Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo I/Parte II/Capo I

Capo I Filosofia, Matematica, Leggi

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Tomo I - Parte II Tomo I - Capo II
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Capo I.

Filosofia, Matematica e Leggi.


Setta pitagorica formata in Italia. I. E cominciando dalla filosofia, il primo che ci si offre a ragionare, è Pittagora. Nè voglio [p. 84 modifica]io già sostenere che egli fosse italiano. Già abbiam di sopra mostrato (Par. I. 1, n. 28) che non v’ha argomento valevole a provarlo etrusco. Più insussistente ancora è l’opinione del canonico Campi, il quale, appoggiato a certi antichi versi non bene intesi, vorrebbe far credere che Pittagora fosse piacentino, nel che egli è stato egregiamente confutato dal dottissimo proposto Poggiali (Memor. Storiche di Piacenza t. 1, p. 38), col mostrare singolarmente che quando nacque Pittagora, non era ancor fondata Piacenza. Ma se egli non fu italiano di nascita, pur nondimeno l’Italia può a ragione vantarsi di sì illustre filosofo. Egli certamente vi fece lungo soggiorno, e in quella parte appunto di essa di cui ora trattiamo, cioè nella Magna Grecia, si rendette egli pe’ nuovi suoi dogmi chiaro singolarmente e famoso. Tutti gli storici che di lui scrissero, ne fan certa fede; e ciò confermasi ancora dal nome d’Italica, che alla scuola de’ Pittagorici da lui fondata fu attribuito; scuola, come dice il ch. Montucla (Hist. des Mathémat. t. 1, p. 113), in cui tutte le cognizioni che contribuir possono a perfezionar lo spirito e il cuore, furono con ardor coltivate.


Contesa intorno ad essa tra il Bruckero e il P. Gerdil. II. Non è qui mio pensiero di fare lunga dissertazione sulla vita, sugli studi, sulle opinioni di questo famoso filosofo. Converrebbe prima d’ogni altra cosa esaminar la questione tra due dotti scrittori insorta, Jacopo Bruckero e il p. Gerdil barnabita, sollevato poscia pe’ rari suoi meriti all’onore della sacra porpora l’anno 1777. Sostiene il primo, ogni cosa a [p. 85 modifica]lui attinente essere oscura ed incerta per tal maniera che vano sia l’accingersi a rischiararla (Histor. Crit. Philosoph. t. 1, p. 991); e più ragioni ne arreca. Gli scrittori della vita di Pittagora tutti di molto tempo a lui posteriori; le incerte tradizioni a cui ogni cosa si appoggia; la confusione di più Pittagori in un solo; la legge che dicesi da Pittagora imposta a suoi discepoli, e per lungo tempo osservata, di non esporre al pubblico, scrivendo, le sue opinioni; lo spirito di partito che in Iamblico e in Porfirio, due de’ principali scrittori della sua Vita, chiaramente si scorge di offuscar la luce del cristiano Vangelo, che già cominciava a penetrare per ogni parte, col formar di Pittagora un uom portentoso, e somigliante in gran parte a Cristo medesimo; tutto ciò, secondo il Bruckero, ad evidenza ne mostra quanto poca fede debbasi a racconti che intorno ad esso si fanno. Ma all’incontro il p. Gerdil entra coraggiosamente a sostenere (Introd. allo Studio della Relig. p. 246, 263, ec.) che comunque più cose vi sieno intorno a Pittagora dubbiose e incerte, si può nondimeno della maggior parte de suoi dogmi con probabile fondamento venire in chiaro; perciocchè, egli dice, Platone, che a molti de’ più celebri Pittagorici fu famigliare, ben potè agevolmente risapere i dogmi di questo illustre filosofo, onde a ciò ch’egli, e dopo lui Aristotele, e poscia Laerzio, Porfirio e Iamblico ed altri scrittori ne espongono intorno alle pittagoriche opinioni, deesi a buon diritto ogni fede. Alle ragioni del p. Gerdil ha controrisposto il Bruckero [p. 86 modifica](Append. ad Histor. crit. Philos. p. 262, ec.) nuove ragioni arrecando, onde confermar l’opinion sua. Troppo male mi si converrebbe entrar giudice tra questi due valentuomini. Io lascio dunque che chi è vago di tali quistioni, esamini i loro argomenti, e siegua chi più gli piace; e solo le cose che son più degne di risapersi, e quelle che più concordemente si asseriscono, verrò brevemente sponendo.


Epoche della vita di Pitagora e suoi principii. III. Il tempo in cui egli vivesse, non si può con certezza determinare. Gli antichi stessi non sono in ciò tra loro concordi. Qual maraviglia che nol siano i moderni? Nel tomo xiv delle Memorie dell’Accademia delle Iscrizioni abbiamo un’erudita dissertazione di M. de la Nauze, in cui con mille autorità e con forti argomenti si fa a provare che Pittagora nacque verso l’anno 640 innanzi l’era cristiana, e che morì verso l’anno 550. Al contrario M. Freret in un’altra bella dissertazione inserita nel tomo stesso prende a ribattere le ragioni tutte dal la Nauze arrecate, e molte altre ne adduce a provare che Pittagora morì certamente dopo l’anno 509 innanzi l’era cristiana, e che quindi convien credere ch’egli nascesse circa l’anno 600. Altre opinioni diverse, e le contese tra dotti uomini insorte in Inghilterra su questo punto si posson vedere presso il le Clerec, che de’ libri intorno a ciò pubblicati ci ha dati gli estratti (Bibl. choisie t. 10, p. 79), e presso il Bruckero, il quale pensa che più probabile sia l’opinion di coloro che affermano esser lui nato fanno 586 innanzi a Cristo. In qualunque luogo nascesse, egli è certo che dopo più viaggi [p. 87 modifica]affine di ammaestrarsi da lui intrapresi, venne a stabilirsi in Italia, il che pensa il Bruckero che accadesse l’anno 546. Vi fu tra gli antichi ancora chi disse ch’egli aveva avuto a suo discepolo Numa, il secondo re de’ Romani. Ma Cicerone stesso rigetta una tale opinione; poichè, egli dice, Numa certamente visse degli anni assai innanzi a Pittagora (De orat. l. 2, n. 154). Crotone e Metaponto furono le due città in cui fece egli più lungo soggiorno; ma più altre città ancora di queste provincie di cui parliamo, di qua ugualmente e di là dal Faro, giovaronsi de’ consigli e della dottrina di sì grand’uomo. Grandi cose ne narrano Porfirio e Jamblico da lui fatte anche a politico regolamento delle provincie medesime, e grandi prodigi ancora per lui operati; ma in questo qual fede loro si debba, è facil cosa a vedere; e anche il P. Gerdil conviene doversi tra le favole rigettare cotai maravigliosi portenti. Nemmeno puossi affermar con certezza se egli scrivesse libri di sorta alcuna. Su ciò ancora discordano gli antichi scrittori, nè tu sai bene cui debbasi prestare, ovvero negar fede.


Eccellenza e fama della sua setta. IV. Ciò che puossi con verità affermare, si è che fu Pittagora il primo che il nome di filosofo fin allora sconosciuto prendesse, come ne assicura Cicerone (Tuscul. Quae. l. 5, n. 3), e uno de’ primi che nello studio della filosofia, della matematica e della morale, non solo cominciarono ad aprir nuovi sentieri, ed avanzarsi più oltre assai di quello che fin allora si fosse usato, ma che additando agli altri ancora le vie da essi scoperte, ed invitandogli a [p. 88 modifica]venire lor dietro, aprirono pubbliche scuole, si fecero fondatori di sette, e cercarono di risvegliare negli uomini tutti desiderio ardente di virtù e di scienza. Quasi tutti i più grandi uomini di cui si vanta la Grecia, Socrate, Platone, Epicuro, Aristotele ed altri, furono a Pittagora posteriori. Il solo Talete Milesio, fondator della setta che Ionica fu appellata, visse innanzi a lui. Ma se Pittagora non ebbe il vanto di essere a lui anteriore di tempo, quello ebbe certamente di superarlo in fama; poichè la scuola di Pittagora più assai che non quella di Talete fu presso gli antichi filosofi illustre e chiara; e paragonando ciò che i più accreditati scrittori ne dicono delle opinioni loro, chiaramente si vede che Pittagora più addentro innoltrossi nel conoscimento della natura, e che se non giunse in molte cose allo scoprimento del vero, vi si accostò nondimeno assai più vicino che non Talete. E a ciò attribuir si deve la stima in cui fu sempre Pittagora mentre vivea, e l’affollato concorso che ad udirlo faceasi da ogni parte. Ne abbiamo un chiaro testimonio nella lettera a lui scritta da Anassimene, che da Laerzio ne è stata conservata. Atqui, così gli scrive egli, tu Crotoniatis atque Italis ceteris gratus atque in pretio es; accedunt et ex Sicilia studiosi quique (Laërt. l. 2 in Vit. Anaximen.).


Opinioni di essa intorno alla filosofia in generale. V. Della maniera da Pittagora usata nell’istruire i suoi discepoli, del rigoroso silenzio, della sobrietà e temperanza nel vitto, nel sonno, nel portamento tutto esteriore, del dispregio della gloria, della comunione de’ beni e [p. 89 modifica]di altre somiglianti cose che da essi esigeva si può vedere il soprallodato Bruckero che questo punto di storia con singolare esattezza ha esaminato. Per ciò che appartiene alle filosofiche opinioni di Pittagora, lo stesso autore dopo aver recate non poche ragioni, come di sopra osservammo, a mostrare quanto grande sia l’incertezza in cui su questo punto necessariamente esser dobbiamo, va diligentemente raccogliendo tutto ciò che da diversi scrittori antichi gli viene attribuito intorno alla filosofia in generale, all’aritmetica, alla musica, alla geometria, all’astronomia, alla medicina, alla filosofia morale ed alla teologia; il che pure dal P. Gerdil con somma diligenza si è fatto (loc. cit.) in ciò singolarmente che alla natural teologia appartiene, e dal Montucla (Hist. des Mathém. t. 1, p. 122, ec.) in ciò che spetta alla matematica. Faticosa non men che inutile impresa sarebbe il voler qui recare ogni cosa ad esame; nè altro potrei io fare che ripetere ciò che da’ mentovati autori si disputa diffusamente; e le questioni in cui mi converrebbe entrare, sarebbono per la più parte inutili e oscure. Quando io avessi riempiute più pagine disputando intorno alla metempsicosi, all’armonia e ad altre somiglianti questioni proprie della pittagorica filosofia, qual frutto ne avrei io raccolto, se non quello di aver inutilmente annoiati i lettori?


Scoperte astronomiche e matematiche in essa fatte. VI. Alcune cose però, che alla matematica e alla moderna fisica appartengono, e dagli antichi scrittori attribuite vengono a Pittagora, o almeno a’ suoi discepoli, voglionsi più [p. 90 modifica]attentamente disaminare. E primieramente il soprallodato P. Gerdil ha ingegnosamente mostrato quanto il sistema delle Monadi Leibniziane sia conforme al sistema fisico di Pittagora (loc. cit. p. 272, ec.). Veggasi su questo punto singolarmente il bellissimo ed eruditissimo libro di M. Dutens, intitolato Recherches sur les Découvertes attribuées aux Modernes (t. 1, p. 77, ec.), di cui assai spesso nel decorso di quest’opera dovrem valerci, il quale ancora degli altri sistemi de’ moderni filosofi trova e scuopre i primi semi in Pittagora e in altri antichi. Io non entrerò su questa materia a lunga ed esatta discussione, che nulla potrei dire che da questo autore non sia già stato detto. Solo ne accennerò all’occasione alcuna cosa, rimettendo chi più ne voglia all’autore medesimo che certamente merita di esser letto. Proclo a Pittagora attribuisce il vanto (Praef. in lib. 2 Eucl.) di avere il primo ridotta a forma di scienza la geometria. Ma, come bene riflette il Bruckero (t. 1, p. 1060), altri geometri vi furono certamente innanzi a lui. Non può nondimeno a lui negarsi l’onore di aver prima d’ogni altro coltivata nella Magna Grecia questa scienza, e di averla a maggior perfezione condotta. A lui con maggiore certezza si concede dagli antichi scrittori il ritrovamento del celebre teorema, che nel triangolo rettangolo il quadrato della ipotenusa sia uguale a’ due quadrati degli altri due lati presi insieme; della quale scoperta narrano che fosse lieto per modo che in sagrifizio offerisse alle Muse, secondo alcuni, un’ecatombe; secondo altri, un [p. 91 modifica]bue; secondo altri per ultimo, una massa di farina impastata a forma di bue, per l’abborrimento in cui egli aveva i sagrificii sanguinosi (V. Brucker. loc. cit. p. 1061). Altre geometriche scoperte a Pittagora o a’ suoi discepoli vengono, ma con minor certezza, attribuite, che si posson vedere presso il Bruckero e il Montucla. Egli, secondo Laerzio (l. 8, c. 14), introdusse il primo nella Grecia l’uso de’ pesi e delle misure. L’astronomia ancora molto debbe a Pittagora, e può a ragione l’Italia nostra gloriarsi che molte sentenze che ora sono da tutti i più valorosi astronomi ricevute, avessero in essa fin da’ più antichi tempi l’origine1. Due de’ più celebri Neutonìani, cioè il Gregori e il Maclaurin, confessano che Pittagora ha scoperta egli il primo la legge fondamentale della gravitazione de’ corpi celesti verso il sole, cioè che questa è in ragione inversa de’ quadrati della lor distanza da esso (V. Dutens t. 1, p. 156, ec.). La distribuzione della sfera celeste, dice il lodato Montucla citando gli antichi scrittori, l’obbliquità dell’ecclittica, la rotondità della terra, l’esistenza degli antipodi, la sfericità del sole e degli altri astri, la cagione della luce della luna e delle sue eclissi, e di quelle ancora del sole, furono da Pittagora insegnate. Che più? [p. 92 modifica]Perfino la natura delle comete, e il regolare determinato lor corso non gli fu ignoto, come da un testo di Stobeo chiaramente raccoglie il valoroso M. Dutens, che anche per le altre sopraddette opinioni i più certi passaggi degli antichi autori reca a provarlo (t. 1, p. 202, ec.). Egli ancora vuolsi che osservasse il primo l’espero e il fosforo ossia la stella della sera e del mattino altro non essere che il pianeta Venere. Anche il sistema Neutoniano della formazion de’ colori vuolsi da M. Dutens che nella scuola di Pittagora avesse il suo cominciamento (t. 1, p. 181). Vero è nondimeno che molte di tali opinioni credesi da alcuni che fosser prima da Talete e da altri filosofi dell’Ionia sostenute. Ma non puossi almeno negare il vanto a Pittagora di averle e fatte più celebri e più chiaramente spiegate2. [p. 93 modifica]


Tra esse vedovasi anche adombrato il sistema copernicano. VII. Il sistema copernicano stesso videsi fin d’allora nella scuola di Pittagora sorgere, per così dire, da’ fondamenti. Che la terra s’aggirasse intorno al sole; che questo locato fosse nel centro del mondo, e perfino che i pianeti tutti avessero i loro abitatori, fu opinione o di Pittagora stesso o de’ suoi discepoli (V. Bruck. et Montuc. loc. cit., et Dutens t. 1, p. 171, 195, 220). Del movimento della terra intorno al sole, Cicerone, appoggiato all’autorità di Teofrasto, fa scopritore Iceta siracusano: Icetas (altri leggono Nicetas) Syracusius, ut ait Theophrastus, coelum, solem, lunam, stellas, supera denique omnia stare censet, neque praeter terram rem ullam in mundo moveri, quae cum [p. 94 modifica]circum axem se summa celeritate convertat, et torqueat, eadem efficit omnia quasi stante terra coelum moveretur (Acad. Qu. 54, n. 39). Ma o fosse Pittagora stesso, o Iceta Siracusano, o qualunque altro della setta italiana di Pittagora, dovrassi sempre accordare all’Italia nostra un tal vanto di avere fin da’ più antichi tempi ritrovato un sistema cui tante ragioni ed esperienze hanno poi a’ nostri tempi sì evidentemente confermato e dimostrato. Gli errori da cui questo sistema fu allora guasto, voglionsi attribuire o a quella oscurità in cui un nuovo sistema rimaner suole comunemente, finchè con più attente osservazioni non venga illustrato; o forse anche all’ignoranza de’ posteri scrittori, i cui soli libri sono a noi pervenuti, che i pensieri degli antichi filosofi esprimer non seppero con giustezza e precisione. Intorno a che puossi vedere il più volte citato Montucla, che le astronomiche opinioni de’ Pittagorici ha diligentemente esaminate. Osserva egli ancora che l’aritmetica ricevette da’ Pittagorici accrescimento e fama, e ch’essi usarono di cifre a quelle somiglianti, che a noi poscia dagli Arabi furono tramandate; e per ultimo svolge egli e rischiara i ritrovati di Pittagora in ciò che alla musica appartiene. E benchè egli sembri rivocare in dubbio il celebre fatto della bottega del ferraio, in cui vuolsi che le prime osservazioni sul suono facesse Pittagora, non gli toglie però la gloria di averne il primo osservate e determinate le proporzioni. Quindi a ragione conchiude M. Dutens che pochi filosofi conta l’antichità, che abbiano avuto altrettanto [p. 95 modifica]di acutezza e di profondità d’ingegno quanto Pittagora (t. 2, p. 143). Io non voglio su tale argomento trattenermi più a lungo, e bastami di avere in brieve accennato qual aumento prendessero fin d’allora le scienze in Italia, e con qual felice riuscimento le coltivassero i nostri maggiori, mentre tutta l’Europa, se se ne tragga soltanto una piccola parte di Grecia, giaceasi fralle tenebre dell’ignoranza e della barbarie sepolta profondamente. Chi bramasse altre notizie intorno alla vita e alla filosofia di Pittagora, oltre gli autori da noi citati, può vedere la Vita scrittane dal Dacier, e il libro De natura et constitutione Philosophiae Italicae seu Pythagoricae di Giovanni Scheffer, stampato in Upsal l’anno 1664, e gli estratti che di ambedue ha dati il le Clerc (Bibl. chois. t. 10, p. 159 e 181), e finalmente il Piano Teologico del Pittagorismo del P. Michele Mourgues della Compagnia di Gesù, stampato in Tolosa l’anno 1712.


Fama in cui era quella scuola. VIII. La fama in cui era Pittagora, fu cagione che molti a lui concorressero, e se ne facesser seguaci. Quindi, anche lui morto, la filosofia pittagorica si sostenne per alcun tempo in quella provincia medesima in cui avea avuto principio, e nelle vicine ancora si sparse, e singolarmente nella Sicilia. Piena di Pittagorici, dice Cicerone (De Orat. l. 2, n. 154), era una volta l’Italia, allor quando fioriva in essa la grande Grecia. E l’eruditissimo Giannalberto Fabbricio presso a ducento Pittagorici vien nominando (Bibl. Graec. t. 1, p. 490), che in questo tratto d’Italia e nella Sicilia fiorirono, [p. 96 modifica]de’ quali si fa menzione negli antichi scrittori. Anzi lo studio della filosofia pittagorica non si ristette fra gli uomini. Le donne ancora cominciarono fin da quel tempo in Italia a voler sapere di filosofia, e alcune ne nomina il citato Fabricio (ib. p. 514), delle quali ancora si può vedere il Menagio nella sua Storia delle Donne Filosofanti. Altri ampii catalogi di Pittagorici italiani si possono vedere nella Biblioteca Siciliana del canonico Mongitore, nella Lucania dell’Antonini, nella Biblioteca Calabrese del Zavarroni, e in altre opere somiglianti; in alcune però delle quali io avrei voluto che gli autori per desiderio di stendere co’ catalogi de’ loro scrittori le glorie della lor patria, molti non ne avessero annoverati che da altre provincie con più ragione si voglion loro.


Discepoli più illustri di Pittagora. IX. Ma di quelli almeno che nel tenere pubblica scuola di filosofia successori furono al loro illustre maestro, vuolsi parlare con qualche maggior diligenza. Il diligente Bruckero il nome di tutti, e l’età a cui vissero, ha laboriosamente raccolto (loc. cit. p. 1101, ec.), come pure le sentenze e le opinioni loro, e in quali cose consentissero a Pittagora, in quali altre da lui discordassero. I più illustri tra essi furono Empedocle d’Agrigento ossia Girgenti in Sicilia, intorno al quale leggesi una erudita dissertazione del signor Bonamy nel tom. x delle Memorie dell’Accademia delle Iscrizioni, che si può consultare da chi brami di questo illustre filosofo più copiose notizie. Abbiamo nelle memorie della stessa Accademia una dissertazione di m. Freret (t. 18, p. 101), in cui pretende [p. 97 modifica]di trovare in Empedocle la sostanza del sistema Neutoniano intorno alla gravità universale. Ma, come osserva M. Dutens (t. 1, p. 147), non sembra che ciò possa bastevolmente provarsi. Certamente però egli ebbe fama di gran filosofo e ove altra prova non ne avessimo, bastar ci potrebbe il magnifico elogio che ne fa Lucrezio, così dicendo (l. 1, v. 717, ec.):

Quorum Agrigentinus cum primis Empedocles est,
Insula quem triquetris terrarum gessit in oris,
. . . . . . . . . . . . . . 
Quae cum magna modis multis miranda videtur
Gentibus humanis, regio visendaque fertur
Rebus opima bonis, multa munita virum vi.
Nil tamen hoc habuisse viro praeclarius in se,
Nec sanctum magis et mirum carumque videtur.
Carmina quin etiam divini pectoris ejus
Vociferantur, et exponunt praeclara reperta,
Ut vix humana videatur stirpe creatus.

Ebbevi inoltre Epicarmo, che secondo alcuni fu di Megara città di Sicilia, secondo altri di Samo o di Coo, ma in età di soli tre mesi trasportato in Sicilia (V. Bruck. t. 1, p. 1121); Ocello nativo della Lucania; Timeo di Locri, il quale da Platone fu avuto in sì grande stima, che il suo Dialogo della natura delle cose, tradotto poi in latino da Cicerone, fu da lui intitolato Timeo; Archita di Taranto, da Cicerone e da Orazio mentovato con lode, e di cui fra non molto dovrem favellare, ove de’ matematici di questo tratto d’Italia terremo ragionamento; Alcmeone di Crotone; Ippaso, a cui da alcuni dassi per patria Crotone, da altri Metaponto, Sibari da altri, tutte città della Magna Grecia; e Filolao di Crotone; de’ quali [p. 98 modifica]tutti e delle opinioni loro dottamente favella il Bruckero, presso cui più altri ancora si veggono annoverati3.


Anche Platone si fa discepolo de’ Pittagorici. X. Ma niuna cosa ci fa meglio conoscere in quale stima salita fosse la setta italica da Pittagora fondata, quanto il riflettere che Platone stesso, il divino Platone, venne a bella posta in Italia per conoscervi i discepoli di sì grand’uomo, e per apprender le loro opinioni. Anzi che egli tragittato poscia in Sicilia, e trovati i libri o di Pittagora stesso, come vogliono alcuni, o, come ad altri sembra più verisimile, de’ più antichi discepoli di quest’illustre filosofo, li comprasse a gran prezzo, e di essi si giovasse non poco nello scrivere le filosofiche sue opere, ella è opinione di molti antichi scrittori [p. 99 modifica]dal Bruckero allegali. E certo che a Platone non dispiacesse il farsi bello delle fatiche altrui; ne abbiamo una pruova in Ateneo, il quale parlando di un certo Birsone nativo di Eraclea nella Magna Grecia, dice che da’ Dialogi di lui molte cose tolse Platone: Heraclea prope Sirim civem habuit Birsonem, ex cujus dialogis multa Plato surripuit (l. 2 Deipnos. sub fin.). E Diogene Laerzio ancora nella Vita di Platone parla di quattro libri da un certo Alcimo scritti a provare quanto dal siciliano Epicarmo avesse tolto Platone. Multum illi (Platoni) Epicharmus contulit Comicus, cuius et plurima transcripsit, ut Alcimus i eis libris, quos ad Amyntam scripsit quatuor numer, meminit. Anzi l’idea ancora dello scriver dialogi da Zenone nativo di Velia fu suggerita a Platone. Dialogos itaque, dice lo stesso Laerzio nella Vita di Platone, primum Zenonem Eleatem scripsisse fenunt4.


Decadenza di quella setta. XI. E nondimeno sì celebre setta non ebbe quella durevolezza che pareva doversi alla fama con cui era nata e cresciuta; ma circa duecent’anni dopo la sua origine ella ebbe fine, e il nome e la fama de’ Pittagorici del tutto svanì. Più ragioni ne reca il più volte lodato Bruckero. [p. 100 modifica](loc. cit. p. 1105): l’invidia che contro di essi accendeva il libero biasimar che facevano i vizi degli uomini, il sospetto che dall’arcano loro silenzio contro di essi si risvegliava, le civili discordie, per cui molte città della Magna Grecia miseramente perirono, e per ultimo le filosofiche sette insorte in Oriente, che la memoria delle antiche, come suole accadere, estinsero interamente.


Setta eleatica nata nella Magna Grecia. XII. Anche un’altra setta di antichi filosofi ebbe nella Magna Grecia l’origine, quella cioè che da Elea ossia Velia, città di questa provincia, fu detta Eleatica. Ne fu autor Senofane natío veramente di Colofone, ma che nella Magna Grecia passò la maggior parte de’ giorni suoi; come se ella destinata fosse non solo a produrre uomini in ogni sorta di scienza famosi e chiari, ma ad accogliere ancor gli stranieri, e a giovarsi de’ loro talenti e del saper loro. Fu Senofane, al dir di Laerzio, discepolo e successor di Telauge figliuol di Pittagora; ma nuovi dogmi propose da quelli di questo illustre filosofo diversi assai. Non voglio io nondimeno nè a’ miei lettori nè a me medesimo recar noia coll’investigare quali opinioni da lui si insegnassero. Tutta la filosofia degli antichi è involta fra dense tenebre, tralle quali l’ascose e l’ignoranza in cui erano essi stessi di molte cose, delle quali però costretti erano a parlare oscuramente, se mostrar voleano di saperne pur cosa alcuna; e l’ignoranza molto maggiore de’ lor discepoli, che non ben intendendo le opinioni de’ lor precettori, davano a’ lor detti quel senso che più loro piaceva, e agli errori loro [p. 101 modifica]nuovi errori aggiugnevano, e tenebre a tenebre. Ma non lascian perciò di esser degni di lode i loro sforzi; e ai loro errori stessi dobbiamo l’aver finalmente in molte cose scoperta la verità. Chi delle opinioni di Senofane volesse più esattamente sapere, vegga il diligente Bruckero (loc. cit. p. 1142, ec.), presso del quale la vita e le opinioni vedrà minutamente esposte de’ più celebri discepoli di questo illustre filosofo, quali furono singolarmente Parmenide, Zenone diverso dallo Stoico, e Leucippo, tutti nativi di Velia, benchè a quest’ultimo altra patria da altri si assegni.


Opinioni singolari di Dicearco. XIII. Io passo leggermente, per le ragioni già arrecate, sulle opinioni di questi antichi filosofi. Ma io penso che quelli fra’ moderni filosofi che col nome di liberi pensatori voglion essere onorati, e che si danno il vanto di aver diradate le tenebre, fra cui la superstizione e l’ignoranza avean finora tenuti i popoli miseramente involti, mi sapran grado se un de’ loro più antichi e più perfetti modelli additerò loro in Sicilia; acciocchè si vegga che, come l’Italia è stata comunemente alle altre nazioni in presso che tutte le scienze maestra e scorta, così pure l’abuso delle scienze medesime ha avuto in essa cominciamento, almen per riguardo a’ popoli d’Europa. Io parlo del celebre Dicearco di Messina. Uomo non vi ebbe forse nell’antichità, che tante scienze cogli studi suoi coltivasse, quante ne coltivò Dicearco. La geografia, la musica, la filosofia, la storia, la poesia furono, si può dire, egualmente a lui care. Su ciascheduna di queste scienze scrisse de’ libri; [p. 102 modifica]e in tal fama ne venne, che Cicerone non dubitò di chiamarlo uomo grande e maraviglioso. O magnum hominem! mirabilis vir est ( Ad Att.l. 2, ep. 2). Ma quali erano i sentimenti di questo divino filosofo? Quello che dicesi animo umano, essere un bel nulla. Tenemus ne, dice Tullio, quid animus sit? denique sit ne? an, ut Dicaearcho visum est, ne sit quidem ullus (Acad. Qu. l. 4, n. 31)? e quello che dicesi animo, non essere veramente dal corpo in alcun modo distinto. Dicaearchus autem, dice lo stesso Tullio, in eo sermone, quem Corinthi habitum tribus libris exponit.... Pherecratem quondam disserentem induct, nihil esse omnino animum, et hoc esse nomen totum inane; frustaque animalia et animantes appellari; neque in homine inesse animum vel animam, nec in bestia, vimque omnem eam, qua vel agamus quid, vel sentiamus, in omnibus corporibus vivis aequabiliter esse fusam, nec separabilem a corpore ejus, quippe quae nulla sit, nec sit quidquam nisi corpus unum et simplex ita figuratum, ut temperatione naturae vigeat ac sentiat (Tusc. Qu. l. 1, n. 152). Quindi, come è necessario, non esser l’animo immortale, contro di che fortemente aveva egli disputato: Acerrime autem deliciae meae Dicaearchus contra hanc immortalitatem disseruit (Ib. n. 164). Quindi ancora stolta cosa essere il pensare all’avvenire, e meglio essere il non volerne saper nulla: At nostra interest scire, quae eventura sint. Dicaearchi libri est, nescire ea melius esse, quam scire (De Divinat.l. 2, n. 130). E nondimeno sul governo delle repubbliche [p. 103 modifica]e su’ doveri de’ magistrati e de’ sudditi così saggiamente egli scrisse, che, come narra Suida, legge vi era tra gli Spartani, che il libro da Dicearco scritto intorno alla loro repubblica fosse ogni anno alla presenza de’ giovani nel pretorio dagli efori letto pubblicamente. Così al medesimo tempo ch’egli toglieva alla religione e alla morale que’ fondamenti a cui solo l’una e l’altra possono appoggiarsi, parer voleva insieme della religione e della morale sostenitor zelantissimo. Nel che se da altri sia egli stato imitato, io lascerò che il decida chi ha tra le mani le opere de’ moderni liberi pensatori. Fiorì egli verso l’olimpiade cxvi, e delle opere da lui scritte si può vedere ciò che ampiamente ne hanno scritto Enrico Dodwello (Dissert. de Dicaearcho edita Vol. II. Geogr. Graec. Edit. Oxon.), il Bruckero (Hist. crit. Philos. t. 1, p. 854) e il Fabricio (Bibl. Graec. t. 2, p. 295). 5.


La medicina coltivata nella Magna Grecia. XIV. Allo studio della filosofia quello appartiene ancora della medicina; nè è perciò meraviglia che avendo i popoli della Magna Grecia e della Sicilia coltivata diligentemente la prima, celebri ancor riuscissero nella seconda. Que’ di Crotone singolarmente furono in medicina famosi per testimonio di Erodoto. Questi [p. 104 modifica]parla lungamente (l. 3, n. 131) di un Democede medico di Crotone, che visse a’ tempi di Pittagora, e dice che in tanta fama egli venne, che i medici di Crotone stimati eran fra tutti i più eccellenti, e dopo essi que’ di Cirene: Primi Crotoniatae medici celebrantur per Graeciam; secundi vero Cirenaei. Io non parlerò qui di Epicarmo, di Empedocle, di Pausania, di Filistione, e di altri che nominati veggonsi da Laerzio (Vit. Phil. l. 8). Nemmeno farò menzione del medico Menecrate più per boria famoso che per sapere. Nota è la lettera piena di alterigia ch’egli scrisse a Filippo il Macedone, riferita da Ateneo (Deipnos. l. 7), e la risposta che il Re gli fece consigliandolo di viaggiare ad Anticira. Basterà il rammentare alcuni a’ quali la medicina è debitrice assai per le nuove strade in essa aperte. Alcmeone di Crotone6 discepolo di Pittagora fu il primo, come afferma Calcidio comentator del Timeo di Platone, che osservazioni anatomiche facesse e scrivesse sugli animali; anzi sulla costruzione dell’occhio ancora egli scrisse, come osserva il Bruckero (t. 2, p. 1132, in not.). Erodico fratello dell’orator Gorgia Leontino (perciocchè a Platone io amo meglio di credere, il quale così afferma (in Gorgia), che a Plutarco che il vuol nativo di Tracia): Erodico, dissi, fu il primo, secondo Platone (l. 3 de Rep.), [p. 105 modifica]che la ginnastica ossia il faticoso esercizio del corpo usasse nella medicina. Egli è vero che secondo l’osservazione dello stesso Platone (in Phaedro), troppo ne abusò, volendo perfino che si passeggiasse da Atene a Megara, città oltre 20 miglia lontana, e che appena toccatene le porte si ritornasse ad Atene. Ma non deesi perciò lasciare di sapergliene grado. Daniello le Clerc (Hist. de la Médecine p. 229, édit. Gènev.) afferma ch’ei fu maestro d’Ippocrate, e lo stesso dice il Burigny (Hist. de la Sicil. t. 1, p. 18). Ma io non ho finora trovato autore antico che ne faccia testimonianza. Siciliano pure nativo di Agrigento si fu Acrone. Plinio afferma (Hist. Nat. l. 29, c. 1) ch’ei fu autore di quella setta di medici che furon detti Empirici, poichè della sperienza valevansi a conoscere la natura de’ morbi ed a curarli. Ma il le Clerc sostiene (ibid. p. 224) che molto tempo dopo di Acrone una tal setta ebbe principio. Pare che qualche rivalità fosse tra lui ed Empedocle, come si raccoglie dal greco epigramma da Laerzio riferito (l. 8 in Emped.). Io qui nol rapporto, poichè non è possibile il traslatarlo dal greco in altra lingua senza che tutta perda la venustà e l’eleganza, fondato essendo lo scherzo sul nome stesso di Acrone, e su altre parole a cui esso nome ha relazione nella greca lingua7. Vuolsi qui aggiungere [p. 106 modifica]qualche cosa ancor della musica. Il più antico autore che di essa ci sia rimasto, come osserva il Fabricio (Bibl. Graec. t. 2, p. 257), egli è Aristosseno da Taranto, discepolo di Aristotele. Tre libri abbiamo degli Elementi Armonici da lui scritti, le cui diverse edizioni dal Fabricio vengono annoverate. Moltissimi altri libri avea egli composti, e se Suida non ha preso errore, o qualche sbaglio non è accaduto negli antichi esemplari, creder dobbiamo che fino a 452 essi fossero.


Matematici ivi illustri, e primieramente Archita. XV. Fra tutte però le scienze, il coltivamento delle quali accrebbe alla Magna Grecia ed alla Sicilia onore e lode, deesi, a mio parere, il primo luogo alla matematica. Non già ch’io voglia alla Sicilia concedere il famoso Euclide autore degli Elementi di Geometria. Il canonico Mongitore nella sua Biblioteca Siciliana ha usato di ogni sforzo per mostrarlo nativo di Gela, città di quell’isola. Ma egli ha ben potuto perciò recare l’autorità di molti moderni scrittori, e per lo più siciliani, la testimonianza de’ quali non è sufficiente prova, se da quelli degli antichi non è sostenuta; ma di questi un solo non ha egli potuto trovare che dica siciliano il geometra Euclide. Lasciato dunque questo in disparte, due illustri matematici ci si offrono a ragionarne, uno di Taranto nella Magna Grecia, cioè Archita, l’altro troppo più celebre [p. 107 modifica]di Siracusa, cioè Archimede. E quanto ad Archita già mentovato da noi tra’ filosofi, fiorì egli circa l’olimpiade xcvi, come dimostra il Bruckero (Hist. Crit. Phil. t. 1, p. 1128), e pel suo sapere venne in tal fama, che Platone ancora, oltre più altri, se gli diede a discepolo; nè solo della sua dottrina, ma della sua vita gli fu debitore. Poichè dannato a morte da Dionigi tiranno di Siracusa, ne fu campato per una lettera che al tiranno inviò Archita (Laërt. Vit. Philos. l. 8 in Archita). Più libri egli scrisse, che veggonsi mentovati dagli antichi autori, e dall’erudito Fabricio diligentemente annoverati (Bibl. Graec. t. 1, p. 493). Ma la geometria e l’algebra furon le scienze in cui per singolar modo si rendè celebre Archita. Fu egli il primo, al dir di Laerzio, che agli usi pratici rivolgesse la geometria, la qual fin allora a contemplazioni astratte ed inutili erasi applicata. Egli cominciò a ridurre a leggi determinate la meccanica, gli effetti esaminandone e spiegandone le ragioni; e del suo valore in questa parte di matematica diede egli un’illustre pruova col lavoro di una colomba di legno formata per modo che imitava il volo delle vere colombe. Esercitossi egli ancora intorno al famoso problema della duplicazione del cubo, e ne diede la soluzione che da Eutocio ne è stata conservata, della quale favellando il Montucla, dice che benchè essa sia unicamente speculativa, ci fa però concepire una vantaggiosa idea del suo autore (Hist. des Recherches sur la Quadrature du Cercle, p. 243). Intorno ad Archita e alle matematiche scoperte da lui [p. 108 modifica]fatte, si possono vedere i soprallodati autori, il Bruckero, io dico, il Fabricio, il Montucla (Hist. des Mathém. t.1, p. 137 e 188). Il Bruckero attribuisce ancora ad Archita l’invenzion della troclea ossia carrucola, e della coclea ossia vite; ma non allega autore alcuno che ciò affermi; e noi vedremo frappoco che la gloria di tali invenzioni più probabilmente si concede ad Archimede. Quale stima si acquistasse egli, chiaro si scorge dalla maniera con cui ne favellano gli scrittori. Orazio tra gli altri il chiama Misuratore della terra e del cielo e delle innumerabili arene, e uomo che sulle celesti sfere ardito avea di sollevarsi e di aggirarsi (l. 1, Od. 23). “In quest’Ode medesima Orazio accenna l’infelice morte di Archita, che perì naufrago presso le spiagge della Puglia, in un luogo che dicevasi Litus Matinum„. Nè alle scienze soltanto si ristrinse la gloria d’Archita, ma quella ancora di guerriero conseguì egli felicemente. Più volte condusse al combattimento le truppe della sua patria; e condotte da lui, mai non furono vinte; appena egli ne ebbe deposto il comando, furono rotte e disperse (V. Bruck. loc. cit.).


Fama di Archimede, e scrittori che ne hanno illustrata la Vita. XVI. Assai maggior nondimeno si fu la fama che si acquistò Archimede, di cui possiamo dire con ragione che quando l’Italia altri antichi matematici non avesse a vantare, di questo solo potrebbe giustamente andar lieta e superba. Io non recherò qui gli elogi che di lui leggonsi presso gli antichi scrittori, che buoni giudici non sembrerebbero essi forse ad alcuno, poichè vissuti in tempo in cui la matematica [p. 109 modifica]non era ancora a quella luce e a quella perfezione condotta in cui è al presente. Alcuni soli più recenti piacemi di addurne. Il Vossio non dubita di chiamarlo: Divini vir ingenii, qui priorum omnium luminibus obstruxit (De Art. et Scient. Nat. c. 16). Il P. Tacquet lo dice: Apex humanae subtilitatis: totius mathematicae disciplinae absolutio (Historica Narrat. de ortu et progr. Mathes.). Nella Storia dell’Accademia delle scienze egli è chiamato uno de’ più possenti genii che nelle matematiche sieno mai stati (Anno 1709). Il gran Leibnizio finalmente, a cui niuno de’ più profondi matematici non negherà fede, così di lui dice in una lettera a monsig. Huet citata da M. Dutens (t. 2, p. 161). Qui Archimedem intelligit, recentiorum summorum virorurum inventa parcius mirabitur. Le quali brevi parole contengono il maggior elogio che di lui possa farsi. E che tali elogi gli sien dovuti, agevolmente il conosce chiunque o ne esamina i libri che ce ne sono rimasti, o legge ciò che di lui raccontano gli autori che ne hanno scritta la storia. Fra questi meritano singolarmente di esser letti il co. Giammaria Mazzuchelli, di cui abbiamo una bella Vita di Archimede stampata in Brescia l’anno 1737, e il Montucla che le invenzioni e le scoperte di Archimede ha diligentemente esaminate (Hist. des Mathém t. 1, p. 231, ec.). Belle ricerche ancora sopra Archimede avea incominciato M. Melot (Mém. de l’Acad. des Inscript. t.14, p. 128); ma non so per qual ragione non le abbia egli condotte [p. 110 modifica]a fine8. Noi non prenderemo a descriverne minutamente la Vita, intorno a cui nulla ci lasciano a desiderare i mentovati autori e il primo singolarmente. Solo i principali studi e le scoperte più ragguardevoli ne accennerem brevemente, trattenendoci ove qualche cosa per incertezza meriti maggior esame.


Epoche della sua Vita, e sue prime scoperte. XVII. Nacque egli verso l’anno 286 innanzi l’era cristiana, cioè verso l’anno 467 di Roma; e Siracusa, che a ragione chiamar possiamo de’ più leggiadri e più sublimi ingegni dell’antichità educatrice e madre, ne fù la patria. S’egli fosse parente del re Gerone, come vuole Plutarco (in Marcello), o nol fosse, come altri affermano, poco giova il cercarlo. S’io facessi ricerche intorno alla Vita di Gerone, potrei cercare di accrescere a questo principe nuovo onore, esaminando s’egli avesse a parente Archimede. Ma questi non abbisogna di quella qualunque siasi gloria che dalle reali parentele deriva. La matematica e la meccanica singolarmente e la geometria furono sempre le sue delizie, nè altra passione oltre questa pare ch’egli non conoscesse. Plutarco ed altri antichi scrittori ne danno prove tali, che se si ammettesser per vere, cel mostrerebbero tratto dall’amore di questi studi alla pazzia non che all’entusiasmo; e quella singolarmente dell’essere [p. 111 modifica]egli balzato improvvisamente dal bagno in cui fatta aveva una scoperta geometrica, di cui poscia favelleremo, e così ignudo come era aggiratosi per le vie della città, gridando ad alta voce: io l’ho trovato, io l’ho trovato. Il matematico Montucla, che dalla scienza sua prediletta rimuover vorrebbe questa qualunque traccia di esser possente ancora a trarre altrui in pazzia, rigetta quai favolosi tali racconti. Io non voglio accingermi a difenderne la verità; ma parrà forse ad altri ch’essi non sien certo affatto improbabili, poichè di somiglianti trasporti veggiam noi pure al presente non rari esempi.


Altre scoperte del medesimo. XVIII. Uomo di sottile ed elevato ingegno, tutto volgeasi Archimede alla contemplazione e allo scoprimento delle più astruse e difficili verità che le matematiche ne possono offerire, e niuna sensibil pruova avrebbe egli forse data del suo sapere se i comandi del re Gerone e l’assedio della sua patria non lo avesser costretto a porre in pratica ciò che sinallora solo speculativamente aveva appreso e dimostrato. I libri che di lui ci rimangono, ne sono un chiaro argomento. Noi veggiamo la celebre sua discoperta della proporzione che ha la sfera al cilindro: scoperta di cui egli compiacquesi tanto, che volle che queste due figure fossero sul suo sepolcro scolpite, e tutto ne formassero l’onorevole elogio, migliore certo d’assai che non quelle pompose iscrizioni le quali spesso cercano, ma inutilmente, d’imporre alla troppo accorta posterità. Vi veggiam parimenti le osservazioni da lui fatte sulle conoidi [p. 112 modifica]e le sferoidi, le ricerche sulla misura del circolo e sulla quadratura della parabola, ed altre somiglianti, colle quali, come osserva il Montucla (Hist. de la Quadrat du Cercle, p. 29. V. etiam Dutens t. 2, p. 133, ec.), fu egli il primo tra’ matematici che giungesse a determinare a un dipresso la misura del circolo, su cui già da tanto tempo aveano i più antichi speculato e disputato inutilmente. Anzi che l’algebra ancora fosse da Archimede usata, egli è sentimento del Barrow, del Wallis, e di altri moderni matematici allegati da M. Dutens (tom. 2, p. 152, ec.). Tutte queste profonde ricerche fecero per l’addietro, e fanno anche al presente considerare Archimede come uno de’ primi istitutori, per così dire, delle matematiche scienze. Egli è vero che i moderni, lasciate le vie intricate e spinose, per cui avvolgendosi Archimede giunse a tali scoperte, altre più facili e più brevi ne han ritrovato. Ma ciò nulla dee toglier di lode a chi il primo cominciò a spianar loro il sentiero; e a lui debbono i posteri se più facilmente e più presto, ch’egli non fece, vi possono pervenire. Certo il Wallis, ottimo giudice in tali materie, non temè di onorare Archimede di un tale elogio: Vir stupendae sagacitatis, qui prima fundamenta posuit inventionum fere omnium, de quibus promovendis aetas nostra gloriatur (Ap. Montucla Hist. des Mathém. t. 1, p. 233).


Quanto a lui debba la meccanica e l’idrostatica. XIX. La meccanica ancora non dee ad Archimede punto meno della geometria, e, secondo il Montucla, egli può veramente dirsene il creatore, di che chiara pruova ci somministrano [p. 113 modifica]i due ingegnosi trattati che di lui abbiamo, De Æquiponderantibus, e De Iis quae vehuntur in fluido. Io non farommi qui a raccontar lungamente la celebre scoperta, che al re Gerone egli fece, della frode usata da un artefice, il quale avendo dal Re ricevuta una tal quantità d’oro per formargliene una corona, vi avea mista parte d’argento. Dicesi comunemente ch’egli a caso trovasse il modo di fare tale scoperta, mentre stavasi tuffato nel bagno, osservando l’acqua che per la massa del suo corpo fuori ne traboccava; alla qual occasione ancora narrano che fosse egli preso da quel trasporto di cui sopra dicemmo. Ma di questa favoletta ridesi il Montucla; e il metodo ancora rigetta, di cui dice Vitruvio aver usato Archimede; cioè di sommergere in un vaso d’acqua la corona, e quindi due altre masse al par di essa pesanti, l’una d’oro e l’altra d’argento, ed osservare la diversa quantità di acqua che da esse facevasi travasare. Un’altra più ingegnosa maniera egli ne arreca, con cui potè Archimede scoprire al re Gerone la frode, maniera tratta da quegli stessi principii che vengono da lui stabiliti nel suo libro De Insidentibus in fluido; cioè che ogni corpo sommerso in un fluido tanto vi perde il suo peso, quanto pesa un volume d’acqua uguale al suo. Io concederò volentieri al Montucla, che di questo principio si valesse Archimede a scoprire la frode; ma che di questo principio medesimo non potesse egli avere la prima idea, mentre si tuffava nel bagno, credo che difficilmente potrà mostrarsi. Veggasi anche come [p. 114 modifica]ragiona di questa scoperta il co. Mazzuchelli nella Vita di Archimede (p. 18, ec.).


Sue invenzioni ingegnose. XX. Fino a quaranta invenzioni meccaniche attribuivano gli antichi ad Archimede; ma appena ne troviamo alcune indicate negli autori che ci sono rimasti. Sua fra le altre dicesi la vite ossia chiocciola inclinata, in cui l’inclinazione medesima che il peso ha a cedere, sembra impiegata ad innalzarlo. A qual fine fosse ella da Archimede trovata, controvertesi tra gli scrittori. Il Montucla afferma ch’egli immaginolla affinchè gli Egiziani se ne valessero a togliere da’ più bassi terreni quell’acque che il Nilo ritirandosi vi lasciava. Al contrario il Melot sostiene che l’uso a cui da Archimede fu indirizzata, fosse quello di distribuire e compartire pe’ campi le acque stesse del Nilo. In due luoghi, dic’egli, parla Diodoro Siciliano della chiocciola di Archimede; in uno dice che gli Egiziani a questo fine appunto se ne servivano; nell’altro racconta solo che Archimede ne trovò l’uso in Egitto; ed il fine, aggiugne egli, di asciugare le acque stagnanti del Nilo, non è mentovato che dal Cardano, e Diodoro non ne fa motto. Così egli. E certo se noi consultiam Diodoro, noi veggiamo che l’altro uso solamente alla chiocciola di Archimede egli attribuisce per riguardo all’Egitto. Ecco i due passi in cui egli ne parla: Incolae, dic’egli in un luogo (l. 1, p. 40, edit. Amstel. 1746), facile eam (terram) rigant machina quadam ab Archimede syracusio inventa, quae a forma cochleae nomen habet. Nell’altro luogo così ragiona (l. 5, p. 360): Illos aquarum profluxus cochleis, quae Aegyptiae [p. 115 modifica]vocantur, exhauriunt. Inventor harum fuit Archimedes in sua ad Aegyptum peregrinatione. Ma qui egli non parla dell’Egitto, nè degli abitanti delle terre bagnate dal Nilo: parla della Spagna e di que’ che lavoravano nelle miniere, de’ quali dice che incontrando nelle sotterranee cave talvolta acque stagnanti, di questo strumento valevansi a volgere altrove le acque e ad asciugare le stesse cave. E quindi pare che il Melot più esattamente che il Montucla definito abbia l’uso per cui la vite fu da Archimede trovata. Da lui pure si crede che trovata fosse la chiocciola o vite che dicesi infinita; da lui la moltiplicazione delle carrucole che latinamente diconsi trochleae; e forse ancora, dice il Montucla, ei fu il primo inventore della carrucola mobile, poichè nella meccanica di Aristotele non se ne vede vestigio; da lui per ultimo, secondo Ateneo (Deipnos. l. 5), la macchina di cui i nocchieri valevansi a votar di acque la sentina delle navi. Intorno a queste e ad altre invenzioni di Archimede veggasi il co. Mazzucchelli che diffusamente ne ragiona.


Nave sterminata colle sue macchine gittate in mare. XXI. La sterminata nave fatta fabbricare dal re Gerone, e colle macchine di Archimede gittata in mare, è un’altra prova del creatore fecondissimo ingegno di sì grand’uomo. Aveane già egli dato un saggio col trarre egli solo in mare, standosi tranquillamente seduto, una nave mercantile carica di enorme peso (Plut. in Marc.). Ma assai maggiore fu quello che diede all’occasione di quest’altra nave. Ateneo ce ne ha lasciata una minuta ed esatta descrizione (loc. cit.), cui io recherò qui secondo la [p. 116 modifica]traduzione che nella Vita di Archimede ne ha fatta il co. Mazzuchelli (p. 43, ec.) Gerone dunque re di Siracusa, strettissimo amico de’ Romani, pose ogni studio nella struttura de’ tempii e de’ luoghi ai pubblici esercizi destinati; e fu vago d’acquistarsi gloria nella fabbrica delle navi che servir dovevano a caricare formenti. Descriverò io la fabbrica d’una di queste. Sul monte Etna fu provveduto il material de’ legnami, il quale sarebbe stato bastevole per lavorare sessanta galere. Apparecchiati che questi furono, non men che i chiodi e tutto il bisognevole per la fabbrica interiore, colle dirette colonne, e coll’altra materia ad altri usi, parte dall’Italia e parte dalla Sicilia, oltre alle cortecce delle pioppe dalla Spagna (il testo greco dice Iberia, la qual voce può ancora significare la Giorgia in Asia) per far le gomene, il canape, ed il ginepro dal fiume Rodano, con tutte le altre cose da varie parti del mondo, condusse de’ fabbri di nave con altri artifici, ponendo alla testa di tutti Archia corintio architetto; ed acciocchè con coraggio intraprendessero il lavoro, gli andava caldamente esortando, e vi assisteva egli stesso in persona i giorni interi. Nello spazio di sei mesi ne fu compiuta la metà, e questa di mano in mano s’andava coprendo con lamine di piombo, poichè erano al lavoro impiegati trecento artefici oltre agli altri operai. Ordinò Gerone che questa metà già compiuta in mar si traesse, e quivi si lavorasse l'altra metà. Ma il tirar questa nave in mare essendo cosa molto malagevole, il solo Archimede ingegnero ve la trasse [p. 117 modifica]con pochi strumenti, avendo allestita l’elica, per mezzo della quale ridusse in mare una nave sì smisurata. Archimede fu il primo che ritrovasse tal macchina. Allorchè poi nello spazio d’altri sei mesi ridussero a compimento l’altra metà della nave, fu tutta insieme unita con chiodi di bronzo, altri del peso di libbre dieci, ed altri di quindici, i quali messi in opra per mezzo de’ succhii servivano a tener unite le tavole, e con piastre di piombo venivano al legno inserrati col sottoporvi pece e pezzi di lino. Lavorata in tal guisa la parte esteriore della nave, si diede mano all’interna. Venti ordini di remi erano in essa nave con tre entrate, di cui la più bassa portava nella savorra, ed in essa scendevasi per molte scale; l’altra presentavasi a quelli che andar volevano negli appartamenti più famigliari, e l’ultima estendevasi nei quartieri dei soldati. Ad un fianco ed all’altro dell’entrata di mezzo erano trenta camere famigliari, e cadauna di queste era fornita di quattro letti. Nel luogo ai marinai destinato n’erano quindici con tre talami per gli ammogliati, fornita ognuna di tre letti, la cucina de’ quali era verso la poppa. Il pavimento di quanto abbiamo riferito, era formato di picciole pietre quadrate e diverse, le quali rappresentavano al vivo tutta la favolosa guerra di Troia, essendo l’artifizio in ogni cosa maraviglioso e per la struttura e per la copertura e per le porte e per le finestre. Nell’ingresso poi superiore era il luogo de’ pubblici esercizi, ed alcuni passeggi che corrispondevano alla grandezza di questa nave. Tra questi v’era [p. 118 modifica]situata con maraviglia ogni sorta di giardini, i quali per mezzo di canali di terra o pur di piombo comunicavano all’interno l’acqua alle piante. V’erano inoltre certi teatri formati d'ellera bianca e di viti, le cui radici venivano nodrite in vasi pieni di terra, i quali adacquavansi non meno che gli orti. Questi teatri coprivano e recavano l’ombra ai suddetti passeggi. Anche per i piaceri di Venere eravi un lupanare costrutto, e questo ornato di tre letti col pavimento d’agata e di altre bellissime gemme, quante potevansi ritrovare in Sicilia. Erano le muraglie non men che il coperto di cipresso, le porte d'avorio e di cedro atlantico, ed il tutto ornato oltre ogni credere di pitture, di statue e di varii bicchieri. Vicina a questo era una sala con cinque letti, le pareti della quale erano di bosso, non men che le porte, ed in questa era la libreria, e nella sommità un orologio fatto ad imitazione di quello solare che fu già in Acradina (così chiamavasi una parte di Siracusa). Eravi ancora un bagno con tre caldaie di rame, e tre letti, ed un gran vaso da lavarsi, di marmo di Taormina (città di Sicilia) di vario colore, della tenuta di cinque metrete (cioè della tenuta di 540 libbre circa d acqua). Fabbricate pur furono molte stanze per i passaggieri e per i custodi della sentina, e separate da questi v'erano da una parte e dall’altra dieci stalle, ed in queste era pure riposto il fieno pe’ cavalli, non meno che il luogo adattato per lo bagaglio de’ servi e de’ soldati a cavallo. Nella prora poi era una cisterna d'acqua, che chiudere ed aprire potevasi. [p. 119 modifica]Era questa di assi unite ed impeciate con lino, e conteneva due mila metrete (cioè 216,000 libbre in circa d’acqua). Vicina alla cisterna era una peschiera fatta di molte tavole di legno con lame di piombo: era piena d’acqua salsa, ed in essa ben nodrivansi molti pesci. Dai lati della nave sporgevansi in fuori alcune travi a proporzione tra loro distanti, le quali sostenevano i ripostigli per le legne, i forni, le cucine, le macine, ed altri molti ministeri servili. Sull’esterior della nave v’erano molte statue alte sei braccia, che rappresentavano Atlante, le quali tutte secondo il loro ordine sostenevano la mole del tavolato ed il lavoro fatto a canaletti nelle cornici delle colonne. Tutta la nave poi era adornata di proporzionate pitture, ed era munita d’otto gran torri che corrispondevano alla sua altezza, due in poppa, due in prora, e l’altre nel mezzo. A cadauna poi di queste erano legate due antenne, e di sopra eranvi alcuni fori, per mezzo de’ quali si lanciavano de’ sassi contra i nemici che s’avvicinavano. Ognuna di queste torri veniva ascesa da quattro giovani armati e due arcieri, e l’interno di queste era tutto pieno di sassi e di saette. V’era inoltre fabbricata per il lungo della nave una muraglia co’ ripari e coi tavolati, e sopra di questi era collocata una balista da tre legni a guisa di triangolo sostenuta, che lanciava un sasso di tre talenti (quando questi talenti si considerino attici dell’ordine de’ minori, come io credo ragionevole, secondo l’usanza comune degli antichi, pesava quel sasso cento ottanta sette libbre e mezza romane; imperciocchè ogni [p. 120 modifica]talento attico minore era di sessanta mine che corrispondevano a sessanta due libbre e mezza romane), ed una saetta di dodici braccia, e l’uno e l’altra per lo spazio di uno stadio (vale a dire di un’ottava parte d’un miglio o sia di 125 passi geometrici), e questa macchina era stata da Archimede fabbricata. V’erano inoltre certi fori in grosse travi intagliati, e sostenuti da catene di bronzo. Tre erano gli alberi della nave, e ciascuno di questi aveva due antenne caricate di sassi, dalle quali uncini e palle di piombo lanciavansi contro i nemici. Era circondata la nave da una palizzata di ferro, la quale teneva lontani gli assalitori, ed eranvi tutto all’intorno certe mani ferrate, le quali gettate per mezzo d’ordigni nelle navi nemiche s’attaccavano a queste per poterle più facilmente scomporre ed offendere. Da un fianco e dall’altro erano sessanta giovani armati da capo a piedi, ed altrettanti intorno agli alberi della nave ed alle antenne caricate di sassi. Nelle gabbie, che lavorate di bronzo erano sul primo albero della nave, stavano tre uomini, e due per cadauna delle altre. A questi nelle gabbie suddette venivano somministrate da alcuni ragazzi in canestri tessuti di vinchi, per mezzo delle carrucole, e pietre e saette. La nave aveva quattro ancore di legno ed otto di ferro. Il secondo ed il terzo degli alberi della nave furono con facilità ritrovati, ma il primo assai difficilmente ne’ monti della Brettagna da un porcaio. Filea ingegnere di Taormina fu quegli che lo ridusse in mare. La sentina poi, benchè profondissima, votavasi [p. 121 modifica]da un uomo solo per mezzo della chiocciola da Archimede inventata. Questa nave fu alla prima chiamata Siracusana, ma dappoichè si privò di essa Gerone, chiamossi Alessandrina. Era accompagnata da altre navi minori, e primieramente dal Cercuro, il quale, portava di carico tre mila talenti (cioè 187,500 libbre romane di peso) e movevasi a forza di remi. V’erano pure di seguito altre barchette e battelli pescharecci, che avevano di carico mille e cinquecento talenti. La gente poi niente era minore della già detta, poichè v’erano sulla prora seicento uomini per eseguire ciò che veniva ordinato. I delitti che in questa nave facevansi, venivano giudicati dal condottiere, dal governator della nave e dal Gedotto, secondo le leggi siracusane. Su queste navi furono caricati sessanta mila moggi di formento, dieci mila orci di salume lavorato in Sicilia, venti mila talenti di carne, ed altrettanti d’altre vettovaglie, ed oltre a ciò v’erano i commestibili per quelli ch’erano in nave. Ma essendosi informato Gerone che di tutti i porti della Sicilia altri non erano capaci di questa nave, ed altri erano pericolosi, stabilì di spedirla ad Alessandria in dono al re Tolomeo, poichè in Egitto era gran penuria di formento, e colà mandolla.


Risposta alle difficoltà contro un tal fatto. XXII. Ma il Montucla stima di dover rigettar tralle favole un tal racconto. Que’ che conoscono, dic’egli, quanto gran parte di potenza tolga il fregamento in qualchesiasi macchina, giudicheranno esser questa una finzione. Egli è inoltre un de’ principii della meccanica, che quanto guadagnasi in forza, altrettanto perdesi [p. 122 modifica]in velocità. Quindi se una macchina pone l’uomo in istato di far egli solo ciò che cento colle naturali lor forze avrebbon fatto, egli il farà cento volte più lentamente. Quindi secondo questo principio avrebbe Archimede abbisognato di tempo troppo notabile per far avanzare sensibilmente peso sì enorme. Io non voglio contrastar col Montucla su questi principii. Ma essi non provano, se non che di molto tempo abbisognò Archimede per trarre in mare quella sterminata mole. Ma dice egli forse Ateneo, che Archimede il facesse in un batter d’occhio? Così pare che abbia inteso il Montucla; ma leggasi il racconto di Ateneo, e si vedrà che di tale prestezza egli non fa motto. Se altri a render più mirabile il racconto ve l’hanno aggiunta, contro essi si rivolga il Montucla; ma non rigetti la narrazion di Ateneo per una circostanza che in lui non si trova. Anzi ove abbiam veduto dirsi nell’arrecato racconto, che Archimede la trasse in mare con pochi strumenti, altri leggono, come avverte lo stesso co. Mazzucchelli, con pochi servi; il che toglie una delle difficoltà dal Montucla addotte, cioè che troppo difficilmente potesse ciò fare il solo Archimede. Egli è vero che Ateneo è il solo tra gli antichi scrittori che di questa nave ci abbia lasciata memoria; ma riflettasi che egli non ne fa la descrizione a capriccio, nè sì fonda su d’una incerta popolar tradizione, ma riferisce la descrizione fattane da Moschione: Cum de ea Moschion quidam librum ediderit, quem nuper attente et studiose legi: sic igitur Moschion scribit. Riflettasi che antico scrittore [p. 123 modifica]dovett’essere questo Moschione, poichè Ateneo ne parla come d’uomo di cui appena restava notizia alcuna: Moschion quidam; e perciò essendo Ateneo vissuto al secondo secolo di Cristo, potè forse Moschione essere o contemporaneo, o certo non molto di età lontano da Archimede, morto circa un secolo e mezzo innanzi Cristo. Aggiungasi ancora, che nella narrazion di Moschione, da Ateneo inserita nella sua storia, vedesi un greco epigramma in lode di questa nave, fatto da Archimelo, a cui perciò Gerone fece un presente di mille moggia di grano; nel qual epigramma quelle stesse proprietà di questa nave veggonsi accennate, che più diffusamente descritte sono nella recata narrazione. Per le quali ragioni pare certamente che questo racconto secondo le buone leggi di critica si debba ammetter per vero, benchè forse alcune circostanze possano essere state esagerate di troppo, singolarmente per ciò che appartiene alle parti di cui la nave era composta, e alle delicie d’ogni maniera che vi erano aggiunte.


Invenzione della sfera artificiale. XXIII. Ma niuno ad Archimede contrasta l’onor della sfera artificiale ingegnosamente da lui trovata a spiegare ed a rappresentare il movimento degli astri. Pare ch’egli di questo suo ritrovato singolarmente si compiacesse, poichè fu esso l'unico tra’ suoi lavori di cui egli ne lasciasse la descrizione nel suo libro intitolato Sphaeropaeja. La quale invenzione di tanto pregio fu tra gli antichi, che per riguardo ad essa uomo di divino ingegno fu da Cicerone detto Archimede. Ne in sphaera quidem, dice [p. 124 modifica]egli parlando de’ movimenti celesti, eosdem motus Archimedes sine divino ingenio potuisset imitari (Tuscul. Quaest. l. 1).


Macchine da lui trovate per difendere Siracusa. XXIV. Gli ultimi giorni della vita di Archimede furono quelli in cui tutte le profonde e sottili sue speculazioni traendo alla pratica, a vantaggio le volse della sua patria assediata allor da’ Romani. Io seguirò qui l’esempio del Montucla, nè tratterromi a descrivere minutamente le macchine tutte da Archimede in tal occasione usate. Se noi crediamo a’ racconti degli antichi scrittori, operò egli allora cose portentose al sommo e pressochè incredibili. Dardi e sassi e travi d’ogni maniera lanciati dalle mura contro le navi romane, ed altre di queste colle macchine di Archimede oppresse e gittate a fondo, altre fermate con uncini e tratte ad urtare e ad infrangersi fra gli scogli, altre levate in alto e aggirate intorno per aria, e rovesciate poscia nell’onde; tutti in somma gli sforzi degli assedianti delusi e ribattuti per modo che Marcello disperò di potere mai prender per forza l’assediata città. Io penso certo che il terrore in cui alcune macchine di Archimede dovetter gittare i Romani, gli sgomentasse per modo, che anche assai più di ciò che era, paresse lor di vedere, e ne venisser poi quindi quegli esagerati racconti che leggonsi negli storici. Ma egli è indubitabile che ingegnose dovettero essere le macchine con cui riuscì ad Archimede di frastornare e deludere per tanto tempo l’impeto e il furor de’ nemici. Polibio (Excerpta l. 8), Livio (Dec. 3, l. 4) e Plutarco (in Marcello) son gli scrittori che [p. 125 modifica]più diffusamente ne han favellato. E tra questi Polibio, scrittor prudente e cauto, e vissuto nello stesso secolo di Archimede, è certamente degno che, in ciò che narra, gli si presti credenza.


Se egli incendiasse co’ suoi specchi ustorii la navi romane. XXV. A questo luogo appartiene la famosa quistione degli specchi ustorii, con cui pretendesi che Archimede incendiasse le navi romane: nel qual fatto tre cose si hanno a distinguere: cioè in primo luogo, se sia fisicamente possibile trovar tali specchi che ardan le navi a quella distanza a cui esser doveano le romane dalle mura di Siracusa; in secondo luogo, ancorchè ciò sia possibile per se stesso, se le circostanze del luogo permettessero ad Archimede di usare di tali specchi; e per ultimo, ancorchè fosse in ogni modo possibile e verisimile, se questo fatto debbasi avere per certo e indubitato. E quanto al primo, crederon molti del tutto impossibile il trovare uno specchio ustorio di tal forza che produr potesse l’effetto che a quello di Archimede si attribuisce; e anche ultimamente il co. Mazzuchelli nella Vita d’Archimede da lui pubblicata ha preteso di provarlo con matematica dimostrazione. Nondimeno il P. Cavalieri nel suo Trattato degli specchi ustorii, e il P. Kircher nella sua opera intitolata Ars magna lucis et umbrae si fecero a mostrarlo possibile. Una tal possibilità pretesero ancor di mostrare due professori tedeschi Gio. Giorgio Liebnecht, e Giovanni Cristoforo Albrecht in una dissertazione stampata in Altemburgo di Misnia l’an. 1704, di cui hassi un breve estratto nel Giornale de’ [p. 126 modifica]Dotti di Parigi (Journ. des Scav. 1705, p. 532). Queste dimostrazioni però erano fino allora state speculative soltanto, e niuno, ch’io sappia, erasi accinto a tentarne la pratica. Ma abbiamo nelle Memorie dell’Accademia delle Scienze una dissertazione di M. Dufay (an. 1726), in cui colle sperienze da sè fatte dimostra possibile uno specchio che produca sì maraviglioso effetto. In maniera ancora più chiara si mostra lo stesso fatto possibile colle sperienze del celebre M. Buffon, di cui si può vedere la bella dissertazione inserita nelle stesse Memorie (anno 1747, p. 82). Descrive egli in essa per qual maniera per mezzo di molti specchi piani, che in un foco comune riflettevano i raggi del sole, gli venne fatto di ardere fino alla distanza di 150 piedi, benchè col sole assai debole di primavera; e aggiugne ch’egli sperava di potere con nuove sperienze giugnere sino alla distanza di 400 piedi, e forse ancora più oltre.


Ancorchè cotali specchi sian possibili, il fatto non è probabile. XXVI. Non si può dunque dubitare che non possano i raggi del sole accender fuoco a quella distanza a cui esser doveano le navi romane nell’assedio di Siracusa. Ma è egli probabile che ciò accadesse? Qui è dove io incontro la maggior difficoltà. Affinchè una materia pe’ raggi del sole s’infiammi e prenda fuoco, conviene ch’ella sia ferma ed immobile; perciocchè non potendosi il fuoco eccitare in un momento, se i raggi vanno a percuotere or in un punto, ora in un altro, non produrranno mai quest’effetto. Inoltre se la materia non è tale che presto prenda fuoco e s’infiammi, molto tempo richiedesi, perchè la fiamma si accenda e si [p. 127 modifica]propaghi all’intorno. Or crederem noi che le navi romane si stessero così ferme, che permettessero ad Archimede l’usare a tutto suo agio de’ suoi specchi? o che quando pure cominciassero i raggi del sole ad operar sopra esse, non si movessero tosto di luogo ad impedirne l’effetto? e che quando ancora le avesse Archimede co’ suoi maravigliosi uncini immobilmente arrestate, non estinguessero in sulle prime i Romani il nascente fuoco, nè gli permettessero l’avvivarsi e il distendersi più oltre? Questo è ciò che a me rende più improbabile un tal racconto.


Nè è abbastanza provato. XXVII. Ma ancorchè un tal fatto si mostri e possibile e probabile, rimane ancora a vedere se debbasi veramente credere avvenuto. Ella è certo cosa maravigliosa, che i tre antichi autori che delle macchine di Archimede hanno diffusamente parlato, di questi specchi non faccian motto. Ne parla Zonara: ma oltrechè egli è autore troppo recente per ottener fede, ella è così sciocca la descrizione ch’egli ce ne fa, che non merita di esser confutata. Speculo quodam, dic'egli (Annal.t. 2), secondo la traduzione di Girolamo Wolfio, versus solem suspenso, aereque ob densitatem et laevitatem speculi ex iis radiis incenso, effecit, ut ingens fiamma recte in naves illata omnes eas cremaret. Nulla io dico dell'autorità di Eustazio commentatore di Omero (Ap. Fabric. Bibl. Graec. t. 2, p. 552), poichè egli è pure autor troppo recente, vissuto nel secolo xii. Più autorevole è il testimonio di Giovanni Tzetze, che nelle sue Chiliadi Storiche di questo specchio [p. 128 modifica]distintamente favella. Egli è anch’esso autor recente, cioè del secolo xii, ma allega a testimonii del fatto antichi autori, Dione, Diodoro, Erone, Pappo, Antemio, Filone, anzi aggiugne egli, tutti gli scrittori di meccanica, ac omnes mechanographos. Ma ciò è appunto che mi fa sospettare che quando Tzetze cita tutti questi autori, egli intenda di parlare di quelli che di tutte le macchine d’Archimede ne lasciaron memoria, delle quali parla egli pure, ma che forse niuno di essi di questi specchi favellasse distintamente. In fatti è egli possibile che avendo pur noi molti de’ matematici antichi, e molti degli antichi scrittori da Tzetze rammentati, niuno ci sia rimasto di quelli che parlavano di tali specchi; o se alcuni ci sono rimasti, quella parte appunto ne sia perita ove di essi facean menzione? Ne parlan per ultimo Luciano (in Hippia) e Galeno (De Temperam.l. 3, c. 2), e questi sono certamente i più autorevoli testimonii, perciocchè vissuti l’uno e l’altro nel secondo secolo di Cristo; ma io non so se l’autorità di questi scrittori, antichi certo, ma posteriori di oltre a tre secoli ad Archimede, basti a superare la difficoltà presa dal silenzio degli altri, e singolarmente di Polibio, e dalla inverisimiglianza che nell’incendio delle navi abbiamo osservata. Ciò non ostante M. Dutens sostiene vero il fatto (t. 2, p. 138, ec.9. Io ne lascio il giudizio agli Eruditi. [p. 129 modifica]


Morte di Archimede. XXVIII. Checchessia di tal fatto, l’assedio di Siracusa fu ad Archimede fatale. Presa finalmente la città da’ Romani l’an. di Roma 542, mentre i furiosi vincitori qua e là scorrevano saccheggiandola, un soldato avvenutosi in Archimede, che senza punto turbarsi all’universale sconvolgimento della città stavasi tutto intento alle usate sue speculazioni, brutalmente lo uccise. Varie sono presso i varii scrittori le circostanze del fatto; ma poco giova indagarle, certa essendone la sostanza. Marcello general de’ Romani ne ebbe, e ne mostrò pubblicamente dolor grande. Fu ad Archimede conceduto l’onor del sepolcro, quale l’aveva egli desiderato. Ma questo sepolcro medesimo era ito in dimenticanza più di 100 anni dopo, quando Cicerone andò questore in Sicilia. Narra egli stesso (Tusculan. Quaest. l. 5) in qual maniera gli venisse fatto di scoprirlo a’ Siracusani, i quali tanto ne avean perduta ogni memoria, che assicuravano il sepolcro di Archimede non esser certamente tra loro. Così un Romano riparò in certo modo l’ingiuria che questo valentuomo avea da un altro Romano ricevuta. Ad alcuni han data noia in questo racconto di Cicerone quelle parole humilem homunculum, con cui [p. 130 modifica]egli chiama Archimede, come se dirlo volesse uom dappoco e spregevole. Su queste parole si può vedere una dissertazione del sig. Fraguier nelle Memorie della Accademia delle Iscrizioni (t. 2, p. 306). Ma senza inutilmente perderci in dissertare, basta il riflettere che sì gran concetto avea Cicerone di Archimede, che volle cercarne il sepolcro, e che chiamollo, come fu detto di sopra, uomo di divino ingegno, per comprendere che quelle parole humilem homunculum non significano già uomo da nulla, ma uom privato e povero, e vissuto lungi dalla luce de’ pubblici onori. Ma di Archimede basti fin qui. “Vitruvio insieme con Archimede nomina ancora un certo Scopina siracusano come autore di macchine ingegnose: Hi autem inveniuntur raro, ut aliquando fuerunt..... Archimedes et Scopinas ab Syracusis, qui multas res organicas numeris naturalibusque rationibus inventas atque explicatas posteris reliquerunt (Architect. lib. 1. c. 1). Ma di lui niun’altra memoria ci è rimasta„.


Legislatori della Magna Grecia, e prima Zaleuco. XXIX. Prima di passare da questi gravi e severi studi di filosofia e di matematica, di cui finor abbiam ragionato, a’ più dilettevoli ed ameni, ci conviene ancor dir qualche cosa de’ celebri legislatori che la Grecia grande e la Sicilia anticamente ci diede. Come le passioni degli uomini renduta han necessaria la promulgazion delle leggi, così necessario ne rendono lo studio ancora. Quindi alla storia letteraria di una nazione appartiene per necessaria connessione la storia della giurisprudenza, e di quelli che ne furono, per così dire, i primi [p. 131 modifica]padri e fondatori. Molto più che con probabile fondamento si può affermare che gl’Italiani in questo ancor precedessero agli altri popoli, e lor servisser di scorta. I Locresi popoli della Grecia Grande, dicesi dal Fabricio (Bibl. Graec. l. 2, c. 14) che i primi fosser tra i Greci, e quindi tra tutti i popoli di Europa che avessero leggi scritte. Zaleuco di Locri, schiavo prima e pastore secondo alcuni, e poscia pe’ suoi meriti posto in libertà, ma secondo Diodoro (l. 12) uomo di chiaro lignaggio, fu il loro legislatore, e egli vien riputato più antico di Solone, di Licurgo e di altri celebri greci legislatori (V. Bruck. t. 1, p. 435). Egli dalle leggi de’ Cretesi, de’ Lacedemoni e degli Ateniesi, leggi che non erano ancora scritte, ma per tradizione passavano da’ padri a’ figli, raccolse quelle che gli parver migliori, altre ne riformò, altre ne aggiunse, e il primo corpo di leggi scritte venne formando in Europa. Egli è vero che fu opinion di Timeo che questo Zaleuco non mai ci vivesse al mondo, ma al testimonio di Timeo contrappone Cicerone quello di Teofrasto (De Leg. l. 2), scrittore, secondo molti, più autorevole di Timeo, e la tradizione costante di tutti i Locresi. Delle leggi di Zaleuco un saggio abbiamo in Diodoro (loc. cit.), da cui veggiamo quanto saggio e religioso legislatore egli fosse, perciocchè esse avevano questo principio: Richiedersi da suoi cittadini che innanzi ad ogni altra cosa abbian per fermo esservi gl’iddii; e che volgendo al cielo lo sguardo e il pensiero, e considerandone la struttura e l’ordin maraviglioso, non pensino [p. 132 modifica]quello essere stato lavoro o di fortuito caso o di umano accorgimento; quindi rispettino e onorino gl’Iddii, da’ quali ogni bene e ogni vantaggio viene agli uomini. Abbiano inoltre l’animo da’ vizi d’ogni sorta sgombero e puro; perciocchè gl’Iddii non tanto de’ sacrifici e delle sontuose feste si piacciono, quanto de’ saggi ed onesti costumi degli uomini. A qual tempo egli vivesse, non si può esattamente determinare. Diodoro il fa discepolo di Pittagora; ma il Bentley, nell’Apologia della sua Dissertazione sopra le Lettere a Falaride attribuite, con buoni argomenti dimostra essere stato Zaleuco più di Pittagora antico. I due fatti che di lui si raccontano, cioè che avendo egli nelle sue leggi ordinato che agli adulteri cavati fosser gli occhi, sorpreso in adulterio il proprio suo figlio, il rigoroso insieme e tenero padre per divider la pena, e mantenere a un tempo la legge, un occhio facesse cavare al figlio, l’altro a se stesso; e che avendo egli pur fatta legge che niuno venisse armato a favellare al popolo, ed avendo egli stesso incautamente in tempo d’improvviso tumulto contravvenuto alla sua legge, da se medesimo si uccidesse; questi due fatti, io dico, son raccontati da autori troppo recenti, perchè meritino o pronta fede o esatta ricerca. Oltre che, per ciò che appartiene al secondo, una somigliante morte da altri si attribuisce a Caronda, a Diocle da altri, come or ora vedremo.


Caronda. XXX. Caronda fu egli pure famoso tra gli antichi legislatori. Era egli nativo di Catania in Sicilia secondo alcuni, secondo altri di Turio nella Magna Grecia; e secondo il Bruckero visse [p. 133 modifica]egli ancora innanzi a Pittagora (t. 1, p. 436). Fu egli, come narra Diodoro (l. 12), da que’ di Turio prescelto a scriver loro le leggi, ma queste furon poscia da altre città ancora così della Magna Grecia, come della Sicilia ricevute. Di esse fa un esatto compendio il medesimo autore. Io una sola ne scelgo, come più di tutte confacente al mio proposito. Un’altra legge ancor più eccellente, dice Diodoro, ma dagli antichi legislatori trascurata, promulgò egli; cioè che tutti i figli de’ cittadini fossero nelle belle lettere istruiti, e che la città pagasse perciò a’ precettori il dovuto stipendio; perciocchè egli avea preveduto che coloro i quali per le domestiche angustie non avesser potuto dare a loro maestri la dovuta mercede, sarebbono stati privi di letteraria educazione; ed egli alle altre arti pensò giustamente che le lettere dovessero antiporsi. Questo è il primo esempio di scuole a spese del pubblico aperte a comune vantaggio; e non è certamente picciola lode della nostra Italia, che in questo ancora ella sia stata alle altre nazioni norma ed esempio. Di lui racconta Diodoro, che da se medesimo si diede la morte in quella maniera appunto che vedemmo poc’anzi narrarsi da altri di Zaleuco. Aggiugne Diodoro, che questo genere di morte attribuiscono altri a Diocle, e lo stesso Diodoro di fatti non molto dopo (l. 13) parlando di Diocle afferma che per tal maniera finì la vita.


Diocle ed altri. XXXI. Il mentovato Diocle fu legislatore de Siracusani. Ma delle leggi di lui non abbiamo, più minuta contezza. Così pure altri legislatori [p. 134 modifica] di queste provincie d’Italia noi veggiam nominati, ma de’ quali altro non sappiamo che il nome loro, e di quei popoli a cui formaron le leggi. Tali sono Andromada da Reggio, legislatore de’ Calcidesi, Elicaone, Teeteto e Pitio degli abitanti di Reggio, Onomacrito Locrese de’ Cretesi, Protagora de’ Turii, Timarato de’ Locresi. I loro nomi, e le poche notizie che di essi e delle loro leggi ci sono rimaste, si posson vedere presso Giannalberto Fabricio, che tutto ciò che ad essi appartiene, coll’usata sua diligenza dagli antichi autori ha raccolto (Bib. Graec. l. 2, c. 14). Ma egli è omai tempo che a più lieti studi si faccia da noi passaggio, e si mostri quanto in questi ancora abbia l’Italia al giovamento delle altre nazioni contribuito.

Note

  1. Delle opinioni di Pittagora e de’ Pittagorici intorno a tutto ciò che all’astronomia appartiene, merita ancora di esser letta la Storia di M. Bailly, in cui dottamente non meno che esattamente ogni cosa si esamina (Hist. de l’Astron. ancienne, p. 206, ec. 446, ec.)
  2. E qui ed altrove io ho affermato che Pittagora ed altri antichi filosofi hanno gittati i primi semi della buona filosofia, e che molte sentenze, che ora da’ più famosi astronomi e fisici son ricevute, ebbero fra essi la prima origine, e ho a tal proposito citato con lode il libro di M. Dutens, intitolato Recherches sur les Découvertes attribuées aux modernes, ec., in cui egli questo punto medesimo ha preso ad esaminare con assai diligenza. Ma contro questo scrittore si è levato recentemente M. Saverien, e nella prefazione al primo tomo delle sue Vite degli antichi Filosofi ha asserito che chi è di tal sentimento, scrive a caso e senza cognizione di causa: ch’ei debb’esser uomo assai poco versato nella metafisica, e del tutto nuovo in geometria, e nell’astronomia e nella fisica assai male istruito. Ecco dunque due scrittori di ben diverso parere. A chi di essi darem noi fede? Chi vuol operar saggiamente, non dee arrendersi alla semplice asserzione nè dell’uno nè dell’altro; dee esaminare le opere degli antichi filosofi, i loro detti, le loro sentenze, confrontarle con quelle de’ moderni filosofi, e decidere chi de’ suddetti autori abbia colto nel vero. Ma anche senza intraprendere un sì faticoso esame, la diversa maniera con cui questi due scrittori procedono nell’esporre il lor sentimento, pormi che possa essere bastevole fondamento per dare all’un sopra l’altro la preferenza. M. Dutens riporta fedelmente i detti degli antichi su ciascheduna delle quistioni, e colle lor parole alla mano mostra ch’essi in molte cose hanno scoperto, o almeno adombrato il vero prima de’ moderni. M. Saverien avrebbe dovuto chiamare all’esame tai passi, e mostrare ch’essi non provano abbastanza ciò che vorrebbe M. Dutens. Ma egli non si cura di ciò, e vuole che gli crediamo senz’altro che M. Dulens si è ingannato. Noi il pregherem dunque a darcene prima le pruove, poichè sinora ci pare che il suo avversario sia stato più felice di lui nel sostenere la sua proposizione.
  3. Di Alcmeone parla ancora l’imperadrice Eudossia che verso la fine del xii secolo scrisse il suo Dizionario mitologico-storico intitolato Ionia, e pubblicato pochi anni addietro dal dottissimo M. Ansse de Villoison; ed ella ragiona ancora di quelli de’ quali in questo capo si è fatta menzione, cioè di Archita, di Aristosseno, di Acrone, di Dicearco, di Zenone, di Epicarmo, di Menecrate, e di un altro medico siracusano detto Democrito, e di un filosofo pure siracusano detto Dione, e anche del tiranno Dionigi (Anecdota Graeca. Venet. 1781, vol. 1, p. 69, 74, 72, 49, 135, 204, 166, 299, 129, 137, 136). Ella è cosa degna d’osservazione che in quasi tutti gli articoli Eudossia usa le parole stesse che si trovano in Suida; e come l’età di questo scrittore non è abbastanza accertata, così riman dubbio se Suida abbia copiata Eudossia, o Eudossia Suida, o se, come crede l’erudito editore dell’Opera di Eudossia, abbiano amendue attinto a un’altra fonte comune.
  4. Della setta pittagorica e delle altre che nella Magna Grecia fiorirono, e de’ più illustri filosofi e matematici che usciron da esse, hanno poscia anche più ampiamente trattato il sig. Matteo Barbieri nelle sue Notizie Istoriche dei Matematici e Filosofi del Regno di Napoli stampate nel 1778, e il sig. Pietro Napoli-Signorelli, ora segretario di quella R. Accademia, nelle sue Vicende della coltura delle Due Sicilie.
  5. Anche la storia filosofica, se crediamo a Suida, dee alla Sicilia o il primo suo scrittore, o almeno uno de’ primi; perciocchè, secondo lui, fu di patria Messinese Aristocle, il quale, oltre alcune altre opere, in dieci libri raccolse tutte le opinioni de’ filosofi che fin allora eran vissuti, e le diverse sette da essi formate.
  6. Intorno al saper medico e anatomico di Alcmeone e di Empedocle veggansi ancor le Memorie di M. Goulin. (Mém. pour servir à l’Hist. de la Médec. an. 1775, p. 87, ec. 92, ec.)
  7. Acrone dicesi da Suida più antico d’Ippocrate, come ancora Empedocle; il che vuolsi notare perchè si vegga che il grande oracolo della medicina giovossi probabilmente di questi medici che l’aveano preceduto. Lo stesso Suida il fa autore di un libro dell’arte medica, e di un altro intorno al vitto salubre, e aggiugne ch’ei fece alcune osservazioni sui venti.
  8. Delle osservazioni astronomiche di Archimede parla ancora M. Bailly (Hist. de l’Astron. Moderne, t. 1, p. 44.), il quale con breve ma grande elogio lo dice il Newton della scuola greca.
  9. Nel Giornale Enciclopedico de’ 14 agosto dell’anno 1771, p. 116, è stata pubblicata una lettera di questo medesimo autore, in cui egli arreca un bel passo di Antemio da Tralle, autore del v secolo, estratto dai MSS. della real Biblioteca di Parigi, il quale spiega assai ingegnosamente per qual maniera Archimede potesse cogli specchi ardenti incendiare le navi romane. Questo è un nuovo argomento a provare la possibilità del fatto, ma non già a mostrarne la probabilità nelle circostante di sopra accennate.