Versione dell'Iliade d'Omero (Maffei)/Canto secondo
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Traduzione dal greco di Scipione Maffei (XVIII secolo)
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CANTO SECONDO
Gli altri immortali e i di grand’elmo armati
uomini ancor tutta l’intera notte
stetter dormendo, ma da dolce sonno
non fu Giove giá preso che in sua mente
5come ad Achille onor venisse e come
presso le navi andasser molti a terra
rivolgendo n’andò. Questo gli parve
miglior consiglio: un ingannevol sogno
di mandare ad Atride; ed a sé tosto
io chiamatol, pronte a lui fece parole:
— Vanne tosto, o reo sogno, a le veloci
de’ greci navi ed a la tenda giunto
d’Agamennone Atride, come or io
per l’appunto t’impongo, a lui favella.
15Digli che a tutte le chiomate schiere
faccia omai prender l’armi, ch’ora è il tempo
d’espugnar l’ampia dei troian cittade,
imperoché gli dii, che ne’ celesti
alberghi sono, piú fra sé contrasto
20non fanno; gli piegò tutti Giunone
pregando, e strage a Troia aspra sovrasta. —
Sì disse, e prontamente, udito ch’ebbe,
a le navi si fu rapide il sogno.
Quinci n’andò ad Atride e ritrovollo
nel padiglion dormendo. Soavemente
spandeasi il sonno intorno, sopra il capo
ei gli stette sembiante in tutto al figlio
dí Neleo Nestor, cui fra tutti onore
Agamennon rendea. Con sua figura
gli parlò il divin sogno: — O d’Atreo prole,
che fu si saggio cavalier, tu dormi?
Non dé’ mai nottintero uom di consiglio
o di stato posar, cui son commessi
popoli e cui tante son cose a core.
Or m’odi tosto, poiché a te di Giove
nunzio ne vengo il qual, se ben lontano,
prende di te pensier, sente pietate.
Ei vuol che a tutte le chiomate schiere
l’armi prender tu faccia, ch’ora è il tempo
d’espugnar l’ampia dei troian cittade;
imperoché gli dii che ne’ celesti
alberghi sono, piú fra sé contrasto
non fanno, gli piegò tutti Giunone
pregando, e strage a Troia aspra sovrasta
da Giove. Or ciò nel cor pónti, né oblio
ten prenda punto, allor ch’il dolce al fine
sonno disvanirá. — Dopo tai detti
partissi e lui lasciò cose volgente
fra sé che adempier non doveansi mai:
poiché di Priamo la cittá quel giorno
d’espugnar si pensò, folle! né seppe
quali Giove apprestasse opre, né come
e a’ troiani e agli achei con aspre e dure
battaglie orrendi era per dare affanni.
Si riscosse dal sonno e la divina
voce gli risonò d’intorno. Sorse
e sedendo si mise delicata
tonaca ch’era nuova e bella, sopra
il grand’ammanto circompose, ai molli
piedi legossi i be’ calzari e intorno
la d’argento borchiata agli omer spada
appese e il sempre conservato poi
paterno scettro prese ed a le navi
de’ ferrocinti achei sen gí con esso.
65Su l’ampio ciel salia l’Aurora a Giove
e agli altri dèi per nunziare il giorno,
quando agli araldi egli ordinò sonori
d’intimar parlamento, e fur ben tosto
i capelluti greci in pronto. Ei fece
70prima del pilio re Nestore al legno
seder la curia de’ canuti eletti,
a consultar poi die principio: — Udite,
amici, a me tra ’l sonno un divin sogno
venne in placida notte; al buon Nestorre
75la figura, l’aspetto, il modo affatto
simile, e sopra me stette e con queste
parole favellommi: «O d’Atreo prole,
che fu si saggio cavalier, tu dormi?
Nottinteri non denno uomin di stato
80e di senno posar, cui son commessi
popoli e cui tante son cose a core.
Odimi or tosto, poiché a te di Giove
nunzio ne vengo, il qual, se ben lontano,
prende di te pensier, sente pietate.
85Ei vuol che a tutte le chiomate schiere
l’armi prender tu faccia, ch’ora è il tempo
d’espugnar i’ampia dei troian cittade:
imperoché gli dii, che ne’ celesti
alberghi sono, piú tra sé contrasto
90non fanno; gli piegò tutti Giunone
pregando e strage a Troia aspra sovrasta
da Giove. Questo entro tua mente or serba».
Cosí detto, parti volando e il dolce
sonno allor mi lasciò; però si pensi,
95se possiam far ch’omai de’ greci i figli
s’armino. Io prima co’ miei detti, quanto
lice, gli tenterò, sopra le navi
moltipanche ordinando di fuggire;
ma voi un qua, un lá col parlar vostro
ioo arrestategli. — Detto ch’ebbe, posesi
a sedere e il signor de l’arenosa
Pilo rizzossi Nestore, che in saggi
sensi lor prese a ragionare e disse:
— O amici, direttor’ de’ greci e duci,
105s’altri narrato degli argivi un sogno
ci avesse, falso inver per noi direbbesi
e rifiutar sapremmolo; ma ora
colui lo vide che fra tutti sommo
si prèdica, però accingiamci tosto
no a far che s’armin degli achivi i figli. —
Si avviò per uscir dopo tai detti,
e al pastor de le genti i re scettrati
si apprestaro a ubbidir. Venian le turbe
qual vien da cava pietra il popol folto
115de Papi, ché ne vanno uscendo sempre
di nuove e quasi grappoli su i fiori
di primavera volano e altre quindi
veggonsi svolazzar, spesse altre quinci:
tal da le tende e da le navi a truppe
120sul vasto lido in copia al parlamento
si portavan le genti, a gir spingendo
voce fervea tra lor nunzia di Giove.
Assemblarsi e pria grande era il tumulto
nel consiglio; sedendo tutti, il suolo
125gemea. Ben nove ivan gridando araldi
per far silenzio, se volevan mai
acchetarsi ed i regi udir da Giove
nodriti. Luogo a un tratto il popol prese
e cessando il clamor tenne i sedili.
130Levossi il buon Atride, in mano avendo
lo scettro di Vulcano opra, cui diede
egli al saturnio re Giove, ma Giove
a l’Argicida il dié nunzio e a l’auriga
Pelope questi, e Pelope di nuovo
135ad Atreo il comun padre, il qual morendo
a Tieste il lasciò d’agnelli ricco
e Tieste ad Atride, accioché regno
in Argo tutta e in molte isole avendo,
il portasse. Volanti, a tal bastone
140appoggiandosi, ei fe’parole: — O amici,
greci marziali eroi, funesta e dura
troppo è l’impresa ove implicommi Giove
crudel che mi accennò prima e promise,
dopo espugnato il forte Ilio, ritorno
145ed ora vuol con tristo onor che in Argo,
tanto popol perduto, ecco io men rieda.
Ma così è in grado al prepossente nume
il qual genti atterrò superbe e molte
ne atterrerá con sua possanza estrema.
150Onta è certo, e sará ne’di futuri
ancor, che tale e tanto d’achei stuolo
pugnasse indarno, e contra pochi guerra
non conducesse a fin. Pur de l’evento
nulla traspira ancor; ché se vorremo
155de’ sacri giuri su la fede e greci
e troiani contarci, de’ troiani
quanti nativi son prendendo e noi
in decurie ordinandoci e a ciascuna
troico coppiere destinando, senza
160ne rimarran non poche; tanto vince
il numer nostro quel di lor. Ma accorsi
da cittá molte sono astavibranti
che me deludon, d’espugnar vietando
l’alta e folta cittá. Ben nove omai
165sono giá del gran Giove anni trascorsi,
giá de le navi imputridir le funi
e i legni infracidár, le nostre mogli
ed i semplici figli ne le afflitte
case aspettando stanno e quell’impresa,
170per cui venimmo, ineseguita resta.
Su dunque adempia ognun quant’io propongo:
al patrio amato suol fuggiam co’ legni,
ché l’alto Ilio espugnar piú non si spera.
Così parlava e fu di quei commosso
175il cor che inteso non aveano; allora
il parlamento incamminossi, appunto
come i lunghi del mare icario flutti,
s’euro e noto gli spingono sboccando
del padre Giove da le nubi, o pure
180come quando alta messe impetuoso
zefiro inclina e fa ondeggiar le spiche.
In quel confuso movimento alcuni
a le barche correano schiamazzando
e da lor piedi sollevata in alto
185stava la polve, altri le navi a gara
afferrare esortavansi e in mar trarle.
Purgan sentine e van le grida al cielo
di chi affretta il partir, da le lor navi
sottraggono i puntelli, e allor per certo
190facean gli achivi oltrafatal ritorno,
se Giuno a Palla non movea parole:
— Ahi così dunque a la natia lor terra,
figlia di Giove egidarmato invitta,
fuggiransi nel mar su l’ampio dorso
195gli achivi, a Priamo gloria ed a’ troiani
lasciando Elena argiva, per cui tanti
lungi dal patrio suol greci periro?
Deh, al ferrocinto popol degli achei
vanne ora tu e col tuo trattieni ognuno
200piacevol dire, né permetter mai
che l’ambidestre in mar navi sien tratte. —
Così parlò, né l’occhiazurra dèa
Pallade fu restia, ma de l’Olimpo
da le cime discesa, andò in un tratto
205ai greci legni e ritrovò di poi
l’uguale per consiglio a Giove Ulisse.
Ei non moveasi, né la ben costrutta
nave toccava, poiché acerbo al cuore
gli era giunto dolor. Fattasi appresso
210l’occhiglauca parlò in tai sensi Atena:
— Di Laerte almo figlio, astuto Ulisse,
cosi dunque fuggirsi al patrio suolo
ne le navi saltando, e a Priamo il vanto
ed Elena ai troian lasciare argiva,
215per cui si lungi da la propria terra
tanti in Troia perir greci? Or tu vanne
senza indugio e col tuo trattieni ognuno
piace voi dire, né permetter mai
che l’ambidestre in mar navi sien tratte. —
220Si disse, ed egli de la diva i sensi
ben comprese e sen gi correndo e il pallio
gittò, cui prese Euribate l’araldo
d’Itaca che il seguia; ma egli incontra
ad Atride si fece e l’incorrotto
235prese da lui paterno scettro e andonne
de’ ferrocinti achei con esso ai legni
ed in qual s’avvenia degn’uomo o prence
con molli detti l’abbordava: — Amico
non si conviene a te, quasi un plebeo
230tu fossi o un vile, dimostrar paura;
t’arresta e gli altri ancor trattien, d’Atride
tu non comprendi ben la mente; ei forse
cosi ci prova e ci fará poi danno,
poiché non tutti ciò ch’e’ disse udimmo.
235In grazia ch’ei non rechi a’ greci guai.
Forte è l’ira d’un re dal savio Giove
nodrito e amato, ei tien da Giove il grado. —
Ognuno poi dei popolar che a sorte
incontrasse o che far rumore udisse
240il battea con la mazza e ’l rampognava:
J
— Miser, t’accheta e siedi e gli altri ascolta
molto di te migliori; imbelle e fiacco
tu se’, né in guerra buon, né per consiglio.
Non regnerem giá qui noi greci tutti,
245buona non è la signoria di molti;
signor sia un solo, un solo re cui abbia
scettro e lume del giusto, accioché regni,
del sagace Saturno il figlio dato. —
Così l’armata egl’instruiva, ed essi
250da le navi di nuovo e da le tende
gian con fracasso al parlamento, come
alloraché gli strepitanti flutti
battono il vasto lido e ’l mar risuona.
Tutti gli altri sedean cheti a’ lor luoghi,
255solo Tersite cianciatore immenso
gracchiava ancora, il quale entro sua mente
cose molte e confuse in van tenea.
E co’ capi da stolto imprendea lite,
tutto dicendo ciò che destar riso
200credea potesse a’ greci. Uom piú deforme
non venne a Troia mai; losco era e zoppo,
gli omeri curvi e sopra il petto stretti,
il capo in alto aguzzo e capei rari.
Sopra tutto d’Achille era nimico
205e d’Ulisse, sgridandogli, ed allora
con acuti clamor nuovi improperi
verso il divo Agamennone dicea.
Contra costui fiero nodrian nel core
sdegno gli achei, ma egli, alto gridando,
270Agamennon con questi detti offese:
— Perché ancor ti quereli? E che ti manca,
Atride? Di metallo hai giá ripiene
tue tende e molte dentro elette donne
tieni che a te noi tosto diam, se alcuna
275cittá si prende. Oro vuoi forse ancóra,
che a te per prezzo del riscatto pòrti
troiano cavalier, per avventura
da me o de’ nostri da alcun altro preso?
O giovinetta brami per mischiarti
280con essa e a parte riserbarla? Indegno
ben è che il capo metta i greci in guai.
O vili, o vituper’, greche e non greci,
torniamo addietro e lasciam che costui
suoi doni goda in Troia, acciò conosca
285s’abbia mestieri o no del nostro aiuto.
Egli ad Achille assai di lui piú prode
anche ora ingiuria ha fatta e a forza tolto
il di lui premio pur si gode. Iroso
non è per certo Achille, anzi melenso
290e di molto, altrimenti ultimo fóra
questo che altrui facessi, Atride, affronto. —
De le genti al pastor così Tersite
rimbrottando parlò, ma tosto a lui
appresentossi Ulisse e, torvamente
295guatatol, brusche proferí parole:
— Tersite, cicalon benché loquace
dicitor, cessa, né pretender solo
di contender co’re, ché non cred’io
fra quei che venner con gli Atridi a Troia
300peggior di te mortai si trovi alcuno.
Non aver dunque i re pur sempre in bocca,
né cicalare ingiuriandogli; cura
non ti dar del ritorno, ché per anco
a che debban riuscir si fatte cose
305a noi noto non è, né sappiam pure
se noi greci tornando avrem buon fine.
Tu, sedendo, il comun pastore Atride
villaneggi, perché molti a lui fanno
presenti i greci eroi, quinci arringando
310mordi; ma io ti dico — e questo detto
s’adempirá — s’io piú, come or qui fai,
folleggiarti vedrò, non resti a Ulisse
sugli omeri la testa e piú non sia
chi padre di Telemaco mi chiami,
315s’io te non prendo e de le care vesti
se non ti spoglio, pallio e tonicella
e ciò che copre ove vergogna asconde,
poi con percosse flagellato orrende
e di lagrime pien dal parlamento
320a le rapide navi io non ti caccio. —
Sí disse, e spalle con la mazza e dorso
gli picchiò; ei ripiegavasi e ben calde
lagrime gli cadeano: per l’aurato
scettro sul tergo tutto sollevossi
325sanguigno lividor; ma paventando
sedè dolente e le lagrime, torvo
guatando, si tergea. Benché dolenti
sopra lui, riser tutti e fu taluno
che disse al suo vicini — Mill’opre belle
330e co’ saggi consigli e guerreggiando
fece Ulisse, ma a fé non mai di questa
la miglior, fren ponendo a le superbe
di quel villano ingiuriose arringhe.
Di far con motti temerari oltraggio
335ai sommi re non gli verrá piú in core. —
Cosí il popol parlava, ma rizzossi
l’espugnator de le cittadi Ulisse
col scettro in man. Minerva glauca a canto
in sembianza d’araldo al popol folto
340di tacere intimò, perché e vicini
e lontani il parlare udisser tutti
e il consiglio intendessero. Egli allora
saggiamente in tal modo a parlar prese:
— Atride re, te voglion ora i greci
345render di tutti i mortali il piú abietto.
La promessa non servano a te fatta,
quando venner, l’equestre Argo lasciando,
di non tornar se non gettata a terra
la ben murata Troia. Or quai fanciulli
350o quai vedove donne ai patrii tetti
di ritornar bramano a gara. In vero
duro è tornar con duol; ma s’uom s’attrista,
lungi da la consorte un mese stando
in moltipanca nave il freddo verno
355da procelloso mar sempre agitata,
o a noi da che siam qui giá si rivolge
de l’anno il nono giro. Io non mi dolgo
però, se mesti a le rostrate navi
stansi i greci; ma pur vergogna è somma
360star così a lungo e ritornar derisi.
Soffrite, amici, e rimaner vi piaccia
un tempo ancora, acciò veggiamo al fine
se vero o no vaticinò Calcante.
Peroché ben abbiamo in mente — e tutti
365ne siete testimon voi, cui le Parche
finor non assalir portando morte —
allorché in Auli per recar ruina
a Priamo ed a’ troiani i greci legni
ragunársi, faceansi agl’immortali
370d’intorno al fonte presso i sacri altari
piene ecatombe sotto verde, ov’acqua
limpida scaturia, platano. Allora
prodigio apparve insigne: orribil serpe
da l’olimpio medesimo prodotto
375di sotto a l’ara uscito, al platan venne
di rosse macchie sparso. Ivi augelletti,
teneri parti, sul piú alto ramo
eran otto, tra foglie svolazzanti;
nona era la lor madre. Esso stridenti
380gli divorò miseramente, intorno
volando giá la madre, i cari parti
piangendo; ei prese l’ala e schiamazzante
la ravvolse, ingoiando essa non meno
dopo i figli. Quel dio che il fe’ apparire
385lo rese illustre, poiché pietra il fece
de l’astuto Saturno il figlio. Noi
rese attoniti e immobili tal fatto;
ma poiché accompagnò cotal portento
le divine ecatombe, in questo modo
390vaticinò Calcante: «Achei chiomati,
e perché ammutoliste? Il saggio Giove
segno ci dimostrò di tarda e lenta
impresa, la cui gloria eterna fia.
Come gli otto augelletti con la madre
395che partorigli — e dicea nove — il serpe
divorò, così noi altrettant’anni
farem guerra e nel decimo a la fine
l’ampia cittá soggiogheremo». In questa
guisa ei predisse ed or tutto s’adempie.
400Su dunque, su ben gambierati achei,
restate quanti séte, infin che l’alta
cittá di Priamo d’espugnar s’ottenga. —
Cosí parlava. Acclamarono i greci,
— a le lor voci rimbombando intorno
405le navi — ed applaudir d’UIisse ai detti.
A lor drizzò parole anche il canuto
Nestore cavalier: — O Dèi, sembianti
a’ garzon che di guerra nulla sanno,
voi favellate. Ove n’andranno i patti
410e i giuramenti? Getteransi al foco
de’ piú saggi i consigli e le fatiche,
i puri libamenti e le, cui fede
ebbesi, date destre? Poiché indarno
contendiam con parole, se ben molto
415di tempo ci spendiam, ripiego alcuno
trovar non ci avverrá. Ma tu qual pria
tien fermo, Atride, il tuo disegno; i greci
reggi ne le battaglie e lascia pure
che coloro uno o due scevri dagli altri
420eonsultin; lor pensier non avrá effetto
d’irsene in Argo, innanzi che scoprire
possiamo se di Giove egidarmato
o vera o falsa la promessa fosse.
Imperoché l’oltrapossente Giove
425averci allora dato il segno io dico,
quando per portar morte e strage a Troia
sopra i rapidi pin salir gli argivi,
a destra balenando e fausti auguri
pur facendo apparir. Nessuno adunque
430di tornar pensi a le paterne case
pria di giacer con troica donna e giusta
vendetta far del ratto e degli affanni
d’Elena. Che s’alcun tornar pur vuole
ebro di van desire, a la sua negra
435ben tavolata barca or or s’accosti,
acciò prima degli altri a morte vada.
Ma tu, o re, avverti bene, abbimi fede;
non è da trascurar ciò ch’io dirotti:
per genti e per ninnigli i tuoi soldati
440partir convienti, accioché gente a gente
e schiatta a schiatta aiuto rechi. Oprando
pur così e pronto l’ubbidire essendo,
qual militante e qual de’ duci prode
e qual sia vile imparerai, pugnando
445tutti da sé; conoscerai non meno,
se per voler divino o per viltate
o imperizia di guerra Ilio non cada. —
Cui rispondendo Agamennon dicea:
— Certo i figli de’ greci ragionando
450superi, o vecchio, e così Giove e Apollo
e Pallade fra’ greci consiglieri
dieci a te somiglianti avesser dati;
l’alta cittá n’andrebbe tosto a terra
per noi presa e disfatta. Ma d’affanni
455Giove saturnio mi ricolma, in liti
e in vane avviluppandomi contese.
Con aspri detti per una fanciulla
siam venuti a contesa Achille ed io,
ed io fui ’l primo a offender; ma se mai
460sarem d’accordo, de’ troian lo scempio
non si differirá pur un momento.
Or ite a prender cibo, accioché poi
venghiamo a Tarmi; altri assettar lo scudo,
altri Tasta aguzzare, altri si vegga
465ai pieveloci destrieri dar pasto
o vero il cocchio visitando intorno
prepararsi a la pugna, accioché il giorno
possiam durare intero in armi, mentre
posa non ci sará pur d’un momento,
470se non venga la notte e i combattenti
separi. Suderá d’intorno al petto
il cuoio di talun che appeso tiene
Tuoni circondante scudo, stancherassi
la man per Tasta, e suderá tirando
475di taluno il destrier nitido carro;
ma chiunque saprò fuor del combatto
a le rostrate navi starsi, al certo
essere il farò pasto a’ corvi e a’ cani. —
Cosí disse e levaro alto rumore
480i greci, come i flutti ov’alto è il lido,
allorché nòto spinge ad avanzato
scoglio da cui non parton Tonde mai,
né i venti vari or qua or lá spiranti.
Sorgendo corser sparsamente ai legni,
485acceser fuoco ne le tende e cibo
preser; chi a l’un chi a l’altro degli eterni
numi fea sacrifizio per da morte
aver scampo e da Marte orrido. 11 sommo
re Agamennon pingue toro cinquenne
490al Saturnio immolò sovrapossente.
Invitò i vecchi fra gli achei primari,
Nestore in prima e Idomeneo, di poi
i due Aiaci e di Tideo il figlio; sesto
Ulisse fu, pari in consiglio a Giove;
495spontaneo venne Menelao sonoro,
che ben sapea quanti nel petto affanni
il fratei suo chiudesse. Il bue attorniaro,
presero il farro e ’l sale e insiem con essi
cosi pregò Agamennone: — Superno
500Giove, in cielo abitante, nubipadre,
non cada prima il sol, né tenebrosa
venga diman la notte ch’io l’altera
di Priamo reggia non abbatta e foco
a le porte non vibri e con la spada
505l’ettorea alta lorica non infranga
e intorno a lui gli amici suoi distesi
ne la polve non mordano la terra. —
Cosí parlava dal saturnio Giove
inesaudito, che accettò l’offerte
510ma gran disastro accrebbe. Or giunte a fine
le preci e sparso il farro e ’l sai, di nuovo
trasser la bestia addietro e ancisa e de la
pelle spogliata ne tagliar le cosce
e di grasso a due suoli la coprirò
515e sopraposer le carni, abbronzando
con recisi e sfrondati legni. Sopra il
fuoco tenean le viscere infilzate.
Ma abbronzate le cosce ed assaggiate
le viscere, a minuto l’altre parti
520tagliando, le infilzaro dentro a’ spiedi
e le arrostir peritamente; poscia
le trasser fuori, ma poiché ebbe fine
la fatica e apprestato fu il convito,
cibarsi, né ci fu che bramar. Reso
525di mangiar e di ber pago il talento,
Nestore il vecchio cavalier dicea:
— Re famoso Agamennone, parole
non facciam piú, né ritardiam di nuovo
quell’impresa che Dio favorir vuole.
530Su, ragunin gli araldi alto gridando
i ferrocinti achei presso le navi,
e noi cosí raccolti andiam per l’ampio
esercito a svegliar spirti guerrieri. —
Sí disse e dissentire il re non seppe.
535Agli striduli araldi ordinò tosto
di convocar gli achei chiomati a guerra.
Gridaron essi, e quei tosto adunati
vidersi. I re di Giove allievi presso
Atride corser, dagli altri distinti;
540con essi l’occhiazurra Palla, in petto
non invecchiarne, immortai, preziosa
l’égide da cui cento di tutt’oro
frange pendeano ben attorte avendo,
e valea cento buoi ciascuna. Andava
545con questa fra le turbe impetuosa,
confortandole a gir; nel cuor di tutti
nuovo vigore infuse e senza fine
di guerreggiare e di pugnar disio.
Tosto a ciascun piú dolce par la guerra
550che al patrio su le navi amato suolo
il ritornar. Come allorché in eccelso
monte distrugge il foco immensa selva,
lo splendor lungi appare, in simil modo
ne l’andar di costor Tacciar divino
555lume spargea che giá per l’aria al cielo.
Qual degli uccei le numerose genti,
oche o gru o cigni lunghicolli in prato
d’Asia o a Tacque del Caistro intorno
volan qua e lá lieti de Tale e il suolo
560occupan strepitando e ne risuona
il prato, cosí genti da le navi
e padiglion de lo Scamandrio al piano
folte accorreano, rimbombava il suolo
sotto i lor piedi e de’ cavalli. Stettero
565negli ornati di fior scamandrii prati
senza numero. Quante foglie o fiori
ha primavera, over di mosche torme
erran di maggio in pastoral capanna
quando si versa ne’ suoi vasi il latte.
570tanti contra i troian chiamati achivi
stavan nel campo ad avventarsi pronti.
Questi, come i caprai le spesse gregge
distinguon separando, allor che insieme
si mischiano ne’ paschi, da’ lor duci
575si ordinavan qua e lá per la battaglia;
Agamennone re tra loro, il capo
e gli occhi al dio fulminator sembiante,
il cinto a Marte ed a Nettuno il petto.
Qual ne l’armento spicca esimio toro
580che sopravanza gli altri buoi, quel giorno
tal fra gli eroi da Giove il re fu reso.
O Muse che nel cielo albergo avete
ditemi or voi, ch’essendo dèe, presenti
a tutto foste ed a cui tutto è noto
585lá dove non solo per fama udimmo,
quai fur de’ greci i prenci e i duci. Il nome
de’ popolari e i fatti addur non penso,
né potrei, benché dieci lingue e dieci
bocche avessi e di bronzo petto e voce,
590se pur l’olimpie Muse a Giove figlie
non rammentasser quanti furo a Troia.
I.e navi tutte sol dirò e i lor capi.
Penéleo Leito Arcesilao Protènore
e Clonio imperavano a’ Beozii
595ch’abitavano in Iria e in la sassosa
Aulide e Scheno e Scolo ed Eteona
boschiva, Tespia, Grea con Micaleso
aprica e a quelli ch’abitavan Arma,
Ilisio, Eritra, Peteòna ed Ila
600con Eleòna, Ocálea e Medeone
ben costrutto castello, Eutresi e Cope
e la ferace di colombe Tisbe,
a que’ di Coronea, d’Arialto erbosa,
di Glissa, di Platea, del bencostrutto
605Ipotebe e altresi del consacrato
a Nettun bosco Onchesfo e a quei che Midia
teneano e Nissa la divina ed Arne
vitifera ed Antèdone al confine.
Cinquanta fiir le navi, ed in ciascuna
610venner cenventi di Beozia figli.
Gli abitator d’Asplédone e d’Orcómeno
Miniéo da Ialméno eran guidati
e da Ascalafo, figli ambo di Marte,
cui ne la casa d’Attore d’Azeo
615Astioche partorí, vergin pudica
ne Calte stanze ascesa; ma il potente
Marte di furto venne e con lei giacque.
Trenta ebber questi ben ornate navi.
Da Schedio retti e da Epistrofo, nati
620d’Ifito figlio di Naubolo ardito,
furo i focesi che Pito petrosa
e Ciparisso, Crissa, Panopéa,
Dauli, Anemòria, Iámpoli e i contorni
popolavano, e quelli che al Cefiso
625stettero ed a la fonte del Cefiso
Liléa. Quaranta gli seguivan navi.
Chi de’ focesi situò le torme,
girando attorno de’ beozi posele
a la sinistra. Duce era a’ locresi
630il ratto Aiace d’Oileo, non grande
quant’era il Telamonio, ma minore
di molto; piccol era ed avea il petto
linarmato; ne l’asta i greci tutti
superava. Eran qui di Cino e Opunte
633gli abitanti e di Cálliaro e di Bessa,
Scarfa, l’amene Augée, Tarsa, Tronio
e i circostanti del Boagrio a l’acque.
Quaranta lo seguian navigli neri
con quei che stanno a l’Eubea sacra incontra.
640Ma da l’Eubea venian valor spiranti
gli abanti poi, lasciata avendo Irétria,
Calcide, uvifeconda Istiea, Cerinto
maritima, e la in alto posta Dio;
venianci ancor quei di Caristo e Stira;
645Elefenòr Calcodonziade, germe
di Marte e prence degli Abanti arditi
n’era duce. Seguianlo essi veloci,
chiamati a tergo e pronti con distese
lance gli usberghi trapassare ostili.
650Quaranta lo seguian navigli neri.
Qui d’Atene, cittá ben posta, popolo
del grancore Trettèo, cui giá Minerva
di Giove figlia alimentò, prodotto
da la terra felice, e nel suo tempio
655per essa posto; ove d’Atene i figli,
d’agnelli e tori al rigirar degli anni
rendongli omaggio, avcan per comandante
di Péteo figlio Menestéo. Mortale
che agguagliasse costui non nacque alcuno
660ne lo schierar cavalli e in ordinare
senta te torme; sol potea contendere
Ncstor, per esser tanto avanti nato.
Cinquanta lo seguian navigli neri.
Dodici legni avea da Salamina
665condotti Aiace, e collocò la gente
ove stavano Tattiche falangi.
Quelli d’Argo e Tirinta benmurata,
d’Ermione e Asina sul profondo seno,
Trezene ed Epidauro benvignato
670e d’Egina e di Másete guidava
Diomede il gran guerriero e del famoso
Capaneo prole Sténelo; con questi
iva per terzo Eurialo — e parea nume da
Mecisteo figlio di Talao nato.
675Di gran voce Diomede precedea;
ottanta gli seguian neri navigli.
Quei che Micene popolata e quelli
che la ricca Corinto e le abitate
Cleone e l’Ornee e Aretiréa gioconda
680lasciaro e Sicione, ov’ebbe regno
Adrasto e Iperésia, e l’alta Gona,
Fellona ed Egio e l’ampia spiaggia pure
posta a la spaziosa Elice intorno:
a cento di costor navi imperava
685Agamennone re, seguianlo folte
e scelte genti. Splendida armatura
esultante ei vestia, perché fra tutti
gli eroi spiccava e prevalea e cotante
armate turbe ei conduceva in campo.
690Quelli poi che voraginosa e vasta
la Laconia teneano e Fara e Sparta
e Messa colombifera e le amene
Augée, Brisie ed Amicle, Elo sul mare,
Etilo e Lao a Menelao il fratello,
695guerriero insigne con sessanta navi
ubbidir; con lor armi a parte stavansi.
Egli ne’ suoi pensier pur fisso a Farmi
eccitava, bramando il rapimento
d’Elena e tanti vendicare affanni.
700Quei che Pilo abitavano e l’amena
Arene e Trio, guado d’Alfeo, con Epi
ben fabricato e Ciparisso ed Anfigenia
con Elo, Ptéleo e Dorione:
— dove le Muse il treicio Tamiri
705che da Eurito venia d’Ecalia, incontra
gite, fece tacere, poiché vanto
davasi riportar cantando palma
sopra le Muse ancor figlie di Giove;
esse irate accecaronlo ed il canto
710gli tolsero divino e fero in modo
che del citareggiar lo prese oblio: —
Nestore, il vecchio cavalier, fu duce.
E novanta seguir ben fatte navi.
Quei che in Arcadia sotto l’alto monte
715Cillene aveano albergo, ove d’Epito
è la tomba e da presso uomin pugnanti,
che P’éneo ed Orcoméno agnifecondo
e Ripa e Strazia e la ventosa Enispe
e Tégea e Mantinéa gioconda e Stintalo
720e Parrasia pasceano, d’Anceo prole
reggeva Agapenòr: eran sessanta
le navi e molti sopra, in guerra esperti
arcadi ascesi; avea le acconcie navi,
atte a varcare il mar profondo, date
725lo stesso Atride re, poiché di loro
ne’ marini lavor nessun valea.
D’Elide gli abitanti e di Bufrasio,
per quanto tien l’olemia pietra e Irmina,
Mirsino e Alisio ancor, quattro avean duci,
730e dieci ciaschedun rapide navi
da molti epei montate. Soprastavano
Talpio e Ansimaco, figli un di Cteate
l’altro d’Eurito Attorion, Diore
d’Amarincide, e ai quarti Polisseno
735del re d’Augea Agástene alta prole.
Quei di Dulichio e de P isole sacre
Echinadi contr’Elide oltre mare
conducea Mege che somiglia a Marte,
generato da Fileo a Giove caro,
740che per odio del padre a Dulchio venne.
Quaranta lo seguian navigli neri.
Ma Ulisse i cefaleni di gran core
guidava, Itaca e Nèrito abitanti
selvoso e l’aspra Egilipa e Crocilea,
745Zacinto, Samo e Epiro e ’l dirimpetto;
Ulisse, a Giove per consiglio eguale,
dodici avea di rosso tinte navi.
Condotti eran gli etòli da Toante
d’Andremon figlio, Pleurone ed Oleno
750lasciato avendo e Calcide marina,
Pilene e la pietrosa Calidona.
Non c’eran piú d’Eneo grancore i figli,
né ei stesso c’era piú; spento era il biondo
Meleagro e regnava il sol Toante.
755Quaranta lo seguian navigli neri.
De’ cretesi era capo Idomeneo
per l’asta insigne, venuti da Cnosso,
da Cortina murata e da Mileto,
Lito, Licasto biancheggiante, Lesto
760popolate cittá e da Tizio, ed altri
per le cento cittá di Creta sparsi.
Di questi adunque capi Idomeneo
per l’asta insigne ed era Merione,
a Marte micidial simile; ottanta
765dietro questi veniali navigli neri.
D’Ercol prole Tlepòlemo alto e prode
nove da Rodo avea navi condotte
de’ superbi rodiani in tre distinte
cittá: Lindo, Ialisso e l’albeggiante
770Camiro. L’astiforte capitano
partorí Astioche ad Ercole possente,
che d’Efira la trasse sul Sedente
fiume, dopo d’aver di vigorose
e nobil genti piú cittá disfatte.
775Ma Tlepòlemo in reggia alto nodrito
ben tosto il zio del proprio padre amato,
giá vecchio e buon guerrier, Licimnio uccise;
per lo che navi edificò, raccolse
gran gente e si fuggi per mar, li d’Èrcole
780nipoti minacciando e gli altri figli.
Egli andò errando e, dopo guai sofferti,
giunse a Rodi, ove i sozi in tre distinti
tribú abitaro e fur da Giove amati
che sopra gli uomini regna e sopra i dèi.
785Egli ampia sopra lor versò ricchezza.
Tre navi tratte avea Nireo da Sima,
Nireo d’Aglaia figlio e del re Cáropo,
Nireo di cui piú bel fra i Greci a Troia
dopo il perfetto Achille uomo non venne:
790ma debil era e pochi avea seguaci.
Quei di Nisiro e Carpato e di Caso
e Risole Calidne e Co d’Euripilo,
del re tessalo Traclade due figli
Fidippo e Antifo avean per condottieri:
795trenta con questi andaro ornate navi.
Vengon or quelli ch’avean sede in Argo
pelasgico, in Trachina, Alope ed Alo,
in Ftia e in Ella da le belle donne:
mirmidoni eran detti, elleni e achivi.
800Di cinquanta lor navi era signore
Achille, ma costor le strepitose
pugne in oblio avean poste, non c’essendo
chi gli schierasse. Il piévalente Achille
a le navi si stava per Briseide
805benchiomata fanciulla irato, tolta
a Rimesso, allorché Rimesso e Balte
di Tebe mura atterrò, dando morte
d’Eveno di Selepio a’ figli astigeri
Epistrofi? e Minete: per costei
810giacea, ma per levarsi era ben tosto.
Quei che Edace e Pirraso fiorito
a Cerer sacro, e di greggi nutrice
Itona, nel mar posta Antrona, e Ptéleo
teneano erbosa, ebbero finché visse
815Protesilao per duce; ma la negra
terra allora il copria, rimasa a Edace
l’ambigraffiata consorte e imperfetta
la casa. Lui, che pria d’ogn’altro greco
da la nave saltò, troiano ardito
820trafisse. Né però duce mancava,
benché duce bramassero: Podarce
germe di Marte gli ordinava, prole
d’Ificlo di Filacio moltigregge,
al di gran cor Protesilao fratello
825d’etá minor: l’eroe Protesilao
e d’etá superava e di valore;
quinci, ancorché lor non mancasse il duce,
del primiero il valor braman le truppe.
Quaranta nere navi eran con questo.
830Di quei che Fera e, vicini al Tebeo
stagno, Bebe medesima e Iaolco
ben fabricato e Glafira abitavano,
e d’undici lor navi avea comando
d’Admeto il caro figlio, cui d’Admeto
835partorí l’alma Alcesti, fra le molte
di Pelia figlie singolare e bella.
Sopra quei da Taumacia e da Metòne
e da l’aspra Olizona e Melibea
Filottete avea regno, insigne arciero,
840con sette navi e cinquanta in ciascuna
remiganti, in pugnar con l’arco esperti:
ma egli in Lenno, isola sacra, giace
tormentato; il lasciar quivi gli achei
dal morso offeso di maligno serpe.
S45 Giaceva afflitto, ma di lui ben tosto
eran per ricordarsi i greci: duce
lor non mancava, ma il lor re bramavano.
Gli ordinava Medòne, d’Oileo
bastardo figlio; a Oileo de le cittadi
850espugnator lo diede Rena in luce.
Quei che stavan in Tricce e in l’aspra Itome
e in Ecolia cittá d’Eurito due
avean per capi d’Esculapio figli,
medici insigni, Macaone e Poda855lirio:
trenta con essi ornate navi.
Ma a quei che stavano in Ormenio e al fonte
d’Iperia e in Asterio e di Titano
su l’albe cime, Euripilo era duce,
d’Evemon chiaro figlio che quaranta
860al suo séguito avea neri navigli.
Quei che Argissa teneano, Orta, Girtona,
Eleone e Olossona biancheggiante
da Polipete impavido eran retti
prole di Piritóo, de l’immortale
865Giove figlio. A Piritoo Ippodamia
lo partorí, quand’ei le fiere irsute
sgombrò dal Pelio e fin negli eticesi
le cacciò. Duce non giá sol: Leonteo
germe di Marte erane ancor, del forte
870Carone di Ceneo feroce figlio.
Seguian questi quaranta negre navi.
Ma conduceane ventidue da Cifo
Guneo, cui gli enieni e i bellicosi
perebi seguitavano che intorno
875a la vernai Dodona han freddo albergo,
e quei che son sul Titaresio ameno
che nel Peneo le sue bell’acque spinge,
né con l’argento del Peneo si mischia,
ma galleggia com’olio e sopra scorre,
880perché de la giurata Stige è un rivo.
A’ magneti, che intorno al bel Peneo
ed al Pelio frondoso aveano sede,
Protoo era duce, di Tentredon figlio:
quaranta seco avea navigli neri.
885Questi de’ greci i prenci erano e i duci.
Ma qual di loro primeggiasse e quali
tra i destrier che seguir gli Atridi, o Musa,
narrami. Prevalean le fereciadi
corsiere molto, quasi augei veloci;
890Eumelo le guidava, affatto uguali
d’etá, di pelo e di misura. Apollo
da l’arco argenteo le allevò in Pieria,
femmine marzial terror portanti.
Ma fra’ soldati il Telamonio Aiace
895primo era, finché Achille nel suo sdegno
si rimanea, sopra tutt’altri forte;
e tra’ cavai quei che portar Pelide.
Ma egli a le rostrate ondivaganti
navi restava col suo sdegno in petto
900verso il rettor de’ popoli supremo
Agamennone Atride. 1 suoi fra tanto
soldati presso il mar prendean diletto
co’ dischi e con lanciar dardi e saette.
I destrieri, ciascun presso i suoi cocchi,
905apio palustre masticando e loto
si stavan. Ben coperti ne le tende
teneansi i cocchi de’ signor; ma essi
del lor duce bramosi a Marte caro
eran qua e lá vaganti, né a battaglia
910pensavano. Fra tanto ivano i greci
e parea che la terra intorno ardesse;
mugiva il suol, quale allorché da Giove
irato fulminante vien percosso
a Tiféo intorno ne l’Arime eccelse,
915ove dicon sua stanza aver Tiféo:
cosi sotto il lor pie genica la terra
marciando, e in un balen varearo il campo.
Nunzia da Giove con trista novella
Iride piédivento a’ troian venne.
920Essi di Priamo a le porte raccolti
giovani e vecchi arringavano. Appresso
si fece Iri veloce e a parlar prese,
simile ne la voce al buon Polite
di Priamo figlio, che ne’ pié affidato
925su l’alta tomba d’Efiéte antico
sedea speculator, cauto osservando
se dai legni movessero gli achei.
Al re in forma di questo Iri veloce
favellò: — Sempre, o vecchio, udir ti piace
930a lungo ragionar, come se in pace
fossimo. Guerra è inevi tabi 1 sorte;
molte io vidi battaglie, ma non mai
cotante schiere, né si fatte io vidi:
non son tante le foglie o pur l’arene.
935Passano il campo e per pugnar s’apprestano
a la cittade. Ettore, piú che ad altri
ciò che di far conviene a te dich’io:
in quest’ampia cittá molti in soccorso
venuti son di Priamo, e non per schiatta
940diversi sol, ma per linguaggi ancora.
Or fa che ognun da prenci suoi sia retto
e che i suoi cittadin guidi ogni duce. —
Si disse, e de la dèa compreso Ettorre
il favellar, sciolse il congresso e a l’armi
945si corse. Tutte allor s’aprir le porte
e d’ogni parte omai pedestri, equestri
sortendo schiere, alto facean tumulto.
Nel pian ch’è innanzi a la cittá colonna
s’erge appartata, intorno a cui si corre
di parte e d’altra al premio. Batiéa
950dagli uomini vien detta, e dagli dii
di Mirinna agilissima il sepolcro.
Quivi allora i Troiani e i loro aiuti
distinti fur schierando. Era a’ Troiani
guida elmiornato il grand’Ettor Priamide,
955e con lui molte forti armate torme
pronte con Paste. A’ dardani il valente
figlio d’Anchise comandava Enea
cui Vener partorí d’Anchise, allora
che ne’ recessi idei con uom mortale
960immortai dèa si giacque: non giá solo,
ch’erano due con lui d’Antenor figli,
Archiloco e Acamante in pugne esperti.
Que’ troiani, che Zélea al pié de l’Ida
possedean ricchi e del profondo Esepo
965bevean Tacque, seguir di Licaone
T inclita prole Pandaro, cui l’arco
dato in dono avea giá lo stesso Apollo.
A color ch’Adrastéa tengono e Apeso
e Pitien e di ’feria il monte, Adrasto
970impera e insiem l’inusbergato Amfio,
tígli al Percofio Meropo, che tutti
oltrepassando in preveder, negava
la guerra a’figli suoi: ma gl’infelici
non ubbidir, che gli portava il fato.
975Quei di Percòto e di Prattio e di Sesto
e Abido ed altresi de l’alma Arisbe
prence e duce Afio Irtacide seguirò:
Afio che avean da Arisba e dal Sedente
980fiumi eccelsi corsier portato ardenti.
Agli astati pelasgi, di Larissa
fertil partiti, sovrastava Ippotoo
e Pileo marzial germe: fu ad ambo
il Teutamide Litto genitore.
985De’traci, quanti n’ha l’impetuoso
Ellesponto Acamante, l’eroe Piro
avea cura, e de’ ciconi feroci
Eufemo cui ’l trezenio Geo fu padre.
Ma Pérecme i peoni archicurvati
990fin da Amidone e dal largo ha condotti
Assio che Tacque sopra il duol si limpido
diffonde. A’ paflagoni presedeva
eneti, ove di mule agresti è razza,
il vidi Pelimene e agli altri ancora
995che a Citòro e che a Sèsamo e che a Tacque
del Partenio lodati avean soggiorni
e a Egiolo, a Cromma ed agli alti eritini.
Agli alizoni Epistrofo imperava
e Odio, a Troia fin da la remota
1000venuti Aliba, ove l’argento nasce;
a’ misii Cromi ed Ennomo augurante,
ma con gli augúri suoi la negra Parca
non isfuggi, che trucidollo Achille
nel fiume, ove a tant’altri diede morte.
1005Forci ed Ascanio bellaspetto i frigi,
fin d’Ascania condotti, a pugnar pronti
reggeano; e i meonii, a pié del Emolo
nati, Mestle ed Antifo a Pilimene
figli intorno al Gigeo stagno prodotti.
1010Naste de’ carii di barbara favella
era duce. Mileto ed il Ftiréo
frondoso monte e del Meandro Tacque
tenean questi e di Micale erti gioghi.
Anfimaco con Naste, illustri figli
1015di Nomión, reggeano, il quale in guerra
giva quasi fanciulla adorno d’oro.
Sciocco, ché non fuggi per questo acerba
morte, ma per le man del piéveloce
Eacide provò l’ultimo fine
1020nel fiume, e prese Toro il saggio Achille.
Il vorticoso Xanto e la lontana
Licia mandar color sopra cui tengono
l’onesto Glauco e Sarpedone impero.