola Serbia.
No, gli storici imparziali dell’avvenire non avranno difficoltà a riconoscere che il contegno dell’Austria e della Germania verso l’Italia fu sempre ispirato ai criteri stessi che Germania ed Austria ebbero verso il Lussemburgo ed il Belgio di cui violarono la neutralità.
Nessun uomo della Consulta, dunque, nessun ministro d’Italia offenderà l’onor nazionale, disdicendo un’alleanza che è mancata ai suoi fini ed è per l’Italia divenuta una croce, una catena; ma io ricordo che vicino ai patti firmati dai ministri vi son quelli accettati dal popolo. C’è il testamento di Garibaldi e di Mazzini, di tutti i fattori dell’unità della patria che indicavano la suprema necessità di integrare l’Italia fino alle Alpi. Di questo testamento furono assertori i poeti d’Italia da Carducci a Pascoli e banditori uomini come Bovio, Cavallotti e Imbriani. Alle firme di costoro, che son le vere firme del popolo d’Italia, il popolo deve far onore.
Eppure anche da coloro che non ebbero mai, nè logicamente dovrebbero aver adesso, alcun speciale affetto per la Triplice, si sollevano altre obiezioni. Si dubita che Trento e Trieste possan aver vantaggio dall’annessione al Regno d’Italia, si vede in Trieste la concorrente di Venezia, si teme che i sacrifici a cui andrebbe incontro l’Italia non sieno sufficientemente compensati.
Io potrei a cotesti timorati rispondere ricordando che se il piccolo Piemonte avesse voluto vagliare i maggiori o minori vantaggi economici dell’annessione delle singole provincie, l’Italia non sarebbe ancor unita in nazione. Potrei ricordare la risposta di quel vecchio patriotta triestino: «Trieste sia un semplice nido di pescatori, ma sia terra d’Italia e non covo di barbari». Ma a queste ragioni del sentimento non voglio dare, dopo le premesse mie, un valore. Mi richiamo invece a dati di fatto. Voglio portare qui la nozione delle cifre, della realtà.
Il Trentino è un paese povero, lo dissi prima, anemico, dissanguato. Ma è tale perchè così lo vuole il Governo austriaco. I ventitrè mila operai che debbono guadagnarsi il pane lontani dal mio paese, per dieci mesi all’anno, potrebbero aver domani abbondante e fruttuosa occupazione se fosse utilizzata l’enorme quantità di carbon bianco di cui è ricco il Trentino, se vi fosse lo sfruttamento dei ricchi depositi di minerali e di marmi. Ma il Governo austriaco ha decretato che rimangano inerti i duecentocinquantamila cavalli di forza elettrica disponibile, perchè esso non vuole che nelle zone di confine sorgano industrie. Il Trentino è coperto di selve, in cui si può peregrinare ore ed ore, ma gran parte del legname non può essere condotta al piano per mancanza di strade e di ferrovie.
Il Trentino ha estesi pascoli che ora non può più sfruttare e vanno riducendosi a sterpi e roveti perchè il Governo austriaco impedisce alle mandre di passare il confine politico. Le mandre che nella stagione estiva trovano cibo abbondantissimo nelle montagne trentine, hanno bisogno di svernare nelle pianure lombarde e venete. Il Governo però non concede più il transito nel Regno. Così la pastorizia che era fiorentissima è stata ridotta a esigue proporzioni. Rifiorirà al pari dell’industria solo con l’abolizione dell’attuale barriera politica.
E Trieste? Ricordo quel che già ebbi a dire; che Trieste deve all’Austria assai meno di quanto si crede. L’importanza sua è determinata più che dall’appartenenza all’impero, dalla sua posizione geografica. Esso è il porto dell’Adriatico che più si addentra al nord nell’Europa centrale; ed è quindi lo scalo preferito per le merci che dal centro d’Europa sono dirette in Oriente.
Malgrado l’esistenza della barriera doganale fra Germania ed Austria, Trieste è grande esportatrice di merci sud-germaniche. La quinta parte dei traffici triestini è germanica.
Dalle regioni alpine che stanno alle spalle di Trieste e sono ricche di legname, viene al nostro porto un commercio notevolissimo, specie d’esportazione. Ebbene, questo commercio è destinato a rimanere immutato anche per l’avvenire, giacchè lo scalo a Trieste è per esso il più rapido e il meno costoso. Si può imaginare, si può pensare che i prodotti della Carinzia, della Carniola, della Stiria abbiano a percorrere in ferrovia tutta l’Austria e la Germania, per giungere al porto d’Amburgo e di lì, facendo il giro a mezza Europa, arrivare ai loro mercati naturali che sono l’Italia media e la meridionale? Neppur per sogno!
Parlare di possibili lotte tariffarie è assurdo, quando si pensi che l’esportazione austriaca in Italia supera di molto l’importazione dall’Italia.
Non è certo uno Stato, economicamente disperato e destinato ad uscire indebolito dall’attuale guerra di sangue, che potrà darsi il lusso di una grande guerra doganale.
Ma v’è un altro lato della questione che giova tenere presente: quello che riflette gli interessi simultanei di Trieste e del Regno. Il commercio triestino è del tutto differente da quello prevalente negli attuali porti d’Italia. Le maggiori relazioni dei porti del Regno sono con le Americhe, l’Inghilterra, la Francia, la Svizzera.
Il commercio triestino batte di preferenza altre vie: i Balcani, l’Egitto, l’Oriente. L’Italia ha con l’Egitto un commercio che si valuta a 89 milioni, ma quello di Trieste è di 322 milioni; l’Italia traffica con la Grecia per 20 milioni, Trieste per 62. E così dicasi della Bulgaria, della Turchia asiatica ed europea, ecc.
Trieste per la sua postura e per le sue tradizioni si presenta come il porto più adatto per conquistare commercialmente all’Italia tutte le regioni dell’Adriatico liberate dal giogo ottomano, come per esser tramite di congiunzione con quei nuovi granai del mondo che stanno ora sviluppandosi nelle vaste regioni percorse dall’Eufrate e dal Tigri.
In quest’opera utile a sè, e all’Italia, Trieste porterebbe il concorso delle sue linee di navigazione, della sua organizzazione commerciale, della sua clientela.
Altrettanto avverrebbe di Fiume che presenta condizioni analoghe a quelle di Trieste.
Ripete taluno, senza ben ponderare, la vecchia storia di rivalità possibili fra Trieste e Venezia. Ma ormai non vi è più motivo di competizioni economiche. Ciascuna delle città ha ben delineato il suo hinterland e la pertinenza ad uno stesso Stato diminuirà, non accentuerà certo le possibili ragioni di conflitto. Tanto più che, al di sopra delle competizioni locali, si va delineando la necessità di una concorde cooperazione dei porti adriatici contro le tendenze monopolizzatrici dei porti nordici, che rappresentan per tutti, anche pei porti mediterranei, la vera concorrenza. Sarà il sud latino contro il nord: la gran battaglia incruenta sui mari, che seguirà a quella del sangue, delle mine, delle granate e dei siluri.
Più che alla ricerca dei piccoli spostamenti d’interesse fra porto e porto e dei momentanei spostamenti e delle oscillazioni inerenti ad ogni grande innovazione sia politica che sociale, l’Italia deve oggi proporsi di stabilire quel che le accadrebbe, se col completarsi dell’iniziato sfacelo dell’impero austriaco, Trieste diventasse un porto germanico o un porto slavo.
Trieste tedesca vorrebbe dire il rafforzamento di tutte le influenze germaniche nelle industrie, nelle banche, vorrebbe dire la presenza d’un concorrente temibile in quei commerci del Levante e dell’estremo Oriente che più si confanno all’Italia; vorrebbe dire la perdita di buona parte del commercio italiano con le Americhe.
Trieste slava vorrebbe dire il subitaneo passaggio alla Serbia di tutti i commerci austriaci in Oriente e il crearsi di una potenza concorrente e irruente da Trieste a fiume, a Cattaro, ad Antivari addirittura colossale!
Ma il problema dell’annessione di Trento e Trieste merita inoltre di essere esaminato nei riguardi della difesa del paese.
L’Italia non ha frontiere verso l’Austria. Il Trentino nelle mani dell’Austria è una formidabile base d’operazione contro l’Italia, un cuneo che sfonda la catena delle Alpi. È un nodo montuoso ove si raggruppano numerose testate di valle di parecchi importanti fiumi e da esso si diparton a ventaglio numerose vie verso la pianura padana. Il mio paese, il Trentino, può rassomigliarsi ad un grande palazzo che ha nella sua facciata principale ben quattordici porte amplie, luminose che lasciano aperto l’adito al bel giardino d’Europa, alla terra d’Italia. Nella facciata di dietro vi è invece una porticina piccola, piccola, quella che di solito, nelle case signorili, è destinata alla servitù.
La porticina piccola del Trentino ha servito invece ai padroni, agli stranieri. Entrati pel piccolo pertugio essi sono pronti a uscire per le quattordici porte grandi nel giardino d’Italia. Ora noi vogliamo spalancate a voi, fratelli d’Italia, le quattordici grandi porte e ben chiusa agli stranieri la porticina piccola. Solo quando il confine sarà portato alla grande catena delle Alpi, esso sarà veramente formidabile e facilmente difendibile per la sua natura e per la brevità sua in confronto della lunghissima linea attuale.
Altrettanto vale per la regione adriatica. L’unico confine sicuro è dato dalla ben marcata linea delle Alpi Giulie e delle Alpi Dinariche. Il confine attuale nel Friuli fu felicemente definito come una paratoia idraulica automobile da servire alla erogazione delle forze austriache. Basta che l’Austria aumenti il livello delle sue forze, perchè automaticamente esse straripino verso la pianura friulana. Difficilissima, quasi impossibile è oggi la difesa in questa regione, tanto che gli italiani, di fronte ad un’invasione dovrebbero ritirarsi fino alla linea dell’Adige, alla sua volta minacciato dall’Austria, per le molteplici vie del Trentino; ma difficile sarà anche la difesa del mare Adriatico, finché l’Italia, priva delle forti basi navali, con rifugi sicurissimi e capaci porti, dell’Istria e della Dalmazia, dovrà muovere dalla lontana base di Taranto, non avendo nè Venezia, nè Ancona, nè Brindisi i requisiti adatti di grandi piazze marittime.
Il problema dell’annessione delle regioni irredente si affaccia come un problema nazionale, come problema della patria; ma esso spiana la via al problema delle patrie, perchè l’azione dell’Italia in questo momento varrebbe a render più sollecita la ricostituzione dell’eroico Belgio, permetterebbe alla Polonia dilaniata, oppressa da un triplice giogo di ritornare unita e indipendente, alle genti rumene di associarsi tutte in uno Stato libero e forte; agli slavi del sud di avviarsi col potente ausilio dell’unità patria verso la civiltà industriale.
Quest’Italia nostra, che fu sempre così generosa verso le patrie oppresse e sempre accorse in aiuto di quelle che venivan ricostituendosi; quest’Italia che mandò Francesco Nullo a morire gloriosamente in Polonia e il fior dei suoi giovani a far di sè sacrificio sui campi dell’Ellade e Garibaldi a Digione, quest’Italia deve col suo popolo, con tutto il popolo, col suo Governo assolvere il dover suo verso le patrie che anelano a risorgere e versano a torrenti il sangue per mantenere la propria indipendenza.
Ci avvieremo allora alla soluzione di più vasti problemi. Distrutti i focolari di reazione che si annidano al centro d’Europa, tolta al teutonismo la possibilità di soffocare le altre nazioni, potrà tramutarsi in realtà quello che fu il sospiro di Mazzini e il programma di Carlo Marx: la federazione degli Stati d’Europa. Per attuarla occorre ci siano gli Stati; ma per Stato non si deve intendere un conglomerato come l’Austria, un caos entro al quale ribollono dieci bandiere, dieci lingue, dieci nazioni, un forzato amalgama in cui si vorrebbe soppresso ogni sentimento di patria e di civiltà per sostituirvi una cieca devozione alla dinastia più esecrata del mondo; per Stato deve intendersi l’unione di quelli che parlano la stessa lingua, che hanno una comune coscienza storica e abitano in un territorio, quant’è più possibile, ben demarcato da confini naturali.
Solo attraverso una tale costituzione degli Stati, arriveremo all’Internazionale. Questa sarà, come diceva Jaurès, una garanzia per la indipendenza delle nazioni, come nelle nazioni indipendenti l’Internazionale avrà, alla sua volta, i suoi organi più possenti e più nobili.
Credo, o cittadini, d’avere dato risposta sufficiente ai problemi da me accennati nell’esordio, per quanto l’argomento potrebbe esser suscettibile di maggior svolgimento. Ma penso che farei a tutti voi un grave torto maggiormente insistendovi. Farei torto ai vecchi, che hanno subito l’onta della dominazione straniera se supponessi che il loro cuore non batta all’unisono col nostro e non frema di odio e dolore contro l’oppressione austriaca.
Farei torto alle generazioni che hanno avuto ed hanno le redini d’Italia, se le ritenessi ignare delle ragioni per cui, come l’agricoltore cerca dare al proprio podere una completa unità organica aumentandolo di tutti quei piccoli territori, di quei ritagli che sono baciati dallo stesso sole, che sono ricchi degli stessi prodotti, così è necessario procurare l’integrazione del territorio nazionale, per averne uno sviluppo pieno ed organico.
Non è possibile che il Governo di Roma non abbia dei pieni diritti d’Italia su Trento e Trieste quella visione chiara e precisa che con la generosa offerta dei prigionieri italiani irredenti, ha mostrato di avere il maggior rappresentante dello slavismo in Europa.
Farei, torto se spendessi parole soverchie per parlare ai giovani, per parlare a coloro che hanno dato l’anima e il cuore alle idee più larghe, alle idee umanitarie.
In tutti coloro che appartengono ai partiti più avanzati c’è un sentimento profondo ed alto del rispetto che si deve alla vita umana e agli interessi collettivi; ma essi non possono non sapere che fra l’uomo singolo e l’umanità c’è un anello di congiunzione che non si può nè spezzare, nè dimenticare; ed è la patria, è la nazione.
Farei torto ai cuori gentili, se osassi supporre che lo strazio delle madri di Trento e Trieste crudelmente orbate dei figli, condotti al macello sui campi di Galizia, non sia condiviso dalle madri tutte d’Italia. Più di sessantamila italiani, furon con violenta coercizione mandati pei primi di fronte al piombo cosacco. Di essi fu fatta un’orrenda carneficina; ad essi fu imposto il martirio più atroce: quello di dare la vita non per la patria, non per un alto ideale di umanità, ma a sostegno e a difesa della più abietta tirannia. Quanti sentono lo sdegno verso un tale governo, devono cooperare a ciò che esso sia cancellato dalla faccia della terra.
Contro di esso devono sorgere e i vivi e i morti d’Italia. Coi vivi sarà nel momento della grande riscossa, Garibaldi.
Egli, che, morente, diceva ai fratelli di Trieste: «Verrò con voi, sia pur legato sul mio cavallo, sia pur trainato, in carrozza; verrò con voi a combattere l’ultima battaglia per la patria», Egli sarà il milite ideale che guiderà la gioventù fra le balze trentine e sulle spiaggie adriatiche.
E poichè, o cittadini, mi è fiorito sulle labbra il dolce nome dell’Eroe, lasciate che io chiuda, ricordando l’episodio suo ultimo nelle valli trentine. Egli coi suoi valorosi avea conquistato brano a brano quelle terre, l’avea bagnate del sangue dei suoi prodi. Attorno a lui fremevano d’amore e dolore i commilitoni nell’attesa di poter piantare il tricolore nella mia Trento, quando venne a lui l’ordine fatale di abbandonare quelle valli, conquistate con tanto sangue. Egli non rassegnato, ma con gli occhi e col cuore rivolti solo al supremo bene della patria, rintuzzò in ogni legittimo orgoglio, ogni ambizione di capitano, donò alla patria la sua gloria di quel momento, e soffocando i sentimenti di ribellione rispose il famoso «Obbedisco». Ora io mi auguro, cittadini, che quando la patria chiamerà i suoi figli alle armi per pompiere l’opera di Garibaldi, tutti gli italiani col cuore istesso, con lo stesso spirito che ebbe Garibaldi, al di sopra di ogni interesse personale, di ogni ambizione, d’ogni meschina gara di parte, tutti sappian rispondere: Siam pronti. Obbediamo!
- ↑ Conferenza tenuta, a Bologna il 13 ottobre 1914.