Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo I/Parte II/Capo II

Capo II – Poesia, Eloquenza, Storia ed Arti Liberali

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Capo II – Poesia, Eloquenza, Storia ed Arti Liberali
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Capo II.

Poesia, Eloquenza, Storia ed Arti liberali.


La Sicilia singolarmente fu abbondantissima di poeti. I. In questi ameni e dilettevoli studi i Siciliani singolarmente salirono a grande stima. Ebbe, è vero, la Magna Grecia ancora i suoi poeti; un Orfeo di Crotone1, a cui Suida attribuisce il poema che ancor ci rimane sopra gli Argonauti, che tra le opere supposte dell’antico celebre Orfeo si vede stampato (Fabric. Bibl. Graec. t. 1, p. 113); un Ibico di [p. 135 modifica]Reggio, di cui pure alcuni frammenti ci son rimasti (id. ib. p. 583); un Alessi di Turi, di cui dicesi che fino a 245 drammi scrivesse, e di cui Plutarco racconta che ne’ teatrali componimenti riportò vittoria sopra i suoi competitori, e che l’onore n’ebbe di solenne corona (id. ib. p. 536); ed altri somiglianti, de’ quali si posson vedere le biblioteche e gli scrittori più volte da noi citati “Alessi ebbe un figlio per nome Stefano, che fu egli pure scrittor di tragedie, secondo Suida. Ma ciò ch’è a lui più onorevole, si è che per detto dello stesso Suida, secondo l’edizion del Kustero, ei fu zio paterno di Menandro. Se dunque Alessi fu natío di Turi nella Magna Grecia, di Turi ancor fu natío il padre di Menandro, e quindi questa provincia può a ragione vantarsi di aver data, se non la nascita, almen l’origine a questo celebre comico greco. Fu anche un Senocrito da Locri, uno de’ più antichi scrittori di ditirambi (Fabric. Bibl. Graec. t.1, p. 199). E come le donne nella Magna Grecia appresero esse ancora assai presto a filosofare, secondo che nel Capo precedente si è accennato, così anche nella poesia vollero fin d’allora occuparsi: e ci è rimasta memoria di Teano da Locri (diversa da due filosofesse del medesimo nome, una moglie, l’altra figlia di Pittagora) che nella poesia melica e lirica esercitossi felicemente, e ch è perciò rammentata con lode nel suo Lessico da Suida, e da Eustazio ne’ suoi comenti sopra Omero (Iliad.l. 2); e di Nosside parimenti da Locri, di cui abbiamo alcuni epigrammi (Fabric. l. c. t.1, p. 588)„. Ma assai [p. 136 modifica]maggior numero di poeti e di oratori, e di merito assai maggiore, ci offre la Sicilia, come ora vedremo.


Ad essa deesi l’origine della pastoral poesia. II. E primieramente, per favellar de’ poeti, deesi alla Sicilia l’invenzione della pastoral poesia. Che sia questa la comune opinione de più rinomati scrittori, lo afferma ancora il celebre ab. Quadrio (Stor. e Rag. d’ogni poesia, t. 2, p. 595). Ma a questa comune opinione pensa egli di non doversi arrendere sì facilmente. I Persiani, egli dice, gli Arabi ed altri antichissimi popoli ebbero in pregio i cavalli e gli altri armenti; anzi de’ Numidi e de’ Persiani noi sappiamo che un cotal canto pastorale avevano, di cui nell’atto di condurre al pascolo i loro armenti solevano usare. Io non negherò già ciò che questo dottissimo scrittore afferma; ma non temerò ancora di dire che parmi che a questo luogo, e altrove ancora, ei non distingua abbastanza due cose; e quindi qualche genere di poesia faccia più antico di assai che non è veramente. Altra cosa è, per quanto a me ne pare, un qualunque canto che non consista in altro che in modulare a varie note la voce, e che colla gravità, coll’armonia, colla dolcezza, coll’impeto delle note medesime i varii affetti esprima, da cui taluno è compreso; altra cosa è un canto che alla modulazion della voce congiunga ancora il legamento delle parole, le quali a un determinato numero di sillabe e a una determinata quantità sieno necessariamente legate. Il primo sarà canto, eppur non sarà poesia; il qual nome al secondo genere di canto si dà solamente. Altrimenti, se [p. 137 modifica]non vi ha canto senza poesia, converrà dare il nome di poesia anche al Simbolo Niceno, e al Cantico che dicesi degli Angeli, e a que’ così mal tessuti mottetti che si odon pure cantare con sì amabile e varia armonia. Concederemo dunque all’ab. Quadrio che il canto pastorale fosse fin da’ più antichi tempi tra gli uomini usato; ma il negheremo della pastoral poesia, finchè egli più certo argomento non ne produca.


Chi ne fosse il primo inventore. III. Qualunque fosse l’origine di questo genere di poesia, di che diverse son le sentenze de’ diversi scrittori, pressochè tutti convengono, come di sopra accennammo, aver esso avuto cominciamento in Sicilia. Veggansi le Memorie dell’Accademia delle Iscrizioni (t. 5, p. 85), ove con molta autorità una tal gloria confermasi a’ Siciliani, e non della poesia solamente, ma de’ pastorali strumenti ancora, che il canto poetico accompagnano, si attribuisce lor l’invenzione. Vedesi ivi ancora (t. 6, p. 459) un’erudita dissertazione di m. Hardion, in cui diligentemente ricerca ciò che al pastor Dafni appartiene, il quale da molti per l’autorità di Diodoro Siculo ne vien creduto il primo autore. Ad altri nondimeno è sembrato che troppo sappia di favola ciò che intorno a Dafni ne racconta Diodoro, e vogliono anzi che Stesicoro fosse il primo ad usarne. Fu egli d’Imera in Sicilia. Vi ha chi il dice figliuol d’Esiodo. Osserva il Quadrio (t. 2, p. 49) che non par che ciò si convenga a’ tempi in cui questi due poeti fiorirono. Al contrario Enrico Dodwello (De Cyclis Graec. et Rom. Diss. 5, p. 230) [p. 138 modifica]sostiene, accordarsi ciò pienamente colla più esatta cronologia. Ma Suida chiaramente mostra (Lexic. ad. voc. Στησίχορος) quanto sia incerto chi egli avesse a padre, poichè fin a cinque egli ne nomina, de’ quali da diversi autori egli era detto figliuolo. Nacque, secondo lo stesso Suida, nell’Olimpiade xxxvii, e morì nella lvi. Altri gli assegnano diversa età; ma in sì gran lontananza di tempi e in sì grande scarsezza d’autori antichi, nulla si può affermar con certezza.


Notizie di Stesicoro e delle sue poesie. IV. Che egli scrivesse poesie pastorali, ne fa fede Eliano che nomina i Carmi Buccolici da lui composti (Varior l. 10, c. 18). Quindi non essendovi memoria di più antico autore che in tal genere di poesie si esercitasse, egli ne è creduto a ragione il primo inventore. Ma non fu sola la pastoral poesia ch’ei coltivasse. Ventisei libri di versi da lui scritti rammenta Suida (loc. cit.), e il diligente Fabricio i titoli e gli argomenti di molti tra essi dagli antichi autori ha raccolti (Bibl. Graec.) t. i, p. 596, ec.). La poesia lirica singolarmente fu da lui condotta a maggior perfezione. Egli fu il primo che in essa introdusse quella triplice divisione che strofe, antistrofe ed epodo si appella; e quindi queste tre parti venivano con proverbio greco chiamate le tre cose di Stesicoro, tria Stesichori, come osserva Suida (Lex. ad voc. Tria Stesichori); e quando volevasi denotare un uom rozzo e ignorante al sommo, dicevasi che nemmen sapeva egli le tre cose di Stesicoro. Da questo nuovo ordine nella lirica poesia introdotto a lui venne il nome di [p. 139 modifica]Stesicoro cioè di Fermatore del coro, mentre prima egli era chiamato Tisia, come Suida stesso e dopo lui il Quadrio affermano. In quanta stima egli fosse presso de’ suoi e de’ posteri tutti, chiaro argomento ne sono la bella statua che in Imera gli venne innalzata, di cui fa menzione Tullio (l. 2 in Verr. n. 35), il magnifico mausoleo che dicevasi, al riferir di Suida (lex. ad voc. Πάντα ὀκτώ), essergli stato eretto in Catania, formato di otto colonne, e sopra otto scaglioni innalzato; e le lodi che a lui vengono date dallo stesso Tullio, da Orazio (l. 4, od. 9) e da Quintiliano (l. 10, c. 10); ma singolarmente da Dionigi Alicarnasseo, il qual non teme di antiporlo ancora a Pindaro e a Simonide. Vide etiam, dic’egli (De Priscis Scriptor. Censura c. 2), Stesichorum in utriusque virtutibus eorum, quos enumeravimus (cioè Simonide e Pindaro), florentem, quin etiam iis quibus illi carent, praeditum, rerum, inquam, quas tractandas sumpsit, amplitudine, in quibus morum et dignitatis personarum rationem habuit.


Frequente menzione che di esse si fa nelle lettere attribuite a Falaride. V. Se le lettere che sotto il nome di Falaride sono state più volte stampate, si dovessero credere legittime e scritte veramente da questo celebre tiranno di Agrigento, sarebbero esse una nuova e gloriosa testimonianza del valor di Stesicoro. Molte ve ne ha tra esse che o scritte sono a Stesicoro, o di lui fanno menzione; e in tutte veggiamo in quanto grande stima lo avesse Falaride, benchè avesse in lui trovato un implacabil nemico e un invincibile ostacolo a’ tirannici suoi disegni. Ma troppo [p. 140 modifica]dubbiosa è la fede di tali lettere; e poichè questo è un punto che alla letteratura italiana propriamente appartiene, piacemi riferir qui alcuna cosa della controversia intorno ad esse sorta in Inghilterra verso la fine del passato secolo; tanto più che troppo rari essendo in Italia i libri per essa usciti, ed inoltre essendo essi per lo più scritti in lingua inglese, non è sì agevole l’averli, e il giudicarne.


Contesa tra gli eruditi sulle lettere stesse. VI. Erano già stati varii i pareri degli uomini eruditi intorno a queste lettere, che da alcuni riputate eran legittime, supposte da altri, di che puossi vedere Gianalberto Fabricio (Bibl. Graec. t. 1, p. 407). Ma l’anno 1695 una nuova edizione di queste lettere fece Carlo Boyle inglese in Oxford col testo greco a rincontro della traduzione latina, di cui fu fatta menzione negli Atti di Lipsia (1696, p. 101). Riccardo Bentley, a cui parve di essere stato nella prefazione del Boyle punto alquanto, scrisse una dissertazione in lingua inglese, in cui prese a mostrare supposte esser le lettere che sotto il nome di Falaride avea il Boyle pubblicate; la qual dissertazione venne a luce nel 1697 appiè della seconda edizione delle Osservazioni sulla letteratura degli Antichi e de’ Moderni di Enrico Worton. Se ne ha l’estratto nella Storia delle opere de’ Dotti di M. Basnage de Beauval (t. 14, p. 167). Replicò prontamente il Boyle al suo avversario nel 1698, e, come osserva Iacopo Bernard (Nouvell. de la Rép. des Lettres 1699, p. 658), non tenne misura alcuna, ma lasciossi trasportare alle ingiurie e a’ motteggi, e ad altre somiglianti maniere che ad [p. 141 modifica]uomini dotti troppo mal si convengono. Non tacque il Bentley, e l’anno 1699 fece una nuova edizione della prima sua dissertazione, ma più stesa di assai, per rispondere alle obbiezioni che fatte aveva il Boyle. Di questa dissertazione si posson vedere gli estratti negli Atti di Lipsia (Suppl. t. 4, p. 481), nelle Novelle della Repubblica delle lettere del Bernard (loc. cit. p. 659), e nella Biblioteca scelta di Giovanni le Clerc (t. 10, an. 1706, p. 81). Molti altri libri e tutti in inglese uscirono su questo argomento, i cui titoli dal Fabricio sono stati raccolti. (Bibl. Graec. t. 1, 408). Anche Enrico Dodwello ebbe parte a questa contesa. Pubblicò egli nel 1704 due latine dissertazioni, una sull’età di Falaride e l’altra sull’età di Pittagora, nelle quali benchè non prendesse a sostener direttamente la legittimità di tai lettere, prese nondimeno a sciogliere una delle principali difficoltà che contro di esse avea mosso il Bentley. Perciocchè avendo questi mostrato che non era Falaride vissuto in tempo a poter conoscer Pittagora, quando già era celebre pel suo sapere, avea quindi preteso esser supposte le lettere a Falaride attribuite, nelle quali ne ragiona sovente come d’uomo famoso già ed illustre. Ma il Dodwello sostiene non essere ciò punto inverisimile, e la cronologia della Vita di Pittagora e di Falaride ordina per tal maniera, che possono l’uno e l’altro essere lungamente vissuti al tempo medesimo. Oltre di che avea già il Dodwello dichiarato in certa maniera il parer suo, citando nella sua Opera de Veteribus Graecorum Romanorumque Cyclis [p. 142 modifica](Dissert. 5, p. 250) le lettere di Falaride senza accennar dubbio alcuno della lor supposizione. Di queste dissertazioni parlasi nel Giornale degli Eruditi di Parigi (an. 1706, p. 334). Dopo queste dissertazioni pare che di Falaride più non si parlasse. La contesa si volse alla cronologia della Vita di Pittagora, che non appartiene a questo luogo, e di cui altrove accennammo qualche cosa.


Si pruova che esse sono supposte. VII. Le ragioni dal Bentley arrecate a mostrare la supposizione di tali lettere riduconsi a quattro classi. Prende egli le prime dalla cronologia, mostrando, come dicemmo di sopra, che Pittagora non potè vivere a quel tempo a cui converrebbe che fosse vissuto, se vere fossero tali lettere; e che veggonsi in esse nominate le città di Phintia e di Alesa, che al tempo di Falaride non erano ancor fabbricate. Dalla lingua in cui le lettere sono scritte, prende il Bentley la seconda difficoltà: esse sono scritte nel dialetto attico, mentre nella Sicilia usavasi il dorico; e questo attico dialetto medesimo non è già l’antico, ma il moderno che a’ tempi di Falaride non era ancora in uso; e tre parole singolarmente vi s’incontrano, che sono di conio, per così dire, assai posteriore. Il terzo genere di difficoltà è preso da’ sentimenti e da’ pensieri che nelle lettere si veggono espressi, i quali certo non sembrano adatti a un tiranno. Il quarto finalmente dal silenzio degli antichi autori; poichè i soli da’ quali se ne faccia menzione, sono Stobeo, Suida, Tzetze, Fozio (il quale inoltre mostra (epist. 207) di non esser troppo persuaso della loro legittimità), [p. 143 modifica]Nonno ne’ Comenti su S. Gregorio Nazianzeno. e lo Scoliaste di Aristofane, scrittori tutti troppo recenti, perchè la loro autorità su questo punto debbasi avere in gran pregio. A tutte queste ragioni hanno controrisposto il Boyle e il Dodwello. E quai ragioni vi sono in fatti a cui non si possa rispondere? Si è ella veduta mai una letteraria contesa che dopo essere stata lungamente e caldamente agitata, abbia finalmente avuto termine col confessarsi da alcuna delle due parti l’errore in cui era stata? Il più leggiadro si è, che in tali controversie l’oggetto stesso talvolta fa negli occhi e nell’animo de’ diversi partiti impressioni al tutto diverse. Basta dare un’occhiata, dice il Boyle co’ suoi seguaci, alle lettere di Falaride per conoscer che’esse furono veramente da lui medesimo scritte. Convien essere, dice un d’essi (V. Biblioth. Britannique, t.12, p. 385), poco esperto nell’arte di dipingere per non considerar queste lettere come originali; vi si trova una sì gran libertà di pensare, sì grande ardire nella espressione, sì grande stima pel sapere e pel merito, sì fiero disprezzo de’ suoi nemici, sì gran cognizione del mondo, che tutti questi diversi sentimenti non potevano essere espressi che da lui che ne era veramente compreso. Al contrario il Bentley dice (V. Nouvell. de la Rep. des Lettres 1699, p. 664) che vi sono assurdità e inconvenienze tali che non possono venire che dalla penna di un sofista, e che egli è ben facile a vedere che esse non sono che una finzione di qualche declamatore. Così ad ognuno appaiono gli oggetti [p. 144 modifica]quali ei crede che debbano apparire. Io non ardisco decidere su tal contesa. Ma certo le lettere di Falaride a me si offrono in tal aspetto, ch’io non posso a meno di non dubitare assai della loro sincerità. Io non voglio negare, come altri ha fatto, che a’ tempi di Falaride fosse già introdotto l’uso di scriver lettere. Ma niuno, a mio parere, potrà provare giammai che ne fosse l’uso così frequente, come avrebbe dovuto essere se di Falaride fossero veramente le lettere a lui attribuite. Per ogni menoma cosa Falaride impugna la penna, e scrive. Sa che alcuno parla male di lui, ed egli gli scrive (ep. 2, 4, 9, 13, 14, ec.), e lo rimprovera e minaccia; scrive a un figlio, e lo esorta ad essere ubbidiente a’ suoi genitori (ep. 19, 20); scrive ad alcuni suoi privati nemici, solo per insultar loro col racconto de’ suoi felici successi (ep. 1, 85), e per maltrattarli colle più grossolane ingiurie (ep. 5, 123). Lettere di complimento, lettere di condoglienza, lettere di ragguaglio, ed altre somiglianti, s’incontrano ad ogni passo per tal maniera, che pare che Falaride, il quale pure altro doveva avere pel capo che scriver lettere, in altro quasi che in questo non si occupasse. Aggiungasi l’incostanza del carattere di Falaride, che in queste lettere or si fa vedere crudele, ora pietoso, or magnanimo, or vile. Aggiungasi per ultimo la maniera stessa di pensare e di scrivere, che a me sembra certo propria di un sofista che cerca di esprimere con ingegno qualunque sentimento gli si offre al pensiero, ma non mai di un tiranno, il quale scrive [p. 145 modifica]solo come il naturale affetto e l’impeto della passione gli detta. Tutte queste ragioni mi muovono a dubitare della sincerità di queste lettere; e poichè io veggo che molti valentuomini ne hanno essi pur dubitato, io stimo di non doverne in questa mia opera far uso alcuno. Ma tempo è di finire questa non breve digressione, e di far ritorno a’ siciliani poeti2.


Notizie di Teocrito. VIII. La pastoral poesia, come si è detto, ebbe probabilmente cominciamento in Sicilia. Ma quando ancora si volesse contenderle questo vanto, non si può certo a ragione negarle quello di aver questo genere di poesia a quella perfezione condotto, a cui mai tra i Greci arrivasse. Ognun vede ch’io parlo di Teocrito e di Mosco, amendue siracusani. Di questi due poeti hanno alcuni voluto formarne un solo, dicendo che Teocrito fu un soprannome per la dolcezza de’ suoi versi conceduto a Mosco. Ma il lor parere è confutato da Giannalberto Fabricio (Bibl. Graec. t.2, p. 429 e 444)- Fiorì Teocrito intorno all’olimp. cxxx, e a’tempi di Tolomeo Filadelfo re di Egitto, nella cui corte visse egli ancora per qualche tempo. Che egli per ordine di Gerone fosse o strozzato, o decapitato, ella è opinione di alcuni scrittori, ma [p. 146 modifica]che poco probabile è sembrata al Fabricio. Assai poche notizie intorno a questo poeta ci son pervenute; ma a noi basta che cj sian rimaste le pastorali poesie da lui composte, che a lui, e quindi alla sua patria furono e saran sempre di onore immortale, e per le quali egli è detto da Quintiliano uomo ammirabile nel suo genere (Instit. Orat.l. 10, c. 1). Io so che i pastori di Teocrito sono sembrati al Fontenelle (Réflex. sur la nature de l’Eclogue) or rozzi troppo e grossolani, or troppo acuti ed ingegnosi. Ma è da vedere la bella difesa che fa di Teocrito l’ab. Quadrio (t. 2, p. 605;. E certo, come questi riflette, ella è cosa strana che troppo fini e ricercati abbia il Fontenelle creduti i sentimenti di Teocrito; egli, dico, le cui egloghe non son certo il più compito modello di pastorale semplicità. Ma ancorchè altra maniera noi non avessimo a difender Teocrito, il Fontenelle ci permetterà, io spero, che il parer di Virgilio seguiamo anzi che il suo. Egli prese Teocrito a suo maestro e modello nella pastoral poesia, e per riguardo a Teocrito singolarmente le muse pastorali col nome di siciliane furon da lui chiamate. Se la copia preferir debbasi, o no, al suo originale, non entrerò io a disputare. Piacemi solo di riferire il confronto che di questi due poeti fa il P. Rapin (Réflex. sur la Poétique n. 27), benchè forse in qualche parte non interamente esatto: Théocrite est plus doux, plus naïf, plus délicat par le caractère de la langue grécque. Virgile est plus judicieux, plus exact, plus régulier, plus modeste par le caractère de son propre esprit [p. 147 modifica]et par le genie de la langue latine. Théocrite a plus de toutes ces graces qui font la beauté ordinarie de la poésie. Virgile a plus de bon sens, plus de force, plus de noblesse et plus de pudeur. Après tout, Théocrite est original, Virgile n’est souvent que copiste, quoiqu’il ait copié de certaines choses, quelles égalent leur modèle en des certains endroits. L’idea di questa mia Opera non mi permette di dare il catalogo di tutte le edizioni e di tutte le traduzioni che di questo illustre poeta si sono fatte. Si possono esse vedere presso il Fabricio, nella Biblioteca Siciliana del Mongitore, e nella Biblioteca de’ Volgarizzatori dell’Argelati. Aggiugnerò solamente, che una coltissima ed elegantissima traduzione in versi latini di alcuni idillii di Teocrito abbiam di fresco avuta dal p. Raimondo Cunich della Compagnia di Gesù, che ci fa sommamente desiderare di vedere da sì gentil penna fatti latini tutti gli altri componimenti di questo principe della pastoral poesia3.


E di Mosco. IX. Siracusano ancora fu Mosco, ma posterior di tempo a Teocrito, poichè visse e fiorì circa l’olimp. clvi a’ tempi di Tolomeo Filometere. Egli ancora nella poesia pastorale esercitossi con lode; nè io so per qual ragione lo [p. 148 modifica]abbiano gli Enciclopedisti (art. Syracuse, i édit.) chiamato poeta lirico. Il Fontenelle si mostra a lui più che a Teocrito favorevole. Ad altri ne pare altrimenti; nè io voglio entrar giudice in questa contesa. Di lui pure, e delle edizioni che de suoi versi si sono fatte, si posson vedere gli autori mentovati di sopra.


Se Bione ancora fosse siciliano. X. Il Mongitore nella sua Biblioteca Siciliana fa siracusano ancor Bione, che è il terzo tra’ poeti greci che nelle poesie pastorali si acquistarono fama. Egli da Suida veramente è detto smirneo, e tale il dicono comunemente gli scrittori tutti. Nondimeno il Mongitore insieme cogli altri scrittori siciliani sostiene ch’ei fosse siracusano. Il fondamento a cui egli si appoggia, si è un idillio di Mosco, fatto nella morte di questo illustre poeta. Egli è certo che in questo idillio Mosco invita a piangere le siciliane muse, e più cose egli dice, dalle quali chiaramente si scorge che in Sicilia visse e poetò Bione. Non si può nondimeno dallo stesso idillio provare ch’ei fosse siciliano di nascita, e potè forse aver per patria Smirne, e vivere lungamente in Sicilia, nella maniera appunto in cui Teocrito, benchè siciliano di patria, fece per alcun tempo sua dimora in Egitto. Da questo idillio frattanto noi raccogliamo l’età a cui visse Bione, perciocchè veggiamo ch’ei fu contemporaneo di Mosco.


Poemi di cose fisiche e naturali. XI. Tra’ Siciliani ancora ebbero origine i poemi che di cose fisiche e naturali prendono a trattare. Empedocle di Agrigento, già da noi nominato tra’ filosofi pittagorici, ne fu il primo autore. Abbiamo il poemetto astronomico sopra [p. 149 modifica]la Sfera, che dal Fabbricio fu ristampato e inserito nella sua Biblioteca Greca (t. 1, p. 478, ec.)’, ma egli stesso reca più argomenti, pe’ quali si dee dubitare se veramente quel poema sia di Empedocle. Questi però certamente tre libri in versi aveva scritti, intitolati de Natura, da più antichi autori rammentati, come mostra lo stesso Fabbricio (ib. p. 474)- E forse ancora fu egli fautore, secondo il parere di questo valent’uomo (ib. p. 469), di quegli Aurei Versi che sotto il nome di Pittagora sono impressi.


Poesie teatrali. XII. Nè minor lode nel coltivamento della teatral poesia si acquistarono i Siciliani. Io non voglio qui far menzione di tutti quelli tra loro che nel comporre tragedie e commedie si renderono illustri, quali furono Epicarmo, già da noi tra’ filosofi mentovato, che al dir di Orazio si fu il modello cui Plauto prese ad imitare (l. 2, ep. 1); Dinoloco di lui figliuolo, o secondo alcuni solamente discepolo, da altri detto Demoloco (Fabr. Bibl. Graec. t. 1, p. 674); Filemone il padre, seppur egli fu siracusano, come afferma Suida, e non anzi di Cilicia, come vuole Strabone (Geogr.l. 14); e l’altro Filemone di lui figliuolo (Fabr. ib. p. 779, 780); Apollodoro (id. ib. p. 745); Carcino (id. ib. p. 672 e 750); Sofrone (id. ib. p. 788), ed altri, tutti comici siciliani, de’ quali con molta lode veggiamo dagli antichi scrittori fin si menzione; e Empedocle, e Sosicle, e Acheo (id. ibid. p. 663, 676, 691) valenti tragici, secondo il testimonio de’ medesimi. Ristringerommi [p. 150 modifica]soltanto a dire di alcune cose appartenenti al teatro, che da’ Siciliani furono ritrovate4.


Epicarmo primo scrittor di commedie. XIII. Il sopra mentovato Epicarmo da Platone vien detto sommo nella commedia: Poëtarum in utroque poëmate summi, in comoedia Epicharmus, Homerus in tragoedia (in Theaeteto). Ma non è questa la maggior lode che ad Epicarmo si debba. Non solo egli fu eccellente nello scriver commedie, ma ne fu anche il primo autore. Ne abbiamo una indubitabil prova nell’epigramma di Teocrito, fatto in onor di questo poeta, in cui egli espressamente è chiamato Vir comoediam inveniens Epicharmus. Egli è vero che qualche più antico vestigio di commedia noi troviamo in alcuni scrittori. Ma, come osserva il Quadrio (t. 5, p. 10), benchè vi fosse qualche rozzo ed incolto genere di poesia che col nome appellavasi di commedia, Epicarmo però fu il primo che sul [p. 151 modifica]teatro introdusse gli attori e il favellare a dialogo, e quindi quella ch’è veramente azione drammatica della commedia. E questo è egli pure il parere di Aristotele e di Solino (Arist. Poët. c. 5; Solin. Polyhst. c. 11), che chiaramente dicono aver la commedia avuto cominciamento in Sicilia. Certo, come riflette il Quadrio sopraccitato, dopo l’ab. d’Aubignac, non si è ancor potuto trovare frammento di commedia drammatica più antico di que’ d’Epicarmo. Fu egli al tempo di Gerone il vecchio, che prese il dominio di Siracusa nell’olimp. lxxv. Vuolsi dunque correggere il Quadrio, quando afferma che Epicarmo fu più antico di Tespi autor primo della tragedia, poichè questi, come prova ad evidenza il Fabricio (Bibl. Graec. t.1, p. 600), cominciò a farne uso nell’olimp. lxi. Con più ragione, perchè appoggiato all’autorità di Suida, attribuisce il Quadrio a Formo o Formide, contemporaneo di Epicarmo, il vanto di avere il primo ornate di rosseggianti panni le scene, e introdotti sul teatro i personaggi in veste lunga e talare.


Origine de’ mimi. XIV. All’azion teatrale appartengono i mimi, cioè coloro che con gesti vivi e scherzevoli e al lor tema adattati accompagnano ed esprimono i lor sentimenti, burleschi per lo più ed a uom plebeo confacentisi. Or questi ancora, secondo Solino (loc. cit.), furono in Sicilia prima che altrove introdotti} e secondo il parer del Quadrio (t. 5, p. 182) se ne dee la lode a Sofrone siracusano, figliuol di Agatocle: perciocchè, dic’egli, benchè molti senza dubbio [p. 152 modifica]fiorissero scrittori de’ mimi avanti a lui, costui tuttavia non pure un amplissima gloria tra’ mimografi s’acquistò, ma passò ancor tra molti per inventor de’ medesimi. E nel vero sua invenzione è credibile che que’ mimi si fossero, i quali la vita quotidiana esprimevano delle persone. Così egli. Per ultimo la poesia burlesca di qualunque maniera pare, secondo il Fabbricio, che avesse cominciamento in Sicilia. (Bibl. Graec. t.1, p, 689), e che fosse da un cotal Rintone siracusano prima d’ogni altro usata. “E anche un de’ primi scrittori di elegie ebbe la Sicilia in Teognide da Megara, nato, secondo Suida, nell’olimpiade lix„.


L’eloquenza da’ Siciliani ridotta ad arte. XV. Ma l’eloquenza, forse più ancora che non la poesia, debbe alla Sicilia la sua origine e i suoi più ragguardevoli ornamenti. Non intendo già io di favellare qui di quella eloquenza per cui gli uomini ancorchè rozzi e volgari sanno i lor bisogni e le ragioni loro esporre, e la lor causa trattare valorosamente. Questa nacque cogli uomini, e le passioni e i bisogni la perfezionano. Parlo di quella che arte di eloquenza si dice, la quale sull’indole del cuore umano e sulla nostra esperienza medesima facendo attenta riflessione, quelle leggi e que’ precetti ne trae, che a persuadere parlando sembrano più opportuni. Or l’invenzion di quest’arte viene comunemente attribuita alla Sicilia. Noi non possiamo averne più autorevole testimonianza di quella che troviamo in Cicerone e in Aristotele, i quali a Corace e a Tisia siciliani l’attribuiscono. Usque a Corace, dice Tullio (De Orat.l. 2, n. 91), nescio quo et [p. 153 modifica]Tisia, quos illius artis inventores et principes fuisse constat. Ed altrove all’autorità appoggiandosi di Aristotele (Brut. n. 46): Itaque, ait Aristoteles, cum sublatis in Sicilia Tyrannis res privatae longo intervallo judiciis repeterentur, tum primum, quod esset acuta illa gens, et controversa natura, artem et praecepta siculos Coracem et Tisiam concepisse5. E noi veggiamo qui stabilito il tempo ancora in cui l’arte dell’eloquenza ebbe tra i Siciliani cominciamento, allor quando, tolti di mezzo i tiranni, ricuperarono i Siciliani la libertà. In fatti, riflette a questo luogo saggiamente il sig. de Burigny (Hist. de Sicil. t. 1, p. 7), in un Governo dispotico l’eloquenza di raro apre la via alla fortuna; ma ove il popolo decide di ogni cosa, chiunque sa toccarlo e persuaderlo, egli è pressochè certo di giungere a sommi onori. Ora il tempo in cui fu da’ Siciliani ricuperata la libertà, viene da Diodoro fissato all’anno quarto dell’olimp. lxxix (Diod. Bibliot. l. 11, p. 281), in cui tutte quasi le altre città seguiron l’esempio di Siracusa, la quale già da qualche anno aveala ripigliata; il qual anno cade nel 292 dalla fondazione di Roma, e 460 incirca innanzi all’era cristiana. Circa questo [p. 154 modifica]tempo dunque si vuole stabilir il cominciamento dell’arte dell’eloquenza6. [p. 155 modifica]
Corace e Tisia ne sono i primi maestri. XVI. Di Corace però appena altra notizia ci è rimasta. Non così di Tisia. Pausania ci dice ch’ei fu compagno di Gorgia nell’ambasciata agli Ateniesi, di cui or ora favelleremo; e un onorevole elogio ne forma, dicendo ch’egli nell’arte del favellare tutti superò gli oratori dell’età sua, di che fa chiaro argomento l’ingegnosa al certo e sottile, orazione che nella lite di una donna siracusana egli disse (Descr. Graec. l. 6, c. 18). Questa ambasciata viene da Diodoro raccontata all’anno secondo dell’olimpiade. lxxxviii. Di lui pure aggiugne Dionigi Alicarnasseo, che fu precettor d’Isocrate nato nell’olimp. lxxxvi (Judic. de Isocr.), il qual doveva perciò esser ancor giovinetto quando Tisia venne in Atene. Niun’altra cosa noi sappiamo di Tisia; ma non è ella certo picciola gloria questa di aver avuto a suo scolaro un sì famoso oratore, qual fu Isocrate. Ma non fu solo in questa maniera che l’Italia aprì scuola di eloquenza alla Grecia.


Notizie del retore Lisia. XVII. Lisia e Gorgia, siracusano il primo, leontino il secondo, assai maggior lode acquistaronsi in Grecia. Di Lisia dice Dionisio Alicarnasseo, che era di ventidue anni maggiore d’Isocrate (loc. cit.). Quindi egli dovette nascere circa l’olimp. lxxx, quando appunto cominciava nella Sicilia a fiorire lo studio dell’eloquenza. Cicerone lo dice ateniese (Brut. seu de Cl. Orat. n. 16), ma la più parte degli antichi autori lo fanno siracusano; e con ragione, poichè, come racconta Dionigi Alicarnasseo (Jud. de Lysia), siracusani erano i suoi genitori, benchè Cefalo di lui padre si trovasse [p. 156 modifica]in Atene quando egli vi nacque. Fu discepolo di Tisia e di Nicia siracusani essi pure, e in età di quindici anni venne a Turio nella Magna Grecia. Quindi in età di circa quarantasette esiliato da Turio, perchè creduto troppo favorevole agli Ateniesi, andò a stabilirsi in Atene, e fu involto con suo grande pericolo nelle turbolenze che sconvolsero allora quella repubblica. Poichè furon cessate, applicossi all’arte oratoria, e cominciando a spiegare alle occasioni la sua eloquenza, fu il primo che ne riscotesse ammirazione ed applauso. E in vero quanto valente oratore egli fosse, il possiamo raccogliere dal giudizio che ne fa Cicerone, il quale leggiadrissimo scrittore lo chiama (De Orat. l. 3, n. 7), dottissimo ed eloquentissimo, ed altrove lo dice scrittore ingegnoso ed elegante, e che quasi chiamar potrebbesi perfetto oratore (De Clar. Orat. n. 9). Ma niuna cosa meglio giova a farci conoscere il valore di Lisia, quanto il giudizio formatone da Dionigi Alicarnasseo che lui scelse per uno di que’ sei famosi oratori, di cui per ammaestramento altrui volle egli esaminare e descrivere il carattere e le virtù. Egli dunque di Lisia dice che nell’eloquenza del favellare oscurò la gloria degli oratori tutti che fui allora erano stati e che a que’ tempi vivevano, e che ad assai pochi di quelli che venner dopo fu inferiore. Quindi facendosi più addentro nel carattere di questo insigne oratore, ne loda sommamente la purezza dello stile, in cui dice che niuno de’ posteri il potè mai superare, e che Isocrate solo giunse ad imitarlo; la proprietà e la simplicità della [p. 157 modifica]espressione congiunta a tal nobiltà che le cose ancor più volgari sembrino grandi e sublimi; la chiarezza del dire, l'abbondanza de’ pensieri e de’ sentimenti, ma in poche parole ristretti, nel che a Demostene stesso lo antepone; l’evidenza delle descrizioni, con cui par che ogni cosa ponga sotto l’occhio degli uditori, e la renda loro presente; riflessione sul costume di coloro a cui si ragiona; forza nel persuadere; tutte in somma le virtù che in un perfetto orator si richieggono, e che sì di raro trovansi in un solo congiunte. Un sol difetto trova egli in Lisia, cioè che nel commovimento degli affetti suol esser languido e debole, ed abbassarsi nel perorare più che a grave oratore non si conviene. E questa fu la ragione per cui Socrate vicino ad esser condannato a morte usar non volle di un eloquente orazione che Lisia a difenderlo avea composta, perchè indegna gli parve della filosofica gravità e di quella costanza d’animo che avea fin allora serbata (Cic. l. 1 de Orat. Laërt. in Vit. Socr. Valer. Max.l. 8, c. 4). Ma nonostante questo difetto non lascerà Lisia di esser considerato come uno de più perfetti oratori che mai sorgessero, e che coll’esempio suo formando venne ed animando tanti famosi oratori quanti poi vantonne la Grecia. Veggasi ancor l’elogio che di Lisia ci ha lasciato Fozio (Bibl. n. 262), il quale aggiugne che essendo egli assai spesso venuto a contesa di eloquenza co’ suoi avversarii, due volte solo rimase vinto. Morì egli in Atene in età di circa ottant’anni nella centesima olimpiade, due anni [p. 158 modifica]dacchè era nato Demostene. Alcune orazioni da lui composte ancor ci rimangono; più altre ne sono perite. I titoli di queste e le diverse edizioni di quelle veder si possono presso il Fabricio (Bibl. Graec. t. 1, p. 892, ec.). Ma intorno a Lisia veggasi la Vita scrittane da Plutarco, e quella che con somma diligenza ed erudizione ne ha composta Giovanni Taylor, premessa alla bella edizione da lui fatta delle Orazioni di Lisia in Londra l’anno 1739.


E di Gorgia leontino. XVIII. Al medesimo tempo ugual gloria ed anche maggiore, benchè forse con minor merito, ottenne in Grecia un altro siciliano oratore, cioè Gorgia leontino. Andovvi egli, come di sopra accennammo, ambasciatore della sua patria agli Ateniesi per chieder loro soccorso contro de’ Siracusani l’anno secondo dell’olimpiade lxxxvii7, cioè alcuni anni prima del tempo in cui andovvi Lisia, il quale, secondo che di sopra fu detto, dovette trasferirvisi verso l’olimpiade xcii. Quindi è che a Gorgia si attribuisce comunemente la lode di aver il primo condotta l’eloquenza a una perfezione a cui non era per anco arrivata. Il primo saggio ch’ei diede di sua eloquenza, fu il felice esito della [p. 159 modifica]sua ambasciata. Gli Ateniesi furon persuasi e mossi dal siciliano oratore, e contro de’ Siracusani presero le armi. Ma gli applausi degli Ateniesi dimenticar fecero a Gorgia la sua patria; perciocchè, comunque Diodoro dica che compita la sua ambasciata fece alla patria ritorno, convien dire però che dopo non molto lunga dimora di nuovo si rendesse ad Atene, ove è certo che aprì e tenne lungamente scuola di eloquenza. L’onore da lui al primo entrarvi acquistato, non che scemare, come spesso accade, andò sempre aumentandosi. Appena sapevasi in Atene che Gorgia dovea favellare in pubblico, si accorreva in folla ad udirlo, nè altrimenti era considerato che come il dio della eloquenza.


Elogi che ne fanno gli antichi scrittori. XIX. Ma è a vedere più particolarmente con qual lode di Gorgia parlano gli antichi greci scrittori, da’ quali ancora vedremo di qual genere d’eloquenza egli si compiacesse, cioè di un colto e ornato stile, pieno di figure, di grazie, di vezzi d’ogni maniera, per cui ancora venne egli da molti tacciato, come vedremo. Diodoro Siculo dunque così di lui dice (l. 12, p. 513, ec. edit. Amstel. 1745): Gorgia nell’arte del ragionare superò i più eloquenti uomini dell'età sua. Trovò egli il primo parecchi artificii oratorii, e nello studio e nella professione di una sublime eloquenza così sopra gli altri si rendè celebre e chiaro, che a mercede delle sue lezioni cento mine ei riceveva da ciascheduno de’ suoi discepoli (corrispondono a un dipresso a mille scudi romani). Egli entrato in Atene. e ottenuta udienza dal [p. 160 modifica]popolo, colla nuova sua e non più usata maniera di favellare, commosse per tal modo gli animi degli Ateniesi, uomini per altro ingegnosi e studiosi dell’eloquenza, che da stupore e da maraviglia rimaser compresi. Perciocchè egli il primo figure e antitesi e consonanze e armonie e vezzi nuovi introdusse; le quali cose erano allora per la novità ammirate, ma ora sembrano ricercate di troppo, e quando sieno soverchiamente usate, risvegliano anzi le risa, e generan noia. Aggiungasi l’elogio che dello stesso Gorgia ci ha lasciato Filostrato. A Gorgia, dice egli (De Vitis Sophist.l. 1), io penso che come ad inventore di essa attribuire si debba l’arte de’ Sofisti, perciocchè egli fu che introdusse l’ornamento nel ragionare, e una nuova maniera di favellare maravigliosa e vivace, magnifica e figurata. Usava ancora sovente, ad eleganza e a gravità maggiore, di poetiche locuzioni. In qual maniera con somma facilità parlasse egli anche d’improvviso, sul principio di questo trattato si è detto (cioè che Gorgia, come altri ancora raccontano, pronto si offeriva a ragionare sul punto di qualunque argomento gli si proponesse). Quindi non è a stupire ch’egli fosse udito con maraviglia, quando già vecchio insegnava la rettorica in Atene. Egli certo teneva dal suo ragionare pendenti e sospesi i più dotti uomini de’ suoi tempi, Critia ed Alcibiade allor giovani, e Tucidide e Pericle già in età avanzati. Un somigliante elogio fa di lui Pausania (Descript. Graec.l. 6, c. 18), ch’io per brevità tralascio. Dionigi Alicarnasseo finalmente, benchè il soverchio uso delle figure e [p. 161 modifica]l’eccessivo ornamento riprenda in Gorgia, ne parla nondimeno sovente come di grande e maraviglioso oratore, il chiama uomo per sapere celebratissimo in Grecia, e maestro d’Isocrate (Judic. de Isocr.); e parlando di Demostene, dice (De admir. vi dicendi in Demost.) ch’egli da Tucidide e da Gorgia apprese la magnificenza, la gravità, lo splendore del favellare.


Onori da lui ottenuti. XX. Tal fama in somma erasi acquistata Gorgia presso gli antichi Greci che, come narra Filostrato (epist. 13), erasi da essi formata la parola γοργιάξειν, o, come diremmo noi, gorgiare, a dinotare coloro che profession facevano di eloquenza. I Leontini conoscendo qual onore avesse Gorgia alla lor patria recato, una medaglia coniarono a onorarne la memoria e il nome, nel cui rovescio vedesi il capo di Apolline. Ella è stata pubblicata nel secondo tomo del Museo Britannico. Un altro ancora più onorevole monumento fu a Gorgia innalzato mentre tuttor vivea; cioè una statua d’oro nel tempio d’Apolline Pitio in Delfo. Questa da tutta la numerosissima adunanza che udita aveva l’orazione da lui pronunziata in occasione de’ solenni giuochi che vi si soleano celebrare, gli fu con universal consentimento decretata: così ne assicurano Cicerone (l. 3 de Orat. n. 154), Valerio Massimo (l. 8, c. 15), Filostrato (Vit. Sophist. l. 1), e Platone (in Gorgia), che certo non fu adulatore di Gorgia, come or ora vedremo. Quindi non dee credersi a Plinio che asserì (Hist. Nat. l. 33, c. 4) averla Gorgia, consentendolo il popolo, a se medesimo innalzata. Pausania dice (Descript. Graec. l. 10, c. 18) [p. 162 modifica]che dorata solamente fu questa statua, tutti gli altri autori sopraccitati affermano che ella fu tutta d’oro. Basti qui recare il testimonio di Cicerone: Cui (Gorgiae) tantus honos habitus est a Graecia, soli ut ex omnibus Delphis non inaurata statua, sed aurea statueretur. Il qual singolare ed unico onore conceduto a Gorgia è argomento chiarissimo di unico e singolar merito in lui dalla Grecia tutta riconosciuto.


Per qual motivo Platone sembri parlarne con biasimo. XXI. Non vuolsi però a questo luogo dissimulare che Platone non parlò di Gorgia in maniera vantaggiosa molto e onorevole; anzi pare che il Dialogo a cui egli da Gorgia stesso diede il nome, fosse da lui scritto e divulgato per mettere in derisione un sì valente oratore. Sul qual Dialogo bellissima è la riflessione di Cicerone. Io l’ho letto attentatamente, dice egli (l. 1 de Orat. n. 89), e in esso parmi singolarmente degno di maraviglia che mentre Platone si ride degli oratori, mostrasi egli stesso un orator facondissimo. Ma facil cosa è ad intendere per qual ragione si conducesse egli a scriver di Gorgia così. Aveva Gorgia, come si è detto, uno stile gaio al sommo e fiorito e pieno di vezzi; e cogl’ingegnosi riscontri e con altre somiglianti figure, di cui piacevasi, congiunte alla grazia del favellare, pareva capace di persuadere al popolo qualunque cosa più gli piacesse, e condurlo ancora a dannose ed ingiuste risoluzioni. Quindi il severo Platone attento ad allontanare dalla Repubblica ogni pericolo di rovina, giudicò di dovere screditare e deridere un’eloquenza ch’ei temeva che [p. 163 modifica]potesse un giorno riuscirle funesta e dannosa. A questa ragione non potremmo noi forse aggiugnerne un’altra ancora, e non ci sarebbe egli lecito di sospettare che anche il divino Platone non fosse del tutto esente da gelosia e da invidia, e che veggendo forse la scuola di Gorgia più che la sua frequentata (poichè a qualche tempo vissero insieme), ne fosse alquanto dolente, e che cercasse così di porre in qualche discredito il suo rivale? Certo che di tali debolezze in que’ famosi antichi filosofi noi veggiamo non rari esempii. Ma ciò non ostante Platone medesimo favellò altrove di Gorgia non senza lode: Venne allora, dic’egli (in Hippia majore), quel Gorgia leontino Sofista mandato con pubblica ambasciata da’ suoi, come il più opportuno a trattar gli affari che a quel tempo correvano. Fu giudicato dal popolo buon parlatore; e privatamente ancora diè saggio del suo valore nel declamare, e ammaestrando i giovani non poco denaro di questa città ei raccolse. Intorno al sentimento di Platone per riguardo a Gorgia si può vedere ciò che diffusamente ed eruditamente ne dice m. Gibert nel suo Giudizio de’ Dotti che han trattato della rettorica, che forma l'ottavo tomo del Giudizio de’ Dotti di m. Baillet dell’edizione di Amsterdam. Ma qualunque fosse il sentimento di Platone intorno a Gorgia, egli è certo ch’ei fu allora e poscia considerato come uno de’ primi padri e maestri dell’eloquenza. Ed ella è certamente cosa d’immortal lode all’Italia, che i tre valenti oratori de’ quali abbiam finora parlato, sieno stati quelli che alla Grecia [p. 164 modifica]han recato il buon gusto dell’eloquenza, e su’ cui esempii e precetti si son formati un Isocrate, un Demostene, e tanti altri famosi oratori che negli anni seguenti fiorirono in Grecia.


Sua morte e sue opere. XXII. Assai lunga vita ebbe Gorgia. Cicerone gli dà 107 anni (De Senect.), uno di più gliene aggiugne Filostrato (Vit. Sophist.l. 1), e un altro ancora di più Quintiliano (l. 3, c. 1). Di lui ci rimangono solamente l’encomio di Elena e l’Apologia di Palamede. Vi ha chi pensa che egli più che Isocrate avesse parte al famoso Panegirico che a questo si attribuisce. Ma forse altro fondamento non vi ha a dubitarne, che la probabilità che Isocrate si valesse a comporlo del consiglio e dell’aiuto di Gorgia suo maestro.


L’eloquenza decade presto in Sicilia, e per qual ragione. XXIII. L’esempio di questi celebri oratori pareva che risvegliar dovesse gli animi de’ Siciliani allo studio dell’eloquenza, e chiamar molti a seguitarne le tracce. Ma le funeste guerre che allor desolavano la Sicilia, lo sconvolgimento in cui essa era per l’usurpazion de’ Tiranni, e finalmente il divenir soggetta alla romana repubblica, interruppe e troncò affatto il corso alle bell'arti, che in Sicilia sarebbon certo fiorite mirabilmente, e i Greci soli furono quelli che dell’eloquenza de’ Siciliani profittarono. Così pare che fosse fin da quel tempo il destino infelice della nostra Italia, che l’ingegno e il sapere de’ suoi più agli stranieri giovasse che a lei medesima, e che altri popoli, dopo avere dagl Italiani apprese le scienze, dimenticassero ed insultassero ancora i lor maestri8. [p. 165 modifica]
Storici antichi della Sicilia XXIV. Rimane ancora a dir qualche cosa degli storici che l’antica Sicilia produsse. Basta leggere Diodoro Siculo per vedere quanti essi fossero, e per comprendere quanto danno ci abbia recato la perdita che di essi abbiam fatta. Noi vi veggiam nominato un Antioco siracusano (l. 12, p. 322), cui egli chiama scrittor nobile delle cose siciliane; un Atana pur siracusano (l. 15, p. 507), che tredici volumi di storia avea scritti; un Ermea metimneo (ib. p. 476), e Callia siracusano9; e Antandro fratel di Agatocle (Eclog. ex l. 21), ed altri molti. “Anche la geografia ebbe un Cleone siciliano, che talvolta vedesi nominato ne’ minori geografi greci pubblicati dall’Hudson (vol. 1 in Marcian. p. 63. vol. 2 in Scymn. p. 7) „. Quelli però tra gli storici siciliani che salirono [p. 166 modifica]a maggior fama, furono Filisto siracusano, Timeo di Taormina, e Diodoro. Del primo parlano con lode Cicerone e Dionigi d’Alicarnasso; benchè quest'ultimo di alcuni difetti il riprenda. Piacemi di recar qui il giudizio di questo valentuomo, uno certamente de più dotti scrittori dell’antichità: Filisto, dice egli (Epist. ad Pomp. de praecip. historicis), pare che più si accosti a Tucidide, e che ad esempio di lui abbia preso ad ornare il suo stile ... Ma non è già ottimo l’ordine con cui egli scrisse la Storia; anzi essa è oscura, e non leggesi senza difficoltà maggiore assai che non Tucidide. Quindi, notati in lui alcuni difetti, conchiude: Per altro nel descrivere le battaglie egli è miglior di Tucidide. Di Timeo diversi sono i pareri degli antichi scrittori, de’ quali chi molto il loda, che il biasima. Convien dunque dire che a molte virtù uniti ancora avesse molti difetti. Deesi però attribuirgli a gran lode ch’egli il primo introducesse nella storia l’uso delle olimpiadi, il quale ad accertare le epoche arreca maraviglioso vantaggio. Quindi di lui dice a ragione Diodoro (l. 5 sub init.): Timaeus in temporum notatione exquisitam adhibuit diligentiam10. [p. 167 modifica]
Notizie di Diodoro. XXV, Le opere di tutti questi scrittori sono infelicemente perite. Diodoro è il solo che ci rimanga, e l’ultimo tra gli storici siciliani antichi, perchè vivuto al tempo di Cesare. Perciocchè quanto a Temistogene, a cui m. de Burigny vorrebbe attribuire (Hist. de Sicil. t.1, p. 25) la Ritirata de’ diecimila, che trovasi tra le opere di Senofonte, ella non è cosa nè certa nè abbastanza probabile ch’ei ne sia autore; e nella raccolta di opuscoli intitolata Variétés Littéraires leggesi (t. 4, p. 400) una bella dissertazione sul carattere e sull’opere di Senofonte, in cui si prova che anche di quell’opera egli è l’autore. Or quanto a Diodoro, quaranta erano i libri di Storia ch’egli avea scritti in lingua greca, e in uno stile elegante e colto ad un tempo e semplice e chiaro, come dice Fozio (Bibl. n. 70), ma a grande nostro danno quindici soli ce ne sono rimasti. Egli è vero che nella Storia greca e più ancora nella romana egli ha commessi non pochi nè leggeri errori. Ma in ciò che alla sua patria appartiene, non lascia egli di esser tenuto in conto di accurato e colto scrittore. E così certo doveva essere; perciocchè nella prefazione alla sua Storia egli racconta di avere a bella posta viaggiato per gran parte dell’Asia e [p. 168 modifica]dell’Europa e nell’Egitto ancora per iscrivere con fondamento le cose che toccar doveva nella sua Storia; e leggendo questa si vede quanti autori avesse egli avuti tra le mani, e diligentemente esaminati. Quindi a ragione dice il Fabricio (Bibl. Graec. t.2, p. 772) pochi scrittori avervi, da’ quali sì gran luce a fissar l’ordin de’ tempi e la serie degli avvenimenti si possa trarre, quanta da Diodoro, benchè la minor parte solo della sua opera sia a noi pervenuta.


Mitologia illustrata da Evemero XXVI. La mitologia per ultimo o sia la storia delle favolose divinità fu da’ Siciliani illustrata, ed Evemero di Messina forse prima di ogni altro ne scrisse un libro che poi fu da Ennio recato in latino. Ne abbiamo un certo testimonio in Lattanzio. Evemero, egli dice (De fals. Relig. l. 1, c. 11), autore antico, che per patria ebbe Messina, raccolse le cose operate da Giove e dagli altri che son creduti dei, da’ titoli e dalle iscrizioni sacre che ne’ più antichi tempii trovavansi, e ne formò una Storia, usando singolarmente del tempio di Giove Trifilio, ove l’iscrizione indicava da Giove medesimo essere stata inalzata una colonna doro, in cui le imprese sue aveva egli stesso descritte, perchè memoria a’ posteri ne rimanesse. Questa Storia fu da Ennio tradotta e continuata, ec. Così Lattanzio, il quale poscia alcuni passi allega di tale storia. Io so che altri altra patria danno ad Evemero, ma penso che in tanta lontananza di tempi ogni opinione abbia la stessa forza11. [p. 169 modifica]
Arti liberali coltivate da’ Siciliani. XXVII. Ciò che degli studi de1 Siciliani e de’ popoli della Grecia Grande detto abbiamo finora, basta certamente a farci conoscere quanto colti essi fossero, e in ogni genere di scienza e di letteratura versati, e quanto da questi abitatori d’Italia prendesser que’ Greci, i quali per altro si davano il vanto di essere stati di quasi tutte le scienze e le arti inventori e maestri. Ma ad assicurare sempre più un tale onore alla nostra Italia, vuolsi aggiugnere alcuna cosa intorno alle arti liberali, cioè alla scultura, all’architettura e alla pittura, e mostrare quanto in esse ancora fossero questi popoli eccellenti.


Medaglie coniate in Sicilia. XXVIII. E primieramente le medaglie coniate in Sicilia e nella Magna Grecia ci sono un chiaro argomento a conoscere che fin da’ tempi più antichi, e prima ancora che in Grecia, furono ivi queste arti conosciute e coltivate felicemente. Veggasi la Sicilia Numismatica del Paruta, l’opera sullo stesso argomento del principe di Torremuzza, la Raccolta di Medaglie di Popoli e di Città stampata in francese non ha [p. 170 modifica]molti anni, ed altre simili collezioni; e molte medaglie vi si troveranno che hanno non dubbi segni di rimotissima antichità; ciò sono la forma de caratteri che molto si accosta alle lettere ebraiche, o fenicie, l’usarsi l’H greco per semplice aspirazione, il non vedersi ancora l'Ω, ma solo l‘Ο, e l’essere disposte le parole alla maniera orientale, cioè da destra a sinistra: da’ quali contrassegni giustamente inferisce lo Spanhemio (Dissert. 2 de Praestant. et usu Numism.) essere queste medaglie di 500 e forse più anni anteriori all’era cristiana, del qual tempo appena è che altre medaglie si trovino12. E veramente tra quelle che abbiam della Grecia, forse non vedrassene alcuna con tali caratteri d’antichità. Io ben so che il suddetto principe di Torremuzza, uno de’ principali ornamenti della Sicilia sua patria, combatte la prova dell’antichità delle medaglie, che si trae dall’iscrizione di esse fatta in modo che cominci da destra, e vada a terminare nella sinistra, e dice (Antiche Iscriz. di Palermo, p. 248) che di tali medaglie molte ne ha egli anche de’ tempi di Vespasiano e di Tito. Ma io temo che il ch. autore non abbia qui ben distinte due cose; perciocchè altro è che la leggenda cominci dalla destra e volga a sinistra contro l’ordinario costume delle medaglie; altro è che le lettere che formano le [p. 171 modifica]parole, siano disposte in maniera che bisogni cominciar dalla destra, e continuare verso la sinistra per leggerle, sicchè invece di IMP., a cagion d esempio, si scriva PMI. Or della prima maniera di scrivere da destra a sinistra molte certo se ne trovano singolarmente a’ tempi de due detti imperadori, ma della seconda non credo che così facilmente se ne potran rinvenire; e questo argomento però avrà sempre la sua forza a provare l’antichità di tali medaglie. Su questo argomento di antichità preso dalla maniera di scrivere si può vedere ancora ciò che con vastissima erudizione ne dice Edmondo Chishull nelle sue Antichità Asiatiche stampate in Londra nel 1728, e una erudita dissertazione del ch. sig. priore Bianconi bolognese sopra un’antica medaglia di Siracusa stampata in Bologna nel 1763. Nè è a dire che più tardi in queste nostre provincie s’introducesse l’Ω e l’H usata per lettera, e la maniera di scrivere, che ora è in uso, da sinistra a destra; perciocchè noi veggiamo che le siciliane medaglie, di cui si può accertare il tempo, perchè furono coniate in onore di qualche personaggio del quale è nota l’età, e che sono appunto del tempo medesimo a un di presso di cui sono le greche più antiche, hanno esse pure comunemente que’ caratteri di età più recente che veggonsi nelle greche, e quelle mutazioni nello scrivere vi si osservano, che a que’ tempi anche in queste provincie eransi introdotte. Egli è vero che assai rozze sono comunemente queste più antiche medaglie e nel disegno e nella espressione. Ma qual provincia fu mai, ove l’arte [p. 172 modifica]nascesse perfetta? Anzi questa rozzezza medesima è indizio di lavoro originale, e non fatto a imitazione, e par di vedervi l’arte che senza avere maestro e guida da se medesima si vada dirozzando a poco a poco e svolgendo. Ma la rozzezza cessò, e abbiamo medaglie siciliane e della Magna Grecia che in bellezza non cedon punto a quelle di qualchessia nazione.


Opere magnifiche di architettura XXIX. Quindi, come le arti si danno vicendevolmente la mano, e al fiorir di una le altre ancora fiorir si veggono e giungere alla lor perfezione, non è maraviglia che architetti e scultori chiarissimi fiorissero in queste provincie. E in Sicilia singolarmente sappiamo che grandiosi e magnifici edificii s’inalzarono anticamente. Tra questi voglionsi riporre quelli di cui favella Diodoro Siculo nell’olimp. lxxv. Parla egli (l. 11, n. 255) di molti schiavi fatti da’ cittadini di Agrigento, e da essi impiegati a segar pietre; col qual mezzo, egli dice, non solo grandissimi tempii si fabbricarono agli Iddii, ma sotterranei condotti ancora a votare la città di acque, opera di sì gran mole, che, benchè l'uso a che serve sembri spregevole, merita nondimeno di esser veduta. Architetto e soprastante all’opera fu un cotale appellato Feace, il quale per l’eccellenza di tal lavoro ottenne che tai condotti fosser dal suo nome detti in avvenire Feaci. Un'ampia peschiera ancora a grandissimo costo scavaron gli Agrigentini, che sette stadii avea di circuito e venti cubiti di altezza, in cui raccogliendo da’ fonti e da’ fiumi vicini gran copia di acque, un [p. 173 modifica]vivaio di pesci formaron di utile non meno che di piacer singolare13.


Descrizione del tempio di Giove Olimpico in Agrigento e di altri edificii. XXX. Ma sopra ogni altra cosa degno di maraviglia era il tempio che a Giove Olimpio innalzato aveano i cittadini medesimi di Agrigento. Ne abbiamo la descrizione presso lo stesso Diodoro, il qual ne parla come di cosa che al tempo suo stava tuttora in piedi, benchè le guerre avessero agli Agrigentini impedito il condurlo a fine. La struttura e l’ornamento de’ tempii, egli dice all olimp. xciii (l. 13, n. 175), e di quello singolarmente di Giove, mostra chiaramente la magnificenza degli uomini di quella età. Gli altri tempii o per incendio o per sinistri avvenimenti di guerra furono rovinati. Ma questo di Giove Olimpio già essendo vicino ad esser coperto, per guerra sopravvenuta rimase interrotto. Da indi in poi que’ d’Agrigento non ebber maii potere a finirlo. Esso ha cccxl piedi di lunghezza, lx di larghezza, e cxx di altezza oltre il fondamento. È questo il più grande fra tutti que’ di Sicilia, e per la grandezza della mole può venire ancora a confronto cogli altri. Perciocchè, comunque non fosse recato a compimento, vedesi ancor nondimeno [p. 174 modifica]l’antico non finito lavoro. Perciocchè mentre gli altri o di mura chiudono i tempii, o di colonne gli circondano, l’una e l’altra struttura è a questo comune. Conciossiachè insieme colle pareti sorgon colonne che rotonde sono di fuori, di dentro quadrate. Hanno queste nella esterior parte, xx piedi di giro; e sì ampie sono le scanalature, che un corpo umano vi si può agevolmente racchiudere; nella parte interiore occupan lo spazio di xxi piedi. Maravigliosa è la grandezza e l’altezza de’ portici. Vedesi nella lor parte orientale la guerra de’ Giganti, di scultura per grandezza e per eleganza sommamente pregevole; nella parte occidentale havvi effigiata l’ espugnazion di Troia, dove ognun degli eroi nel proprio suo atteggiamento vedesi mirabilmente scolpito. Così Diodoro, il quale altrove ragiona di più altri magnifici edificii della Sicilia, ch’io qui non rammemoro per brevità14. Anche la Magna Grecia molti doveva [p. 175 modifica]averne di somiglianti. I tre tempii, le cui rovine veggonsi ancora nell antica città di Pesto ossia Possidonia, hanno tali indicii di antichità, ch’è probabile assai che fossero eretti a tempi di cui parliamo (V. Les Ruines de Paestum); e molte ancor delle fabbriche che nella sotterranea città d’Ercolano sono state scoperte, non si può dubitare che non sieno d’età molto rimota dal tempo in cui essa perì.


Celebri scultori in Sicilia e nella Magna Grecia. XXXI. Tanti superbi edificii e nella Sicilia15 e nella Magna Grecia innalzati ben ci [p. 176 modifica]fanno comprendere quanto felicemente tra gli abitatori di quelle provincie fiorisse lo studio delle belle arti, e singolarmente dell’architettura e della scultura. E per ciò che alla scultura appartiene, Pausania, che il nome di tanti illustri scultori ci ha tramandati, ci mostra che molti insigni ve n’ebbe e nella Sicilia e nella Magna Grecia. Nomina egli, per tacer d’altri, un Learco di Reggio (l. 3, c. 17), che dee certamente annoverarsi tra’ più antichi. Perciocchè di lui racconta che fu egli il primo a scolpire separatamente ciascun de’ membri, e poi con chiodi unirli insieme e commetterli. Fa menzione ancor di un Clearco di Reggio, cui chiaramente distingue dal sopra mentovato Learco (l. 6, c. 4). Ma sopra tutti celebre si rendette Pittagora, egli ancor di Reggio, cui l’eruditissimo ’Winckelmann (Hist. de l’Art. t.2, p. 193) annovera tra’ cinque più famosi scultori che dopo Fidia fiorissero in tempo della guerra del Peloponneso. Di lui parlando Pausania (l. 6, c. 4), il chiama uomo nella scultura non inferiore ad alcuno. In fatti Plinio racconta (l. 34, c. 8) che fattosi egli nel lavoro di una [p. 177 modifica]statua a gareggiar con Mirone, uno de’ più celebri scultori che fiorisse allor nella Grecia, fu questi dall’italiano Pittagora superato; anzi, come nello stesso luogo aggiugne Plinio, con un altro Pittagora ancora leontino di patria il medesimo Mirone in somigliante cimento venne meno al confronto. A questo secondo Pittagora attribuisce Plinio l’onore di avere il primo le vene e i nervi e i capegli ancora dell’uomo più dilicatamente scolpito. Assai maggiore sarebbe la gloria del primo Pittagora da Reggio, se certo fosse ciò che l’autore del trattato de l’Usage des Statues afferma (part. 1, c. 8); cioè che, per testimonio di Cicerone, egli fosse maestro del famoso Lisippo, di cui la Grecia non vantò mai il più eccellente scultore. Ma, a parlare sinceramente, per quanto io abbia cercato nelle opere di Cicerone, non ho mai potuto rinvenire tal passo; nè di altro Pittagora, fuorchè del filosofo, io non veggo mai farsi da lui menzione.


Celebri pittori. XXXII. Rimane a dir qualche cosa della pittura. Intorno a quest’arte poche memorie ci son rimaste. E nondimeno abbiam quanto basta a conoscere che essa ancora e nella Sicilia e nella Magna Grecia felicemente fu coltivata. E primieramente, se io volessi affermare che Zeusi fu italiano, niuno, io credo certo, potrebbe convincermi di falsità. Zeusi fu di Eraclea; in ciò convengono gli antichi scrittori; ma qual fosse quest’Eraclea, se quella ch’era nella Magna Grecia, o alcuna di quelle che erano altrove, nol diffinisce alcuno a cui debbasi certa fede. Anzi più conghietture concorrono [p. 178 modifica]a renderci verisimile ch’ei fosse nativo della prima. Plinio ci assicura che credevasi da alcuni ch’ei fosse stato discepolo di Demofilo nativo d’Imera nella Sicilia. Ecco le sue parole (l. 35, c. 9): Ab hoc artis fores apertas Zeusis Heracleotes intravit olympiadis xcv, anno iv, audentemque jam aliquid pennicillum ... ad magnam gloriam perduxit, a quibusdam falso in lxxxix oljmpiade positus, cum fuisse necesse est Demophilum Himeraerum, et Neseam Thasium, quoniam utrius eorum discipulus fuerit ambigitur. Le quali parole ci mostrano che Demofilo siciliano fu in fama di eccellente pittore, poichè era opinione di molti che avesse avuto Zeusi a discepolo. Sappiamo inoltre da Cicerone, da Plinio e da altri antichi scrittori, che Crotone nella Magna Grecia, Agrigento nella Sicilia, ed altre città dell’una e dell’altra provincia chiamaron Zeusi, perchè di sue pitture le abbellisse. Or noi veggiam bensì sovente i professori delle belle arti, cioè della scultura e della pittura, passati dall’Italia o dalla Sicilia in Grecia a esercitarvi le arti loro, chiamati talvolta a gran prezzo da que’ popoli: ma non so se così facilmente a questi tempi troverannosi Greci venuti per lo stesso fine in Italia. Queste riflessioni indussero, benchè con qualche dubitazione, il P. Arduino, e indurranno, io penso, ogni prudente esaminatore a credere non affatto improbabile che Zeusi nativo fosse di quella Eraclea che era vicina a Crotone nella Magna Grecia. Quae porro, dice il citato autore nelle note all’allegato passo di Plinio, ea Heraclea sit, in tanta cognominum urbium [p. 179 modifica]multitudine, quae praeclaris illius monumentis atque picturis gloriantur ex aequo, statuere haud in promptu est. Crotoniatis operam suam cum navasse Zeuxis a Tullio dicatur (l. 2 de Invent.), sit autem Heraclea in eodem tractu Crotoni Vicina, haud scio, au suspicari liceat oriundum ex ea fuisse. Ma ancorchè si provasse che Zeusi non italiano fosse, ma greco; il sapere ch’ei fu condotto a gran prezzo a dipingere in Italia, che Demofilo siciliano fu creduto da molti di lui maestro, che un Silaso da Reggio fu chiamato a dipingere nel Peloponneso (V. l’Usage des Statues l. 1, c. 8), e che la pittura fu sempre in gran pregio e nella Sicilia e nella Magna Grecia, basta a conchiudere con fondamento che quest’arte ancora ebbe in queste provincie illustri e felici coltivatori.


Che cosa si possa creder di Dedalo. XXXIII. Parrà forse strano ad alcuno, che parlando del fiorir che fecero tra Siciliani le belle arti, niuna menzione io abbia fatta di Dedalo, del qual si dice che fuggendo da Atene prima e poi da Creta, si rifugiasse in Sicilia presso il re Cocalo, e che ivi nella scultura singolarmente facesse opere maravigliose. Questo è in fatti ciò che di lui raccontano Diodoro Siculo, Plinio, Pausania ed altri antichi scrittori, i cui detti sono stati raccolti ed eruditamente esaminati dall'ab. Banier nella sua spiegazion delle Favole (t. 6, p. 305, ec.), e da m. Gedoyn in una Memoria inserita nel t . xxi dell’Accademia delle Iscrizioni e delle Belle Lettere. Ma, a vero dire, io non so abbastanza fidarmi all’autorità de citati benchè antichi e [p. 180 modifica]valenti scrittori. Vuolsi che Dedalo fosse di circa un secolo anteriore alla guerra di Troia, e quindi ancora molti e molti secoli anteriore a’ detti autori. Egli fu inoltre a quella età che fra tutte fu da’ poeti presi di mira a farne l’oggetto delle favolose loro invenzioni. Quindi a me non pare che possa credersi abbastanza fondato ciò che di lui si racconta. In fatti Erodoto, assai più antico di tutti gli allegati scrittori, ove brevemente parla di Dedalo, ne ragiona come di cosa non abbastanza certa, e appoggiata solo a popolar tradizione, usando delle parole: ut ferunt (l. 7, n. 170). Poichè dunque tanti incontrastabili monumenti abbiamo del valore de’ Siciliani nelle belle arti, non giova il ricorrere ad altri argomenti, che non essendo di ugual peso sembrerebbono sminuire anzi che accrescer la forza di que’ più certi che abbiam finora recati.


Per qual ragione fiorisser tanto fra que' popoli le arti. XXXIV. Questi sì gloriosi avanzamenti nelle scienze e nelle belle arti nella Sicilia, e molto più nella Magna Grecia, dovettero la loro origine all’indole stessa e al vivace ingegno de’ popoli che l’abitavano, più che al favore e alla munificenza de’ lor sovrani. Perciocchè, quanto appartiene alla Magna Grecia, essendo quella provincia divisa in molte piccole repubbliche, reggevasi ognuna colle proprie leggi, nè vi era principe alcuno il quale potesse colla libera sua munificenza avvivare gli studii e risvegliare ne’ sudditi l’emulazione. Nella Sicilia poi, oltre che essa ancora ebbe per lungo tempo governo di repubblica, anche allor quando molte città ebbero i lor tiranni e signori, questi [p. 181 modifica]unicamente solleciti di sostenere il vacillante loro impero, e di difenderlo contro i domestici non meno che gli stranieri nemici; poco per lo più pensarono alle scienze e alle arti.


Se Falaride ne fosse splendido protettore. XXXV. Egli è vero che di Falaride tali cose raccontansi da alcuni, che se fosser vere, cel farebbono credere protettor grandissimo delle lettere, e gioverebbon non poco a sminuire l’infamia che la crudeltà da lui usata gli ha presso tutti arrecata. Perciocchè vuolsi ch’egli avesse in molta stima il poeta Stesicoro di cui abbiam già parlato; e che comunque fosse contro di lui gravemente sdegnato, perchè mostravasi apertamente nimico della sua tirannia, nondimeno avutolo una volta in suo potere, non solo non usasse contro di lui quella barbara crudeltà che contro di tanti altri aveva usata, ma lo accogliesse con onore, così premiando l’eccellenza a ch’egli era salito nel poetare. Aggiugnesi, che a un cotal Callesero, da lui per congiura dannato a morte, accordasse il perdono per riguardo a Policleto filosofo messinese che gli era amico. Ma questi racconti non ad altra autorità sono appoggiati che a quella delle lettere di Falaride stesso, la quale quanto sia dubbiosa abbiam di sopra veduto.


Questa lode si dee a Gerone primo re di Siracusa. XXXVI. Gerone, il primo di questo nome re di Siracusa, fu l’unico per avventura tra i tiranni della Sicilia che chiamar si possa protettore e fomentatore delle scienze. Erane egli stato avverso del tutto e lontano. Ma all’occasione di una grave malattia da lui sofferta essendo stati introdotti nella sua corte alcuni de valorosi filosofi che erano allora in Sicilia, [p. 182 modifica]questi co’ saggi loro discorsi il piegaron per modo che non solo onesto e virtuoso principe mostrossi egli dappoi, ma grande amatore ancora delle scienze e de dotti (Ælian. l. 4, Var. c. 15). E a questa munificenza verso de’ poeti singolarmente attribuir si dee il concorrere che a lui facevano questi perfin dalla Grecia. Perciocchè Eschilo e Simonide, per testimonianza di Pausania (l. 1, c. 2) e di altri scrittori, a lui ne vennero in Siracusa. Pindaro ancora spesse volte fa grandi encomi di Gerone all’occasione delle vittorie da lui riportate ne’ celebri giuochi della Grecia; anzi accenna (in Nem. od. 1) di essere egli stesso venuto in Sicilia, trattovi probabilmente dalla munificenza di questo principe.


Condotta tenuta da’ due tiranni Dionigi riguardo alle scienze e alle arti. XXXVII. Anche i due Dionigi parvero talvolta amatori delle lettere e protettori de’ dotti. “Anzi del vecchio Dionigi narra Suida, che scrisse tragedie e commedie, e alcune opere storiche; e del giovane, che, oltre alcune lettere, scrisse un opuscolo sui poemi di Epicarmo„. Ma era anzi questo, singolarmente in Dionigi il vecchio, un pazzo capriccio di acquistarsi con ciò gran lode, che un vero desiderio di fomentare gli studi. I tre viaggi che sotto il loro regno fece Platone in Sicilia, ne sono un chiaro argomento. Accoltovi prima con grandi onori, quali si renderebbero a un dio, quando essi videro che le massime del severo filosofo punto non s’accordavano colle loro, nel cacciarono bruttamente, e una volta ancora Dionigi il vecchio operò sì che il povero Platone fosse venduto schiavo. Veggasi tutta la [p. 183 modifica]storia delle vicende accadute in Sicilia a Platone presso il Bruckero che le ha con somma diligenza esaminate e raccolte (Hist. Cr. Phil. t. 1, p. 649, ec-) „ e in un’erudita dissertazione del celebre P. Edoardo Corsini de’ Viaggi di Platone in Italia, inserita nelle Simbole del proposto Gori (t. 6, p. 80). Veggansi ancora presso Diodoro (l. 16, p. 461) le pazzie e il furore a cui Dionigi si lasciò trasportare perchè i suoi versi non furono da alcuni lodati, com ei pretendeva, e perchè i comici da lui mandati a’ giuochi olimpici, affinchè vi cantassero i versi da lui composti, ricevuti furono colle fischiate. Io non debbo trattenermi in tali cose più a lungo; perchè se alla storia di quelli che in Italia coltivarono e fomentaron le scienze, aggiugner volessi ancora la storia di quegli che un tal vanto si arrogarono scioccamente, troppo ampio argomento mi si offrirebbe a trattare così per riguardo a’ tempi più antichi, come ancor per riguardo a’ tempi meno lontani.


Fin quando durasse in quelle provincie la lingua greca. XXXVIII. “A conchiudere ciò che appartiene alla letteratura della Magna Grecia e della Sicilia, resta a vedere fin quando in quelle provincie, e in quelle della prima singolarmente, continuasse la lingua greca ad esser quella non solo degli scrittori, ma ancor del volgo. Egli è assai verisimile che la vicinanza de’ Romani colla Magna Grecia facesse agli abitanti di questa conoscere la lor lingua; e benchè essi superbamente chiamasser barbari tutti que’ che non erano Greci, molti nondimeno tra essi avran cominciato a coltivare la lingua latina. Nell’anno di Roma 487 tutta la Magna Grecia [p. 184 modifica]passò in poter de’ Romani; e allora la lingua de’ vincitori dovette assai più ampiamente propagarsi tra’ vinti. Veggiam di fatto pochi anni appresso, cioè l’anno 514, Livio Andronico, natio di queste provincie, come mostreremo tra poco, produrre prima di ogni altro sul teatro romano un’azione drammatica; e poco appresso veggiam seguito l’esempio di Andronico da Nevio, da Ennio, da Pacuvio, tutti natii delle provincie medesime. Sulla fine del secolo stesso, cioè l’anno di Roma 52, i Romani, volendo quasi mostrare di conceder per grazia ciò ch'essi desideravano, permisero a que’ di Cuma di usare ne’ pubblici atti della lingua latina: Cumanis eo anno petentibus permissum, ut publice latine loquerentur, et praeconibus latine vendendi jus esset (Liv.l. 40°, c. 14, n. 43). Assai maggiori progressi dovette ivi fare la lingua latina, quando dopo la guerra Marsica fu a que’ popoli accordato l’anno 663 il diritto della cittadinanza. Di fatto Strabone, il quale scriveva ne' primi anni di Tiberio, si duole che poche città allor rimanessero che potesser tuttora appellarsi greche. Adeoque eorum crevit potentia, dice egli parlando de’ Greci che andarono ad abitare quelle provincie (Geogr. p. 253), ut ista regio et Sicilia nomine magnae Graeciae censerentur. At nunc, Tarento, Regio et Neapoli exceptis, omnia in barbariem sunt redacta, aliaque a Lucanis et Brutiis, alia a Campanis obtinentur, ab his quidem verbo, reapse a Romanis, sunt enim et ipsi Romani. Vedrem di fatto che in queste tre città, e in Napoli singolarmente, si mantenne ancor per [p. 185 modifica]più secoli la lingua greca insieme però colla latina, anche allor quando la greca era in tutta l’Italia quasi interamente dimenticata. La Sicilia venne in poter de’ Romani al finire della guerra cartaginese l’anno 552, e quello perciò dovette essere il tempo in cui la lingua latina cominciò ad esservi adottata, singolarmente in grazia de’ magistrati romani colà mandati a governarla. Ivi però ancora continuò per più secoli ad esser coltivata l’antica lingua, e ne vedremo più indicii ne’ secoli susseguenti„.

Note

  1. Di Orfeo, di Ibico e di Alessi fa menzione ancora la sopraccitata imperadrice Eudossia (l. c. pag. 320, 247, 60).
  2. Di molti de’ poeti de’ quali in questo capo si è ragionato, ragiona ancora nell’opera altre volte citata l’imperadrice Eudossia, cioè di Teocrito, di Mosco, di Epicarmo, di Dinoloco, di Filemone, di Apoilodoro, di Sofrone, di Sosicle, di Teognide, del qual nome, secondo essa, furon due poeti, e di Formale (p. 202, 304, 166, 131, 427, 61, 389, 384, 227, 232, 428)
  3. Una magnifica edizione dell’originai testo greco di Teocrito colla elegante traduzione del ch. prof. Bagnini abbiamo poscia avuta da’ torchi parmigiani del sig. Codoni, che con essa e con tante altre elegantissime edizioni è giunto ad oscurare non che ad uguagliare la gloria de’ più rinomati stampatori.
  4. De’ molti teatri che erano nella Sicilia e nella Magna Grecia, di que’ poeti drammatici de’ quali qui ed altrove abbiam fatta menzione, e di più altri per amor di brevità da noi ommessi, o soltanto accennati, più distinte notizie si posson vedere nella bell’opera del sig. D. Pietro Napoli Signorelli intitolata le Vicende della Cultura nelle Due Sicilie (t. i, p. 138, ec. p. 195, ec. p. 215, ec.). E certo come i teatrali spettacoli, i combattimenti letterarii, gli onori accordati agli uomini dotti, e l’indole medesima del governo ebber non picciola parte ne’ rapidi e maravigliosi progressi che gli studi fecero in quella che propriamente dicevasi Grecia, così presso i popoli ancora della Magna Grecia e della Sicilia, che reggevansi alla stessa maniera, ebber successi egualmente felici.
  5. Di Corace ancora (p. 269) ragiona la poc’anzi nominata imperadrice Eudossia, la quale ricorda inoltre più altri in questo capo da me nominati, cioè Lisia (p. 281), Gorgia (p. 100), Filisto (p. 422), Diodoro Siculo (p. 128), Temistogene (p. 233), Ipi (p. 245), Lico (p. 284) e Polo (p. 355).
  6. Il ch, sig. ab. Andre non solo non reputa degni di molta lode i primi scrittori che ci dieder le leggi dell’eloquenza, e ne formarono un’arte, ma anzi gii incolpa della decadenza del buon gusto, perciocchè, egli dice (Dell’Origine e Progressi di ogni Lctter. t. 1, p. 42, ec.), i Greci cominciarono a vedersi privi di opere eccellenti quando conobbero i precetti dell’arte.... E chi non sa che allora appunto mancarono gli oratori e i poeti, quando Aristotile con tanto ingegno e dottrina dell’arte rettorica scrisse e della poesia? Egli prosegue a sostener con ingegno e a svolgere con eloquenza questa sua proposizione. E se a lui basta che in questo senso essa s’intenda che i precetti non bastano a formare un oratore e un poeta, e che il tenersi troppo rigorosamente stretto a’ precetti snerva comunemente la forza dell’eloquenza e ìa vivacità della poesia, io pure me ne dichiaro seguace e sostenitore. Ma se egli intende di sbandire generalmente i precetti e l’arte, io temo che la sperienza e la ragione gli si opporranno. Ei ci dice che le spelonche, le grotte, le sponde del mare erano le scuole dell’arte rettorica del gran Demostene. Ma è certo che innanzi a Demostene erano stati Corace, Tisia, Lisia e Gorgia, tutti precettori d’eloquenza, e che per brevità tralascio Dionigi Alicarnasseo (Judic. de Isocrate) Tisia fu precettore d’Isocrate, e che Demostene da Tucidide e da Gorgia apprese la magnificenza, la gravità, lo splendore del favellare (De admiranda vi dicendi in Demost.). Il maggior oratore che avesse Roma, viaggiò in Grecia in età già adulta, e frequentò le scuole de’ retori più rinomati; e scrisse poscia egli medesimo i precetti dell’arte. Il maggior poeta epico che abbia avuto l’Italia, studiò attentamente la Poetica d’Aristotile. A me sembra che forse sarebbe più giusto il dire che i precetti non bastano a formare un grand’uomo, ma che senza i precetti un grand’uomo non saprà sfuggir que’ difetti che ne oscureranno la gloria.
  7. Suida afferma che benchè Gorgia dicasi da Porfirio vissuto circa l’olimp. lxxx, ei fu nondimeno più antico. Ma come egli non ce ne arreca alcuna pruova, così l’autorità di esso non basta a farci cambiare di sentimento. Dice ancora ch’ei fu figlio di Carmantida scolaro di Empedocle, e maestro non solo d’Isocrate, ma ancor di Polo da Girgenti, di Pericle e di Alcidamante elaita che gli fu successor nella scuola.
  8. Qualche recente scrittore ha voluto aggiugnere una nuova gloria alla Magna Grecia, affermando come cosa indubitabile e certa che Demostene venne a finire i suoi giorni nella Calabria. Ma io mi maraviglio che un uomo erudito abbia potuto prendere un sì solenne equivoco, poichè basta leggere attentamente gli antichi scrittori greci per riconoscere ch’essi parlano di una picciola isoletta del mare Egeo delta Calauna, in cui Demostene rifugiossi quando vide Atene vicina a cadere sotto il dominio di Antipatro, e ove poscia col veleno si uccise.
  9. Di Callia parla più a lungo Diodoro ne’ frammenti pubblicatine dal Valesio, e ne parla anche Suida, narrando che poco buon nome ottenne colla sua Storia, perciocchè avendogli il tiranno Agatocle fatti copiosi doni, pe’ quali avea radunate grandi ricchezze, prostituì vilmente la storica sincerità, e ricolmò di non meritate lodi un principe cbe a tutti i sudditi era per la sua crudeltà odiosissimo.
  10. Oltre gli scrittori di storia qui indicati, alcuni altri ne troviam rammentati in Suida, e singolarmente un Ipi da Reggio, che a' tempi, dice egli, delle guerre persiane (e volle forse dire di quelle contro di Perseo) fu il primo a illustrare le cose siciliane, e cinque libri di Storia ne scrisse, e ci lasciò inoltre altri libri sulle origini ossia su’ primi abitatori d’Italia, sulla cronologia, sulle storie de’ Greci, ec.; un Lico, detto ancor Butera, parimenti da Reggio, padre del tragico Licofrone (che però in altro luogo dicesi da Suida figlio solo adottivo di Lico) che visse a’ tempi d’Alessandro il Grande, e scrisse le Storie della Libia e della Sicilia; e un Polo da Girgenti. che ci diede una Genealogia di tutti i capitani ch’erano stati alla guerra di Troia, e la storia delle loro vicende.
  11. Intorno a tutti questi e più altri scrittori che nella Magna Grecia e nella Sicilia fiorirono in questi tempi, molte notizie ci ha date Costantino Lascari nel suo opuscolo: De Scriptoribus Graecis patria Siculis, pubblicato già dal Maurolico, poi dal Fabricio, e più recentemente dall’ab. Zaccaria (Bibliot. di Stor. Lett. l. 3, Sem. 2, p. 408, ec.) con un altro più compendioso sullo stesso argomento de’ Greci Siciliani, che era già stato pubblicato nelle Memorie per servire alla Storia Letteraria di Sicilia (t. 1, art. i4). Di alcuni però di essi io non trovo menzione presso i più antichi scrittori, e non so su quale autorità abbiane il Lascari favellato.
  12. Su questo argomento veggansi ancora le riflessioni del Winckelmann sulle monete e sulle altre antichità siciliane e della Magna Grecia (Storia dell'Arti, tom. 1, pag. 275, ec. edizione rom.).
  13. De’ monumenti antichissimi che nelle provincie della Magna Grecia o furono una volta, o tuttor vi sussistono, belle notizie ci ha date il sig. D. Pietro Napoli-Signorelli, il quale ricorda singolarmente i due colossi, uno di Giove, l’altro di Ercole, che vedevansi in Taranto, e rammenta alcuni altri famosi scultori natii di quelle provincie (Vicende della Coltura delle Due Sicilie, tom. I , p. 36, ec.).
  14. Intorno alle rovine del tempio di Giove Olimpico in Girgenti, che tuttor vi si veggono. a quello della Concordia nella stessa città, di cui conservasi ancora la parte esteriore, e a que’ di Pesto, son degne d’esser lette le osservazioni del celebre Winckelmann inserite nel t.3 dell’edizione romana della Storia dell’Arte (p. 4, 107, ec.) Riguardo però al tempio di Giove Olimpico voglionsi leggere ancora le Memorie per le Belle Arti, stampate in Roma nel maggio del 1786, nelle quali si osserva fra le altre cose, che debb’esser guasto il passo di Diodoro, ove dà a quel tempio la larghezza di soli piedi lx, e che dee leggersi clx. Quanto alle rovine di Pesto, esse sono state in questi ultimi anni grande argomento di disputa tra gli Antiquarii. Il celebre P. Paoli, che le ha nuovamente illustrate. le ha credute d’ordine etrusco. Il Winckelmann nella prefazione alle sue Osservazioni sopra l’architettura degli Antichi ha sostenuto ch’esse sono d’ordine dorico, e questa opinione è stata con nuovi argomenti difesa nelle Memorie per le Belle Arti, stampate in Roma nell’agosto del 1785, e poscia in quelle del maggio e del giugno del 1786 all’occasione di dare l’estratto del suddetto tomo III della Storia dell’Arte del Winckelmann; e quindi il sig. ab. Fea medesimo, editore dell’opera del Winckelmann, e sostenitore dell’opinione del P. Paoli, ha poscia cambiata opinione, ed ha abbracciata quella del Winckelmann. Vengasi ancora il Viaggio Pittoresco di Malta, della Sicilia e di Lipari, in cui tutto ciò che degli antichi edificii tuttor rimane in quell’isole, trovasi diligentemente disegnato ed inciso dal sig. Hoel, pittore del Re di Francia; e il Viaggio Pittoresco de’ Regni di Napoli e di Sicilia . ec., pubblicato in Parigi in tre tomi di magnifica edizione nel 1785.
  15. Fra i più grandiosi monumenti del valore degli antichi Siciliani nella scultura deesi annoverare il gran sarcofago greco-siculo che or serve di fonte battesimale nel duomo di Girgenti, opera di raro ed ammirabil lavoro, il cui disegno si può vedere nelle opere de più illustri scrittori delle antichità siciliane, e in quelle singolarmente del P. Pancrazi e del sig. d’Orville. Ma degna è principalmente da leggersi un’erudita ed ingegnosa dissertazione del sig. avvocato Vincenzo Gaglio girgentino (Opuscoli d’Autor. Sicil. t. 14), nella quale, oltre il descriverlo minutamente, si fa a provare che ivi si rappresenta la tragedia d1 Ippolito. Agguingansi a ciò tante altre statue in marmo e di bronzo, che ne’ diversi ricchi musei della Sicilia tuttor si conservano; e sempre più si conoscerà chiaramente che quegli isolani non furono ad alcun’altra nazione inferiori nel coltivar le belle arti.