Storia della rivoluzione di Roma (vol. II)/Capitolo IX
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[Anno 1848]
Affinchè i nostri leggitori possano formarsi un’idea esatta delle cose in Europa, e riconoscere sotto quali auspici iniziavasi il mese di aprile 1848 in Roma, non sia discaro di porre sott’occhio dei medesimi quale fosse verso il fine di marzo ed in su i primi di aprile la situazione de’ singoli stati europei, onde poter meglio apprezzare il valore ed i motivi di ciò che si diceva e si faceva qui in Roma. Imperocchè la rivoluzione che da qui era uscita ricca di entusiasmo e vergine di delitti, erasi venuta tralignando per via in guisa, che vi ritornava sozza e contaminata di violenze e di sangue. In Roma pertanto il malo esempio di ciò che in estranei paesi facevasi dava la rivoluzione non solo, ma le conferiva maggior lena e vigore.
Erano le cose in Europa presso a poco nello stato seguente. .
La Francia trovavasi in rivoluzione e retta a repubblica di colore socialistico.
Anche l’Austria avea subito la sua rivoluzione. Il principe di Metternich era fuggito da Vienna. Altri uomini vi erano al potere.
La Prussia ancora era travagliata dalla rivoluzione, perchè in Berlino eranvi state delle forti perturbazioni dal 13 al 17 marzo, ed il giorno 18 fuvvi una lotta sanguinosa. Vi si festeggiava la libertà della stampa e la convocazione della Dieta al 2 di aprile. Vi si parlava del nuovo impero germanico, che volea conferirsi al re di Prussia.
In Baviera il re Ludovico aveva abdicato il potere il 20 di Marzo a favore del suo figlio Massimiliano, il quale annunziava di avere già giurato la Costituzione.
La Galizia ed il ducato di Posen erano in movimento; ed i Polacchi rifugiati in esteri paesi e massimamente a Parigi, ne partivano per raggiungere la patria e farvi rivoluzione.
La Boemia e l’Ungheria erano in istato di agitazione.
Nella Sassonia erano avvenuti trambusti per avere la libertà della stampa di cui godevano gli altri stati. In seguito di una sommossa il re aveva ceduto.
In Kiel capitale dello Schleswigh-Holstein, erasi creato un governo provvisorio il 24 marzo.
In Wurtemberg era stata rivoluzione e cambiamento di ministero.
A Cassel si era formato un governo provvisorio.
L’Irlanda era in istato di commozione, e mostravasi propensa alle idee francesi. Vi si formavano associazioni, vi si acquistavano armi, e preparavansi deputazioni ai Parigini per simpatie e soccorsi.
In Inghilterra i cartisti ossiano radicali preparavano una dimostrazione in Londra che spargeva lo spavento nel governo e negli abitanti di quella metropoli, e minacciava di rovesciare col governo le istituzioni tutte che formavano la grandezza della Gran Brettagna.
Là Spagna non era quieta. In Madrid era scoppiata una sommossa il 25 di marzo, la quale venne repressa colle armi e coll’artiglierie. Vi furono trenta morti e molti feriti, e quella città fu posta in istato d’assedio.
Il Piemonte era travagliato dalla rivoluzione ed in guerra con l’Austria.
In Milano la rivoluzione aveva trionfato e gli Austriaci eransi ritirati. Vi si era formato un governo provvisorio composto del
Conte | Vitaliano Borromeo |
Giuseppe Durini | |
Cesare Giulini | |
Gaetano Strigelli | |
Antonio Berretta | |
Marco Greppi | |
Alessandro Porro | |
Segretario | Correnti. |
Venezia reggevasi a repubblica sotto il comando dei seguenti:
Presidente | Daniele Manin |
Niccolò Tommaséo | |
Antonio Paolucci | |
Francesco Solera | |
Pietro Paleocapa | |
Francesco Camerata | |
Leone Pincherle | |
Augusto Toffoli | |
Segretario | Iacopo Zennari. |
Modena era retta a governo provvisorio, ed eravisi formata una reggenza, istituita dal duca il 21 di marzo nel partire. Essa era composta del
Presidente | Giovanni Malmusi |
Segretario | Giovanni Minghelli |
Ministri | Giacomo Malavari |
Vediani | |
Zicorri | |
Marchese Antonio Morano | |
Avvocato Bagnoli di Reggio | |
D. Pagliani | |
Colonnello Antonio Brocchi. |
Parma, dopo la fuga del duca, era governata da una reggenza di cui facevan parte
L. Sanvitale | |
G. Cantelli | |
F. Maestri | |
P. Pellegrini | |
Avvocato | P. Gioia. |
La Toscana aveva un governo senza forza. I letterati e i poeti eran divenuti legislatori e guerrièri. Sospesi gli studi, annientati gli affari, sparita la quiete proverbiale del gran ducato, il giornalismo in voga.
La Sicilia perseverava nello stato d’insurrezione che la separava da Napoli. Il 25 marzo erasi aperto il parlamento in Palermo, e Ruggero Settimo aveva recitato il suo discorso.
Il ministero componevasi come segue:
Mariano Stabile | |
Barone | Pietro Riso |
Marchese | di Torrearsa |
Gaetano Pisani | |
Don Pietro Lanza Branciforte principe di Scordía e di Butera. |
Carlo Troia | |
Vincenzo degli Uberti | |
Marchese | Luigi Dragonetti |
Giovanni Vignale | |
Conte | Pietro Ferretti |
Brigadiere | Raffaello del Giudice. |
Eransi in quel tempo ridestate le idee di nazionalità in Alemagna, in Italia, in Polonia; ed intanto la società demooratica alemanna che aveva stanza in Parigi, invitava gli amici, emetteva bandi e indirizzi, domandava armi, e prometteva di volere andare a formare una repubblica germanica.
In Francia i fondi pubblici erano in rovina, perchè negozia vasi a 40 la rendita al 3 %, a 59 quella al 5 %, ed a 49 ½ la rendita del Belgio.
I consolidati inglesi erano a 81.
I prestiti romani con frutti al 5 % si vendevano a 51.
Garnier Pagès, ministro delle finanze in Parigi, immaginava un sistema di pubblico magazzinaggio, sotto la sorveglianza dello stato, affinchè i produttori di mercanzie potessero ivi depositarle e trovarvi danaro sopra. Intanto il dotto economista Michele Chevalier cercava con magnifici articoli inseriti nel Journal des débats, di venire illuminando e guidando l’opinione pubblica sulle questioni di finanza, e specialmente su quella del diritto al lavoro, che era una delle teorie favorite del giorno.
In pari tempo formavansi progetti pressoché in tutte le parti, affinchè il governo francese ricomperasse le miniere, i canali, le compagnie di assicurazione, le strade ferrate, tutti in somma gli stabilimenti industriali.
E mentre facevansi codesti progetti immaginari ed irrealizzabili, divulgavasi che ai Rothschild in Parigi fosser fatte violenze, affronti, offese alle proprietà. Si disse perfino che fosser sul punto di sospendere i pagamenti. Ciò non verifìcossi è vero, ma lo si credette per un momento; e questo bastò per accrescere la perturbazione degli animi. Ma se resisterono i Rothschild, crollaron le case dei Thurneyssen e compagni, dei Baudon e compagni, dei Lafitte, Blount e compagni, di de la Hante, di d’Eichthal, ed altre di minor conto. E se i Rothschild di Parigi stetter saldi contro agli urti tremendi di una situazione spaventevole, la loro casa di Napoli venne restringendo quasi al nulla i suoi affari. E in allora si vide cosa che mai per lo innanzi non erasi veduta. Le case tutte di Parigi dichiararono che avrebber pagato le cambiali finchè avessero avuto un soldo in cassa, ma si sarebbero astenute dal porvi la loro accettazione in antecedenza.
Le famiglie agiate in quel tempo o chiudevano casa, o fuggivan da Parigi. I fabbricanti per mancanza di lavoro dimettevano i lavoranti, le crestaie rimandavano a casa le loro ragazze. L’oro e l’argento sparivano dalla circolazione; la banca era tormentata da mane a sera pel cambio dei biglietti in contante: e il governo per riparare a quest’inconvenienti, ne adottava uno peggiore quale si era quello d’interdire con una legge la esportazione del numerario. Tutte queste beatitudini erano l’effetto della repubblica francese una e indivisibile.
Il Journal des dèbats del 30 di marzo spaventato da ciò che svolgevasi sotto i suoi occhi, diceva: «ch’era un fracasso di avvenimenti che scoppiavan da tutte le parti, uno scotimento universale che aveva sorpreso il mondo colla istantaneità del terremoto.»
Questa era la vera situazione d’Europa. Ma non si creda già che i popoli la conoscessero nei suo vero aspetto, e nè avessero esatte informazioni, perchè ai guai reali, che non eran pochi, si aggiungevano ancora gli esagerati e i falsi del tutto, che uomini perversi si compiacevano d’inventare e propalare e in voce e in iscritto. E siccome era lecito a tutti di stampare ogni sorta di stramberie, circolava» foglietti nei vari paesi d’Italia e precipuamente in Roma, ove e fughe e uccisioni di sovrani e proclamamoni di repubbliche presso che in tutti gli stati divulgavansi. Fra le tante stramberie scegliamo una sola, e questa può dare idea del resto. Essa fa parte di un bullettino qualificato per officiale che può leggersi fra i documenti della nostra raccolta.1 Eccola:
«Varsavia è un mucchio di rovine. Giovedì la città si è sollevata, e la popolazione ha massacrato tutti i Russi che ha incontrato: questi si sono rifugiati nella fortezza, ed hanno ridotto in cenere la città. Il generale Sobiesky ha preso il comando dell’insurrezione. I Prussiani marciano in massa verso la Polonia.»
Nè si creda già che la falsità delle notizie potesse con facilità discoprirsi, imperocchè alle altre disgrazie si aggiunse, stante le commozioni, i combattimenti incominciati e le rotture delle strade, la irregolarità dei corrieri la quale riusciva di gravissimo danno.
L’erario in Roma era esausto. Il prestito de la Hante sospeso, perchè al primo soffio della francese rivoluzione la casa anzi detta sospese i suoi pagamenti. I biglietti della banca romana eran ripudiati parte per diffidenza, parte per malevolenza, e quindi convenne sottoporli in appresso a corso coattivo. L’oro e l’argento incominciarono a godere d’un premio perchè non piaceva ad alcuno di privarsene. Niuno voleva acquistar le cambiali per Parigi; in prova di che il prezzo del franco da 18,60, scese a 16 baiocchi. Si parlava di proroga alle cambiali in iscadenza.
L’autorità poi fra il non fare per timore, o il fare non essendo però rispettata, non porgeva guarentigia veruna pel mantenimento dell’ordine pubblico. I soli circoli comandavano e prepotevano. Tale era lo stato di Roma in sul finire di marzo e in su i primi di aprile 1848.
Iu quei momenti tristissimi in oltre anche le case più ragguardevoli erano minacciate da una sovversione in sequela di uno stato di cose di cui mai non si era veduto il simile nei tempi trascorsi. Nè la stessa casa Torlonia fu esente da quel pericolo: imperocchè questa casa, quantunque colossale, trovavasi esposta a dover sopperire al mantenimento di moltissimi forestieri ch’erano in Roma, e che quasi tutti da lei esclusivamente tiravano i lor fondi. Diciamo esclusivamente perchè in quei giorni il banchiere Valentini, preso dallo spavento, chiuse l’officio, e rimandò al banco Torlonia i suoi clienti. La crisi della banca romana e lo sbigottimento universale spingevano molti a ritirare i lor depositi. I forestieri volendo rientrare chi in Francia, chi in Inghilterra, e chi in Russia, chiedevan somme superiori a’ loro bisogni ordinari. Ye n’erano alcuni che ricercavano prestiti; altri i cui banchieri avevan fallito, ritrovavansi sprovvisti di fondi, e imploravano colle lagrime agli occhi assistenza e soccorso. Non mancaron di quelli che offerivano le proprie gioie in pegno, e che obbligavansi personalmente nel caso che, falliti i loro banchieri, le rivalse che prendeva la casa Torlonia fosser tornate in protesto. I Russi sopratutto eran portatori di credenziali il cui rimborso era sulla casa Thurneyssen e compagni di Parigi, e su quella di d’Eichthal. Entrambe queste case avendo sospeso i lor pagamenti, che fare? Su chi rimborsarsi? E d’altra parte come abbandonare i clienti, e come ricusare il dovuto onore alle credenziali emanate da case russe rispettabilissime?
Ad accrescere la complicazione già grande in quei tempi di universale scompiglio, accadde che la casa Stieglitz di Pietroburgo, una delle principali potenze finanziarie del nord, avesse rilasciata una quantità di lettere di crèdito il cui rimborso era appunto sulle case di Parigi che avevan sospeso i pagamenti. Per prevenirne le conseguenze fu sollecita la casa Stieglitz di spedire alla casa Smallett di Londra oltre a dieci milioni di franchi effettivi, ed assegnò su di essa con apposita circolare i rimborsi, in luogo delle case di Parigi. Ma disgraziatamente l’annunzio di questa provvida disposizione a tutte le case del continente europeo non giunse alla casa Torlonia, la quale solo più tardi n’ebbe comunicazione dal cavalier Peterson console russo in Napoli: e così le cose presero un assetto più regolare. Ma prima che ciò si conoscesse passaron di molti giorni pieni di ansia e d’incertezza, nei quali la casa Torlonia trovossi costretta, per onorare i suoi amici, di compromettere la propria esistenza; e tanto maggiore e più imminente fu questo pericolo, perchè in quella crisi tremenda, mancando i corrieri, mancaron le lettere apportatrici di cambiali che potessero rifondere le casse esauste.
Ma v’è di più. Si fecer venire cinquanta mila colonnati da Napoli per la via di Civitavecchia. Giunsero scottati dai dragoni pontifici, e momentaneamente si riposero alia banca romana. Ma il pubblico se ne avvide; e siccome faceva ressa alla banca per il cambio dei biglietti in contanti, fu forza appagarlo col dar di piglio ai cinquanta mila colonnati del Torlonia.
Non ostante però questi pericoli, e queste più che contrarianti circostanze le quali protraendosi avrebber potuto compromettere seriamente la casa Torlonia, onorò essa fino all’ultimo momento tutte le credenziali, assistè e provvide di fondi tutti i suoi raccomandati, e non un solo ve ne fu che non ritrovasse in lei protezione e sostegno.
Partiron tutti contenti da Roma; e raggiunti i domestici focolari, furono abbondanti di ringraziamenti per la generósa ospitalità incontrata in momenti cotanto terribili. Ebber luogo le rivalse per tutti i pagamenti, molte ritornarono in protesto, e si dovetter perfino pagare i conti di ritorno.
Con tutto ciò, migliorando in progresso di tempo le cose in Europa, e rientrato l’ordine in Francia, tutte le case fallite si riebbero, e tutte rimborsarono capitale, spese e interessi. Tutti gli esteri che avevan sottoscritto obbligazioni, le onorarono puntualmente, in guisa che la casa Torlonla, oltre alla grata soddisfazione che accompagna le opere buone e generose, ricevette ringraziamenti da tutte le parti; e le proteste d’indelebile riconoscenza che ebbe in quella occasione, non furon contristate da perdita veruna i essendo rientrata esattamente ne’ suoi fondi.
Lo scopo di questa digressione è quello unicamente di far toccare con mano agl’inesperti di affari a quali tremendi pericoli sia esposta la società dalle rivoluzioni, che alcuni invocano come apportatrici di felicità.
Ritornando alla narrazione delle cose occorse, rammenteremo che l’animo del pontefice e dei Romani contristato pel sacrilego furto del busto di sant’Andrea in argento accaduto il 10 di marzo, venne allietato per il ritrovamento che se ne fece il primo di aprile, e per la scoperta del rapitore.
Venne informata la popolazione romana di questo grato avvenimento dal Cardinal vicario; ed a manifestazione di lieto animo ebbe luogo una generale illuminazione in città.
Il capitolo di san Pietro fece illuminare la facciata, i portici, e la cupola di quella basilica. Nelle chiese poi di san Pietro e di sant’Andrea della Valle fu cantato il Te Deum nel giorno seguente.2
Il giorno 5 poi trasportossi solennemente dalla chiesa di sant’Andrea della Valle a quella di san Pietro il busto del santo, mediante una processione imponentissima alla quale intervenne il Santo Padre a piedi accompagnato dal sacro collegio, dalla corte pontificia, dal clero e dalla civica, non mancando di prendere parte a questa sacra pompa anche i circoli. Nello stesso giorno si cantò il Te Deum in san Pietro e nella sera vi fu luminaria per la città.3
Se lo spettacolo che porse la processione a san Pietro fu tutto pio e religioso, e confacentesi all’indole dei Romani, non fu già tale quella di che ora diremo.
Ma prima di far ciò, dobbiamo premettere che i progressisti volevano convertire Roma santa e cattolica nella Roma di un giorno empia e pagana, raffigurandosela non più per quella grande reina del cattolicismo, adorna delle palme di tanti martiri suoi figli, insignita del prezioso dono delle chiavi di Pietro e della croce di Cristo; ma sì bene per quella truce guerriera figlia di Marte, che già fu una volta chiusa entro l’usbergo con in capo l’elmo e l’asta in pugno, simbolo di guerra, e terrore del mondo.
Vagheggiando idee così bellicose e profane fin da quando si annunziò in Roma che le donne genovesi avrebber mandato in dono alle romane due pezzi di artiglieria, si profuse così gran copia d’indirizzi e di poesie su ciò, che per parecchi giorni non d’altro che dei cannoni, e dei modi convenevoli a festeggiarne l’arrivo si parlava.4
Quest’arrivo tanto desiderato ebbe finalmente luogo il 2 aprile, venendo con gioia annunziato dai giornali.5 Giunti che furono da Civitavecchia scortati dalla guardia civica di quella città, vennero senza strepito riposti nel cortile di Belvedere. Ed il giorno seguente 3 di aprilè, si celebrò un solenne banchetto in onore dei deputati genovesi, e dei civici di Civitavecchia. Di cotal guisa mettendo a contatto con un convito festevole Romani, Genovesi, e Civitavecchiesi, si venivano a stringere vie maggiormente nodi di nazionalità e di fratellanza. Trascriviamo la descrizione del banchetto, estraendola dalla Pallade:
«Ieri 3 aprile nella bellissima cavallerizza coperta del principe Doria si tenne banchetto da circa 200 cittadini appartenenti ai diversi circoli e casini di Roma ai Genovesi deputati per la consegna dei cannoni, non che a tutti quei civici di Civitavecchia che li condussero in Roma. Grandi evviva a Genova, a Pio IX, a Carlo Alberto, all’Italia. Vi furono discorsi pronunziati dal Carenzi genovese, dal Meucci romano, e poesie del Guerrini e del Cagiati. Oggi il generale duca Massimo alle due pomeridiane convitava nella sua villa i deputati genovesi e tutti i civici già detti con buon numero di altri onorevoli personaggi romani.»6
I cannoni furon consegnati il giorno 9 in Campidoglio. Sentiamone però dalla stessa Pallade la descrizione.7
«I cannoni genovesi uscirono finalmente dalla loro prigionia. Ieri alle tre pomeridiane furono condotti alla piazza del Popolo, e di là al Campidoglio. Li seguivano in bell’ordine gli uffiziali dello stato maggiore, le bande militari, i soci dei circoli e casini di Roma preceduti dalle loro bandiere, e i battaglioni della guardia civica. Tutta la città era in moto e in festa. La magnifica bandiera donata in un coi cannoni dalle donne genovesi era portata da Ciceruacchio, il quale, giunto il corteggio al Campidoglio, salì a presentarla al senato, e la fece sventolare dalla loggia del palazzo fra le festose acclamazioni d’immensa moltitudine. Della consegna dei cannoni e della bandiera si fece atto pubblico, presenti i deputati genovesi, dopo di che furono ricondotti a Castel sant’Angelo.»
Quanto abbiamo narrato dice chiaro che ad onta delle ripugnanze papali, e dei pontificali divieti, voleva costituirsi una Roma bellicosa. Ma Roma bellicosa col papa in essa imperante sembrava a tutti gli uomini di senno una cosa non solo ridicola, ma ridicolamente mostruosa.
Toccando ora come di volo ( giacchè scriviamo la storia di Roma e non quella d’Italia) le imprese di Carlo Alberto e degli altri italiani suoi consoci, per isbandeggiar dal suolo italico gli Austriaci, imprese che quantunque tendenti ad uno scopo nobile e generoso qual è quello dell’italico riscatto, eran tuttavia rivoluzionarie e sovversive, perchè distruggitrici dei trattati esistenti; non possiamo a meno di non riportare due atti solenni emanati da due teste coronate lo stesso giorno, l’uno dei quali per accendere, l’altro per ispegnere la rivoluzione, sembrandoci entrambi ben meritevoli di ricordanza.
Il primo è il proclama che da Voghera emetteva Carlo Alberto il 29 di marzo, entrando in Lombardia. Eccone le parole:
«I doveri di re, gli obblighi che ci stringono ai sacri interessi d’Italia, c’impongono di portarci co’ miei figli nelle pianure Lombarde, ove stanno per decidersi i destini della patria italiana.
» L’esercito, nostra lunga cura ed amore, ci siegue; un gran numero di valorosi cittadini spontaneo è accorso a dividere con noi le fatiche della guerra ed i pericoli delle battaglie.
» Il nostro cuore esulta a sì solenne ed universale entusiasmo. Bello e glorioso per noi è l’esser duce di popoli generosi alla santa impresa iniziata dal sommo Pio.
» Alle milizie comunali del regno, all’affetto del popolo, commettiamo con piena fiducia la guardia della mia famiglia e la custodia dell’ordine pubblico, primo fondamento di ogni libertà.
» Fedeli Savoiardi, valorosi Liguri, alla vostra fede, al vostro onore, al poderoso vostro braccio affidiamo la difesa dei nostri confini e delle nostre spiaggie. Nel l’assenza dei vostri fratelli dell’esercito sarete pacati e dignitosi guardiani delle libere istituzioni e della integrità della patria.
» Dato dal nostro quartier generale in Voghera a dì 29 marzo 1848.
L’altro è il bando dell’autocrate russo che, per una strana coincidenza, porta la stessa data, e che dice come segue:
- «Noi per la grazia di Dio etc.
» Dichiariamo pubblicamente. Dopo lunga pace l’Europa occidentale è ad un tratto agitata da rivoluzioni che minacciano di rovesciare tutte le autorità legali e l’ordine pubblico. La rivoluzione scoppiata in Francia si comunicò tosto alla vicina Germania, ed il torrente distruttore si avanzò con una velocità eguale alle concessioni dei governi, e finì per cogliere gli stati austriaci e prussiani, nostri alleati, Oggi quell’audacia non conoscendo più limiti minaccia nel suo delirio la nostra Russia medesima da Dio a noi affidata. Ma così non sarà.
» Secondo l’esempio degli ortodossi nostri predecessori siamo pronti, invocando l’aiuto di Dio onnipotente, a combattere i nostri nemici da per tutto dove si presenteranno; e senza risparmio di sacrifici proteggeremo con inviolabile concordia colla nostra santa Russia l’onore dei nostri Russi, e l’inviolabilità delle nostre frontiere. Siamo convinti che ogni Russo obbedirà alla chiamata del suo imperatore. Che l’antico nostro motto «per la religione, il czar e la patria!» c’indicherà ancora la strada della vittoria; ed allora nel dì di rispettosa riconoscenza, come in oggi nel sentimento di una santa confidenza nel Signore, inalzeremo insieme il grido: «Dio è con noi.»
» Riconoscetelo, o voi pagani, questo vero «Dio è con noi.»
» Dato a S. Pietroburgo il 29 Marzo 1848.»
» Niccolò.»9
Ritornando ora alle cose lombarde diremo che in seguito della insurrezione di Milano e dell’ingresso dei Piemontesi in Lombardia, quella parte d’Italia trovossi posta in istato di guerra, nella quale volevano prender parte ancora i nostri.
Parlammo nel capitolo precedente degli armamenti e della partenza delle soldatesche pei confini dello stato pontificio, secondo la mente del papa; ma questa ch’era la mente di Pio IX, non era la mente dei generali preposti alla spedizione i quali eran partiti da Roma coll’intendimento non già di arrestarsi al confine, ma sì bene di marciare alla volta della Lombardia.
Non istaremo qui a ridire le particolarità che riguardano la partenza, il passaggio per le varie città e le ovazioni che ricevetter per via le truppe regolari e i volontari pontifici; chè i diari di quel tempo ne possono dare abbastanza contezza a chi fosse desideroso di consultameli.
Questo solo rammenteremo che il general Durando, giunto che fu in Bologna, emise il 5 di aprile un ordine del giorno il quale conteneva le seguenti espressioni:
«Il santo pontefice ha benedetto le vostre spade che unite a quelle di Carlo Alberto, devono concordi muovere all’esterminio de’ nemici di Dio e d’Italia.»10
Comprende ognuno che per nemici di Dio e d’Italia secondo il Durando volevansi indicare gli Austriaci. Il Santo Padre però, cui sopra ogni altro era sommamente cuore il tenersela con tutti, non poteva al certo approvare che un suo mandatario si facesse lecito un linguaggio sì compromettente, tanto più che ad esso non costava di aver mai benedetto nè spade, nè fucili, nè bandiere per servirsene ad esterminio di chi che sia.
Difatti, comechè non avesse del tutto le mani libere per far porre nella gazzetta cose che potessero dispiacere ai liberali, padroni in allora del campo, pur tuttavia ordinò e gli riuscì di fare inserire nella Gazzetta di Roma del 10 aprile alcune osservazioni le quali senza romperla apertamente col partito liberale, dicessero tanto da far comprendere ch’egli non divideva l’idee di chi in suo nome parlava. Ecco pertanto l’articolo di quel giornale:
«Un ordine del giorno di Bologna ai soldati, in data del 5 aprile, esprime idee e sentimenti come fossero dettati dalla bocca di Sua Santità. Il papa, quando vuol fare dichiarazioni di sentimenti, parla ex se, non mai per bocca di alcun subalterno.»11
Tale articolo produsse ùna qualche sensazione negli assennati; ma si era in così fatti tempi, che poco o nulla si ragionava, eie cose dell’indomani facevan subito dimenticare quelle dell’oggi. D’altra parte eran tali le notizie che divulgavansi per ingannare la gioventù e mantenerla in istato di eccitamento, che la disapprovazione del papa in poco o niun conto tenevasi.
A tal effetto registriamo i titoli di alcuni bollettini che in quei giorni divulgaronsi e che formarono la tempera elevata degli spiriti nei primi quindici giorni di aprile. Essi dicevano così:
«1.° La gran disfatta degli Austriaci sul Mincio. Duemila prigionieri con quattro pezzi di cannone. Gli Austriaci fuggono da tutte le parti. L’Austria è in pericolo.12
» 2.° I Tirolesi disertano a favore della causa italiana.13
» 3.° Avvenimenti d’Inghilterra. — Partenza della regina. In Inghilterra la crisi si avvicina. Londra sarà probabilmente il teatro di una terribile collisione.14
» 4.° Resa di Verona, e rivoluzione di Russia.15
» 5.° Rivoluzione in Russia e Boemia.16
» 6.° Battaglia vinta dagl’Italiani in Crema con tremila morti Austriaci.17
» 7.° Il re di Prussia dichiara la guerra alla Russia per proteggere i Polacchi.18
» 8.° La presa di Verona e di Peschiera. Milleduecento Croati fatti prigionieri in una imboscata dal general Zucchi.»19
Con questa sorta di bollettini che prendevansi in serio, e che avrebber riscaldato le teste più agghiacciate, poco era da sperarsi che si volesse por mente al valore delle disapprovazioni pontificie di un ordine del giorno emanato da un subalterno, quantunque il tuono severo delle medesime potesse e dovesse aprir gli occhi alle persone illuse.
Passando ora ad altro rileveremo che così grande era il numero degli avvenimenti che venivansi svolgendo, e delle disposizioni governative che attuavansi, che senza fermarci lungamente a parlarne, ci limiteremo a darne per ordine cronologico e sommariamente un cerino, corredandolo di qualche breve osservazione. Ciò si riferisce alla prima quindicina di aprile.
Ed incominciando dal giorno 3, accaddero alcuni disordini alle carceri nuove in seguito dell’essere stato insultato qualcuno dei civici. Accorso però sul luogo il direttore di polizia Galletti, e adottato qualche provvedimento, fu tutto sedato all’istante.20
Il giorno 4 il ministro Recchi emise una circolare contro l’uso delle mance. Provvedimenti inutili e ineseguibili in una città come Roma, dove tutto è mance e propine che tengon luogo di salario o mercede. Quando tali usanze sono sì largamente invalse e compenetrate nelle abitudini del paese, alle abolizioni violente succede il mal umore e il ridicolo, che ne svela l’impossibilità di esecuzione.21
Il 7 altra circolare fu divulgata dal medesimo sulla partenza dei civici e volontari.22
Il 9 ritornò in Roma da Napoli il famoso lord Minto.23
Il general Durando emise da Bologna il 10 altr’ordine del giorno.24
E lo stesso giorno il cardinale Vizzardelli venne sostituito al Cardinal Mezzofante nel ministero dell’istruzione pubblica.25 Monsignor Corboli Bussi partì per una missione nell’alta Italia.26
Inoltre vennero eletti nel giorno stesso il conte Francesco Lovatelli a prolegato della provincia di Ravenna, il conte Eduardo Fabbri di Cesena a prolegato di Urbino e Pesaro, il cavaliere Andrea Bonfigli di Osimo a delegato della provincia di Rieti, e monsignor Pasquale Badia a delegato della provincia di Frosinone.27
Il 15 aprile ebbe luogo la partenza di lord Minto il quale dopo aver parlato molto e concluso nulla, e fattosi notare per molti tratti di leggerezza puerile, se ne ritornò in Londra colle pive nel sacco, reduce da una missione bastarda perchè nè officiale nè officiosa, e che non segnò al certo una delle migliori pagine nella storia dell’Inghilterra.28
Nei primi quindici giorni di aprile occorsero pure altre cose che a noi sembrano meritevoli di ricordanza speciale, e fra queste, due ne scegliamo:
La 1.ª un movimento socialistico in Roma.
La 2.ª la crisi contro la banca romana.
Dopo che Roma era piombata in un mare di guai ed in un pelago senza fondo di disordini e confusioni, non altro mancavale che un saggio di socialismo; ed ancor questo le fu prodigato dalla rivoluzione.
Forse l’avvenimento di cui ora parleremo colpirà grandemente i nostri lettori sia per il vero significato che siamo a portata di dargli, poco conforme al certo colle idee che se ne formarono allorchè ebbe luogo, sia perchè ne conserveranno appena una languida o confusa memoria. E se diciamo confusa, ciò è per la ragione che si fece di tutto per alterar la verità dei fatti.
Egli è a sapersi in primo luogo che uno dei caratteri essenziali della rivoluzione francese del febbraio era il socialismo, secondo il quale una delle vagheggiate teorie era quella della organizzazione del lavoro, ossia del diritto al lavoro per parte degli operai e degli artieri proletari, a carico dei proprietari e dei ricchi.
Queste idee dissolventi della umana società e funeste nella loro applicazione più ai poveri stessi che si vorrebber proteggere, che ai ricchi che si vorrebbero colpire, erano sconosciute alla generalità, ma non tanto però da non aver già penetrato nelle masse ignoranti, e da non avervi fatto dei rari proseliti. Potremmo ancora citare un opuscolo dell’autore del quale vogliam tacere il nome per la vergogna, ma che ben può leggersi nella nostra raccolta, ove dicesi chiaramente che sulla metà di aprile 1848 l’autore ne diffuse per Roma un cinquecento copie. La lettura pertanto di quest’opuscolo perniciosissimo non può non aver fatto dei guasti nella nostra popolazione, non tanto forse corrotta, quanto ignorante di cose politiche.29
I tempi che correvano, lo sbalordimento degli animi, le idee bellicose sostituite alle regolari e pacifiche, non che le incertezze dell’avvenire, costituivano un periodo eccezionale ed altamente sfavorevole a quella classe utile e necessaria della società che sono i lavoranti e gli artieri, i quali dall’esercizio delle loro braccia e dal sudore delle lor fronti soltanto sperar possono sollievo e ristoro alle loro miserie.
Roma però la Dio mercè non si è mai trovata in condizioni tali da poter temere, come Londra e Parigi, una rivoluzione da parte dei lavoranti per mancanza di pane e lavoro; nè grazie alle sue innumerevoli benefiche istituzioni ed allo spirito caritatevole e generoso de’suoi abitanti, vi si troverà giammai.
Pur non ostante se ne volle dare un saggio artificiale in mancanza dello spontaneo, ed usufruttarne la odiosità ponendola a carico del partito che chiamavasi retrogrado o gesuitante, o austro-gesuitico, o dei neri, o degli oscurantisti, o dei Gregoriani, o dei sanfedisti, tutta gente (come dicevasi) nemica giurata del popolo. E si andò per fino strombettando che questi ne fossero stati gl’istigatori.
A schiarimento di queste necessarie premesse narre1 fatti che occorsero nei giorni 11 e 12 di aprile.
Il giorno 11 si osservarono, nelle ore pomeridiane soltanto, molti operai mancanti di lavoro assembrati nelle piazze di Monte Citorio, Colonna, e dei santi XII Apostoli, chiedendo lavoro. Non vi furono eccessi nè si ebbe a deplorare alcun disastro. Le persuasioni di persone influenti accorse sui luoghi, valsero a sciogliere gli assembramenti. Così il Labaro.30
Ricorderemo che il Labaro era in quel tempo un giornale liberale, e, quantunque compilato da giovani ecclesiastici, rappresentava il liberalismo moderato religioso, tutto in senso del primato del papa. Più tardi poi, prendendo le difese del papa contro la rivoluzione, divenne l’odio dei liberali, e chiamavasi per dileggio don Labaro.
Il 12 però queste radunate di gente si riprodussero in numero più assai grande, percorrendo le vie della città in tante bande di cento a centocinquanta individui. Una di queste recossi a Monte Citorio residenza di monsignor Morichini tesoriere generale, il quale, più per ispavento forse che per compassione fatti dar loro un quindici baiocchi a testa, li rimandò alle lor case.
Incolpevole, se vuolsi, per parte dell’esimio prelato, ma tristo esempio che avrebbe potuto riuscire agli altri fatale.
Altra di queste bande recossi a’ santi XII Apostoli, ed ottenne dal banchiere Valentini venticinque pezzi da cinque franchi.
Si corse quindi dal principe Torlonia, ed io, che mi trovava al suo fianco, posso raccontare per fatto-proprio come passaronsi le cose.
Come era ben da supporre si venne a richiedergli del danaro. Rimase sorpreso il principe a questa domanda, e, disapprovando il modo di esercitar pressura e violenza sui pacifici cittadini, richiese se fossevi in compagnia degli ammutinati il Ciceruacchio; rispostogli di sì, «che venga» soggiunse.
Venne difatti il Ciceruacchio accompagnato dal Materazzi, e parve disapprovare ancor esso l’accaduto; ma disse che per quella volta, trattandosi di comprar la quiete (stantechè gli ammutinati eran riuniti nelle vicinanze del suo palazzo), avrebbe potuto dar loro qualche soccorso pecuniario per rimandarli a casa. Il principe replicò che l’esempio era da riguardarsi come riprovevole e funesto, ma che non era esso che ne aveva preso l’iniziativa. Pur non ostante, e per quella volta soltanto, e purché la cosa non si adducesse in esempio, darebbe trenta scudi.
Il Ciceruacchio allora mostrandosi sdegnato contro gli ammutinati che eran riuniti nel cortile del possidente Senni, accanto al palazzo Valentini, invitò me ad assistere alla distribuzione del danaro, ed a sentire la predica che loro avrebbe fatta. Mi vi recai in sua compagnia, vidi distribuire un paolo o un paolo e mezzo a ciascuno di quei mascalzoni che saranno stati un centinaio circa, ma la predica ancora l’attendo. Essi per verità non li ritrovai affatto d’indole riottosa e manesca; l’aspetto loro era tutt’altro che truce, ed i lor sembianti parean piuttosto come di gente invitata a recitare la parte di scioperati per buscarsi qualche baiocco, lasciandosi guidare dai capi.
Dopo di ciò si licenziaron tutti per rendersi alle case loro, nè mai più si videro in seguito di queste farse socialistiche per ispaventare i pacifici abitanti colla minaccia di volere pane e lavoro.
Nacque però in molti fin d’allora il sospetto, che fosse tutto ciò come suol dirsi una parte accordata, e che la rivoluzione stessa ne fosse stata l’istigatrice, o per lo meno alcuni dei suoi settatori: si disse ch’ella volesse profittare della occasione per farsi bella e attribuirsi la parte graziosa, e intanto addossarne, al solito, al partito contrario la colpa e gli eccitamenti; e si divulgò perfino un foglietto per insinuarne il sospetto, dando alle cose una interpetrazione tutt’altro che colla verità consonante. Eccone il tenore:
«Il direttore di polizia, l’avvocato Galletti ha spiegato quest’oggi un’attività degna di ogni elogio. Secondato dalla guardia civica accorsa armata nei quartieri ha potuto sventare le trame di pochi facinorosi, gente tutta della infima classe della plebe, e per la maggior parte colpevole di furti e latrocini. Molti sono già in arresto: quasi tutti erano armati o di stili o di pistole.
» Quali fossero le loro perverse intenzioni, da qual mano segreta siano stati mossi, da qual parte sieno venuti i danari ch’essi avevano, conosceremo fra giorni. Noi speriamo che la polizia giungerà a scoprire il filo di questa trama infernale che domanda l’aiuto di gente venduta ad ogni delitto, e priva d’ogni pudore, per eccitare disordini.
» La città è tranquillissima, e il popolo esulta sicuro oramai di aver pace e.tranquillità. 31
Chiaro come la luce del giorno, secondo questo foglietto, appariva che i retrogradi organavano tutte queste infamie, e che i rivoluzionari avevano il merito di sventarle.
Anche il Labaro in un articolo di fondo si mostrava incerto se attribuir si dovesse quella mossa agli oscurantisti ovvero agli ultra-repubblicani.32
Il Contemporaneo però, ossia Sterbini, con meno esitazione pronunziò là sua sentenza nel modo seguente:33
«Gente maligna pagata dai nostri nemici (inutile il nominarli) ha profittato di questo stato di cose, si è introdotta fra gli operai e gli ha condotti per due giorni nelle piazze a chiedere denari sotto il pretesto di bisogno. . . . . Noi invitiamo la polizia e il governo a mostrare forza ed energia onde siano rispettate le proprietà pubbliche e private: ma nel tempo stesso è suo dovere di scoprire gli autori nascosti di simili trame infernali, e cacciarli onde purgare la società di simili mostri.»
Ma lasciamo le dicerie. dei giornalisti e andiamo alla verità dei fatti.
La rivoluzione finge di mostrarsi sdegnata contro i facinorosi, a parole, e a noi costa per fatti, che li vede, li conosce, li blandisce, e li paga. Tutte le apparenze quindi ci presentano una seconda edizione della famosa congiura deiranno 1847. Le apparenze, lo ripetiamo, sono che questa fosse un’impostura solennissima: perchè, se eran ladri e facinorosi quelli che chiedevano pane e lavoro, come ci dicono il foglietto ed il Contemporaneo, perchè farseli sfuggire dalle mani, allorchè come tante pecore erano appiattati, a porte semplicemente socchiuse, nel cortile di Senni, senza che piuno li guardasse? E se gli appiattati avesser saputo di essere in dolo, e che potevasi arrestarli da un momento all’altro, avrebber eglino permesso di farsi chiudere in gabbia? Povero popolo romano, come fosti giocato!
Molti difatti non capiron nulla; altri credettero veramente alle miserie e al bisogno; altri che fosser gente prezzolata e venduta all’austro-gesuitismo con intenzioni sinistre. Pochissimi videro le cose nel loro vero aspetto e qualifìcaron ciò, com’era, per una dimostrazione socialistica, organata con buona grazia, e data quasi per saggio ad intimorimento dei ricchi. Ciceruacchio per farsi valere qual salvatore di Roma, figurava sempre siccome il rappacificatore o il compositore dei flutti e delle tempeste ch’egli eccitava, simile in questo ad Eolo:
. . . . . . . . . Celsa sedet Eolus arce
Sceptra tenens, mollitque animos, et temperat iras. 34
Quei mascalzoni non eran nè armati, nè provvisti di danaro, nè, come ci dissero alcuni, di monete austriache. I repubblicani ebbero per vari mesi l’assoluto impero di Roma e gli archivi della polizia. Se le cose narrate avessero esistito, essi ebber tutto l’agio di metterle fuori e noi fecero.
Secondo dunque tutte le apparenze eran gente compra dai rivoluzionari stessi per recitar la parte, dicendo loro: » fate un po’ di baccano, lasciatevi regolare da noi, ma non trasmodate. Avrete qualche danaro, e poi sani e salvi ve ne andrete con Dio.»
Se fossero stati gente proterva, ripudi di galera, e maniglia di sanfedismo, con un Recchi ministro dell’interno, con un Farini sostituto, con un Galletti direttore di polizia e con un Ciceruacchio che te li aveva confinati nel fondo di un cortile, come non arrestarli, non dir loro nulla, e premiarli in vece prima di rimandarli a casa? E. aver dopo di ciò la sfrontatezza di venirci a dire ch’eran pagati dall’Austria e dal Cardinal Lambruschini! La critica, la sana ragione, e il semplice buon senso ripudiar devono non solo, ma sollevarsi contro queste indègnè manovre.
Dopo di allora non se ne parlò più affatto; ma questo possiamo aggiungere, che restaurato il governo pontificio, e venuto in sospetto che lo Sterbini stesso fosse stato l’istigatore di questi fatti colpevoli, fece istituire un regolare processo ch’esiste in cancelleria del tribunal criminale.
Su questo episodio vergognosissimo delle nostre storie potranno attingersi notizie nei giornali o nelle memorie storiche che a piè di pagina indichiamo.35
Passiamo ora a parlare della banca romana, delle sue origini, e della crisi che subì nell’anno 1848.
La banca romana venne istituita nell’anno 1834 ed i suoi primi statuti furono rogati in Parigi per il notaro Bonard e collega, con atto del 5 maggio del detto anno. I medesimi statuti riportaron l’approvazione dal papa Gregorio XVI il 25 di ottobre. La legale apertura della banca ebbe luogo il 5 novembre dello stesso anno.36
Detti statuti venner modificati e pubblicati in Roma sotto la data del 5 agosto 1835, e riportarono l’approvazione del Cardinal Lambruschini il 14 maggio 1836. In seguito e precisamente nell’anno 1838, la banca romana subì nuove modificazioni, come diremo in appresso.
Rappresentavano la banca nei primi tempi e sottoscrivevan gli atti:
Il Vice Governatore
Barone di Montriblond.
Il Segretario
Carrel de la Garde.
Spariti però i Francesi, divenne in appresso vera banca romana. Difatti il 14 agosto del 1838 venner pubblicati i nuovi statuti della banca firmati, in luogo del marchese Potenziani governatore assente, da Gioacchino Albertazzi vice governatore. I medesimi furono approvati dal Cardinal Lambruschini il 30 settembre del detto anno.
Il primo articolo degli statuti (titolo I) parla del capitale della banca, fissato a due milioni di scudi romani effettivi rappresentati da 1285 azioni.
Titolo II
Sulle operazioni della banca. — Vengono esse limitate alle operazioni di sconto o prestiti di danaro, esclusa qualunque altra intrapresa o operazione di banco, e ciò in virtù dell’articolo XVIII di questo titolo.
Titolo III
Sull’amministrazione della banca.
Sezione I
Del governatore e sotto governatore.
Sezione II
Consiglio di reggenza.
Sezione III
Comitato di sconto ossia di credito.
Sezione IV
Consiglio dei censori.
Titolo IV
Liquidazione.
Titolo V
Assemblea generale.
Titolo VI
Liquidazione.
Titolo VII
Disposizioni generali.
Articolo transitorio
Sulle riforme agli statuti.
Nell’anno 1842 voleva modificarsi di nuovo lo statuto, ma vi si oppose l’avvocato Giuseppe Vannutelli mediante una protesta che si consegnò alle stampe, e che porta la data del 18 marzo.
Lo statuto dunque rimase inalterato, quale venne stabilito nel 1838, fino all’epoca in cui incominciò la crisi contro la detta banca, ossia nel marzo del 1848.
Dobbiam premettere però che, senza interessarci se la banca facesse o no bene i suoi affari come scontista di effetti commerciali, se rispettasse o no religiosamente le disposizioni del suo statuto, egli è certo che prima ancora dell’anno 1848 aveva intrapreso operazioni di banco, forniva, al governo cambiali per Parigi onde saldare i frutti e le ammortizzazioni dei prestiti contratti con quella casa Rothschild, in società colla casa Torlonia, e teneva aperti conti correnti co’ suoi corrispondenti nelle varie piazze. Ma non si limitò a questo soltanto, che pure poteva esserle ammesso dall’assemblea generale, ma si allontanò ancor di più dallo spirito della sua istituzione, facendosi dirigere i forestieri con lettere di credito, precisamente come fanno gli altri banchieri, mentre ciò non si pratica affatto dalle altre banche, vogliam dire da quelle di Londra, di Parigi, e di Vienna; e sicuramente non si è mai sentito che un nostro Romano viaggiando all’estero, sia stato diretto alle banche di Parigi, di Vienna, e di Londra. Della qual cosa siamo stati noi stessi testimoni oculari, ma non potremmo produrre documento alcuno a giustificazione del nostro asserto. Il fatto nondimeno sussiste, i registri della banca son là per attestarlo, e ciò costituisce una infrazione chiara e lampante del titolo II dello statuto.
Dovendo ora parlare della crisi terribile che venne a funestare non solo la banca romana ma la città intera nel marzo del 1848, e della quale già demmo un cenno nel principio di questo medesimo capitolo, diremo che accaduta appena la rivoluzione di Francia (e sempre di là dobbiam prendere le mosse per raccontare i grandi sconcerti), si sparsero in chi aveva che perdere, oltre allo stupore, un timore ed una diffidenza grandissima.
Esagerati forse oltremodo cotali sentimenti in certuni, li portarono a desiderare di convertir subito in effettivo i biglietti della banca. Si disse in città che la spinta maggiore venisse data da un qualche banchiere il quale avesse mandato a cambiare in una volta tutti i biglietti che possedeva. Si diffuse la notizia come lampo, e si sparse l’allarme in tutte le classi.
Se ne vider subito gli effetti in un insolita affluenza di persone che collo stesso intendimento si recavano alla banca. Venivasi il concorso aumentando ogni giorno, finchè giunto il 10 di marzo e non ostante le guardie che a guarentigia del buon ordine vi si eran poste, la pressa incalzava di più, e le grida gli schiamazzi e le imprecazioni facevansi sentire a tal punto, che lo stato della banca stessa, e quello del commercio in generale, incominciarono a divenire seriamente allarmanti.
Aggiungasi che la sfiducia e l’allarme non manifestaronsi soltanto a carico della banca romana, ma come quelle malattie epidemiche che invadono tutto il corpo sociale, rivelavansi in tutte le gradazioni di esso; cosicchè gli allarmati non restringevansi a far ressa alla banca romana, ma molti recavansi a richiedere la restituzione dei loro depositi alle banche private. Noi non racconteremo che sommariamente ciò che accadde e di cui abbiam le prove nei documenti allora divulgati. Descrivere le circostanze tutte di tanta trepidazione e degl’inconvenienti che produsse, ci menerebbe tropp’oltre. Consultiamo dunque le memorie stampate che ci son rimaste.
Nella Pallade del 10 marzo leggevasi il seguente articolo:
«Cittadini, qual mai versiera è questa che vi ha spaventato come fanciulli? È forse la repubblica francese una befana da metter paura ai bamboli? Sareste voi tutti come quel timido banchiere che udita la fuga di Guizot, chiuse le casse, e non si fece trovare in casa neppure dal papà dei banchieri, dal gran Rothschild? Non è ritornato l’ordine in Parigi e in Francia tutta non appena i turaccioli delle bottiglie di sciampagna ebbero rovesciato la vecchia pera? Quei gagliardi del governo provvisorio non hanno gridato a piena gola — rassicuratevi; i vostri depositi sono intatti? E in fatti, permanenti ancora i feriti nelle vie di Parigi, Rothschild manteneva i suoi impegni col governo, la cassa pubblica scontava molti milioni di biglietti, e le operazioni bancarie proseguirono nella loro floridezza. Se la Francia sconvolta da capo affondo nella sua forma governativa non ha sofferto alterazioni commerciali, qual motivo ragionevole può svegliare l’allarme nella nostra capitale, ove tutto prospera a dispetto d’aquile, di gufi, di iene e d’altre specie di animalacci?
» Perchè dunque assalire così d’improvviso ed a plutoni la povera banca romana da spolparla d’un tratto di tutto il numerario, intisichirla, e minacciarla d’asfissia?» L’articolo si chiudeva così:
«Animo! La Sicilia è con noi, Metternioh piuttosto che venire avanti tornerà indietro. Carlo Alberto difende le porte d’Italia, e la repubblica gloriosamente trionfante di’là dall’Alpi dimanda gentilmente il permesso di soccorrerci quando non credessimo di bastare a noi stessi.»37
Nella sera del 10 marza che fu un giorno di massimo allarme, si volle tenere in casa del principe Torlonia un congresso di tutti i negozianti che costituivano la camera ed il tribunale di commercio, per porre mente ai mezzi conducenti allo scopo di rianimare la fiducia, e prevenire una rovina imminente nelle transazioni sociali. Si dissero in detta riunione molte cose, si proposero vari temperamenti e perfino quello di dovere sborsare ognuno mille scudi per aiutar la banca. Tutte cose facilissime a dirsi, difficilissime a realizzarsi: ma la conclusione fu pressochè nulla, e tutto si risolvette nel pubblicare un foglietto in istampa che diceva press’a poco così:
«I sottoscritti pieni di fiducia nella banca e desiderosi di sostenerla, dichiarano esser pronti per ora a ricevere in pagamento i suoi biglietti.
- » Roma 10 marzo 1848.»
La dichiarazione sovraccennata venne sottoscritta da cinquantanove individui fra i quali il principe Torlonia, Carlo Kolb, Daniele Beretta e compagni, Macbean e compagni, Plowden, Cholmeley e compagni, Righetti e compagni, duca Massimo, fratelli Cortesi etc.38
Altro foglio fu pure pubblicato lo stesso giorno che diceva come appresso:
Banca Romana.
«Un timor panico, irragionevole, e nocivo al commerciò si è propagato per la città dopo gli ultimi avvenimenti di Francia. Sembra che il nemico stia alle porte, o che sia vicina una rivoluzione generale, All’improvviso e senza motivo alcuno una folla straordinaria si è portata alla banca romana per cambiare in contanti i suoi biglietti. Questo stesso timor panico operando sugli animi deboli e irriflessivi ha fatto sì che molti in città ai rifiutano di cambiare quei biglietti, il che ha contribuito ad accrescere la diffidenza dei possessori di essi, e quindi un’affluenza sempre crescente alla banca. Questa si è veduta costretta di astenersi per ora dallo scontare le cambiali, sì perchè avrebbe potuto sospettarsi dal pubblico una emissione di nuovi biglietti fabbricati per la circostanza, sì perchè i traenti le cambiali sarebbero andati probabilmente il giorno dopo a cambiare i biglietti; e diminuendo così sempre più il denaro alla cassa della banca, questa si sarebbe trovata costretta a mancare ad una legge fondamentale dello statuto la quale stabilisce che vi debba essere in cassa sempre il terzo in denaro del valore dei biglietti emessi.
..................
«Se la crisi continua, se la smania di cambiare i biglietti si fa sempre più forte, la banca prenderà il tempo necessario per pagare, ma pagherà. Essa non ha niente a temere, l’attivo superando il passivo, e i suoi principali azionisti sono persone sulle quali non può cadere il menomo dubbio.
«Rospigliosi, Grazioli, Corsini, Borghese, Feoli, Doria, Cecchi, Costa, Rempicci, Pianciani, Polverosi, Antonelli, Torlonia sono nomi che bastano essi soli per riassicurare la pubblica opinione, e consolidare la fiducia nella banca romana.»39
La Gazzetta di Roma dell’11 pubblicò le seguenti parole:
«Da tre giorni, senza motivo, un timor panico ha invaso i portatori dei biglietti della banca romana. Quindi essi si recano in folla a scontarli. Tutti sono stati pagati.
» Del resto per calmare gli spiriti siamo autorizzati a pubblicare la seguente
SITUAZIONE
della banca romana al 10 marzo 1848 la mattina.
Attivo | |||
«Effetti in portafoglio | Sc. | 547,781. 90 6 | |
» Conti correnti garantiti e cassa. | » | 1,906,705. 87 3 | |
Sc. | 2,454,487. 77 9 | ||
Passivo | |||
» Depositi diversi | Sc. 1,393,125. 71 1 | ||
» Biglietti in cir- colazione |
» 548,070. | » | 1,941,195. 71 1 |
» Resta il Capitale della Banca in. . | Sc. | 513,292. 06 |
Visto per copia conforme
Pietro Principe Odescalchi Commissario.»40
Finalmente anche il casino dei commercianti intervenne ed emise lo stesso giorno 11 marzo un avviso al pubblico sottoscritto da Gioacchino Albertazzi presidente, Bartolomeo Galletti vice presidente, Luigi Sabatini segretario, col quale invitavansi i Romani a desistere dal timor panico che li aveva invasi, ed a ricevere con fiducia i biglietti della banca.41
Non ostante questi provvedimenti la folla continuò più o meno tutto il mese di marzo e la prima diecina di aprile, finchè le discussioni, gli studi, e i progetti proposti per distruggere questo stato anormale suggerirono a monsignor Morichini il temperamento di emettere l'11 di aprile una ordinanza ministeriale, il primo articolo della quale dice così:
«I biglietti della banca romana saranno ricevuti, dalla pubblicazione del presente decreto in poi e pel corso di tre mesi, come moneta legale, dalle pubbliche casse e dai particolari,»
Il 2° articolo dice: «Per lo spazio di tre mesi, dalla presente pubblicazione, la banca romana è dispensata dall’obbligo di pagare i suoi biglietti in contante.»
Col 3° articolo si restringeva a ottocentomila scudi la cifra dei biglietti che aveva il privilegio di emettere.
Col 4° si prescriveva alla banca» di limitare le sue operazioni esclusivamente al semplice sconto ed al pubblico servizio.»
L’articolo 7° poi portava quanto segue: «A maggior garanzia dei possessori dei biglietti, durante il tempo del loro corso come moneta legale, dovranno questi ad ogni richiesta dei possessori essere cambiati in boni del tesoro fruttiferi, ed ipotecati sopra beni stabili di stabilimenti ecclesiastici, con beneplacito apostolico espressamente a quest’oggetto assegnati, e rimborsabili a scadenze in contanti; in mancanza di pagamento alla scadenza, saranno soddisfatti colla vendita dei beni ipotecati, da eseguirsi immediatamente all’asta pubblica senza spesa alcuna.»
Su questo articolo torneremo a parlare nel capitolo seguente. Intanto diremo che mediante il temperamento adottato dal Morichini, la crisi venne man mano diminuendo d’intensità, e poscia coll’emissione dei boni del tesoro, a cessare quasi del tutto.42
La scossa però fu tremenda, e le restrizioni imposte alla banca finirono per paralizzare le operazioni commerciali, perchè i nogozianti non potendo più contare sul suo aiuto, trovaronsi costretti di reggersi co’ propri mezzi. Ciò non ostante, a lode del vero e ad onore della onestà dei Romani, diciamo che le accettazioni per la fine di marzo ad onta della crisi terribilissima che venne a colpire il commercio e la banca, e senza ricorrere, come volevasi da parecchi, ad alcuna proroga della scadenza delle cambiali, vennero rispettate dai negozianti romani. Noi non sappiamo quali sacrifici dovesser subire. Questo sì sappiamo, che le cambiali venner tutte pagate.
Proseguirono però le accuse e le recriminazioni contro la banca; e siccome il banchiere Valentini, come già dicemmo, erasi ritirato dagli affari appunto nel momento del massimo scompiglio, fu preso di mira dai sussurroni di allora, e venne accusato di essere stato una delle cause del timor panico che invase i cittadini romani. Accrebbe queste dicerie un articolo del fratello monsignore Giovan Domenico, inserito nel Contemporaneo e nella Pallade,43 col quale si diceva che esso, non facendo più parte della ditta di banco, era estraneo alle cause che avean provocato la crisi dei biglietti.
Rispose il 14 il fratello cavalier Gioacchino, dichiarando che il fratello monsignore non aveva capito abbastanza il subbietto di cui trattava. In pari tempo cercava di giustificare la sua condotta, protestando del suo attaccamento alle nuove istituzioni accordate dall’adorato sovrano l’immortale Pio IX, pronto sempre al suo dovere di secondarle, come subito concorse ancora alle sovvenzioni per gli artisti, pel mobilizzamento delle truppe ed altro.44
Quanto alle cause della diffidenza suscitatasi contro la banca ci sembra che, prescindendo dalla malevolenza in alcuni, le antipatie personali in altri, e la gelosia di mestiere, il pubblico romano fu in qualche modo scusabile.
Roma non è città di commercio. Le teorie sul credito vi eran poco o nulla conosciute. Si sapeva bensì che la banca era tenuta a conservare pel cambio dei biglietti un terzo in effettivo contante. Dunque ogni detentore dei medesimi era convinto che presentandosi tutti per realizzarli, non vi sarebbe stato l’equivalente; e siccome ognuno temeva di non giungere in tempo, e di farsi vincer la mano dai più solleciti ed insistenti, da qui nasceva quella smania irrefrenabile che non ascoltava ragione, e che portava a voler ciò che si voleva ad ogni costo.
D’altra parte a che serviva per certuni lo aver fiducia nella banca, se non ve ì’avevan gli altri? Si prendono di buon gtado i biglietti, quando si è sicuri che gli altri a posta loro te li prendano; ma se si sparge che si ricusano, basta questo perchè ognuno si difenda dal volerli. È questo appunto era il caso in quei tempi. Quanto alle conseguenzè dei rifiuti quantunque parziali in principio, esse divengono terribili. È una Catena di rifiuti che si vien formando, di cui non si vede il primo anello, e vedutolo ancora, poca monta. Il male è fatto, gli uomini temono e poco ragionano, e senza un atto di violenza (riprovevole sempre, ma in certi casi necessaria) non vi si pone riparo. Aggiungi poi che il popolo, memore sempre della demonetazione delle cedole, era avverso in genere alla carta, cosicchè i spargitori di diffidenze trovavano il terreno favorevolmente disposto per farle fruttificare.
Ma a tutte queste cause vuolsi aggiungerne anche un’altra e fu l’utopia, pedissequa delle idee francesi, di una pretesa banca nazionale. Plesso alcune teste leg-1 gere pertanto, atterrare la banca romana era il primo passo per aver la banca nazionale, di cui menavan tanto rumore i socialisti francesi, per sovvenire prima di tutto r agricoltura e quindi le industrie e i commerci.
Queste idee trovansi sparse in un giornaletto che allora divulga vasi, e che dobbiamo al solerte ingegno del cavalier Pietro Righetti giovane di molta spertezza nelle teorie commerciali, il quale distribuivalo in quel tempo gratuitamente a’ suoi amici. Nel detto giornale il Righetti erettosi in promotore della banca nazionale, veniva sviluppando le sue idee. Il suo progetto però venne più tardi; esaminato, discusso e rigettato.45
Del resto le banche di credito in genere ne’ tempi prosperi e tranquilli posson di molto giovare lo sviluppo della industria privata, e rendersi il sostegno sopratutto dei piccoli commerci, ma in tempi torbidi possono riuscire pericolosissime. Sono esse simili all’onestà delle donne, che un motto, un sospetto, una voce maligna, un nonnulla basta ad offuscare.
Noi abbiam dato sulla banca romana alcuni cenni incompleti: ma il diffondersi di soverchio sarebbe officio di economia politica e non della storia.
Ritorneremo però su questo argomento nell’anno 1849, ed intanto passeremo a raccontare le cose occorse nella seconda quindicina di aprile e che terminarono colla famosa allocuzione del Santo Padre del 29, giorno per questo titolo e per le conseguenze che ne dimanarono, d’incancellabile ricordanza.
Note
- ↑ Vedi il volume V Documenti, N. 9
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 3 Aprile 1848. — Vedi il V vol. Documenti, n. 2 e 3.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 6 Aprile 1848. — Vedi l’Album N. 8 — Vedi la Pallade del 6 Aprile. ’
- ↑ Vedi il capitolo V di questo II volume.
- ↑ Vedi l’Epoca n. 15 pag. 59 — la Pallade del 3 aprile — il V vol. Documenti n. 7, A e N. 10.
- ↑ Vedi la Pallade del 4 aprile 1848. — Vedi la relazione del banchetto nel V vol. Documenti, n. 10.
- ↑ Vedi la Pallade del 10 detto. — Vedi l’Epoca del 10, pag. 82
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 7 aprile 1848.
- ↑ Vedi il IV vol. dei Documenti, n. 130 — il Tempo di Napoli del 20 aprile 1848, pag. 191.
- ↑ Vedi vol. V, dei Documenti, n. 17.— Vedi l’intero ordine del giorno del generai Durando nel Sommario sotto il n. 19.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 10 aprile 1848.
- ↑ Vedi il V vol. Documenti, n. 16.
- ↑ Idem n. 19.
- ↑ Idem n. 21.
- ↑ Idem n. 25.
- ↑ Vedi il V vol. Documenti n. 28.
- ↑ Idem n. 29.
- ↑ Idem n. 31.
- ↑ Idem n. 51.
- ↑ Vedi il V vol. Documenti, n. 11. — Vedi l’Epoca pagina 67.
- ↑ Vedi il I vol. Motu-propri n 44. — L’Epoca pag. 74.
- ↑ Vedi il I vol. Motupropri n. 45.
- ↑ Vedi l’Epoca dell’11 aprile pag. 87.
- ↑ Vedi il V vol. Documenti, n. 42.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 10 aprile 1848.
- ↑ Vedi la detta Gazzetta idem, idem.
- ↑ Vedi la detta Gazzetta idem, idem.
- ↑ Vedi l’Epoca del 18 detto. — Vedi il Capitolo XX del I volume della nostra Storia.
- ↑ Vedi l’opuscolo di cui sopra nel vol. 8 Miscellanee n. 16.
- ↑ Vedi il Labaro del 12 aprile 1848.
- ↑ Vedi il V vol. Documenti, n. 50.
- ↑ Vedi il Labaro del 14 aprile 1848.
- ↑ Vedi il Contemporaneo del 13 aprile.
- ↑ Virgilio Eneide lib. I versi 36 e 87.
- ↑ Vedi il Contemporaneo pag, 169,173, e 176. — Vedi l’Epoca n. 22 e 24. — Vedi il Labaro del 12 e del 14 aprile 1848. — Vedi la Gazzetta di Roma del 14. — Vedi Farini vol. II pag. 68. — Vedi il V vol. Documenti n. 50 e 56. —
- ↑ Vedi il Diario di Roma dell’8. novembre 1834 n. 89.
- ↑ Vedi la Pallade del 10 marzo 1848.
- ↑ Vedi il IV vol. Documenti, n. 64.
- ↑ Vedi il IV volume Documenti, n. 65.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma dell’11 marzo 1818.
- ↑ Vedi il IV vol. Documeuti, n. 68.
- ↑ Vedi Gazzetta di Roma del 13 aprile — Motu-propri, n. 47 — Epoca n. 22.
- ↑ Vedi la Pallade del 12 aprile 1848.
- ↑ Vedi la Pallade del 15 aprile 1848, quarta pagina. — Vedi il Contemporaneo del 15 pag. 178.
- ↑ Vedi il detto giornaletto intitolato l’Interesse nazionale, in quarto, nella nostra raccolta.