Aes rude, signatum e grave rinvenuto alla Bruna/Capitolo III

Luigi Adriano Milani

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Capitolo II Capitolo IV

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CAPITOLO III.

L’aes signatum quadrilatero1.


Per la cronologia più precisa e rigorosa dell’aes grave romano in genere e delle serie in ispecie credute laziali, da noi assegnate alle città di Suessa[p. 67 modifica]Aurunca, Capua, Cales, non che per la conferma delle nostre spiegazioni tipologiche, ed a riprova di quanto abbiamo esposto fin qui, è importantissimo che il lettore ci segua nell’analisi dell’aes signatum quadrilatero, che abbiamo trovato nel nostro ripostiglio, congiunto con gli assi assegnati a Suessa-Aurunca ed a Capua.

Apparisce a prima giunta notevole la presenza nel nostro ripostiglio dell’aes signatum n. 5 recante il nome dei Romani:

ROMANOM


Il quadrilatero n. 5 (tav. VI- VII) è un pezzo di pretto carattere e tipo romano-campano. Da una parte presenta l’aquila con la folgore negli artigli, e dall’altra, il pegaso veloce.

L’aquila con l’ali spiegate recante la folgore (già l’accennammo a p. 59) è l’uccello di Giove, che domina dalla vetta del Campidoglio, anzi dal fastigio e dagli angoli del tempio di Giove Capitolino2, presago dei destini di Roma e vindice implacabile dei nemici dei Romani; è il simbolo della suprema potestà divina3 e della suprema forza [p. 68 modifica]materiale del popolo romano4; è l’emblema abbreviato di Giove Fulguratore, rappresentato dalla fatale quadriga fittile di Volcas di Vei sul culmine del tempio Capitolino5, raffigurata nei famosi quadrigati romani (v. sopra p. 53) e nel bronzo trientale Capuano a iscrizione osca6; è l’aquila infine che, come uccello del buon augurio, guida e protegge le legioni romane7, e che, quale insegna dell’esercito (l’aquila legionare), rappresenta l’onnipotenza militare romana e propriamente l’imperium militare8. Di qui anche la celebre invocazione di Orazio riferita a Druso, [p. 69 modifica]degna progenie dei Neroni e dei Claudi (Lib. IV, od. IIII, ed. Kiesseling):

Qualem ministrum fulminis alitem,
cui rex deorum regnum in avis vagas
permisit expertus fidelem
Iuppiter in Ganymede flavo,
olim iuventas, et patrius vigor
nido laborum propulit inscium,
etc.

Il Pegaso veloce, posto a retro del nostro aes signatum ed accompagnato dall’iscrizione etnica ROMANOM, ha anch’esso diretto rapporto e riscontro con l’aquila del diritto e con l’imperium militare. — È il cavallo di Bellerofonte delle belle monete di Irina nella Campania (Garrucci, tav. LXXXVn, 9-13), di quelle di [p. 70 modifica]Cora nel Lazio (Garrucci, tav. LXXXII, 22), del semisse di Suessa, e delle ovvie monete d’argento romano-campane (v. sopra p. 47); eminentemente battagliero, indomabile, invicibile, sorprende non veduto il nemico (cfr. i miti di Bellerofonte che abbatte la Chimera, e di Perseo uccidente Cete) lo sgomenta e lo mette in fuga con vertiginosa e fulminea velocità. Non è desso bene Timmagine parlante della insuperabile rapidità e potenza della cavalleria romana, la quale l’ha infatti adottato più tardi per proprio vessillo?9.

Il carattere dei tipi dell’aes signatum n. 5, lo stile del pegaso e quello dell’aquila, e, come vedremo fra poco, la stessa metrologia e altresì la tecnica peculiare, ci obbligano ad assegnarlo con piena sicurezza all’officina di Capua.

Per poco il Soutzo (o. c., II, p, 23) aveva dunque bene intuito, quando, metrologicamente considerando questo quadrilatero come un pezzo militare campaniano, si domandava, se invece di un quincussis romano, non fosse per avventura un tetramma campano.

Il suo peso è di gr. 1396, quasi il medesimo dell’esemplare [p. 71 modifica]del Mus. Brit. (gr. 1391); ma la conservazione, della quale bisogna sempre tener conto, e che fu sempre dai metrologi trascurata, non essendo più che mediocre, ed il metallo essendo in vari punti corroso, avariato e come incancrenito, si può arguire che di pieno peso si avvicinava all’esemplare meglio conservato del Museo Kirch. (gr. 1610,99), con cui ha comune la tecnica e lo stile. L’esemplare Hudson, di cui ho dato notizia di sopra p. 35, pesa gr. 1420; però, considerando la sua forte corrosione, dobbiamo attribuirgli un peso originario non inferiore a quello dell’esemplare del Kircheriano, o cinque libbre romane piene (gr. 1637, o quattro mine attiche campane deboli (gr. 1746)10.

Il quadrilatero n. 5 col pegaso, che, per tecnica e stile, si distacca nettamente dai quadrilateri biconvessi col tripode n. 2-3, per tecnica e per peso sta invece prossimo all’esemplare di simile tipo, ma piano-convesso n. 4 (tav. IV-V), di gr. 1544,5 (cfr. l’esemplare Britannico di Genzano gr. 1494,53), e alla metà di quadrilatero leggermente biconvesso col parazonio (tav. XII), il quale, ove fosse intero, non peserebbe meno di gr. 1520 (l’esemplare Britannico col parazonio pesa, secondo Garrucci, gr. 1593; quello di Napoli, gr. 1898,14).

Che il quadrilatero col gladio, di tipo e tecnica romana11, andasse insieme col quadrilatero col pegaso, si sapeva anche per il trovamento di Velletri12; e si [p. 72 modifica]poteva arguire dal quadrilatero visto dal Mionnet (Méd. rom., I, p. 1), esibente da una parte il parazonio e dall’altra l’aquila con la folgore; ma che il quadrilatero col pegaso si associasse a quello col tripode, solamente potevasi desumere dal prezioso frammento del Kircheriano proveniente dal ripostiglio di Vulci (Garrucci, tav. XV, 2 = Carelli, tav. XXXIX, 2), il quale da un lato offre un avanzo del tripode (due anelli e parte del lebete), e dall’altro, come ha bene ravvisato il Garrucci, l’estremità dell’ala del pegaso, se non quella dell’aquila.

I nostri tre esemplari col tripode hanno poi un interesse tutto speciale per le differenze tecniche, stilistiche e metrologiche esistenti fra loro, ed in parte da me già notate (v. sopra p. 34-35).

II pezzo indubbiamente più antico è l’esemplare n. 2 (tav. II-III), il quale pesa gr. 1830,6, quindi poco più di quattro mine attiche soloniche13 (tetramma campaniano; gr. 1746,4); troppo al disopra di cinque libre romane (gr. 1637,25) o troppo al di sotto di sei libre (gr. 1965,70).

Se consideriamo il maggior peso portato dalla subbollitura od escrescenza ossida del bronzo (v. p. 34, e tav. ni), e teniamo conto del fatto, che fu perfino ritagliato internamente il codolo, con lo scopo evidente di regolare sulla bilancia il peso riuscito soverchio nella fusione14, possiamo [p. 73 modifica]calcolare che questo quadrilatero, superato nel peso solamente da quello col parazonio di Velletri (verrebbe subito appresso il quadrilatero col bove, per me dubbio (v. p. 91) della collezione Pembroke di gr. 1790,15), corrisponde quasi esattamente alle suddette quattro mine attiche campaniane, equivalenti a otto mine sicule15 e ad otto libbre etrusche leggere16.

Emerge pertanto già dal peso, che questo quadrilatero, e quello col parazonio di Velletri, furono emessi specialmente per le prime transazioni coi Greci ed Italo-greci.

Gli altri due esemplari col tripode del nostro ripostiglio e l’esemplare simile di Genzano (Garrucci, tav. XV) sono di peso assai inferiore.

Il n. 3, perfettamente conservato, di gr. 1677,2, il n. 4 (tav. IV- V), di conservazione pure perfetta di gr. 1544,5; e quello di Genzano di gr. 1494,53, stanno più prossimi alle cinque libbre romane (gr. 1637,25) che ad un multiplo della mina attica o sicula, e ben corrispondono al peso di cinque assi romani dei più forti che si conoscano17.

La statistica degli assi librali romani fatta ultimamente dal Samwer (op. cit., p. 59, e segg.), la quale comprende n. 1016 pezzi, esibisce soli otto esemplari superiori a undici once; ed il più pesante di tutti è di gr. 312.

[p. 74 modifica] Gli esemplari col tripode n. 3-4 e quello di Genzano sarebbero dunque dei quincussi romani di buon peso, tanto in rapporto all’asse urbano ordinario, quanto in rapporto agli assi a testa di Giano giovanile, rappresentati nel nostro ripostiglio.

Dall’altro canto abbiamo veduto che fra gli esemplari n. 3 e 4 e l’esemplare n. 2, non c’è solamente differenza di peso, ma altresì di stile e di tecnica; e che mentre gli esemplari n. 2 e 3 sono biconvessi, l’esemplare n. 4 è già piano-convesso (vedi le descrizioni date di sopra, cap. I).

Nell’esemplare n. 2 (tavv. II-III) il lebete del tripode è più ampio che negli esemplari n. 3-4 (cfr. tav. IV); i piedi sono più corti e leggermente sghembi, il cerchio mediano che li riunisce contorto e non abbastanza largo, la zampa leonina mediana esageratamente più grande di quelle laterali ed attaccata al bacile mediante visibile borchia tonda. La prospettiva cui corrisponde il tripode dell’esemplare più pesante n. 2, è determinatamente quella normale ordinaria con la zampa mediana vista anteriormente delle ovvie monete di Crotone; mentre negli esemplari n. 3 e 4 (vedi tav. IV) la gamba mediana, nel punto dove attacca col lebete, sembra corrispondere, per quanto in forma confusa, alla prospettiva eccezionale con la gamba mediana vista posteriormente di qualche moneta arcaica di Crotone (420-400 a. C.) e delle più tarde monete Crotonesi di bronzo (cfr. Garrucci, tav. CVIII, 30 e CX, 20).

Così l’ancora, che nell’ esemplare n. 2, tav. III è di forma tozza, con branche irregolari — quella sinistra più corta della destra — e con l’anello superiore assai stretto, negli esemplari n. 3-4 diventa slanciata e regolare. Per forma e tipo: quadra all’estremità inferiore, asta lunga, campanella in cima, branche sinuose e ceppo (crux) strettissimo, [p. 75 modifica]essa si distacca dalle àncore greche, etrusche ed umbre rappresentate nelle monete anteriori e posteriori, ed ha quindi carattere specifico romano18.

Il tripode, simbolo certo del culto di Apollo Delfico, come nelle monete di Crotone (v. Preller-Jordan, Röm. Mythol., I, p. 147), combinato con l’àncora, simbolo non meno certo d’una spedizione oltremarina, e con le notate differenze stilistiche, tecniche e metrologiche dei quattro diversi esemplari conosciuti, mi sembrano annunciare e rivelarci la probabile connessione dei quadrilateri segnati con questi tipi con qualcuna delle solenni circostanze in cui i romani furono consigliati di rivolgersi a Delfi ed al culto di Apollo ἀλεξίκακος (Medicus, Salutaris, Conservator).

La spedizione decemvirale, la quale coincide con la pestilenza del 453 a. C, con l’istituzione in Roma del culto di Apollo Delfico (Preller-Jordan, Röm. Mythol., I, p. 301) e con l’introduzione dell’aes grave signatum (Mommsen-Blacas, I, p. 180), è una data che potrebbe bene convenire per l’esemplare A, [p. 76 modifica]n. 2, tav. II-III, di stile estremamente arcaico e di peso attico (tetramma, v. p. 73); mentre gli altri tre esemplari B, C, D, di minor peso (quincussi) pur diversi l’uno dall’altro, di stile e tecnica alquanto più sviluppata, potrebbero mettersi progressivamente in relazione:

B. — Bruna n. 3, gr. 1677,2; pestilenza del 429 a. C. (Liv., IV, 25).
C. — Bruna n. 4, gr. 1544,2; pestilenza del 399 a. C, coincidente con l’istituzione dei Lectisternia (Preller-Jordan, I, p. 150).
D. — Genzano, gr. 1495,6; espugnazione di Veio, 396 a. C, predetta dall’oracolo d’Apollo, quando i Romani mandarono a Delfi anche un cratere d’oro (Liv., V, 25).

Le occasioni posteriori:

a) il tempo di Pirro, presa di Crotone, 277 a. C. (Zonar., VIII, 6, p. 123-127);
b) disfatta di Canne, a. 212, quando ebbe pur luogo una spedizione a Delfi e si istituirono i ludi Saeculares (Liv. XXII, 57, XXIII, 45, ecc.);

sono date senza dubbio troppo recenti per gli esemplari suddetti.

Al tempo di Pirro ed alla presa di Crotone, 277 a. C, si potrebbe piuttosto riportare il frammento E, vulcente (Garrucci, tav. XV, 2), il quale, simile ai quadrilateri col pegaso o con l’elefante, è di tecnica affatto diversa, assai più sviluppata; e che, per l’ala dell’aquila o del pegaso, accenna determinatamente piuttosto a qualche fatto d’arme, anziché ad una semplice espiazione religiosa.

Questo frammento rappresenta bene l’anello di congiunzione fra i quadrilateri di ultimo stile col tripode e l’ancora, ed i quadrilateri col pegaso e l’aquila, da noi assegnati a Capua. [p. 77 modifica] L’anello di congiunzione fra il quadrilatero col pegaso e il mezzo quadrilatero col parazonio romano n. 8, ci è dato, come dicemmo, dal quadrilatero veduto dal Mionnet (v. sopra p. 71-72). Però il peso e la tecnica dei quadrilateri col parazonio dimostrano che essi sono anteriori ai quadrilateri col pegaso e l’aquila, e che si collegano coi quadrilateri col tripode e l’ancora.

Si comparino i pesi dei quadrilateri col tripode con i seguenti pesi dei quadrilateri col parazonio:

A. Velletri, Garrucci, tav. LXIX, 2, gr. 1898,14.
B. Mus. Brit., " tav. XIII, 1, " 1593,69.
B.1 Bruna, nostra tavola XII " 1530 (?)

L’esemplare A di Velletri di 1a emissione sta in rapporto con la mina attica campana (v. sopra); gli altri B - B1 di 2a emissione, si possono chiamare addirittura quincussi romani.

Il parazonio sguainato di tipo gallo-romanonota è un’emblema per sé eloquentissimo: appena si può dubitare che non stia in relazione diretta con qualche solenne punizione inflitta dai Romani ai loro nemici.

Per il quadrilatero A di peso attico (tetramma) mi ricorre subito alla mente la spada di Brenno vendicata da Camillo (390-367 a C.); mentre per i quadrilateri B-B1 (quincussi) mi sembrano calzanti le allusioni, o alle ulteriori stragi dei Galli (342, 583 a. C, v. p. 79), o agli atroci fatti di sangue di cui fu teatro il Sannio e centri Sora, Gaudio, Luceria, sotto la dittatura di Lucio Papirio Cursore (324-309 a. C.)nota. 19 20 [p. 78 modifica] Ad una emissione successiva sono da riportarsi i quadrilateri con lo scudo gallico, i quali, per peso e per tecnica, si associano e vengono appresso ai quadrilateri, ossia ai quincussi, col pegaso e l’aquila, dei quali abbiamo ragionato di sopra.

Ecco i rispettivi pesi conosciuti:

A) gr. 1622,38, Brit. Mus. Catal. p. 21-27.
B) gr. 1580, Aricia, Garrucci, tav. XIV, 1.

[p. 79 modifica] È troppo notorio appartenere il tipo di scudo di questi quincussi ai Galli, perchè ci sia d’uopo dimostrarlo; piuttosto non si saprà che uno scudo di tal forma si è trovato a Vetulonia (scavi del 1889) espresso in una pietra sepolcrale di arenaria, la quale copriva una delle solite tombe a pozzo della necropoli creduta primitiva21, e che i Romani, pur avendolo celebrato assai innanzi, l’hanno adottato solamente dopo la finale soggezione dei Galli per parte di Valerio Corvo (a. 345 a. C.), o dopo la vittoria definitiva del Vadimone, riportata da Dolabella (a. 283 a. C.)22.

Lo scudo gallico sui quincussi romani segna appunto quest’ultimo fatto storico; e non vi può esser dubbio, perchè vi corrispondono esattamente il peso e la tecnica dei citati esemplari. Un esemplare con lo scudo gallico trovato nel ripostiglio di Aricia, di [p. 80 modifica]cui ignoriamo il peso e sul quale Garrucci, p. 8, (cfr. Storia d’Isernia, p. 182), vide la leggenda ↃIЯA, c’indicherebbe persino il luogo di emissione23.

Ad una emissione ulteriore appartengono sicuramente i quincussi coi tipi dell’elefante asiatico e della scrofa, Garrucci, tav. XXII, esemplare già Guadagni del Museo Britannico, peso gr. 1681 (un altro esemplare Stosch s’ignora dove si conservi; altri esemplari si giudicano falsi). L’allusione troppo evidente agli elefanti di Pirro era stata riconosciuta; ma non fu notata a dovere l’allusione insieme sarcastica e politica contenuta nel tipo del rovescio ed espressa dalla scrofa.

Garrucci, p. 11, richiamò opportunamente i luoghi di Eliano e di Plinio che ci illuminano sulla relazione esistente, a detta degli antichi, fra l’elefante ed il sus e riportò per intero il passo di Eliano (De nat. animal., I, 38) concernente la tradizione che i Romani avessero messo in fuga gli elefanti di Pirro traendo partito, come avevan fatto i Megaresi al tempo di Antioco, dallo spavento che l’elefante ha del grugnito del porco: ὀρρωθεῖ ὁ ἐλέφας χοίρου βοήν (cosi Plinio, H. N., VIII, 9 — elephantes — minimo suis stridore terrentur)24. Il Garrucci, ciò notando, non andò più oltre; e non s’avvide che la scrofa rappresentava appunto Roma (cfr. l’oncia [p. 81 modifica]trientale di Todi, Garrucci, tav. LXXV, 16, ed i medaglioni di Antonino Pio celebranti l’arrivo di Enea a Lavinio, Froehner, Médaillons Romains, p. 59), come l’elefante, Pirro.

Con questa emissione di aes signatum avente il pieno peso del quincusse (esemplare di Londra gr. 1681,68), i Romani fecero intendere sarcasticamente a chi non l’avrebbe voluto sapere (ai Tarentini) che a cacciare lo spauracchio dei magni elefanti asiatici di Pirro, bastava il grugnito della leggendaria scrofa di Roma: vittoria di Benevento 275 a, C. e successiva cacciata dello straniero25. L’atteggiamento della scrofa, che con le gambe anteriori in resta alza il muso per grugnire, e quello dell’elefante, che fugge arricciando in alto la proboscide, non potrebbero esprimersi meglio26. [p. 82 modifica] Quanto chiara e indubitabile è l’allusione politica contenuta nei tipi di questi quadrilateri, altrettanto chiara è l’allusione politica e militare contenuta nei tipi dei quadrilateri, Garrucci, tav. XVIII e XIX, rappresentati nel nostro ripostiglio dallo spezzato n. 9 tav. XIII, e nel ripostiglio di Vulci dal simile spezzato, Garrucci, tav. XVII, 2.

Garrucci ha accennato troppo timidamente alla vera interpretazione dei relativi tipi, per poter trarne un qualche profitto.

Da una parte è espresso senza il più lontano dubbio l’auspicium pullarium, preso in terra; dall’altra, il rostrum navis nel mare.

Il mare è simboleggiato dai delfini guizzanti presso i rostri; la terra, ed insieme il cielo, dai polli che beccano e dagli astri che stanno in mezzo.

Per l’auspicium pullarium il quale, secondo la dottrina augurale degli Etruschi e dei Romani, si soleva prendere esclusivamente nelle circostanze di spedizioni militari e che era annunciato al sommo grado favorevole dal tripudium sollistimum dei polli beccanti, [p. 83 modifica]rimando a Bouché-Leclercq27, richiamando, se pur ve ne fosse bisogno, i piccanti aneddoti di Q. Fabio Massimo e L. Papirio Cursore (Cic. Div., II, 34).

Circa al rostrum navis, dal padre Marchi creduto timone28, e generalmente tridente29, richiamo la giustissima osservazione fatta dal Garrucci, (p. 10): «ad escludere, scriveva egli, l’idea del tridente basterà notare che le tre cuspidi non sono libere, come sempre nei tridenti, ma legate insieme dal metallo che ne riempie gl’intervalli fin quasi alle estreme punte. Che se i rostri talvolta mostrano le punte prolungate di modo che paiono tridenti, non avviene per ciò che i tridenti abbiano mai ripieni gli intervalli30».

È strano che il Garrucci non abbia citato qualche confronto monumentale: avrebbe assai meglio persuaso, ed avrebbe probabilmente estesa l’interpretazione anche ai tipi delle monete di Todi (Garrucci, tav. LV, 5; LVI, 9), da lui richiamate in contradittorio.

Bastavano i semplici decisivi confronti con la colonna rostrata del Campidoglio, copia di quella di Duilio31, e con le monete repubblicane di Lollio Palicano (Babelon, II, p. 148, 2)32. [p. 84 modifica]Riproduciamo questi monumenti insieme con l’esatto disegno Garrucciano, affinchè ciascuno possa più facilmente convincersi della cosa.

Come nella colonna rostrata e nel quadrilatero parigino, donde fu tratto dal Garrucci, tavola XIX, l’esatto disegno del rostro, così si vede chiaro nell’originale e nel calco del nostro spezzato che le cuspidi sono accecate da un tagliente nascosto sotto di esse, il quale è destinato a renderle più solide ed a fendere la nave dopo il cozzo e la prima squarciatura. Il fendente non sempre apparisce (così la linea che lo determina quasi si perdette nella nostra riproduzione fotoincisa), o non sempre esiste; epperò si spiegano i tipi, forse aperti, di Todi, quelli del quadrilatero del Mus. Britannico (Garrucci, tav. XVIII), e quelli delle monete di Vetulonia33. [p. 85 modifica]

Nell’aes grave urbano di peso ridotto il rostro della nave ha sempre la forma di un tridente accecato (rostrum tridens delle tavole del d'Ailly, Recherches, I, tav. XXI seg.), e simile apparisce anche in una singolare tazza Calena (Ann. Ist., 1875, tav. N), fabbricata nella seconda metà del sec. III a. C. sotto l’influenza romana ed esibente quindi quattro navi rostrate.

Il rostro, inventato probabilmente dai Fenici di Sidone e Cartagine e perfezionato da Demetrio Poliorcete34, rappresenta per i Romani, divenuti ormai dominatori incontrastati di tutta Italia, il nuovo loro orizzonte politico: Sicilia, Cartagine, l’Oriente. [p. 86 modifica] Essi lo conobbero da presso la prima volta quando nel 338 a. C. distrussero la flotta d’Anzio, lo portarono in trionfo a Roma, e decorarono con esso il pubblico tribunale, chiamato d’ allora in poi Rostra (Liv., VIII, 14; Plin., XXXIV, 6; cfr. la sopra riprodotta moneta di Lollio Palicano).

I quadrilateri pertanto esibenti tale emblema non possono in verun modo essere anteriori a questa data.

La tecnica di questi quadrilateri corrispondente a quella col duplice toro n. 6, di cui diremo poco più oltre; il loro stile (cfr. i polli); il loro peso (v. più innanzi); la circostanza che il frammento di Vulci esibisce, a quanto pare, l’estremità superiore di un tridente di forma analoga a quella delle monete di Ierone II (a. 275-216 a. C), di Pesto e di Capua35, analoga a quella di tre sestanti librali deboli (Garrucci, tavola XLIV, 4-5; XLV, 10), del quadrante di Rimini, colonia romana nel 268 a. C. (Garrucci, tav. LIX, 5), e dei quadrilateri col caduceo e tridente n. 7, (v. più oltre); infine, la circostanza medesima di essere stato contrapposto al tripudium sollistimum dei polli: qua i rostri in mare, là il tridente (cfr. Vulci); mi inducono [p. 87 modifica]a dare a questi quadrilateri una data più tarda e a riportarli al tempo che segue immediatamente l’espansione romana in Sicilia, e si prepara, o si inaugura, la celebre vittoria di Duilio (270-260 a. C),

La forma del rostro si diparte, è vero, un poco da quella celebrata dalla colonna Duilia, e corrisponde invece strettamente con quella dei denari di Palicano; ma la colonna Duilia rappresenta naturalmente i rostri delle vinte navi Cartaginesi, non quelli delle navi romane.

Il tridente poi del frammento di Vulci e dei quadrilateri tipo n. 7, con cui il detto frammento si collega (vedi più innanzi), forse pure allude e sta in connesso con i famosi corvi di cui fece uso Duilio nella battaglia di Milazzo (Mylae).

Quest’idea mi viene suggerita: — 1a dalla descrizione di codesti strumenti bellici fatta da Polibio (I, 22); — 2a dalla citata tazza Galena, dove è rappresentato uno dei soci di Ulisse che combatte contro le Sirene armato di un tridente; — 3a dai sopra citati sestanti di peso ridotto, i quali recano nel rovescio i seguenti tre significativi tipi:

a) Garrucci, tav. XLIV, 4, l’ancora con cui si tengono ferme le navi;
b) Garrucci, XLIV, 5, il fascetto di legna, con cui si incendiarono;
c) Gamicci, XLV, 10, la cuspide di lancia, con cui si batterono, come in una battaglia terrestre, i Cartaginesi.

Come nella tazza Calena i rostri tridentati, affatto anomali per una rappresentazione di Ulisse che combatte le Sirene, richiamano certamente quelli romani dell’aes grave urbano e della prima guerra punica; cosi il tridente sembrami richiamare il dominio [p. 88 modifica]sul mare e forse benanco i raffi ed i corvi con cui Duilio, afferrando, arroncigliando e traendo a sé le navi cartaginesi, riuscì a trasformare la battaglia navale in una battaglia terrestre36.

Dopo ciò i pesi dei quadrilateri interi con i rostri:

a) Parigi, gr. 1525,25,
b) Mus. Brit., gr. 1491,70,

inferiori alle cinque libbre romane piene, e precisamente fusi sul piede dell’asse romano diminuito di un’oncia, offrono quasi la prova matematica che questi quadrilateri, anziché riferirsi alla vittoria d’Anzio (338 a. C.), fanno allusione alla prima grande vittoria navale riportata dai romani (Mylae, a. 260 a, C.).

I detti pesi concordano infatti con le esplicite testimonianze di Varrone (D. R. R., I, 10, 2, cfr. L. L., V, 169, 182), che l’antico asse romano avanti la prima guerra punica era di 288 scrupuli (= 12 once, v. nota 81): «scriptula CCLXXXVIII as antiquus noster ante bellum punicum valebat»; e concorda altresì con le testimonianze di Verrio Fiacco presso Festo (p. 98) e di Plinio, H. N. XXXIII, 3, 44, ecc.37, che l’asse non cominciò a ridursi se non in causa della detta guerra.

Aggiungasi quest’altro fatto non stato mai osservato, eppure cronologicamente importantissimo e decisivo, che l’aes grave urbano di peso più forte (11 a 10 once), quindi più antico, esibisce la prora di nave normalmente priva del rostrum tridens (cfr. d’Ailly, I, tav. VI-XIII); mentre nell’aes grave urbano di ulteriore riduzione da 9 once in giù (trientale, sestantale [p. 89 modifica]d’Ailly, I, tav. XIV-XLII), la prora di nave è costantemente armata del detto rostrum tridens.

Finalmente Varrone e Plinio (ll. cc.) accennano essere stato il rostrum navis, emblema del più antico asse librale di pieno peso: « nota aeris eius fuit ex altera parte Ianus Geminus ex altera rostrum navis, in triente vero et quadrans rates ». Questo accenno, ritenuto come un non senso ed uno sproposito flagrante dal Mommsen (I, p. 13, nota), oggi mi sembra guadagnare una certa verisimiglianza, e credo perfino alla possibilità che si abbia un giorno a scoprire qualche asse urbano di pieno peso librale (per ora di pieno peso non ne conosciamo)38, il quale corrisponda alla descrizione Varroniana.

Del resto Varrone e Plinio potrebbero anche aver confuso; ma qualcosa di vero c’è nelle loro parole. Intanto il rostrum navis l’abbiamo sicuramente nei quincussi romani; l’abbiamo nell’oncia di Rimini, città colonizzata dai Romani nel 268 a. C. e, se non il rostrum navis, abbiamo per lo meno il tridente, identificantesi coi rostra e richiamante i corvi di Duilio (v. sopra), sui citati sestanti cosiddetti laziali; e l’abbiamo altresì sopra un asse singolare del Museo di Firenze (Garr., tav. LIV, 7), trovato nell’Umbria fra Todi e Perugia39, e fuso sul piede della mina attica in uso in tutta la costa Adriatica, se non su quello della mina italica di 18 once40.

Il carattere, in apparenza arcaico, offerto dalla [p. 90 modifica]triscele, secondo tipo di quest’asse, dipende, io credo, dalla crosta del tartaro che ne oscura ed ottunde la forma. La detta triscele, arma parlante della Sicilia da Agatocle in poi (v. Head, H. N., p. 101), la quale ritorna nel triente, forse della medesima serie, Garrucci, tav. XLV, 4 (R/ ranocchio), allude, secondo me, non ad Ancona, come opinò Garrucci, p. 29, bensì alla Sicilia ed al tempo in cui i Romani, dopo unificata e pacificata l’Italia, rivolsero, invitati dai Mamertini, gli occhi e le armi sulla Trinacria (264 a. C.).

Dopo i tipi essenzialmente religiosi, militari e politici dei quadrilateri antecedenti, vengono i tipi paciferi:

A) — il pio bove gradiente, anzi, come io lo chiamai più esattamente il toro soffermo, respiciente, simbolo di Giove Genitivo (cfr. i miti di Pasifae, Proserpina ed Europa e gli epiteti Sponsor saeculi, Opitulus, Opulentus), il quale, dando indizio della quiete dei connubi e de’ campi, invita al lavoro ed all’agricoltura;
B) — il caduceo, emblema parlante della pace interna (Pax),41 e del commercio avviato e da avviarsi (Mercurius)42.

Il nostro quadrilatero col toro n. 6, tav. VIII-IX, che, come dicemmo, è il più perfetto e splendido esemplare che si conosca, pesa soli gr. 1347,8; quello di Parigi (Garr. tav. XX; Babelon, I, p. 2-3), gr. 1385,90.

Considerando il tartaro che copre il nostro esemplare col toro (vedi descrizione), e probabilmente anche quello di Parigi, pure assai bene conservato, [p. 91 modifica]dobbiamo ritenere esser il peso iniziale di ambidue questi quadrilateri piuttosto minore che superiore dell’ effettivo. Questi quadrilateri sono dunque dei quincussi di peso librale romano leggermente ridotto; ridotto precisamente sul piede dei più antichi assi librali Urbani da noi conosciuti43.

Il quadrilatero col bove della collezione Pembroke III, 119 (= Carelli, tav. XXXVH) mi desta forte sospetto tanto in considerazione del peso quanto per il carattere stilistico (cfr., almeno nei disegni, la trattazione affatto moderna del pelo). Per il peso (gr 1790,15) andrebbe insieme niente di meno che con la la emissione dei quadrilateri col tripode (p. 52) o con la la col gladio (p. 53); mentre, per la tecnica e lo stile, esso si associa invece al quadrilatero simile di Parigi. Io non credo ciò possibile; per me il quadrilatero Pembroke piuttosto non è autentico e deriva da quello di Parigi. Con ciò non escludo la possibilità che si vengano a scoprire magari l’aes antiquissimus di questo tipo menzionato da Varrone (R. R.j II, 1), riferibile ai Decemviri come il n. 2; ma la tecnica e lo stile dovranno esser di quel tempo.

La tecnica del nostro esemplare n. 6 e di quello di Parigi, non dubbi, è identica, simile a quella dei quadrilateri col Pegaso, con l’elefante e coi polli; ma alcunché più sviluppata e perfezionata, come si vede benissimo anche dalle bave più nitide e perfettamente profilate. — Simile è pure lo stile e la fine maniera greca con cui è espresso il toro, corrispondente altresì con la maniera con cui sono ritratti l’elefante ed il sus dei quadrilateri succitati.

Il peso pertanto, la tecnica e lo stile vanno perfettamente [p. 92 modifica]d’accordo con la data cui ci troviamo obbligati a riportare questi quadrilateri; nè tale data potrebbe invero determinarsi con maggiore sicurtà e precisione, ove si ricorra all’analisi tipologica.

Il tipo, certamente desunto dalle ovvie arcaiche monete greche di Posidonia e Sibari, ha esatto riscontro con quello del bronzo coniato di Capua a iscrizione osca (Garrucci, tav. LXXXVII, 10), spettante alla dominazione romana ed al periodo dell’asse trientale. Col toro dei quadrilateri ha pure riscontro tipico e religioso il toro a testa umana (toro ἀνδροπρόσωπος = Διόνυσος = Ζεὺς Γενέθλιος, Γαμήλιος, Πατρῷος, ecc.), tipo comune e generale di quasi tutte le monete di argento e bronzo emesse in Campania, in diverse città, con iscrizioni miste greche, osche e latine, alla fine della seconda guerra Sannitica, dopo la vittoria del Vadimone (283), la cacciata di Pirro (274), la presa di Taranto (272 a. C.), e mentre si prepara in Sicilia la prima guerra punica.

Allorchè i Romani emettono i quincussi col toro soffermo, i Lucerini, dietro ordine espresso di Roma, emettono gli assi di sistema librale romano di pieno peso e ridotto (10-9 once), esibenti nel diritto la testa di Minerva-Roma, di faccia, munita di galea dalla triplice cresta (τριλοφία), e nel rovescio appunto il toro soffermo respiciente con la coda arricciata, anzichè distesa, e all’esergo l’iscr. ROMA esplicativa dei tipi (Garrucci, tav. XXXII, 4, 5; d'Ailly, Recherches, I, tav. XLVIII, 1-3; Babelon, I, p. 16-17, gr. 327). Il toro di questi assi è desunto dalle monete autonome di Turio e corrisponde a capello col tipo del rovescio del grande e magnifico bronzo coniato di tale città (Garrucci, tav. CVII, 1), cui è contrapposta l’insigne e significativa attica testa di Athena Skyletria.

La testa di Minerva-Roma, che qui per la prima [p. 93 modifica]volta apparisce fornita di galea triplicemente crestata, sta in rapporto sicuro con la presa di Taranto e col culto, che l’Athena τριλοφία, onorata anche in Peonia, ebbe in questa città negli ultimi tempi44; il toro accenna all’acquisto di Turio ed alla pacificazione dell’Italia meridionale, la quale segui effettivamente la memorabile resa dei Tarantini (272 a. C).

Che il significato del tipo del toro tranquillo, soffermo, respiciente, sia assolutamente quello pacifico da noi detto, è dimostrato all’evidenza dai detti assi inscritti ROMA e privi della , iniziale della officina di Luceria.

Al posto di quella lettera officinale, alcuni di questi assi (Garrucci, tav. XXXII, 4; Babelon, I, p. 17), quasi campionari, epperò forse Capuani, presentano sopra il dorso del toro il caduceo, simbolo e pegno della pace campestre e commerciale, che Roma ormai patrocinava, garantiva ed imponeva all’Italia da lei unificata (272-262 a. C.). Nell’esemplare del Kircheriano (10 a 9 once) la testa di Roma presenta inoltre il vezzo di perle intorno al collo, e quel che più conta, gli orecchini in forma di grappolo d’uva, in relazione coi tipi campestri ed agricoli di cui diciamo più innanzi (p. 74)45. [p. 94 modifica] Il lieto annuncio della pace interiore assicurata, Roma diffuse per tutta Italia con una reiterata abbondante emissione urbana dei quincussi col caduceo e tridente, rappresentata anche nel nostro ripostiglio, n. 7, tav. X-XI. Il caduceo lemniscato dava segno ai vari popoli italici che Roma tranquilla e sicura contava sulla loro pacificazione; il tridente lemniscato dimostrava che essa ormai rivolgeva gli occhi più lungi, guardava più in là — al dominio sul mare.

I lemnischi del caduceo del tridente non sono oziosi ornamenti; ma simboli di significato politico, altrettanto chiaro quanto sicuro ed eloquente. Sono i lemnischi della Vittoria del popolo romano; i lemnischi che la Vittoria romana appende ed annoda alla palma nelle monete con l’iscrizione ROMANO (Garrucci, tav. LXXVII, 16; Head, H. N. p. 28, fig. 10) e nelle simili monete di Ascoli, celebranti, come ha perfettamente veduto il Cavedoni46, la grande battaglia ascolana del 279 a. C. ed insieme l’arguto proverbio nato in quell’occasione: Osculana pugna qua significatur victos vincere47 ed il nome stesso degli Ascolani ΑΥΥΚΛΙ, che comprende nella sua postuma etimologia (ΑΥΥΚΛΙ48 = αὐ ὕσκλοι = di nuovo i cappi del lemnisco) l’allusione ai nodi ed ai cappi che tengono vincolata la Vittoria ed i suoi simboli: lemniscus, [p. 95 modifica]corona e palma lemniscata49. Come adunque la Vittoria nelle dette monete allaccia i lemnischi alla palma, premio del vincitore, cosi i Romani li allacciarono al caduceo ed al tridente dei quincussi in parola, per dimostrare che la pace italica con la cacciata di Pirro era assicurata e divenuta indissolubile, e che ormai essi tenevano vittoriosamente vincolato perfino il mare.

Ho detto avere Roma annunciato il beneficio della pace con una larga e reiterata emissione di tali quincussi; che difatti non si giustificherebbe altrimenti, come, alla grande rarità dei quadrilateri antecedentemente presi in esame, faccia contrasto il trovamento, relativamente comune, dei quadrilateri segnati col caduceo e tridente.

Di questi quadrilateri ne conosciamo ben cinque sicuri esemplari (v. sopra p. 12) di due emissioni distinte. I loro pesi stanno generalmente sulle cinque libbre romane normali (emissione A):

a) Mus. Kirch. (Bomarzo): Garrucci, tav. XVI, gr. 1686,36.
b) Parigi: Cohen, tav. LXXIII, gr. 1680,15.
c) Vaticano: Visconti, v. sopra, p. 12, gr. 1678.
d) Firenze: Carelli, tav. XXXIX, 1, gr. 1628.

mentre il nostro esemplare, di conservazione perfetta, pesa solamente gr. 1143, 2 (emissione B).

Che questi quincussi appartengano almeno a due emissioni distinte, è dimostrato, oltre che dal peso, anche da alcune differenze tecniche e stilistiche, per [p. 96 modifica]esempio dalla maggiore o minore sveltezza ed altezza del caduceo e del tridente50.

L’anello di congiunzione fra i quadrilateri con i polli augurali ed i rostri, e i quadrilateri col tridente, rammentiamo essere rappresentato dal più volte ricordato frammento di Vulci (Garrucci, tav. XXI, 3), il quale sembra legare altresì coi quadrilateri col tridente R/ folgore, visti dal Borghesi (v. sopra, p. 35), trovati a Tarquinia, e di peso ignoto.

La prima emissione dei quadrilateri col caduceo e tridente deve coincidere con l’emissione straordinaria del citato asse inscritto ROMA, col toro campano, apulo e lucano sormontato dalla iniziale di Luceria () o dal caduceo, e di pieno peso librale romano. Probabilmente viene subito appresso all’emissione dei quadrilateri con l’elefante, e si connette con la presa di Taranto, la soggezione dei Lucani, Brezzii e Regini e la susseguente generale pacificazione dell’Italia meridionale (272-270 a. C.).

Invece la seconda emissione, rappresentata dal nostro quadrilatero di peso ridotto sulle 9 once, è indubbiamente posteriore: è posteriore, lo dicono i pesi, ai quincussi coi polli augurali e col toro, e va insieme con l’asse inscritto ROMA col caduceo, di peso ridotto, e con gli assi che noi mettemmo in rapporto con l’assoggettamento dei Perugini (v. nota 70), e che Garrucci assegnò all’officina di Preneste (tav.XLI), riunendovi altri pezzi di aes grave di almeno due emissioni (cfr. i pesi), sui quali vedesi espresso lo stesso simbolo pacifico del caduceo (Garr. tav. XLI, numeri 2, 4, 5.)51. [p. 97 modifica] Contemporanea all’emissione campana dei quincussi col toro soffermo deve essere l’emissione, di peso e tipo corrispondente, fatta a Todi52, secondo lo stile e la tecnica locale umbra.

A questa emissione Todina appartiene il quadrilatero, Garrucci, tav. XVII, 1 (dato abbellito dal Carelli, tav. XLI, 1), di gr. 1436, il quale esibisce da una parte il medesimo identico tipo di bove o toro soffermo respiciente, e dall’ altro la spina di pesce, tipo caratteristico dell’ antichissimo aes signatum, specificamente umbro (v. cap. IV, p. 112).

Un altro quincusse affatto simile, ma di minor peso (due libbre e dieci denari), del quale ci diede notizia il Borghesi (Oeuvres, VI, p. 307), pure rinvenuto nei pressi di Todi, sembrerebbe invece posteriore alla 2* emissione dei quincussi col caduceo53.

Ad una ulteriore emissione pacifica, e, come credo, all’ultima emissione dell’aes signatum quadrilatero devono assegnarsi, secondo me, i quadrussi campaniani col segno del valore — quattro lineette (IIII) o quattro globuli (?) — esibenti di nuovo il tipo del toro gradiente (Riccio, tav. LXVIII, 1), però con testa di profilo (prospiciente) e del peso di tredici once, quindi corrispondenti ormai (salvo lo stato di conservazione) al peso trientale54.

A codest’ultima emissione dell’aes signatum quadrilatero, già trientale, e, per poco, quadrantale, fa riscontro la notevole emissione quadrilatera Tarquiniese [p. 98 modifica]fattaci conoscere dal Garrucci, tav. XXV-XXVI, la quale esibisce i simboli specificamente etruschi delle lunule e dell’astro solare, il ramo d’olivo, simbolo di pace equivalente al caduceo, ed i segni del valore (>IIII< = asses IIII): quadrassi di peso trientale, corrispondenti ai quadrassi col duplice toro.

Fra la 1a emissione dei quincussi col caduceo, la l’emissione col toro, la 2a col caduceo, e l’emissione dell’ultimo aes signatum quadrilatero recante i segni del valore — quadrassi e non più quincussi — sta esattamente in perfetto accordo la molteplice larghissima emissione di aes grave tondo, fatta agli ordini di Roma sul piede dell’asse romano, ridotto gradualmente a once 11, 10, 9, 8, 6, nel Lazio (Aricia, Ardea?, Preneste ?), nell’Etruria meridionale (Tarquinia, Cere) nell’ Umbria inferiore (Todi), nella Campania (Capua, Cales), nell’Apulia (Luceria), nel Piceno (Fermo), con tipi quasi tutti nuovi e speciali, i quali hanno aperta relazione con la pace campestre, con l’agricoltura, la pastorizia, gli avviati commerci di terra e di mare, la caccia, la pesca, i giuochi atletici, e via dicendo.

Per non dilungarmi troppo, dopo tutto quello che ho detto, non darò la spiegazione precisa di tutti questi tipi, non ne studierò l’intimo nesso e la esatta cronologia, offertaci dai loro pesi, che devono essere ancora verificati e messi in rapporto con lo stato di conservazione dei singoli pezzi; solo mi limiterò a citare, a guisa di corollario, siccome esempi concreti, alcuni tipi più significativi ed eloquenti.

Vedasi dunque:

nell’ aes grave da noi assegnato ai Rutuli (v. p. 63):

Garrucci, tav. XXXIII, 1 — aquila piscaria55; [p. 99 modifica]
Garrucci, tav. XL — toro saltellante — cane da caccia gradiente — tartaruga terrestre;

nell’aes grave laziale in genere:

Garrucci, tav. XLTI — anfora R/ grappolo d’uva;
Garrucci, tav. XLTII — cratere — orcio {sextarius?) R/ pedo — fiore di vite R/ scarabeo della vite (anomala vitis) — aquila piscaria R/ polpo;
Garrucci, tav. XLIV — testa di bove — di cignale, — di montone, — di pesce o delfino — lira — bruco — fava o fagiuolo — grappolo d’uva R/ relativo fiore di vite;
Garrucci, tav. XLV — anfora vinaria R/ rhyton — cratere — ranocchio — caduceo;

nell’aes grave assegnato a Tarquinia:

Garrucci, tav. XLVI — testa di cignale R/ venabolo — testa di montone R/ pedo — delfino guizzante R/ tridente — giogo R/ aratro — caduceo;

nell’aes grave di Todi:

Garrucci, tavv. LV e LVI — aquila romana o piscaria R/ 9I cornucopia pieno di frutti (cfr. Gubbio) — cane in riposo (cfr. Adria) R/ lira — ranocchio — clava R/ mano col cesto (emblemi atletici),

nell’aes grave dell’ Apulia:

assi citati a p. 27 e 92 col gallo e col toro soffermo;

nel Piceno, cioè sull’aes grave di Fermo, città colonizzata dai Romani nel 264 a. C.:

Garrucci, tav. LX — testa di bove — due aratri — cuspide del venabolo R/ bipenne da caccia.

Note

  1. Tutto quello che scientificamente si sapeva finora intorno all’aes signatum quadrilatero, si può dire condensato nelle seguenti vaghe parole del Mommsen (trad. Blacas, I, p. 178): « Le style de ces quadrilatères ne dénote pas en général une très haute antiquité; le type reproduit sur les deux faces doit nécessairement en reculer la date jusqu’après l’époque du perfectionnement de l’art monétaire en Grèce, et nous pensons que la plupart de ceux que l’on voit dans nos musées sont contemporains de l’as libral. Quant à la variété qui porte la marque de sa valeur, cotte circonstance, ainsi que sa légèreté nous engagent à la faire descendre jusqu’après la suppression de l’as d’une livre. »
  2. Le aquile Capitoline di legno nominate da Tacito (Hist., III, 71) sono rappresentate nei denari di Petilio Capitolino, Babelon, I p. 292; vedasi l’ingrandimento del tipo monetario offerto dal Köhne, 11. cc. nella nota 83 – Daremberg e Saglio, Dictionn. des Antiq., art. Capitolium, II p. 902, fig. 1147. Si confrontino particolarmente le mie osservazioni pubblicate nel Museo Italiano di Ant. class., di Comparetti, vol. I (1884): I Frontoni, ecc., p. 90. — Le citate monete di Petilio Capitolino offrono nel diritto appunto una delle aquile Capitoline, con la folgore negli artigli e testa a destra.
  3. Cfr. l’aquila di Giove Olimpico delle monete di Elide (Head, Hist. Num., p. 353 e seg.), da cui è religiosamente e tipologicamente desunta.
  4. Vedansi le osservazioni da me fatte a proposito di un’Insegna etrusca nelle Notizie degli scavi, giugno 1887, p. 2137 e segg. Ivi nella stampa cadde o fu dimenticata l’indicazione della misura di detta insegna, la quale è riprodotta a tav. V, 1, metà circa del vero (larg, 0,27, alt 0,19).
  5. Vedasi ancora il citato mio scritto nel Museo Ital., I, p. 89, nota 5, e p. 90, nota 1; Servio, ad Aen, VII, 188, la nomina come uno dei septem pignora imperii.

    Nel rovescio dei denari di un Ogulnio (Babelon, II; p. 266), triumviro monetale insieme con un Vergilio o un Verginio, ed un Carvilio, o Garvilio (non Gargilius, come generalmente si ritiene, Babelon, I, p. 581 e segg.) è raffigurata la quadriga del culmine del fastigio settentrionale Capitolino instauratavi dagli Ogulni nel 296 a. C. (Liv., X, 28, 11). Nel tipo del diritto credo di riconoscervi, o il Summanus (= Iupiter Anxur; Veiovis), caduto dal fastigio sud Capitolino al tempo di Cicerone (De div., I, 10), o la testa della statua colossale di Giove (Veiovis, cfr. la folgore sottostante) fatta eseguire ex manubiis samnitibus da Sp. Carvilio (Plin., H. N., XXXIV, 43).
  6. Vedi Garrucci, tav. LXXXVII, 6, 7, 16-7, 20, etc.
  7. Mi riferisco a questi due importanti luoghi di Tacito: Ann. II, 17, “Interea pulcherrimum augurium octo aquilae petere silvas et intrare visae, imperatorem advertere, exclamat, irent, sequerentur Romanas aves, propria legionum numina. ” — Hist. I, 62, laetum augurium . Fabio Valenti exercituique, quem in bellum agebat, ipso profectionis die aquila leni meatu, prout agmen incederet, velut dux viae praevolavit; longumque per spatium is gaudentium militum clamor, eaquies interritae alitis fuit, ut haud dubium magnae et prosperae rei omen acciperetur.
  8. Vedasi il notevole studio del Domaszewski , Die Fahnen in römischen Heere, nelle Abhdl. d. arch.-epigr. Seminar. Wien, 1885 (p. 28 e segg. dell’estratto). In questa memoria sono riprodotte molte insegne romane storicamente ordinate (cfr. anche Wierner-Vorlegeblätter B., tav. V).

    Quale insegna della legione e dell’imperium militare, Plinio, H. N, X, 15, e Dione, XLIII, 85, dicono che l’aquila con la folgore sia stata introdotta la prima volta da Mario; ma ora l’aes signatnm di questo tipo, il bronzo coniato di Capua, Garrucci, tav. LXXXVII, 16, 17, e le varie monete romano-campane del medesimo tipo con le iscrizioni ROMANO e ROMA, Garrucci, tav. LXXVII, 13, LXXIX, 1-4, mostrano che il concetto dell’aquila legionare di Mario, risale per lo meno alle guerre sannitiche. Cosi non sarebbe più un anacronismo, come ritenne Marquardt (Röm. Alterth., V, p. 344, l). il luogo di Dionisio, X, 86, relativo a Siccio Dentato divenuto primipilus nel 299 a. C. per aver salvato un’aquila legionare. — Potranno dopo ciò rimanere dei dubbi sull’interpretazione da noi data anche del tipo dei trienti librali con la folgore assegnati a Suessa ed a Capua? Si potrà dubitare che la folgore non sia, come dicemmo e come riaffermiamo, l’emblema abbreviato di Giove Fulguratore Capitolino e delle aquile pure Capitoline? Se dei dubbi rimanessero ancora, anche prima di leggere più oltre, si getti uno sguardo sul quadrante trientale di Capua (Garrucci, tav. LXXXVII, 9) e sui denari di M. Volteio, i quali offrono, come ho spiegato nel Museo Italiano, I, p. 90, nota 1, la facciata sud principale del tempio di Giove Capitolino, e dove tutte le figure del fastigio, e quelle medesime della cella (Giove, Giunone e Minerva) sono, rappresentate dal semplice emblema della folgore, espressa dentro il fastigio.
  9. Vedasi il bassorilievo del Mus. Brit dato dal Domaszewski, op. cit., p. 77. Ai tempo di Gallieno, il pegaso ed il cignale (aper) erano i segni della Leg. I e II adiutrix. E giacché il pegaso delle più antiche monete romane sta in relazione con la cavalleria romana, e l’aquila e la folgore colla insegna della legione, e la mano aperta con l’insegna del manipolo (v. sopra p. 60), non potrebbe logicamente congetturarsi che anche l’aper o il porco, rappresentato sul triente suessano e sulle monete campane, quale proprio simbolo del foedus romano-campano (v. Servio, ad Aen. VIII, 641, in confronto con gli aurei, Garrucci, tav. LXXVIII, 14-17, con l’argento LXXIX, 21 ed in ispecie col bronzo, Garrucci, tavola XXXLVII, 3) stia in relazione con una insegna legionare? Al tempo di Gallieno lo troviamo nella Leg. I italica e nella Leg. II adiutrix. I nomi stessi delle legioni dicono qualche cosa! Anche i tipi di Minerva, leone, bove, centauro, draco, dell’aes grave, forse sarebbe lecito di mettere in rapporto con le insegne dell’esercito romano, almeno adottate da Mario e continuate ancora al tempo di Gallieno, Vittorino e Carausio. Vedasi l’elenco di tali insegne presso Domaszewski op. cit p. 65.
  10. Vedasi Hultsch, Metr. Untersuchungen, 1882, p. 672.
  11. Fea, Misc., II, p. 196; Eckhel, Sylloge, p. 98.
  12. Per la forma del gladio e relativo fodero diverso da quello gallico vedansi le osservazioni di Garrucci nella Civiltà Cattolica 1880, p. 724. Il quadrilatero della coll. Blacas col parazonio di forma romana, tarda, mezzo fantastica, e con l’iscrizione sinuosa N • ROMANOM, dato nella Revue Num., 1864, tav. X-XI e nel Mommsen-Blacas, IV, tav. III-IV, cfir. voi. I, p. 831, è, per me, senza il più lontano dubbio, spudoratamente falso,
  13. Hultsch, op. cit. ragguaglia la mina attica a gr. 436,6.
  14. Notisi bene: la particolarità del codolo più o meno tagliato o tosato, è un coefficiente metrologico tutt’altro che trascurabile. Tanto nell’aes signatom quadrilatero, quanto nell’aes grave librale e di riduzione legale, mediante la tosatura del codolo si correggevano le differenze ponderali inevitabili della fusione. Messo il pezzo sulla bilancia, veniva regolato il suo peso, per quanto si poteva esattamente, tosandolo nel codolo in ragione del peso campione, come si fa, del resto, anche oggi, specie con le verghe di metallo prezioso.
  15. Hultsch, op. cit., p. 662.
  16. Vedasi lo scritto del Gamurrini salla stadera di Chiusi nei Mot. Antichi, I, 1890 p. 157 e segg. Osservo però che la libbra etrusca della stadera di Chiusi e dell’aes grave etrusco comunemente conosciuto non è, come sembra credere Gamurrini, quella originale. Cfr. intanto a tal proposito le note dello Stettiner nel Bull. dell’Ist., 1887, p. 196-199.
  17. Si osservi che il n. 8 ha il codolo ritagliato dentro la linea normale, appunto per correggere la leggera eccedenza di peso; e che nell’esemplare di Genzano (Garrucci, tav. XV), siccome scarso di peso, il codolo fu lasciato lungo quanto era compatibile. — Cfr. nota 64.
  18. I tipi d’àncora che più si avvicinano sono: a) quadr. laziale, Garrucci, tav. XLVI, 4. (R. delfino), trovato a Tarquinia; b) sestante laziale, Garrucci, tav. XLIV, 4 (R. tridente), da lui attribuito a Tibur; c) asse fuso di Vetulonia, Garrucci, tav. LIII, 45, e quadr. coniato, tavola LXXIV, 14. Questi tipi presentano però l’asta più corta e il ceppo molto più largo. Nelle antichissime monete greche di Ancyra, Head, Ancient coins, tav. 10, n. 21-22, l’àncora presenta l’estremità inferiore triangolare (cfr. anche l’àncora di Pesto, Garrucci, CXXII, 33, 88). Nell’aes grave dell’unione etrusca (Garrucci, tav. L-LI) l’àncora presenta alle due estremità anello e campanella, come nel rilievo d’Orange (Schreiber, Bilderatlas, XLVIII, 8, v. Daremberg e Saglio, Dictionn., I, p. 267, fig. 321), e nella colonna Traiana (Baumeister, Denkm. d. Alt. Kunst, III, p. 1603). Nell’aes grave di Todi gli anelli superiore ed inferiore sono fissi. Nella colonna Duilia (àncora cartaginese) l’anello superiore è fisso e biforcato, manca la crux e le branche sono lanceolate come nei tipi greci del sec. 1/2 VI-1/2 V a.C. (cfr. Arch. Zeit., 1851, tav. 27; Kekulé Balaustr. d. Athena-Nike; Baumeister, Denkm., III, p. 1614).
  19. Mi riporto ai confronti citati dal Garrucci, Civiltà Cattolica, 1880, p. 724. È poi notevole che la lama abbia il tipo di quelle solite a trovarsi nel Piceno, v. Undset nella Zeitschr. für Etimologie, 1889, p. 24, fig. 43-47.
  20. L’allusione alle guerre sannitiche era stata vagamente intravveduta anche da Babelon, I, introd. p. V.

    Gli assi esibenti la testa di leone che morde il gladio, ora sguainato ed ora nel fodero (R/. protome di cavallo), tre esemplari dei quali si rinvennero fra l’Umbria e il Piceno (a: Perugia, Passeri, Paralip., VIII, 6; Garrucci, tav. XLII, 1; — b: Pesaro (?), Olivieri, Fond. Pes., IV, 1, senza segni accessori; — c: Montefortino, Garrucci, tavola LXIX, 1, col segno delle lunule), ed un esemplare (d) a Palestrina (Garrucci, tav. XLI, 1, col segno del caduceo, gr. 225), mi sembrano avere un congenere chiaro significato politico in rapporto con Perugia e con la seconda coalizione dei Sanniti, Umbri ed Etruschi. La testa di leone che morde il ferro sguainato, tipo cosi peculiare e caratteristico, senza riscontro nella mitologia e religione romana, e che si connette piuttosto col tipo sannitico del sestante capuano (Garrucci, tav. LXXXVII, 11: leone recante il veru sabellum o il σαόνιον (v. la giusta osservazione del Garrucci sul tipo della moneta sannitica, tavola XC, 1, p. 97 e seg.), lo troviamo come emblema specifico di Perugia nelle urne etrusche del sec. III a. C. (Conestabile, Mon. di Perugia, I, tav. LIV-LXXX, 8-4, cfr. p. 287). Codest’arma parlante della forca militare di Perugia, viene dai Romani assai a proposito riprodotta, prima tale quale, col gladio sguainato (1a emissione senza simboli); indi modificata (2a emissione) nel senso politico favorevole ai Romani: cioè il leone domato morde a guisa di freno quel medesimo gladio, reso inoffensivo dal fodero, con chiara allusione, come mi pare, alla memorabile vittoria di Q. Fabio Rulliano dopo il disastro di Sentino (a. 295). Finalmente lo stesso emblema viene ripetuto col segno pacifero del caduceo (3a emissione, v. le osservazioni verso la fine di questo capitolo), in seguito alla pace forzata che seguì quel grande e decisivo fatto d’armi.

    La metrologia di questi assi, i quali pesano 11, 10 e 9 once, corrisponde con precisione matematica alla proposta cronologia (v. cap. IV) ed alla esegesi politica che diamo del tipo. Il semisse a testa di toro, R. prora di nave, trovato insieme con l’esemplare di Palestrina, è probabile che leghi colla serie a testa di leone di 2a e 3a emissione.

    Parallelo mi pare altresì l’asse, Garrucci, tav. XLIII, 1, esibente: D. testa di Ercole con spoglia nemea, tipo diffusissimo in Etruria nel sec. 1[2 IV-III a. C; R. protome di grifo, tipo specialmente proprio della nazione etrusca (grifo di Leida, grifo delle tombe, delle urne, ecc.).
  21. Basterebbe questo fatto per dimostrare che l’uso delle tombe italiche a pozzo, con suppellettile di tipo antichissimo è continuata fino ad epoca storica relativamente tarda (prima invasione gallica a. 390-367 a. C). Troppe altre cose avrei a dire, se qui fosse luogo; ma esporrò un giorno ampiamente le mie opinioni sulle necropoli italiche ed etrusche antichissime, dopoché il cav. Falchi avrà pubblicato il lavoro d’insieme che prepara sulla necropoli di Vetulonia, da lui scoperta.
  22. Secondo ogni probabilità, il tipo della dea Roma seduta sugli scudi gallici del tempio di Giove Capitolino di cui dicemmo di sopra (p. 67, nota 88), dipende dalle prime vittorie galliche, riportate, da Camillo, 390 e 367 a. C. Vado anzi più in là, e ritengo fermamente che la decorazione della parte postica del tempio Capitolino, nominatamente il gruppo della dea Roma augurium capiens, abbia origine appunto dalle prime rivendicazioni barbariche dei Romani (manubiae gallicae). Settant’anni dopo, essendo edili gli Ogulnii (296 a. C.), sarebbe stata restaurata la lupa ed arricchito il fastigio con la quadriga di bronzo del culmine. Ecco perchè anche nel 277 a. C., quando fu emessa la moneta che celebra la dedizione dei Locresi (vedi nota 110), la dea Roma apparisce, come nel tempo imperiale, sedata sopra, uno scudo gallico, abbreviazione del mucchio di scudi. Per le monete repubblicane con la dea Roma seduta sopra una congerie di scudi gallici vedasi Klügmann, L’effigie di Roma nei tipi monetarii 1879, tavola annessa.
  23. Sei anni prima (289 a. C.), ha luogo la colonizzazione romana di Adria nel Piceno. Questa città però è autorizzata ad emettere l’aes grave fuso sul piede della mina attica in considerazione dei suoi rapporti commerciali con la Grecia e particolarmente con Atene; rapporti dimostrati abbastanza dalle antichità che si conservano in Adria (Schoene, Museo Bocchi).
  24. Nel bronzo di Pesto (colonia romana del 273 a. C.) è frequente la rappresentazione del sus in atto di correre e di grugnire (Garrucci, tav. CXXII, 14, 82, 41, ecc.), talora perfino guinzagliato (Garrucci, CXXII, 22), per cui è evidente il rapporto con la detta tradizione (cfr. la stessa moneta di Pesto con l’elefante africano (?), Garrucci, tav. CXXII, 10.
  25. Fa in seguito alla vittoria di Benevento che furono portati in trionfo quattro elefanti — i primi che si vedessero in Roma, 273 a. C. — v. Mommsen, Röm, Gesch., 6a ed. p. 419, trad. Sandrini, I, p. 611. Poco più sopra Mommsen notò giustamente come Pirro rappresentava agli occhi dei Romani lo straniero. Pirro era come l’Idra secto corpore firmior, cui Orazio, Od. IV, 4, 61 paragona Asdrubale, cfr. Plut. Pyrrh. 19, Floro I, 13, Dione fr. 40, 28 ed. Bekk.: l’Idra fiaccata da ΡΩΜΑ, personificazione della forza Erculea. Di qui il tipo romano-campano con Ercole e la lupa Capitolina, Garrucci, tav. LXXVII, 15, ed altri tipi congeneri di simile o parallelo significato allegorico (Centauro, Pegaso, ecc.). Quanto ai nummi con la clava di Ercole e la scrofa pubblicati dal duca di Luynes, Rev. Num., 1859, soggetti a tante discussioni (vedi Mommsen-Blacas, I p. 251; IV tav. XVIII, 2-3; Babelon, I, p. XV seg.), ora io inclinerei a ritenerli autentici o possibili, circa di questo tempo e forse laziali. Mi pare, in ogni caso, che la leggenda della scrofa di Lavinio prendesse voga e si concretasse in conseguenza della popolarità acquistata dal sua al tempo di Pirro. Aggiungasi che il sus era anche il simbolo del foedus italico (v. n. 59), senza del quale Roma difficilmente avrebbe potuto trionfare di Pirro.
  26. Fanno riscontro all’aes signatum romano col tipo dell’elefante asiatico certe monete semibarbare, di sistema quadrantario, dice Garrucci, p. 36, e fuse, come pare, a Metaponto (iscr. MET). Particolarmente interessante è il triente (Garrucci, tav. LXVI, 1), dove vediamo contrapposta posta all’elefante del rovescio la testa di Giano imberbe, simbolo dell’unificazione e federazione italica (nota 20 e cap. IV). Interessanti mi sembrano altresì l’oncia ed il sestante (Garrucci, tav. XXI, 1) librali (?), anepigrafi, dove all’elefante si direbbe essere contrapposta la testa semibarbara di Pirro. Questo ritratto — peccato sia tanto barbaro ! — starebbe in un certo rapporto di simiglianza col tanto discusso Pirro della Galleria degli Uffizi (Arch, Zeit, 1877, p. 68 segg., tav. 9 e 1879, p. 36). Più tardi (prima guerra punica; sistema trientale) le città di Atelia (Garrucci, tav. LXXXVIII, 4), di Velechia dei Mamertini (Garrucci, tav. LXXXVIII, 9-10), di Capua Garrucci, tav. LXXXVI, 32), e Pesto (Garrucci, tev. CXXII, 19), emisero monete col tipo dell’elefante africano. Di razza asiatica, e non africana (cfr. le piccole orecchie e la gibbosità del dorso), l’elefante apparisce invece in una serie di monetine di bronzo coniato, le quali sogliono rinvenirsi in Val di Chiana, ed appartengono, per quanto danno a vedere, alla città etrusca sconosciuta di Peithesa (Garrucci, tav. LXXVI, 1-10, 11-6). Queste monete dovrebbero dunque riferirsi piuttosto all’epoca di Pirro, che alla prima guerra punica.
  27. Histoire de la Divination, Paris, 1882, IV, p. 908 e segg.
  28. Per la rappresentazione monumentale del tripudium sollistimum vedasi: a) bassorilievo romano presso Graevius, Thesaurus, V, p. 822; Daremberg e Saglio, Dictionnaire des Ant., II, p. 921, voce cavea; b) Zoega, Bassorilievi, I, 16; e) Ann. Ist., XVIII, tav. D. La gabbia (cavea) coi polli beccanti il mangime, in questi rilievi è sempre accompagnata dall’aquila legionare o dalle insegne dell’esercito.
  29. Presso Gennarelli, Moneta primitiva, p. 22.
  30. Mommsen-Blacas, I, p. 880.
  31. Canina, Dictionn. de l’Acad. des Beaux Arts, IV, p. 30; Daremberg e Saglio, Dictionn. des Ant., art. columna. Per l’iscrizione relativa e la letteratura, vedi C. I. L., I, 196, Ritschl, tav. XCV. Mommsen dimostrò essere del tempo di Claudio.
  32. Si noti che il primo Lollio nominato dagli antichi è un Sannita, distintosi nelle guerre di Pirro.
  33. Con tre cuspidi aperte, affatto simile ad un tridente, è rappresentato in alcuni monumenti dati dal Weiss, Kostumkunde, I, p. 1260, fig. 510, B. C. Nelle monete di Vetulonia (sestanti) (Garrucci, tav. LXXIV, nn. 16-16) crederei di riconoscere piuttosto un rostro anziché un tridente vero e proprio, perchè le cuspidi lanceolate sorgono inferiormente su di una sbarra orizzontale più lunga del bisogno, la quale sembra appunto destinata a fissarle alla nave, al modo stesso del rostro di Rimini (Garrucci, tav. LX, 1. Cfr. anche il rostro (simbolo) dei denari di Q. Fabio Labeo, Babelon, I, p. 4d0. 1.
  34. Vedansi le monete di Demetrio Poliorcete coniate in occasione della sua vittoria sulla flotta di Tolomeo presso Cipro (Head, Ancient coins, tav. 81, 17). Gli accurati disegni della prora di questa nave sono dati anche da Samwer-Bahrfeldt) op. cit., p. 89, e da essi sembrami potersi arguire che il perfezionamento portato da Demetrio Poliorcete fosse consistito nella duplicazione del rostro. Circa la tradizione che attribuisce l’invenzione del rostro a Piseo Tirreno (Plin., VII, 209), essa sta in rapporto appunto con l’origine fenicia.
  35. Il tridente delle monete di Ierone II, come quello di Pesto (Garrucci, tav. CXXII, 5), e di Capua (Garrucci, tav. LXXXVm, 2), ha le cuspidi lanceolate legate insieme da ricci. Questo tridente, non essendo inastato, potrebbe mettersi anche in relazione coi rostri navali. Naturalmente va da sé che il rostro, arma delle navi, si identifica col tridente di Nettuno. Nelle monete di Ierone II al tridente è contrapposta la testa diademata di Posidone; mentre nelle monete di Pesto (isocr. lat.) e di Capua (iscr. osca), non senza una patente allusione politica, alla testa del Dio del mare è stata contrapposta la testa laureata di Giove Capitolino (sic). Si noti inoltre che, non senza una ragione storica e politica, le monete di bronzo di lerone II col tridente, furono dai Romani, suoi alleati dal 263 in poi, utilizzate come once di riduzione trientale e contromarcate con la prora rostrata romana (cfr. d’Ailly, Recherches, I, tavola XLI, 24 e 27).
  36. Si veda la descrizione critica del combattimento navale fatta dal Mommsen, Röm, Gesch., 6a ed., I, p. 515 seg., I, P. 2a p. 40 seg.
  37. Vedansi i luoghi presso Mommsen-Blacas, II, p. 11, seg.: I, p. 208.
  38. L’esemplare di Pesaro (Garrucci, tav. XXVIII, 1), metrologicamente (gr. 390,30), stilisticamente e tecnicamente, mostra di essere di fabbrica non Urbana; probabilmente spetta a Rimini. Cosi anche l’asse e il semisse quadrantali, Garrucci, tav. XXXII, 2, 8, sebbene di tipo Urbano, furono emessi a Luceria (– ).
  39. V. Periodico di Num. e Sfrag. dello Strozzi, Vol. IV, p. 8.
  40. Pesa gr. 484,18, invece di 436,5; ma la forte crosta del tartaro e della patina verde chiara da cui è coperto può già portare una differenza. Intorno alla mina italica di 18 once (gr. 490) cfr. nota 97.
  41. V. il mio scritto Dionysos Eirene e Pluto nel Bull dell’Ist., 1890, p. 94 e segg.
  42. Vedi la recentissima monografia di Hoffmann, Hermes und Kerykeion – Studie zur Urbedeutung des Hermes, Marburg 1890.
  43. V. lo specchio dei pesi presso d’Ailly, Recherches I, p. 56 segg. e presso Samwer-Bahrfeldt, Gesch. d. alt röm. Münzwesen, p. 46 e p. 69 segg.
  44. Le monete di Audoleonte re di Peonia, anteriori al 286 a. C., sono le più antiche di questo tipo, (Head, Hist. Num. p. 208). Per le monete di Taranto con la testa di Athena τριλοφία (Garrucci, tav. XCIX, 19, 44), e per la loro cronologia, vedasi la importante monografia di Evans, Horsemen of Tarentum nella Num. Chron., 1889. Le monete di Metaponto col medesimo tipo sono quasi contemporanee.
  45. Si vedano i tori aggiogati all’aratro nel gruppo etrusco del Kircheriano, Micali, Storia d’Italia, tav. CXIV, e si confronti il bronzo semissale inscritto BOMA (Garrucci, tav. LXXVIII, 8, 4; Babelon, I, p. 18-19), il quale lega con questi assi, ed esibisce il toro cornupete di Turio scherzante col draco: Ζεὺς Πατρῷος identificato col Ταῦρος δράκοντος καὶ ταύρου δράκων πάτηρ del noto verso citato troppo a proposito dell’Eckhel, D. N., I, p. 138.
  46. V. Bull. Arch. Napoletano, T. II, p. 117 e T. V, p. 72.
  47. Festo, ed. Müller, p. 197, e Floro, I, 18, 9.
  48. Intorno alla leggenda greco-osca ΑΥΥΣΚΛΙ (– Auhuskli – Osculani – Asculani) ed alla sua postuma etimologia, provocata dalla famosa battaglia del 279 vedasi, oltre Cavedoni, Bull Nap., T. V, p. 72, Garrucci, Isernia p. 188, e Monete Italia, p. 110. Quivi Garrucci determina meglio il senso del victos vincere, appoggiandosi a Dionisio, XX, 1-8, ossia al fatto dei Dauni che decisero dell’esito incerto della battaglia, per loro cagione divenuta più favorevole ai Romani (victos) che a Pirro (victor), donde anche il celebre detto di Pirro: Ἄν ἔτι μίαν μάχην Ῥωμαίους νικήσωμεν, ἀπολούμεθα παντελῶς (Plut., Pyrrh., 21).
  49. Lemniscata palma, v. Cicerone, Pro Rosc. Am. 85; Ausonio, Ep., XX, 5. Cfr. il lemnisco che reca la Vittoria (Nike) nelle monete di Elide (Gardner, The types, III, 42), e nelle monete romane imperiali.
  50. Nell’esemplare di Parigi (b) il lemnisco legato a s., invece che a d., se non dipende da una semplice differenza officinale, accennerebbe ad una diversa emissione.
  51. Cfr. il caduceo e la testa di Mercurio, comunemente adottati come simboli appunto di pace e dell’avviato commercio, nelle stesse monete di argento campane, riferibili circa al medesimo tempo.
  52. Per la relazione amichevole fra Roma, Gubbio e Todi, vedi Mommsen-Blacas, in, p. 198, 206.
  53. Vedi intorno a questi quadrilateri le osservazioni di Garrucci, p. 9 e seg. Il quadrilatero con la clava R. spina di pesce (Garrucci, tav. XI, 2, di gr. 1509,38), appartiene, secondo ogni probabilità, ad una emissione Todina anteriore.
  54. Questi quadrussi (v. Garrucci, p. 11) io non credo che sieno da espungersi: l’accordo del Passeri col Riccio è notevole: forse i quattro globuli del Passeri erano effettivamente quattro linee non bene chiare.
  55. Codesto asse (Garrucci, tav. XXXIII, 1), particolarmente interessante per la grandezza (il peso fa trascurato dal Garrucci) per lo stile, per i tipi e le iscrizioni che reca, mi sembra campionario, e contrapposto a quello col toro soffermo (v. sopra p. 92). — Da una parte è rappresentata la testa diademata di Nettuno e vi è l’iscr. LT che io interpreto Latium, dall’altra l’aqaila piscaria col pesce negli artigli, sostituita all’aquila fulgoratrice Capitolina, e l’iscrizione R, che io interpreto Roma. La testa di Nettuno e l’aquila piscaria non potrebbero rappresentare più eloquentemente la pace marina, contrapposta alla pace agreste che vedemmo rappresentata dall’asse campione col toro respiciente di Roma, Capua(?) e Luceria.