Storia della rivoluzione piemontese del 1821 (Santarosa)/Ragguaglio del fatto d'armi avvenuto l'otto di aprile
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Traduzione dal francese di Anonimo (1850)
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RAGGUAGLIO
«Il conte Della-Torre avea stabilito in Novara la fucina della contro-rivoluzione, e ragunati quivi 5 mila e più uomini, provvisto di numerose artiglierie, pretendeva di agire a nome dell’autorità legittima, e dietro gli ordini di Carlo Felice, ordini che l’armata costituzionale avea dichiarato non riconoscere, perchè emanati da un re che non era libero, da un re che si trovava in mano dell’Austria contro cui appunto eransi i Piemontesi levati in arme. Frattanto le intelligenze tra Novara ed il governo austriaco divenivano di giorno in giorno più frequenti e manifeste.
Il 4 aprile finalmente il generale Della-Torre si pose in marcia per recarsi a Torino a deporvi la giunta, e ristabilirvi l’antica forma di governo.
Ad opporsi al movimento del conte Della-Torre furono prontamente concentrate in Casale tutte le truppe costituzionali che si trovavano disponibili tra Voghera ed Alessandria.
Queste forze erano però assai scarse, ed inferiori a quelle di Novara, avvegnachè da qualche tempo il governo costituzionale incontrasse le più grandi difficoltà a far raccolta di truppe, mentre gli animi deboli erano avviliti per la catastrofe di Napoli, ed il partito reazionario, cogliendo abilmente quel destro, non avea cessato dal subornare con ogni modo uffiziali e soldati.
Nel giorno 5 di aprile il colonnello Regis tolse il comando in capo del corpo destinato ad arrestare le mosse del conte Della-Torre. Un tal corpo componevasi nel modo seguente:
del colonnello San Marsano
del colonnello San Michele
N. 4 pezzi da 8.
” 2 obici da 32.
La sera del 5 avendo il colonnello San Michele spinto una ricognizione sulla gran strada di Vercelli lungo la sponda sinistra del Po, si apprese che il conte Della-Torre avea dei picchetti verso Stroppiana, e che sulla strada di Torino si stendeva sino a S. Germano.
Il giorno 6 alle ore 10 del mattino il colonnello Regis fece avanzare il suo corpo diviso in due colonne nella direzion di Vercelli, movendo la division San Michele a sinistra per Riva, e quella di S. Marsano per la gran strada. All’accostarsi delle truppe costituzionali, il generale Della-Torre abbandonò Vercelli, ordinando una ritirata generale al di là della Sesia di cui occupò il ponte.
Erano alle porte di Vercelli, quando il generale Bellotti1 presentandosi agli avamposti costituzionali come parlamentario del conte Della-Torre espose che il generale *** nell’intento di addivenire ad un convegno che risparmiasse al paese la guerra civile, desiderava un abboccamento col colonnello Regis2 al quale oggetto lo avrebbe atteso sino alle ore 10 della sera al villaggio di Borgo-Vercelli. Chiese frattanto si sospendesse il movimento delle truppe costituzionali, e l’ottenne, perchè i capi di queste desideravano vivamente quanto altri un accomodamento che potesse ridondare a profitto della gloria ed indipendenza nazionale.
Verso sera il colonnello Regis recossi in compagnia del colonnello San Marsano e del conte Lisio al luogo designato, ma il generale *** non si lasciò vedere3, e chiestone il generale Faverges che comandava la retroguardia, non seppe dare alcuna spiegazione di una condotta così strana nelle usanze di guerra.
Nel mattino del 7 il colonnello Regis riprese assai tardi il suo movimento, e quando la testa della colonna arrivava al ponte della Sesia, il generale Bellotti comparve nuovamente ad arrestare la marcia dei costituzionali, proponendo una seconda conferenza che avrebbe avuto luogo ad una villa chiamata la Graziosa al di là di Cameriano.
E questa pure venne accettata.
Le truppe in una sola colonna precedevano lentamente sulla gran strada di Novara, aspettando di ora in ora i parlamentarii che doveano inviarsi. L’animo franco e nobile del colonnello Regis non gli permetteva di scorgere in quelle trattative simulate un’insidia che l’esito ha ben presto manifestato.
L’intiera giornata fu consumata in una marcia di sole quattro ore: si spedivano ufficiali un dopo l’altro a Novara, ma non si otteneva risposta alcuna. Finalmente, verso notte, la speranza di venire a patti disparve: le colonne austriache arrivavano alle porte di Novara.
Non era intenzione dei costituzionali assalire Novara, sibbene assediarla per torle ogni comunicazione da una parte collo straniero, e dall’altra coll’interno, ove col mezzo di numerosi agenti, il partito reazionario metteva continuamente inciampi alle misure di difesa per la patria che venivano adottate dal governo costituzionale; erano inoltre fatti certi che la maggior parte delle truppe del conte Della-Torre si rifiutava di venir alle mani co’ suoi compagni d’armi, e che anzi non vedea l’ora di unirsi a loro.
Nella notte del 7 all’8 la truppa costituzionale accampò in massa sulla riva dell’Agogna a due tiri di cannone dai bastioni di Novara.
Agli albori del giorno marciò innanzi, e mentre i posti avanzati del generale Della-Torre si ritiravano sotto le fortificazioni della città, l’avanguardia sboccava nel piano di Santa Marta; e già erano state date le disposizioni per occupare la Bicocca e S. Martino, quando ad un tratto venne dato avviso di cavalleria che sembrava inoltrarsi a destra e ordinarsi sulla strada di Robbio; non sì tosto una nuvola di cacciatori attaccò il fuoco; erano austriaci diretti da piemontesi contro i loro fratelli: i primi colpi erano partiti dall’armata di Novara, e le truppe costituzionali furono obbligate a rispondervi.
Alta, indescrivibile sorpresa arrecò la presenza dello straniero. I costituzionali aveano ognora considerato impossibile cosa che soldati piemontesi aprissero le porte dello Stato all’austriaco, persuasi ne bastasse soltanto l’abborrita vista ad unire i partiti in un subito e generoso sdegno, cui nulla avrebbe potuto arrestare; a tal prezzo qualunque sacrifizio4 sarebbe sembrato ad essi lieve cosa, e n’eran prova la rallentata marcia, gli abboccamenti proposti dai parlamentari del general Della-Torre premurosamente accettati.
Terribile momento pei costituzionali fu quello in cui, svanite le speranze, sbalorditi gli animi dei soldati, ebbero i capi a prevedere d’uno sguardo tutti gli orrori di quella giornata. Tante sventure in una sol volta s’aggravavano sulla causa dell’indipendenza italiana, che non reggeva il cuore de’ più intrepidi a misurare freddamente l’abisso in cui stava per precipitare.
Il combattimento divenne ben presto generale: l’armata austro-piemontese era due volte maggiore di forze, la sua posizione di fronte, sostenuta dal fuoco delle grosse artiglierie della città, formidabile; e già coll’ala sinistra sorpassava quella dei costituzionali, le batterie fatte uscire da Novara fulminavano questi ultimi.
I momenti erano preziosi: si aveano sicuri avvisi che gli Austriaci aveano anche varcato il Ticino presso Vigevano e che s’incamminavano verso Casale; il colonnello Regis ordinò la ritirata5. Cominciata sull’alba del giorno e sotto il fuoco di un nemico tanto superiore, che già minacciava tagliare importantissime comunicazioni, questa ritirata diventava da un momento all’altro più difficile e perigliosa ad eseguirsi da truppe in gran parte scoraggiate e deserte d’ogni speranza.
La natura dei luoghi impediva alla cavalleria di prender parte all’azione, quindi fu adottato il partito di farla sfilar sul di dietro, ed a proteggere il movimento l’infanteria della divisione San Marsano prese posizione sul ponte dell’Agogna. Fu in quel punto medesimo che due sole compagnie di cannonieri di marina in sulla estrema sinistra respinsero vigorosamente un intero battaglione ch’era sortito da Novara, e voltolo in fuga, lo inseguirono sino alle fosse della città.
Appena la cavalleria fu piegata in colonna sulla gran strada di Vercelli, le truppe rimaste a difesa del ponte sull’Agogna cominciarono a ritirarsi in iscaloni. Il primo battaglione del reggimento Monferrato, la compagnia della legion reale leggera di Ferrero e due pelottoni dei dragoni della regina formavano l’ultima retroguardia.
I perigli di codesta posizione non isfuggirono al nemico, che dai campanili della città potea dominare i movimenti, e veggendo i costituzionali in una sola colonna stretti sopra una sponda di terreno, lunghesso la quale per estesissima fila prolungavansi, raddoppiò il fuoco delle artiglierie e li fece vivamente attaccare alla coda.
Il capitano Ferrero ed il cav. Monzani6 col primo battaglione Monferrato sostennero valorosamente l’attacco. Un reggimento austriaco di usseri caricò in colonna serrata i due pelottoni dei dragoni della regina che chiudevano la marcia, rovesciati questi dal numero, si precipitarono addosso all’infanteria del reggimento Monferrato e vi causarono un momentaneo disordine; ma non tardò a ripararvi il colonnello San Marsano, e quegli usseri furono ricevuti a tiro di pistola da un fuoco così gagliardo e continuo, che dovettero voltare al galoppo le spalle. Il sottotenente Viasso dei dragoni della regina si diportò da valoroso, ed ebbe il volto tagliato da più colpi di sciabola.
Epperò nella cavalleria trovaronsi delle giovani reclute, nuove alla guerra, che invece di rannodarsi prontamente come gli altri, si diedero a rapida vergognosa fuga.Arrivati a tutta corsa alla testa della colonna vi sparsero lo spavento, dicendo ogni cosa perduta, ferito il loro colonnello (marchese San Marsano) e fatto prigioniero assieme ad altri uffiziali; le quali cose narrando ad una lega di distanza dal luogo della pugna, gli animi trepidarono, taluni già dalle arti dei reazionarii guadagnati, gettarono il primo grido d’all’arme; ben tosto il terribile si salvi chi può fu inteso da ogni parte, e porzione della cavalleria, rotti gli ordini, si disperse in un batter d’occhio, inesorabile alle preghiere, alle minaccie dei prodi ufficiali che invano si sforzavano di rattenerla.
L’infanteria apprese l’infausta nuova al suo arrivo a Borgo-Vercelli; fino a quel punto avea mantenuto l’ordine più perfetto e s’era valorosamente battuta; ma veggendo allora la maggior parte della cavalleria che si allontanava, si credette abbandonata e si diè in preda al terrore. Rincresce che il colonnello Regis non abbia fatto caso di un suggerimento che gli venne dato, di prendere, pel momento, una posizione militare dalla parte di Cameriano, operazione da cui non si poteva avere che un ottimo risultato.
Il conte Lisio schierò il reggimento dei cavalleggieri del re sul davanti del villaggio di Borgo-Vercelli e quivi col suo risoluto contegno fece ancor testa al nemico. Ma era facile a quest’ultimo, colla smisurata superiorità di sue forze, agire in più sensi, e già alcune bande de’ suoi, guadata in agevoli punti la Sesia, stavano sotto Vercelli: bisognò precipitare la ritirata, ed i soldati giunti a Vercelli nel massimo scompiglio, non ascoltando più la voce de’ capi si dispersero per le campagne, solleciti la maggior parte di rifuggirsi alle loro case.
Il conte Lisio col suo pelotone di retroguardia avea tentato di arrestare il nemico, ma invano; chè circondato egli stesso non fece poco a cavarsegli di mano.
Il capitano Rollando, pervenuto a raccozzare uno squadrone dei dragoni del re, li ricondusse ancor una volta a brillante carica sul davanti del ponte della Sesia; ma tutti codesti sforzi d’individuale valore non valevano ormai ad impedire l’avanzarsi del nemico. Le campagne erano coperte di soldati dispersi. Indarno gli uffiziali si adoperarono nel rimanente della giornata a riordinarli; non appena si era ricomposto un distaccamento, che già come gli altri si sbandava.
Frattanto la comunicazione con Casale era rotta. Le truppe che ancora ordinate restavano, si diressero parte su Crescentino e parte su Chivasso per tentarvi il passaggio del Po.
Ed in tal modo ebbe fine quella funesta e miseranda giornata.
I prodi di qualunque paese, di qualunque partito non insulteranno al valore sventurato. Le truppe costituzionali di Alessandria non cedettero che al numero, e ad un concorso di deplorabili circostanze strano anche in tempi di Rivoluzione.»
Giunta a Torino nella sera dell’otto la notizia della disfatta, affrettossi il ministro della guerra ad ordinare la ritirata prima sopra Alessandria ove sperava resistere momentaneamente al nemico, e poscia su Genova per tentarvi un’ultima, disperata difesa; ma più tardi, veggendo che San Marsano e Lisio non erano coi loro sforzi pervenuti a ricondurre a Torino se non che deboli avanzi di cavalleria, informato anche che il colonnello Regis più non poteva tener fermo a Casale, in procinto di essere occupata da una colonna di Austriaci, mentre altra colonna minacciava Voghera, Santarosa vide ogni cosa senza riparo perduta.
Radunata la giunta7, annunziolle com’egli si disponesse a partir per Genova, onde organizzarvi possibilmente una estrema difesa, e la invitò a seguirvelo dicendo: «è là che ci chiamano i nostri doveri.» Ma nel tempo stesso il ministro della guerra era troppo franco per nasconderle tutta l’estensione de’ nostri disastri, e quindi la giunta non seppe risolversi a tal passo, e fu saggio consiglio, come in seguito ebbe a scorgersi dagli eventi.
La giunta prese invece il partito di rassegnare alle autorità municipali la cura del governo (Vedi Doc. Z), ed il ministro della guerra diè loro avviso nel tempo stesso che la cittadella sarebbe stata rimessa ad un battaglione di guardia nazionale. Una numerosa deputazione del corpo decurionale assistette all’ultima seduta della giunta, nella quale le misure atte a mantenere l’ordine e la pubblica quiete furono accuratamente concertate fra uomini, che sebbene nelle politiche loro opinioni discordi, pur emulavansi nel volere il bene del paese, e si rendevano vicendevole giustizia della santità di loro intenzioni.
Il tesoro reale, pingue di cospicue somme ad onta delle gravi spese nelle ultime circostanze incontrate, fu rispettato. Il ministro della guerra chiese solo, ed ottenne dalla giunta, una somma di 150,000 franchi, per sopperire alla sussistenza ed alle paghe delle truppe che partivano da Torino per Alessandria e Genova, durante il loro cammino8.
Nella stessa sera degli 8 arrivò in Torino il generale Guglielmo di Vandcourt9, accorso fin da Losanna ad offrire i suoi servigi al libero governo: spontaneo sacrifizio d’animo nobile quanto sventurato! La giunta gli confidò il comando degli avanzi dell’armata; — ci lusingavamo avere almen degli avanzi.
Le truppe costituzionali lasciarono Torino nel mattino del 9 aprile, in numero però di due soli battaglioni, giacchè un battaglione della legion reale leggera, comandato dal colonnello Vercelloni, ricusò di porsi in marcia, e l’artiglieria avendo pure dato a divedere non dissimili intenzioni, rimase. La città di Torino era trista, ma tranquilla. La guardia nazionale entrò nella cittadella a mezzogiorno, in presenza del ministro della guerra che partì per l’ultimo.
Egli prese la strada di Acqui sul timore che quella di Asti ad Alessandria potesse venire da un momento all’altro, come correva voce, occupata dal nemico. San Marsano, Collegno e Lisio con poca mano di cavalleria giunsero poco dopo di lui in Acqui; ove l’annunzio d’un’ultima sventura attendevali. I giovani soldati del reggimento Genova che formavano la guarnigione della cittadella di Alessandria10, spaventati all’idea di aver a sostenere le fatiche di lungo assedio, eransi sollevati, avean fatto fuoco sui loro uffiziali, e non era stato possibile contenerli che appuntando loro contro due pezzi di cannone. Il comandante erasi determinato ad aprire una porta di soccorso lasciando da quella uscire gli ammutinati. Il forte Ansaldi, cui nulla avea sgomentato, già si disponeva a rinchiudersi nella cittadella con la guardia nazionale, ma la paura e lo sconforto erano universali, pochi volevano sacrificarsi per una causa disperata. Ansaldi si vide costretto a prendere la strada di Genova con quei pochi soldati che fedeli non vollero abbandonarlo.
Questo colpo funesto, e la generale dispersione delle truppe seguita persino di quei pochi corpi che non avean preso parte ai fatti di Novara, fecero risolvere i capi riuniti in Acqui a recarsi direttamente e senza indugio a Genova.
Ma là pure eran mutate le cose, ed i liberali vi avrebbero rinvenuto catene, se i Genovesi veggendosi costretti ad abbandonare la causa della costituzione, non avessero rivolto le generose lor cure ai doveri dell’ospitalità.
Il generale Della-Torre non avea tardato a ragguagliare le autorità di Genova dei fatti dell’otto di aprile, ingiungendo loro di sottomettersi. Genova si arrese. A pensarlo non si può frenare un primo moto di sdegno, ma bisogna esser giusti. Lo stato delle fortificazioni, lo scarso numero di truppe, gli animi mal disposti di alcuni capi, tutto concorreva a rendere malagevole per i Genovesi una resistenza. Ed in fine da chi sarebbero stati soccorsi? E se ne avrebbe nemmeno avuto il tempo?
Il comando di Genova fu, di consenso della guardia nazionale, rimesso al conte Desgeneys. Le sue virtù rassicuravano i Genovesi, lo credettero grande abbastanza per tutto dimenticare, e credo non s’ingannassero *.
Noi fummo salvi per l’ospitalità dei Genovesi: già lo dissi, e son dolente di non potermi diffondere su tale argomento, di dover soffocare i più teneri sentimenti11. Mi sia almeno concesso il dire che il popolo genovese dimostrò un religioso rispetto per la sventura. De’ bastimenti eran presti, dei generosi soccorsi furono largiti a coloro dei quali si penetrarono i bisogni, a tutto avea pensato la sollecitudine dei Genovesi12.
Genova non provò il dolore di vedere gli Austriaci fra sue mura (Vedi Doc. BB), dolore che pur venne risparmiato alla città di Torino, nella quale fece suo ingresso il conte Della-Torre il 10 di aprile.
Il popolo lo accolse freddamente, ed i controrivoluzionarii mal ne dissimularono il loro dispetto. Un tristo presentimento covava nei cuori; ed il popolo non potea a meno di scernere in lui la causa e la rovina della rivoluzione. Torino mostrò poca energia, rimase al di sotto dei tempi egli è vero, ma questa città che per tanti chiari intelletti e per l’ottimo senno di ogni sua classe risplende, non potrà mai senza ribrezzo sentirsi in collo il giogo del dispotismo, ed i suoi voti saran volti in ogni tempo ad ottenere una onesta libertà.
Le truppe austriache occuparono la cittadella di Alessandria e le città di Voghera, Tortona, Casale, Vercelli e Novara (Vedi Doc. CC). Il conte Della-Torre, ad onta di quanto avea operato per la monarchia assoluta, non fu giudicato degno di vendicarne gli oltraggi: tale incarico venne riservato al cav. di Revel conte di Pratolongo nominato dal re suo luogotenente generale negli stati di terraferma (Vedi Doc. DD).
Le sentenze pronunciate in Torino contro la maggior parte dei proscritti piemontesi non li sorpresero punto13. Il dispotico governo del Piemonte meno ancora di loro ribellione, come qualificava gli sforzi generosi di chi volea rivendicati al popolo i suoi diritti, avrebbe perdonato il mite esercizio del potere cui nelle menti dei cittadini lunga stagione indelebile starà, contro le calunnie dei nemici di libertà. Ben lo sa quel governo; e sallo pure il proscritto che in questo solo pensiero ritrova un conforto ai suoi dolori14.
Sono finalmente al termine di mia penosa fatica; mi rimane la fiducia di averla fedelmente compiuta, di nulla aver trascurato perchè riuscisse eziandio vantaggiosa. Bisognava provare che i Piemontesi erano stati trascinati alla rivoluzione dagli eccessi di un governo sommamente arbitrario, dalla mancanza di leggi che tutelassero le proprietà, le persone dei cittadini; bisognava provare che di nostra impresa non era unico scopo l’emancipazione italiana, ma ben anco l’ingrandimento, la potenza della casa di Savoia; talchè i nostri disegni abbracciavano le affezioni più dolci ed i doveri più sacri ad un tempo; bisognava provare che se il nostro tentativo era audace non lasciava però di presentare grandi mezzi di successo; bisognava far sentire come, per l’inazione del principe di Carignano durante sua reggenza, ne venisse tolto di utilizzare le risorse di nostra posizione, come per l’indegna sua fuga fossero prosternate le migliori speranze della nazione in lui riposte, e come a noi durasse e cuore e forza a rilevarle se la caduta impensata d’altro popolo tradito non le avesse interamente crollate; bisognava mettere in evidenza come gli uomini fra due partiti ondeggianti riescono fatali alla patria, e come il liberale cui non regge il braccio a sostenere la propria opinione incorra nel biasimo dei posteri, e nel disprezzo di quei medesimi che, non combattuti, ebbero da sua titubanza, da’ suoi timori agevole vittoria; bisognava far risaltare come i cittadini amanti sinceramente lor patria sappiano alle esigenze, alla felicità della stessa immolare la propria predilezione per l’una o l’altra forma politica, e far presentire come, se i liberali piemontesi si fossero ostinati per altra costituzione che la spagnuola dopo la decisione del parlamento napoletano, avrebbero forse suscitato novelle discordie italiane; bisognava far apprezzare come la causa di libertà nelle mani del governo costituzionale cui giustizia e moderazione aveano acquistato la stima e l’affetto dei popoli benchè da tante e differenti sventure colpita, resistesse ai suoi nemici, e come ad abbatterla abbisognassero costoro della mano dell’Austria; bisognava infine mostrare come quel cumulo di malaugurate circostanze che stremò di forze lo sfortunato Piemonte, rendesse inutile, impossibile ogni riparo al disastro di Novara.
Ed a tanto io credo essere riuscito con gli uomini di coscienza, con gli onesti e sinceri amici di libertà, che pure la massima e nobilissima parte costituiscono del popolo Europeo. Non mi lusingo ottener giustizia dai nostri nemici, nè men vano io stimo cercar di convincerli della rettitudine e magnanimità di nostre intenzioni; chè non per questo si starebbero dal calunniarci. E come no, se i fatti che a raccontare non trovano è forza loro di tessere? Troppo loro sta a cuore rapirci persin quel rispetto che sacrifizii e sventure han di noi saputo inspirare agli Italiani. Ma non si illudano: niuno dei nostri connazionali vorrà condannarci sulle asserzioni di comune nemico.
Nè ciò solo basta al mio intento: vo’ chiamar gli Italiani a meditare le condizioni del nostro paese, gli errori, le conseguenze della fallita rivoluzione, di quella rivoluzione che dopo secoli fu la prima che si tentasse in Italia senza l’intervento, l’aiuto dello straniero, fu la prima in cui due popoli si rispondessero dall’uno all’altro canto della Penisola. L’intero assoggettamento d’Italia all’Austria ne fu il risultato pur troppo; ma badino, l’Italia è conquistata non sottomessa. E d’altronde qual era egli mai lo stato suo anteriore al 1820? Non era ella di già fatta serva dell’imperatore, cui le due corti di Napoli e Torino avean dato lor fede di non accordare ai popoli benefiche, liberali instituzioni? Le ultime nostre peripezie non resero adunque che più semplice la nostra condizione, più diretta la servitù, misero in luce nostre catene. O Italiani! si sorreggano con dignità queste catene, non si squassino inopportunatamente, resti libero il cuore.
O giovani dello sventurato mio paese! Egli è in voi che rinascono sue speranze. In voi che all’uscire dai collegi, dalle case paterne, ovunque volgerete lo sguardo, non vi sarà fatto di scorgere, che stranieri insultanti; non avrete dinanzi che un avvenire senza gloria, senza onore; non un bene che vi appartenga, non una gioia che non vi possa essere avvelenata dall’ingiustizia, dal disprezzo de’ vostri padroni, o peggio ancora, dei loro satelliti. Sì, o gioventù d’Italia, ti disprezzano, sperano che una vita molle ed oziosa varrà a snervare tuo intelletto, che ardore e coraggio ti staran solo sul labbro. Lo pensano, lo dicono i tiranni, e sogghignano ogniqualvolta su te arrestano l’infernale loro sguardo. Ne dubiti forse? Valica le Alpi, ovunque tu volga il piede apprenderai ben tosto, come sul tuo conto la pensino i nemici di libertà, che cosa da te ne aspettino gli amici15.
La spinta è data; la liberazione d’Italia fia l’avvenimento del secolo decimonono. Scrivano pure a talento liste di proscrizione, vadano pure a gara i principi italiani in curvare la fronte ai cenni dell’Austria, posciachè va loro più a grado regnare con la costei forza, che non colle leggi. L’Austria non si oppone, e si prepara intanto a raccorre il frutto di loro acciecamento16; ma dessa pure s’inganna: l’ardore degl’Italiani per l’indipendenza nazionale aumenta in essi a misura dei sacrifizii che costa. La forza dell’Austria non può che ritardare il momento, ma ne fia più terribile lo scoppio. Non cadranno infruttuosi i gravi esempi eredati dagli avi nostri, e quando, al sentore della prima guerra europea, l’Austria chiederà all’Italia i suoi figli, i suoi tesori, gl’Italiani sapranno come meglio adoprarli.
Nell’importante questione che s’agita a’ tempi nostri in Europa, or più che mai per nostra sventura complicata da malaccorti ed ostinati partigiani dell’assolutismo, l’interesse degli Italiani è quello di ogni altro popolo maggiore: chè di sola libertà interna non è caso per essi, ma di libertà e nazionale esistenza ad un tempo. Si tratta per loro di vivere sotto l’arbitrio del militare austriaco e delle spie, o sotto la protezione inviolabile della legge, di dar addietro nella civiltà, o di progredire a quel grado di cosa che al genio loro è assegnato.
Muove a sdegno pensare come la felicità dell’Europa divenisse miserabile zimbello di pochi. Nel 1816 e 1817 sembrava le cose di ciascun paese si acconciassero per una pacifica instaurazione di governi rappresentativi; e l’imperatore Alessandro erasi dato ad iniziare una nuova era di sociale prosperità. Il suo nome, già congiunto alla caduta dell’abbagliante despotismo di Napoleone, stava per associarsi del pari allo ristabilimento ed al progresso della civiltà, per riempiere di sè il decimonono secolo; chè i benefizi politici meglio di qualunque clamorosa vittoria s’imprimono nel cuore dei popoli. Ma per quale perverso destino si ristette? Il re di Spagna volle anco una volta provarsi all’assolutismo, e calpestando d’un piè sicuro i suoi sudditi, barbaramente li puniva del trono serbatogli. Questa infamia scandalosa nella storia delle genti non avea a durar lungo tempo, ma abbastanza però a far nascere in altrui de’ malvagi progetti. Il ministero del re di Prussia, dimenticando a qual prezzo quell’eroico popolo avea dato suo sangue, si studiò fraudarne i desiderii. Quinci il dispetto, la esaltazione dei giovani, quinci gli errori che all’esaltazione tengon dietro in ogni Stato mal retto della società, e frattanto coloro che di ciò eran cagione, ne ritraevano scuse per indugiare l’adempimento di loro obbligazioni. Il gabinetto austriaco avea colto avidamente l’occasione di farsi giuoco delle speranze dell’Allemagna, e, stolto nemico d’ogni progresso sociale, avea concepito il disegno di attraversarne l’andamento. Forse sarà ingiusto l’accusare tutti i membri indistintamente di quel gabinetto, di aver bandito tal guerra alla società, ma sta sgraziatamente in fatto la spontanea sistematica avversione dell’imperatore per ogni liberale instituzione che intenda a migliorarla17. Egli stesso lo disse: ognuno rammenta le sue parole ai deputati ungheresi, parole che a lui sì bene sotto di ogni aspetto si addicono, e che io voglio ripetere: «il mondo delira, chiede costituzioni immaginarie.» Epperò un parlamento che voti le imposte e giudichi i ministri prevaricatori; tribunali indipendenti nell’esercizio di loro funzioni; le proprietà inviolabili; le pratiche civili al sicuro dall’arbitrio del principe... saranno di tali instituzioni che volendolo, si potran dire perniciose al bene degli uomini, ma in quanto a me nulla vi rinvengo che d’immaginario mi sappia.
E questa si scorge essere la teoria politica dell’imperatore d’Austria, da cui ebbe origine sua naturale antipatia per gli Italiani dopo che non gli riuscì far gustare a Milano, a Verona, o a Venezia la beata stupidità della Carinzia o della Stiria18.
Per prediletto che si abbia l’imperatore Francesco, non si può non ammettere la superiorità di Alessandro. Come dunque riuscì al primo trarsi dietro quest’ultimo? Celate mire ambiziose non conducono certo Alessandro a tale sacrifizio; egli ha un cuore troppo elevato per non essere che un ambizioso. Il saggio giovine che avea così bene compreso i bisogni della società, non può esser mosso che da altre considerazioni di lui più degne, ma Alessandro è ingannato. Gli si pose dinnanzi la forza delle società secrete, gli si mostrarono pronte a realizzare un sognato sconvolgimento sociale. Ah! se coloro che primi alzarono codesto grido di paura esaminassero lo stato della società per rintracciarvi ciò che v’ha realmente, non quello che vogliono scorgervi, non tarderebbero a convincersi, come a tali congreghe segrete, ove esistano, dal difetto appunto di liberali instituzioni derivi forza e possanza. Che dove le anzidette instituzioni fioriscono, gli uomini eruditi vi si affezionano, le diffendono, l’attenzione universale si fissa su di questioni positive, le immaginazioni riscaldate si calmano, ed i perturbatori perdono quel punto d’appoggio che loro viene appunto fornito dall’assoluta monarchia. Dal giorno in cui promulgherassi uno Statuto, dal giorno in cui si ergerà una tribuna, dal giorno in cui nello Stato non vi sarà più alcuno al dissopra della legge, svaniranno per la società i pericoli nascosti: dessa riprenderà il suo incesso securo, solenne! Ma là ove regna la forza brutale non v’ha calma che di apparenza, e le passioni degli uomini bollenti diventano esca a fuochi sotterranei; quelle stesse passioni che in una società da sane leggi regolata darebbero ottimo frutto, sotto uno scettro di ferro o di piombo s’inaspriscono, si corrompono, si fanno terribili.
Forse sarebbe ancora in tempo il riparo, ma temo che gli uomini invaghiti del despotismo non ritengano ormai che troppo securo il lor trionfo. La facile vittoria riportata su Napoli e sul Piemonte li illude, li affascina, credono essersi trovati a fronte dell’Italia, e d’averla schiacciata. Stolti! Mai non vi furono, le cose da me narrate lo dimostrano: ed io lo doveva perchè niuno de’ miei connazionali avesse dagli avvenimenti del 1820 e 1821 a congetturare l’impotenza di una rivoluzione italiana.
Note
- ↑ M. de Beauchamp assicura risultare da parecchie relazioni che il generale Bellotti passò dalla parte degli Austriaci all’affare di Novara. Non possono esistere relazioni dalle quali apparisca un fatto così lontano dal vero. Erano dieci e più giorni che il generale Bellotti riceveva ordini dal conte Della-Torre, quando l’armata costituzionale si mosse prima contro Vercelli, e poi contro Novara. M. de Beauchamp assevera anche che il partito costituzionale accusava il generale Gifflenga e Chiavenna d’averlo tradito all’attacco di Novara. Si vede che questo scrittore fu molto male informato. Non mi è dato render giustizia a tutti, ma non tralascierò certo di correggere un errore in pregiudizio di un uomo che pure ne fece assai male. Il partito costituzionale sapeva che Gifflenga erasi unito al conte Della-Torre, dopo la partenza del principe di Carignano, ma sapeva altresì che Gifflenga non era stato incaricato di alcun comando dal governo costituzionale; potea dunque sembrare a’ suoi sguardi un ribelle all’autorità legittima, un nemico di libertà, non mai un traditore. Quanto al general Chiavenna noi non potremo parlarne se non che quando M. de Beauchamp ne avrà fatto fare la sua conoscenza.
Poche parole ancora sul generale Gifflenga. Chi avrebbe mai sospettato che la sua condotta potesse costargli la disgrazia del re e l’esigilo? Ma quali furono i suoi falli? Prese egli parte alla cospirazione piemontese? Mainò; cercava anzi di allontanarne quelli che credea disposti ad associarvisi. Animò forse il principe di Carignano a procedere francamente nel sentiero della Costituzione? al contrario il suo contegno fu la causa principale della funesta inazione, e poscia dell’abbandono del principe. Adoperò sua influenza a rannodare intorno a lui l’armata piemontese, e a difendere con essa il suolo della patria? Ei si guardò ben bene dal farlo. E quando le truppe costituzionali giungevano sotto Novara, ove si trovava Gifflenga? a Novara presso del conte Della-Torre, a fianco degli Austriaci. Che si vuole di più? Se noi liberali nelle nostre disavventure riconosciamo in lui il maggiore ostacolo che si frapponesse al conseguimento di libertà in Piemonte, il potere assoluto ben potrebbe prestar piena fede a’ nostri detti.
L’esempio di Gifflenga prova d’una maniera evidentissima che non basta mantenersi strettamente fedeli alla monarchia assoluta, bisogna indovinarne tutti i secreti, metterne in applicazione tutte le massime, approvarne gli abusi, servirla con zelo, con amore.
Chi non si sente da tanto, e tuttavia non sa decidersi a prender posto nelle file dei difensori di libertà, bisogna che necessariamente e per sempre rinunzi alla vita politica.
- ↑ In una risposta a questo ragguaglio si fa cenno di una lettera scritta dal generale Della-Torre al colonnello Regis, e rimessa a questo dal generale Bellotti, e si dice che essa lettera conteneva copia di un dispaccio del conte Bubna allo stesso conte Della-Torre, nel quale il generale austriaco dichiarava che se i costituzionali avessero continuato ad avanzarsi, egli riguarderebbe la cosa come caso di guerra, e passerebbe il Ticino. Regis non comunicò questo dispaccio agli altri capi costituzionali, e sembra lo giudicasse un agguato tesogli per arrestare la sua marcia. Regis non si poteva persuadere che il conte Della-Torre volesse realmente prevalersi dell’aiuto degli Austriaci, e credeva d’altronde che l’armata di Novara respingerebbe sdegnosa codesti alleati. Non altrimenti potrebbe spiegarsi la condotta del comandante delle truppe costituzionali il quale, a dire il vero, non prese alcuna di quelle precauzioni che la sua esperienza militare gli avrebbe suggerito ove si fosse immaginato di trovare un corpo d’Austriaci a Novara.
- ↑ L’autore della risposta di cui ho parlato dice che il generale *** conosceva troppo bene le regole militari per non venire a parlamento con ufficiali seguiti da loro truppe. Ma come mai Regis, San Marsano e Lisio potevano penetrare in Borgo-Vercelli seguiti da loro truppe mentre gli avamposti del conte Della-Torre si trovavano ancora sul ponte della Sesia? Sciocca giustificazione d’un modo di procedere inscusabile.
- ↑ E qui ci rispondono: «Erano pronti a sacrificare! E che cosa? i nuovi lor gradi? Oh no! La costituzione? Sì, anche la costituzione.» Non sarà lunga la replica. Regis, San Marsano, San Michele erano colonnelli prima della rivoluzione, e colonelli erano l’8 aprile a Novara. Collegno era maggiore prima della rivoluzione, e maggiore l’8 aprile. Lisio avea ricusato il grado di maggiore, ed era rimasto capitano. Non si trattava dunque di sacrificare, o non nuovi gradi, posciacchè si conservavano gli antichi; il vostro sarcasmo è fuor di proposito. Quanto alla costituzione, l’impossibilità di mantenere quella di Spagna era ormai fatta evidente dalla caduta di Napoli, ma però non si sarebbe mai pervenuti ad una ricongiunzione, senza convenire assieme di basi fondamentali della pubblica libertà.
- ↑ Forse, malgrado la svantaggiosa posizione, era per noi più conveniente l’attaccare. A reggimenti che si trovano la prima volta in faccia al nemico, ordinando una ritirata, si abbatte lo spirito; un attacco ardito presentava minor danno, e forse qualche speranza di successo.
- ↑ M. de Beauchamp ne parla come di uno dei principali autori della rivolta. Il cav. Monzani era un bravo ufficiale, un leale cittadino, egli ne die’ prova, ma non prese attivamente parte alcuna alla rivoluzione.
- ↑ Il principe della Cisterna presenziò questa seduta di dolorosa ricordanza. Era appena arrivato da Genova col marchese Prierio. Avendo appreso come il governo costituzionale si sostenesse malgrado i pericoli e le calamità che lo circondavano, ritornarono addietro per consecrarsi a sua difesa: giunsero in un crudele momento, ma non ebbero a pentirsi di aver adempiuto al loro dovere.
- ↑ Questa misura presa dal ministro della guerra ond’evitare che più battaglioni dovendo traversare gran parte del Piemonte fossero nella loro marcia a carico de’ paesi pei quali passavano, ed impedire che nascessero disordini, tanto a temersi in cosi critiche circostanze, die’ luogo ad insigne calunnia ripetuta da molti giornali, e da M. de Beauchamp. Dissero che questi 150 mila franchi furono il prezzo della consegna della cittadella. Io dichiaro qui colla certezza che niuno possa smentirmi: 1. che gli ufficiali ai quali era affidato il comando della cittadella e di sua guarnigione, non fecero difficoltà alcuna all’ordine ricevuto dal ministro della guerra di abbandonnare la cittadella, e che non vi apposero condizione di sorta, e 2. che la somma in questione è stata pagata dal tesoriere di guerra al maggiore Enrico, incaricato dal ministro, come sta scritto nella lettera ministeriale diretta all’intendenza generale di guerra, di servirsene per il soldo e la sussistenza delle truppe che doveano partire da Torino, coll’obbligo di renderne conto, e versarne il sopravanzo, qualunque fosse, nelle tesorerie d’Alessandria o di Genova.
Precipitati gli avvenimenti, dispersesi le rimanenti truppe, fu impossibile al maggiore Enrico di seguire puntualmente le istruzioni del ministro, ma nonpertanto non è meno pronto quest’uffiziale a giustificare l’impiego da lui fatto della somma statagli consegnata.
E quindi chiunque si facesse a dire, o ripetere che la cittadella di Torino fu abbandonata alla guardia nazionale a prezzo d’argento od a qualunque altra condizione, direbbe o ripeterebbe una menzogna.
- ↑ Eppure, secondo M. de Beauchamp, fu lui che diresse il movimento de’ costituzionali contro Vercelli e Novara. Quel movimento ebbe luogo il 7 aprile, ed il generale Vandcourt in quel giorno si trovava per cammino sul gran San Bernardo. Ma questo non cale, con M. de Beauchamp non bisogna badare a cosiffatte inezie.
- ↑ Benchè il cav. Collegno, dopo la giornata di Novara, non sia più ritornato in Alessandria, nondimeno l’autore dei Trente jours non dubita di farlo rinchiuso nella cittadella con 80 pezzi di cannone e fa le meraviglie perchè non si sia difeso.
- ↑ La nostra rivoluzione fece sparire del tutto ogni avanzo d’astio e rivalità fra due popoli vicini. Questo vincolo stretto dalla stima reciproca, fortificato da riconoscenza e da comuni sventure, durerà egli eterno, indissolubile? Piemontesi e Genovesi confusero loro lagrime all’udire la morte di Garelli che s’avviò al patibolo intrepido, con una calma e dignità degna di un discendente dei vincitori di Botta, e d’un prode dell’antica armata italiana.
- ↑ A sentire l’autore dei Trente jours, Vittorio Emanuele fece distribuire considerevoli somme ai Piemontesi che s’imbarcarono. Non v’ha più di me chi sia disposto ad apprezzare l’eccellenza di quel cuore, ma questo fatto è assolutamente falso.
- ↑ Quando io scrissi, ignorava ancora la sentenza del 13 agosto che condannava a morte il principe della Cisterna, il marchese Prierio, ed il cav. Ettore Perrone come complici della rivoluzione piemontese. Nel corso di quest’opera dichiarai altra fiata, ed ora di nuovo solennemente dichiaro che quei tre non ebbero non solo parte alcuna alla cospirazione di marzo, ma nemmeno notizia della stessa, giacchè tale non vuolsi considerare l’incerto romore che loro ne potesse esser giunto all’orecchio. Il marchese Prierio fu il solo che sentisse a parlarne di un modo più positivo qualche giorno prima del suo arresto, e da chi? Dal principe di Carignano.
Su quali prove adunque si condannarono della Cisterna, Prierio, e Perrone? L’astio soltanto può avere dettato di simili sentenze se pure sentenze chiamar si possono.
- ↑ La Provvidenza serbava un altro sollievo a’ loro mali nell’amica ospitalità dei popoli presso i quali mendicavano un asilo, e la più tenera e commovente riusciva ove i governi per politiche considerazioni che non sta a me giudicare, credevano dover ricusare loro protezione ai rifugiati italiani. Ma tu, generosa Spagna, tu ci apristi le braccia, e su di noi hai versato i tuoi benefizii! Qual piemontese potrà mai dimenticare Barcellona?
- ↑ In ogni parte d’Europa i nemici delle liberali instituzioni, non amano a sentir parlare della gioventù, e noi rimbrottano di eccitarne le passioni, e di educarla alla perturbazione, al disordine. Certamente, noi vogliamo risvegliare ne’ giovani cuori quelle generose passioni senza le quali non si acquista nè si difende libertà; quanto poi a farla strumento di perturbazione e disordine, non v’è alcun che non sappia cosa importino tali vocaboli nel vostro gergo; voi non iscorgete ordine e tranquillità se non dove regna assoluto vostro volere senz’incontrare un ostacolo, un lamento; ove lo stato, l’onore, l’avvenire dei cittadini sono fatti sgabello a vostre mire, a’ vostri interessi. Eredi di fatto della supremazia materiale nella società voi respingete, attaccate, insidiate le instituzioni che sole possono sostenerne la supremazia morale. La crescente generazione è chiamata a decidere la nostra controversia. Dessa non si lascierà allucinare da’ vostri solismi, sedurre da vostre promesse che l’esperienza ha mostrato quanto valgano, spaventare da vostre predizioni o minaccie, trasportare da vostre ingiustizie. Voi avrete un bell’abusare del potere, la gioventù non perderà di vista che un governo forte e legale forma la sicurezza del cittadino, la prosperità dello Stato; voi avrete un bell’abusare della religione affascinando lo sconsigliato clero dimentico di sua missione sociale, dessa non cesserà di scorgere in questa religione purificata dalle vostre sozzure il simbolo della pace, della felicità dell’umana famiglia, la corona dei sacrifizii del cittadino; voi avrete un bel destare la sua indegnazione col vostro disprezzo, dessa non vi risponderà che con la severa imparzialità dei suoi giudizii, con l’animosa rettitudine di sue azioni. Ma pure la sua vittoria riuscirebbe incompleta se voi, anche poscia sconfitti, aveste potuto corrompere i vincitori. Non sarà vero trionfo di libertà se non quando i suoi calunniatori restino soli, divisi da quanto v’ha di giusto, d’umano, di sapiente in Europa. Perchè non vi è idea propizia, non pensiero morale che a libertà non s’informi. So bene che non alle sole corti dei re esistono suoi nemici, ma gli errori, le sventure dei padri non avranno infruttuosamente suonato all’orecchio della italiana gioventù.
- ↑ Nel mentre una terribile inquisizione politica sparge il terrore fra i Lombardi, e vuol procurare ad essi una tremenda lezione, proficua alla causa italiana, fu detto che gli Austriaci fan vista di biasimare le vendette del governo piemontese e di compiangerne le vittime; ma i Piemontesi sanno apprezzare, come lo si deve, questo ipocrito compianto. Non hanno obliato come nell’inverno del 1799-1800, questi stessi Austriaci, abusando della precaria situazione di re Carlo Emanuele IV, spingessero il suo supremo consiglio a crudeli atti, e lui inducessero a calpestare i suoi popoli, per quindi, divenuti suoi detrattori, proporre la dominazione del loro padrone, come termine ai mali del paese. Tentano ora consimile mezzo, ma la loro politica non è mutata, dessa conserva ognora lo stesso carattere di mal celata furberia. Chi potrebb’essere ingannato?
E giacchè feci parola dell’inquisizione politica di Lombardia, mi servirò di ciò che or ora accadde, a provare se a torto, od a diritto usai di tale espressione. Addurrò semplicemente i fatti.
Il tribunale supremo del regno Lombardo-Veneto ha condannato il 18 maggio 1821 a morte tredici individui come colpevoli di alto tradimento. (Gazzetta di Milano dei 25, 26 dicembre 1821).
Basò suo giudizio: 1. sulle risultanze del processo che la commissione speciale stabilita in Venezia contro la setta dei Carbonari ha instrutto contro codesti individui: 2. sul giudizio consultivo di detta commissione in data del 29 agosto 1820: 3. su di altro giudizio consultivo del 22 gennaio 1821 della commissione di seconda instanza parimente instituita contro la setta dei Carbonari.
Stabilito pertanto che una tale sentenza venne proferita, come si enuncia nella stessa, a seguito di processi e giudizii consultivi di due commissioni espressamente instituite contro la setta dei Carbonari, egli è chiaro che gl’individui condannati, lo sono in qualità di carbonari, qualità che per sè stessa costituisce il crimine d’alto tradimento.
Ma qual è la legge che identifica la qualità di carbonaro e la colpa di alto tradimento?
Un’ordinanza del 25 agosto 1820 pubblicata a Venezia (Monitore del 13 settembre 1820) d’ordine di S. M. imperiale e reale, nella quale si rendono avvertiti i suoi sudditi, dello scopo che si vuol attribuire alla setta dei Carbonari, e si stabiliscono rispettivamente le pene riservate a coloro che ne faran parte, e che non ne denuncieranno i membri.
Ma molti di coloro contro i quali si emanava la citata sentenza vennero arrestati nel carnovale del 1819-20 ad un ballo del conte Porzia vice-delegato dell’imperatore e re, nella città di Rovigo.
Arrestati dunque cinque o sei mesi prima della promulgazione, nè più rilasciati dalla polizia, in quale modo questa legge potrebbe loro applicarsi?
È ben vero che l’imperatore fece loro grazia della vita, e commutò la pena inflitta dal tribunale supremo in venti, quindici, dieci anni di duro carcere secondo i maggiori, o minori diritti dei condannati alla clemenza imperiale.
È pero ben terribile quel governo, sotto di cui i miseri puniti in virtù di una legge che non esisteva ancora allorchè fu commessa l’azione che viene dalla stessa colpita, devono sopportare dieci, quindici, venti anni di orribile tortura, ch’è noto pur troppo cosa sia duro carcere negli Stati di S. M. apostolica.
M’accuora talmente il dover concepire la possibilità di un fatto così odioso, che ad onta della mia naturale avversione per l’Austria, vorrei invece poter dimostrarne la insussistenza.
- ↑ L’attuale imperatore seppe guardarsi dal cadere nelle incongruenze di suo zio Giuseppe II il quale, comunque despota, volle trar partito dai lumi del secolo, ed introdurre grandi miglioramenti nei suoi Stati. Il re assoluto si lasciò andare all’orgoglio di riformatore, ma non apprezzò la virtù, ed ebbe a sdegno la giustizia. Francesco I segue un sistema più uniforme e consentaneo al suo carattere; se vuole il despotismo, lo vuole nei suoi mezzi e nei suoi effetti. Si osservino gli atti del suo governo, particolarmente da qualche anno a questa parte, dichiarano apertamente all’Europa che la monarchia assoluta ed illimitata deve rompere ogni alleanza con un regime mite, illuminato, opportuno al progresso della società, il quale non ammetterebbe le condizioni necessarie a respingere, a soffocare le idee liberali. E quindi tutti i re d’Europa che non amano il governo rappresentativo, non hanno altro mezzo a servirsi di lor forze contro il naturale movimento della società, che di entrare nel sistema dell’Austria.
- ↑ L’imperatore, nell’ultimo suo viaggio a Roma, ha dovuto persuadersi che tutte le città Italiane sono assai d’accordo sui sentimenti che deggiono inspirar loro i Cesari di Allemagna.
Note aggiunte
* Desgeneys, di principii assolutista più che liberale, avrebbe però se non amato, servito lealmente e senza il livore dei Della-Torre, dei Revel, degli Andezeno, dei Sanseverino, la costituzione ove si fosse mantenuta; ma la dichiarazione di Carlo Felice ed il modo con cui venne accolta dal reggente non gli lasciarono alcun dubbio sull’impossibilità di una durata, ed egli pensò di mettersi in regola col suo padrone. Ad onta di questo, caduta la libertà, il corpo decurionale e la camera di commercio di Genova plaudendo, al solito, gli eventi, ed adulando il partito che avea trionfato, decretavano e presentavano una magnifica gran croce di S. Maurizio in grossi brillanti ed una spada con impugnatura in oro, superbamente lavorata al Desgeneys, che accettò i doni, ma chiamato un notaio ne dispose immediatamente dell’una a favore dell’ospedale degli incurabili, e dell’altra a favore di quello di Pammatone, riserbandosene l’uso durante sua vita. E fu tratto di nobile disinteresse. Ma l’indirizzo del corpo decurionale in specie è rimarchevole per gli antiliberali principii che vi si scorgono, indegni se reali, codardi se simulati (Vedi Doc. AA.)