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nale ed altamente sfavorevole a quella classe utile e necessaria della società che sono i lavoranti e gli artieri, i quali dall’esercizio delle loro braccia e dal sudore delle lor fronti soltanto sperar possono sollievo e ristoro alle loro miserie.

Roma però la Dio mercè non si è mai trovata in condizioni tali da poter temere, come Londra e Parigi, una rivoluzione da parte dei lavoranti per mancanza di pane e lavoro; nè grazie alle sue innumerevoli benefiche istituzioni ed allo spirito caritatevole e generoso de’suoi abitanti, vi si troverà giammai.

Pur non ostante se ne volle dare un saggio artificiale in mancanza dello spontaneo, ed usufruttarne la odiosità ponendola a carico del partito che chiamavasi retrogrado o gesuitante, o austro-gesuitico, o dei neri, o degli oscurantisti, o dei Gregoriani, o dei sanfedisti, tutta gente (come dicevasi) nemica giurata del popolo. E si andò per fino strombettando che questi ne fossero stati gl’istigatori.

A schiarimento di queste necessarie premesse narre1 fatti che occorsero nei giorni 11 e 12 di aprile.

Il giorno 11 si osservarono, nelle ore pomeridiane soltanto, molti operai mancanti di lavoro assembrati nelle piazze di Monte Citorio, Colonna, e dei santi XII Apostoli, chiedendo lavoro. Non vi furono eccessi nè si ebbe a deplorare alcun disastro. Le persuasioni di persone influenti accorse sui luoghi, valsero a sciogliere gli assembramenti. Così il Labaro.1

Ricorderemo che il Labaro era in quel tempo un giornale liberale, e, quantunque compilato da giovani ecclesiastici, rappresentava il liberalismo moderato religioso, tutto in senso del primato del papa. Più tardi poi, prendendo le difese del papa contro la rivoluzione, divenne l’odio dei liberali, e chiamavasi per dileggio don Labaro.


  1. Vedi il Labaro del 12 aprile 1848.