Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XV. Machiavelli/I.

XV. Machiavelli - I.

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XV. Machiavelli XV. Machiavelli - II.

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Dicesi che Machiavelli fosse in Roma quando, il i5i5, usci in luce l’Orlando furioso. Lodò il poema, ma non celò il suo dispiacere di essere dimenticato dall’Ariosto nella lunga lista, ch’egli stese nell’ultimo canto, di poeti italiani. Questi due grandi uomini, che dovevano rappresentare il secolo nella sua doppia faccia, ancorché contemporanei e conoscenti, sembrano ignoti l’uno all’altro.

Niccolò Machiavelli, ne’ suoi tratti apparenti, è una fisonomia essenzialmente fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de’ Medici. Era un piacevolone, che si spassava ben volentieri tra le confraternite e le liete brigate, verseggiando e motteggiando, con quello spirito arguto e beffardo che vedi nel Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulci e in Lorenzo e nel Berni. Poco agiato de’ beni della fortuna, nel corso ordinario delle cose sarebbe riuscito un letterato fra’ tanti stipendiati a Roma o a Firenze, e dello stesso stampo. Ma, caduti i Medici, ristaurata la repubblica e nominato segretario, ebbe parte principalissima nelle pubbliche faccende, esercitò molte legazioni in Italia e fuori, acquistando esperienza degli uomini e delle cose, e si affezionò alla repubblica, per la quale non gli parve assai di sostenere la tortura, poi che tornarono i Medici. In quegli uffici e in quelle lotte si raffermò la sua tempra e si formò il suo spirito. [p. 59 modifica]Tolto alle pubbliche faccende, nel suo ozio di San Casciano meditò su’ fati dell’antica Roma e sulle sorti di Firenze, anzi d’Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che l’Italia non potesse mantenere la sua indipendenza se non fosse unita, tutta o gran parte, sotto un solo principe. E sperò che casa Medici, potente a Roma e a Firenze, volesse pigliare l’impresa. Sperò pure che volesse accettare i suoi servigi e trarlo di ozio e di miseria. All’ultimo, poco e male adoperato da’ Medici, fini la vita tristamente, lasciando non altra ereditá a’ figliuoli che il nome. Di lui fu scritto: «Tanto nomini nullum par elogium».

I suoi Decennali, arida cronaca delle «fatiche d’Italia di dieci anni», scritta in quindici dí; i suoi otto capitoli dell’Asino d’oro, sotto nome di bestie satira de’ degeneri fiorentini; gli altri suoi capitoli dell’Occasione, della Fortuna, dell’Ingratitudine, dell’Ambizione; i suoi canti carnascialeschi, alcune sue stanze, o serenate, o sonetti, o canzoni, sono lavori letterari su’ quali è impressa la fiso no mia di quel tempo : alcuni tra il licenzioso e il beffardo, altri allegorici o sentenziosi, sempre aridi. Il verso rasenta la prosa; il colorito è sobrio e spesso monco; scarse e comuni sono le immagini. Ma in questo fondo comune e sgraziato appariscono i vestigi di un nuovo essere, una profonditá insolita di giudizio e di osservazione. Manca l’immaginativa: soprabbonda lo spirito. Ci è il critico: non ci è il poeta, non ci è l’uomo nello stato di spontaneitá che compone e fantastica, come era Ludovico Ariosto. Ci è l’uomo che si osserva anche soffrendo, e sentenzia sulle sorti sue e dell’universo con tranquillitá filosofica: il suo poetare è un discorrere:


                                    Io spero, e lo sperar cresce il tormento;
io piango, e ’l pianger ciba il lasso core;
io rido, e ’l rider mio non passa drento;
io ardo, e l’arsion non par di fuore;
io temo ciò ch’io veggo e ciò ch’io sento;
ogni cosa mi dá nuovo dolore:
cosi sperando piango, rido e ardo,
e paura ho di ciò ch’i’ odo o guardo.
     
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Tali sono pure le sue osservazioni sul variare delle cose mondane nel capitolo della Fortuna. Delle sue poesie cosa è rimasto? Qualche verso ingegnoso, come ne’ Decennali:


                               la voce d’un Cappon tra cento Galli,      


e qualche sentenza o concetto profondo, come nel canto De’ diavoli o de’ romiti. Il suo capolavoro è il capitolo dell’Occasione, massime la chiusa, che ti colpisce d’improvviso e ti fa pensoso. Nel poeta si sente lo scrittore del Principe e de’ Discorsi.

Anche in prosa Machiavelli ebbe pretensioni letterarie, secondo le idee che correvano in quella etá. Talora si mette la giornea e boccacceggia, come nelle sue prediche alle confraternite, nella descrizione della peste e ne’ discorsi che mette in bocca a’ suoi personaggi storici. Vedi ad esempio il suo incontro con una donna in chiesa al tempo della peste, dove abbondano i lenocini della rettorica e gli artifici dello stile: ciò che si chiamava «eleganza».

Ma nel Principe, ne’ Discorsi, nelle lettere, nelle Relazioni, ne’ Dialoghi sulla milizia, nelle Storie, Machiavelli scrive come gli viene, tutto inteso alle cose, e con l’aria di chi reputi indegno della sua gravita correre appresso alle parole e a’ periodi. Dove non pensò alla forma riusci maestro della forma. E senza cercarla trovò la prosa italiana.

È visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito incredulo e beffardo di Lorenzo, impresso sulla fronte della borghesia italiana in quel tempo. E avea pure quel senso pratico, quella intelligenza degli uomini e delle cose, che rese Lorenzo eminente fra’ principi, e che troviamo generalmente negli statisti italiani a Venezia, a Firenze, a Roma, a Milano, a Napoli, quando vivea Ferdinando d’Aragona, Alessandro sesto, Ludovico il moro e gli ambasciatori veneziani scrivevano ritratti cosi vivi e sagaci delle corti presso le quali dimoravano. Ci era l’arte: mancava la scienza. Lorenzo era l’artista: Machiavelli doveva essere il critico.

Firenze era ancora il cuore d’Italia : li ci erano ancora i lineamenti di un popolo, ci era l’immagine della patria. La libertá non voleva ancora morire. L’idea ghibellina e guelfa era [p. 61 modifica]spenta, ma ci era invece l’idea repubblicana alla romana, effetto della coltura classica, che, fortificata dall’amore tradizionale del viver libero e dalle memorie gloriose del passato, resisteva a’ Medici. L’uso della libertá e le lotte politiche mantenevano salda la tempra dell’animo, e rendevano possibile Savonarola, Capponi, Michelangiolo, Ferruccio e l’immortale resistenza agli eserciti papali-imperiali. L’indipendenza e la gloria della patria e l’amore della liberta erano forze morali, fra quella corruzione medicea rese ancora piú acute e vivaci dal contrasto.

Machiavelli, per la sua coltura letteraria, per la vita licenziosa, per lo spirito beffardo e motteggevole e comico, si lega al Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova letteratura. Non crede a nessuna religione, e perciò le accetta tutte, e, magnificando la morale in astratto, vi passa sopra nella pratica della vita. Ma ha l’animo fortemente temprato e rinvigorito negli uffici e nelle lotte politiche, aguzzato negli ozi ingrati e solitari. E la sua coscienza non è vuota. Ci è li dentro la libertá e l’indipendenza della patria. Il suo ingegno superiore e pratico non gli consentiva le illusioni, e lo teneva ne’ limiti del possibile. E quando vide perduta la libertá, pensò all’ indipendenza e cercò negli stessi Medici l’istrumento della salvezza. Certo, anche questa era un’utopia o una illusione, un’ultima tavola alla quale si afferra il misero nell’inevitabile naufragio; ma un’utopia che rivelava la forza e la giovinezza della sua anima e la vivacitá della sua fede. Se Francesco Guicciardini vide piú giusto e con piú esatto sentimento delle condizioni d’ Italia, è che la sua coscienza era giá vuota e petrificata. L’immagine del Machiavelli è giunta a’ posteri simpatica e circondata di un’aureola poetica per la forte tempra e la sinceritá del patriottismo e l’elevatezza del linguaggio, e per quella sua aria di virilitá e di dignitá fra tanta folla di letterati venderecci. La sua influenza non fu pari al suo merito. Era tenuto uomo di penna e di tavolino, come si direbbe oggi, piú che uomo di Stato e di azione. E la sua povertá, la vita scorretta, le abitudini plebee e «fuori della regola», come gli rimproverava il correttissimo Guicciardini, non gli aumentavano riputazione. Consapevole di sua grandezza, spregiava quelle [p. 62 modifica]esterioritá delle forme e que’ mezzi artificiali di farsi via nel mondo, che sono si familiari e si facili a’ mediocri. Ma la sua influenza è stata grandissima nella posteritá, e la sua fama si è ita sempre ingrandendo fra gli odii degli uni e le glorificazioni degli altri. Il suo nome è rimasto la bandiera intorno alla quale hanno battagliato le nuove generazioni, nel loro contraddittorio movimento ora indietro ora innanzi.

Ci è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che ha gittato nell’ombra le altre sue opere. L’autore è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato che questo libro è un codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi e il successo loda l’opera. E hanno chiamato «machiavellismo» questa dottrina. Molte difese sonosi fatte di questo libro, ingegnosissime, attribuendosi all’autore questa o quella intenzione piú o meno lodevole. Cosi n’è uscita ima discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito.

Questa critica non è che una pedanteria. Ed è anche una meschinitá porre la grandezza di quell’uomo nella sua utopia italica, oggi cosa reale. Noi vogliamo costruire tutta intera l’immagine, e cercare ivi i fondamenti della sua grandezza.

Niccolò Machiavelli è innanzi tutto la coscienza chiara e seria di tutto quel movimento, che, nella sua spontaneitá, dal Petrarca e dal Boccaccio si stende sino alla seconda metá del Cinquecento. In lui comincia veramente la prosa, cioè a dire la coscienza e la riflessione della vita. Anche lui è in mezzo a quel movimento, e vi piglia parte, ne ha le passioni e le tendenze. Ma, passato il momento dell’azione, ridotto in solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio e di Tacito, ha la forza di staccarsi dalla sua societá e interrogarla: — Cosa sei? dove vai? —

L’Italia aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e guardava l’Europa con l’occhio di Dante e del Petrarca, giudicando barbare tutte le nazioni oltre le Alpi. Il suo modello era il mondo greco e romano, che si studiava di assimilarsi. Soprastava per [p. 63 modifica]coltura, per industrie, per ricchezze, per opere d’arti e d’ingegno: teneva senza contrasto il primato intellettivo in Europa. Grave fu lo sgomento negl’italiani quando ebbero gli stranieri in casa; ma vi si ausarono e trescarono con quelli, confidando di cacciarli via tutti con la superioritá dell’ ingegno. Spettacolo pieno di ammaestramento è vedere, tra lanzi, svizzeri, tedeschi e francesi e spagnuoli, l’alto e spensierato riso di letterati, artisti, latinisti, novellieri e buffoni nelle eleganti corti italiane. Fino ne’ campi i sonettisti assediavano i principi : Giovanni de’ Medici cadeva tra’ lazzi di Pietro Aretino. Gli stranieri guardavano attoniti le maraviglie di Firenze, di Venezia, di Roma e tanti miracoli dell’ ingegno; e i loro principi regalavano e corteggiavano i letterati, che con la stessa indifferenza celebravano Francesco primo e Carlo quinto. L’Italia era inchinata e studiata da’ suoi devastatori, come la Grecia fu da’ romani.

Fra tanto fiore di civiltá e in tanta apparenza di forza e di grandezza mise lo sguardo acuto Niccolò Machiavelli, e vide la malattia dove altri vedevano la piú prospera salute. Quello che oggi diciamo «decadenza» egli disse «corruttela», e base di tutte le sue speculazioni fu questo fatto : la corruttela della razza italiana, anzi latina, e la sanitá della germanica.

La forma piú grossolana di questa corruttela era la licenza de’ costumi e del linguaggio, massime nel clero : corruttela che giá destò l’ira di Dante e di Caterina, ed ora messa in mostra ne’ dipinti e negli scritti, penetrata in tutte le classi della societá e in tutte le forme della letteratura, divenuta come una salsa piccante che dava sapore alla vita. La licenza, accompagnata con l’empietá e l’incredulitá, avea a suo principal centro la corte romana, protagonisti Alessandro sesto e Leone decimo. Fu la vista di quella corte che infiammò le ire di Savonarola e stimolò alla separazione Lutero e i suoi concittadini.

Nondimeno il clero per abito tradizionale tuonava dal pergamo contro quella licenza. Il Vangelo rimaneva sempre un ideale non contrastato, salvo a non tenerne alcun conto nella vita pratica: il pensiero non era piú la parola, e la parola non era piú l’azione; non ci era armonia nella vita. In questa disarmonia [p. 64 modifica]era il principale motivo comico del Boccaccio e degli altri scrittori di commedie, di novelle e di capitoli.

Nessun italiano, parlando in astratto, poteva trovar lodevole quella licenza, a’ cui allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la teoria, altra la pratica. E nessuno poteva non desiderare una riforma de’ costumi, una restaurazione della coscienza. Sentimenti e desidèri vani, affogati nel rumore di quei baccanali. Non ci era il tempo di piegarsi in sé, di considerare la vita seriamente. Pure erano sentimenti e desidèri che piú tardi fruttificarono e agevolarono l’opera del concilio di Trento e la reazione cattolica.

Rifare il medio evo e ottenere la riforma de’ costumi e delle coscienze con una ristaurazione religiosa e morale, era stato giá il concetto di Geronimo Savonarola, ripreso poi e purgato nel concilio di Trento. Era il concetto piú accessibile alle moltitudini e piú facile a presentarsi. I volghi cercano la medicina a’ loro mali nel passato.

Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel carnevale italiano, giudicava quella corruttela da un punto di vista piú alto. Essa era non altro che lo stesso medio evo in putrefazione, morto giá nella coscienza, vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni. E perciò, non che pensasse di ricondurre indietro l’Italia e di instaurare il medio evo, concorse alla sua demolizione.

L’altro mondo, la cavalleria, l’amore platonico sono i tre concetti fondamentali, intorno a’ quali si aggira la letteratura nel medio evo, de’ quali la nuova letteratura è la parodia piú o meno consapevole. Anche nella faccia del Machiavelli sorprendi un momento ironico quando parla del medio evo, soprattutto allora che affetta maggior serietá. La misura del linguaggio rende piú terribili i suoi colpi. Nella sua opera demolitiva è visibile la sua parentela col Boccaccio e col Magnifico. Il suo Belfegor è della stessa razza dalla quale era uscito Astarotte.

Ma la sua negazione non è pura buffoneria, puro effetto comico, uscito da coscienza vuota. In quella negazione ci è un’affermazione, un altro mondo sorto nella sua coscienza. E perciò la sua negazione è seria ed eloquente. [p. 65 modifica]

Papato e impero, guelfismo e ghibellinismo, ordini feudali e comunali, tutte queste istituzioni sono demolite nel suo spirito. E sono demolite, perché nel suo spirito è sorto un nuovo edificio sociale e politico.

Le idee che generarono quelle istituzioni sono morte, non hanno piú efficacia di sorta sulla coscienza, rimasta vuota. E in quest’ozio interno è la radice della corruttela italiana. Questo popolo non sí può rinnovare se non rifacendosi una coscienza. Ed è a questo che attende Machiavelli. Con l’una mano distrugge, con l’altra edifica. Da lui comincia, in mezzo alla negazione universale e vuota, la ricostruzione.

Non è possibile seguire la sua dottrina nel particolare. Basti qui accennare la idea fondamentale.

Il medio evo riposa sopra questa base : che il peccato è attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, e la virtú è negazione della vita terrena e contemplazione dell’altra; che questa vita non è la realtá o la veritá, ma ombra e apparenza; e che la realtá è non quello che è, ma quello che dee essere, e perciò il suo vero contenuto è l’altro mondo, l’inferno, il purgatorio, il paradiso, il mondo conforme alla veritá e alla giustizia. Da questo concetto della vita, teologi co-etico, usci la Divina commedia e tutta la letteratura del Dugento e del Trecento.

Il simbolismo e lo scolasticismo sono le forme naturali di questo concetto. La realtá terrena è simbolica: Beatrice è un simbolo, l’amore è un simbolo. E l’uomo e la natura hanno la loro spiegazione e la loro radice negli enti o negli universali, forze estramondane, che sono la maggiore del sillogismo, l’universale da cui esce il particolare.

Tutto questo, forma e concetto, era giá dal Boccaccio in qua negato, caricato, parodiato, materia di sollazzo e di passatempo: pura negazione nella sua forma cinica e licenziosa, che aveva a base la glorificazione della carne o del peccato, la voluttá, l’epicureismo, reazione all’ascetismo. Andavano insieme teologi e astrologi e poeti, tutti visionari : conclusione geniale della Maccaronea, ispirata al Folengo dal mondo della luna ariostesco. In teoria ci era una piena indifferenza, e in pratica una piena licenza. [p. 66 modifica]

Machiavelli vive in questo mondo e vi partecipa. La stessa licenza nella vita e la stessa indifferenza nella teoria. La sua coltura non è straordinaria: molti a quel tempo avanzavano lui e l’Ariosto di dottrina e di erudizione. Di speculazioni filosofiche sembra cosi digiuno come di enunciazioni scolastiche e teologiche. E, a ogni modo, non se ne cura. Il suo spirito è tutto nella vita pratica.

Nelle scienze naturali non sembra sia molto innanzi, quando vediamo che in alcuni casi accenna all’ influsso delle stelle. Battista Alberti avea certo una coltura piú vasta e piú compiuta. Niccolò non è filosofo della natura: è filosofo dell’uomo. Ma il suo ingegno oltrepassa l’argomento e prepara Galileo.

L’uomo, come Machiavelli lo concepisce, non ha la faccia estatica e contemplativa del medio evo e non la faccia tranquilla e idillica del Risorgimento. Ha la faccia moderna dell’uomo che opera e lavora intorno ad uno scopo.

Ciascun uomo ha la sua missione su questa terra, secondo le sue attitudini. La vita non è un giuoco d’ immaginazione e non è contemplazione. Non è teologia e non è neppure arte. Essa ha in terra la sua serietá, il suo scopo e i suoi mezzi. Riabilitare la vita terrena, darle uno scopo, rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, restituire l’uomo nella sua serietá enella sua attivitá: questo è lo spirito che aleggia in tutte le opere del Machiavelli.

È negazione del medio evo, e insieme negazione del Risorgimento. La contemplazione divina lo soddisfa cosi poco come la contemplazione artistica. La coltura e l’arte gli paiono cose belle, non tali però che debbano e possano costituire lo scopo della vita. Combatte l’immaginazione come il nemico piú pericoloso, e quel veder le cose in immaginazione e non in realtá gli par proprio esser la malattia che si ha a curare. Ripete ad ogni tratto che bisogna giudicar le cose come sono e non come debbono essere.

Quel «dover essere» a cui tende il contenuto nel medio evo e la forma nel Risorgimento, dee far luogo all’«essere» o, com’egli dice, alla veritá «effettuale». [p. 67 modifica]

Subordinare il mondo dell’ immaginazione, come religione e come arte, al mondo reale, quale ci è posto dall’esperienza e dall’osservazione: questa è la base del Machiavelli.

Risecati tutti gli elementi sopraumani e soprannaturali, pone a fondamento della vita la patria. La missione dell’uomo su questa terra, il suo primo dovere è il patriottismo, la gloria, la grandezza, la libertá della patria.

Nel medio evo non ci era il concetto di patria: ci era il concetto di fedeltá e di sudditanza. Gli uomini nascevano tutti sudditi del papa e dell’ imperatore, rappresentanti di Dio: l’uno era lo spirito, l’altro il corpo della societá. Intorno a questi due «Soli» stavano gli astri minori : re, principi, duchi, baroni, a cui stavano di contro in antagonismo naturale i comuni Uberi. Ma la libertá era privilegio papale e imperiale, e i comuni esistevano anch’essi per la grazia di Dio, e perciò del papa o dell’imperatore, e spesso imploravano legati apostolici o imperiali a tutela e pacificazione. Savonarola proclamò re di Firenze Gesú Cristo, ben inteso lasciando a sé il dritto di rappresentarlo e interpretarlo. È un tratto che illumina tutte le idee di quel tempo.

Ci era ancora il papa e ci era l’imperatore; ma l’opinione, sulla quale si fondava la loro potenza, non ci era piú nelle classi colte d’Italia. Il papa stesso e l’imperatore avevano smesso l’antico linguaggio: il papa, ingrandito di territorio, diminuito di autoritá; l’imperatore, debole e impacciato a casa.

Di papato e d’impero, di guelfi e ghibelUni non si parlava in Italia che per riderne, a quel modo che della cavalleria e di tutte le altre istituzioni. Di quel mondo rimanevano avanzi, in Italia, il papa, i gentiluomini e gli avventurieri o mercenari. Il Machiavelli vede nel papato temporale non solo un sistema di governo assurdo e ignobile, ma il principale pericolo dell’Italia. Democratico, combatte il concetto di un governo stretto, e tratta assai aspramente i gentiluomini, reminiscenze feudali. E vede ne’ mercenari o avventurieri la prima cagione della debolezza italiana incontro allo straniero, e propone e svolge largamente il concetto di una milizia nazionale. Nel papato [p. 68 modifica]temporale, nei gentiluomini, negli avventurieri combatte gli ultimi vestigi del medio evo.

La «patria» del Machiavelli è naturalmente il comune libero, libero per sua virtú e non per grazia del papa e dell’imperatore, governo di tutti nell’interesse di tutti.

Ma, osservatore sagace, non gli può sfuggire il fenomeno storico de’ grandi Stati che si erano formati in Europa, e come il comune era destinato anch’esso a sparire con tutte le altre istituzioni del medio evo. Il suo comune gli par cosa troppo piccola e non possibile a durare dirimpetto a quelle potenti agglomerazioni delle stirpi, che si chiamavano «Stati» o «nazioni». Giá Lorenzo, mosso dallo stesso pensiero, avea tentato una grande lega italica, che assicurasse l’«equilibrio» tra’ vari Stati e la mutua difesa, e che pure non riuscí ad impedire l’invasione di Carlo ottavo. Niccolò propone addirittura la costituzione di un grande Stato italiano, che sia baluardo d’Italia contro lo straniero. Il concetto di patria gli si allarga. Patria non è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione. L’Italia nell’utopia dantesca è il «giardino dell’impero»; nell’utopia del Machiavelli è la «patria», nazione autonoma e indipendente.

La «patria» del Machiavelli è una divinitá, superiore anche alla moralitá e alla legge. A quel modo che il Dio degli ascetici assorbiva in sé l’individuo, e in nome di Dio gl’inquisitori bruciavano gli eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni, che nella vita privata sono delitti, diventavano magnanime nella vita pubblica. «Ragion di Stato» e «salute pubblica» erano le formole volgari, nelle quali si esprimeva questo dritto della patria, superiore ad ogni dritto. La divinitá era scesa di cielo in terra e si chiamava la «patria», ed era non meno terribile. La sua volontá e il suo interesse era «suprema lex». Era sempre l’individuo assorbito nell’essere collettivo. E quando questo essere collettivo era assorbito a sua volta nella volontá di un solo o di pochi, avevi la servitú. Libertá era la partecipazione piú o meno larga de’ cittadini alla cosa pubblica. I dritti dell’uomo non entravano ancora nel codice della libertá. L’uomo non era un essere autonomo e di fine a se stesso: era l’istrumento [p. 69 modifica]della patria o, ciò che è peggio, dello Stato: parola generica, sotto la quale si comprendeva ogni specie di governo, anche il dispotico, fondato sull’arbitrio di un solo. Patria era dove tutti concorrevano piu o meno al governo e, se tutti ubbidivano, tutti comandavano: ciò che dicevasi «repubblica». E dicevasi «principato» dove uno comandava e tutti ubbidivano. Ma, repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era sempre l’individuo assorbito nella societá o, come fu detto poi, l’onnipotenza dello Stato.

Queste idee sono enunciate dal Machiavelli non come da lui trovate e analizzate, ma come giá per lunga tradizione ammesse e fortificate dalla coltura classica. Ci è li dentro lo spirito dell’antica Roma, che con la sua immagine di gloria e di libertá attirava tutte le immaginazioni, e si porgeva alle menti modello non solo nell’arte e nella letteratura, ma ancora nello Stato.

La patria assorbisce anche la religione. Uno Stato non può vivere senza religione. E se il Machiavelli si duole della corte romana, non è solo perché a difesa del suo dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri, ma ancora perché co’ suoi costumi disordinati e licenziosi ha diminuita nel popolo l’autoritá della religione. Ma egli vuole una religione di Stato, che sia in mano del principe un mezzo di governo. Della religione si era perduto il senso, ed era arte presso i letterati e istrumento politico negli statisti. Anche la moralitá gli piace, e loda la generositá, la clemenza, l’osservanza della fede, la sinceritá e le altre virtú, ma a patto che ne venga bene alla patria; e se le incontra sulla sua via non istrumenti ma ostacoli, gli spezza. Leggi spesso lodi magnifiche della religione e delle altre virtú de’ buoni principi; ma ci odori un po’ di rettorica, che spicca piú in quel fondo ignudo della sua prosa. Non è in lui e non è in nessuno de’ suoi contemporanei un sentimento religioso e morale schietto e semplice.

Noi, che vediamo le cose di lontano, troviamo in queste dottrine lo Stato laico, che si emancipa dalla teocrazia e diviene a sua volta invadente. Ma allora la lotta era ancor viva, e [p. 70 modifica]l’una esagerazione portava l’altra. Togliendo le esagerazioni, ciò che esce dalla lotta è l’autonomia e l’indipendenza del potere civile, che ha la sua legittimitá in se stesso, sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di subordinazione a Roma. Nel Machiavelli non ci è alcun vestigio di dritto divino. Il fondamento delle repubbliche è «vox populi», il consenso di tutti. E il fondamento de’ principati è la forza, o la conquista legittimata e assicurata dal buon governo. Un po’ di cielo e un po’ di papa ci entra pure, ma come forze atte a mantenere i popoli nell’ubbidienza e nell’osservanza delle leggi.

Stabilito il centro della vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli non possono piacere le virtú monacali dell’umiltá e della pazienza, che hanno «disarmato il cielo ed effeminato il mondo» e che rendono l’uomo piú atto a «sopportare le ingiurie che a vendicarle». «Agere et pati fortia romanum est». Il cattolicismo, male interpretato, rende l’uomo piú atto a patire che a fare. Il Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e contemplativa la fiacchezza del corpo e dell’animo, che rende gl’italiani inetti a cacciar via gli stranieri e a fondare la libertá e l’indipendenza della patria. La virtú è da lui intesa nel senso romano, e significa «forza», «energia», che renda gli uomini atti a’ grandi sacrifici e alle grandi imprese. Non è che agl’italiani manchi il valore; anzi ne’ singolari incontri riescono spesso vittoriosi : manca l’educazione o la disciplina o, come egli dice, «i buoni ordini e le buone armi», che fanno gagliardi e liberi i popoli.

Alla virtú premio è la gloria. «Patria», «virtú», «gloria», sono le tre parole sacre, la triplice base di questo mondo.

Come gl’ individui hanno la loro missione in terra, cosi anche le nazioni. Gl’individui senza patria, senza virtú, senza gloria sono atomi perduti, «numerus fruges consumere nati». E parimente ci sono nazioni oziose e vuote, che non lasciano alcun vestigio di sé nel mondo. Nazioni storiche sono quelle che hanno adempiuto un ufficio nell’umanitá o, come dicevasi allora, nel «genere umano», come Assiria, Persia, Grecia e Roma. Ciò che rende grandi le nazioni è la virtú o la tempra, [p. 71 modifica]gagliardia intellettuale e corporale, che forma il carattere o la forza morale. Ma come gl’individui, cosi le nazioni hanno la loro vecchiezza, quando le idee che le hanno costituite s’indeboliscono nella coscienza e la tempra si fiacca. E l’indirizzo del mondo fugge loro dalle mani e passa ad altre nazioni.

Il mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo spirito umano, che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il fato storico non è la provvidenza e non la fortuna, ma la «forza delle cose», determinata dalle leggi dello spirito e della natura. Lo spirito è immutabile nelle sue facoltá ed immortale nella sua produzione.

Perciò la storia non è accozzamento di fatti fortuiti o provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e di effetti, il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni, dalle passioni e dagl’ interessi degli uomini.

La politica o l’arte del governare ha per suo campo non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della moralitá, ma il mondo reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a’ suoi fini.

La grandezza e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli, ma sono effetti necessari, che hanno le loro cause nella qualitá delle forze che le movono. E quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono.

E a governare, quelli che stanno solo in sul lione, non se ne intendono. Ci vuole anche la volpe o la prudenza, cioè l’intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che muovono gli Stati.

Come gl’individui, cosi le nazioni hanno legami tra loro, dritti e doveri. E come ci è un dritto privato, cosi ci è un dritto pubblico o dritto delle genti, o, come dicesi oggi, dritto internazionale. Anche la guerra ha le sue leggi.

Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai. Eternamente giovane, passa di ima nazione in un’altra, e continua secondo le sue leggi organiche la storia del genere umano. [p. 72 modifica]C’è dunque non solo la storia di questa o quella nazione, ma la storia del mondo, anch’essa fatale e logica, determinata nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito. La storia del genere umano non è che la storia dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò che poi fu detto «filosofia della storia».

Di questa filosofía della storia e di un dritto delle genti non ci è nel Machiavelli che la semplice base scientifica, un punto di partenza segnato con chiarezza e indicato a’ suoi successori. Il suo campo chiuso è la politica e la storia.

Questi concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come i poetici, suppongono una lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le conseguenze naturali di quel grande movimento, sotto forme classiche realista, ch’era in fondo l’emancipazione dell’uomo dagli elementi soprannaturali e fantastici, e la conoscenza e il possesso di se stesso. E a’ contemporanei non parvero nuovi né audaci, veggendo ivi formulato quello che in tutti era sentimento vago.

L’influenza del mondo pagano è visibile anche nel medio evo: anche in Dante Roma è presente allo spirito. Ma lí è Roma provvidenziale e imperiale, la Roma di Cesare; e qui è Roma repubblicana, e Cesare vi è severamente giudicato. Dante chiama le gloriose imprese della repubblica «miracoli della provvidenza», come preparazione all’impero: dove pel Machiavelli non ci sono miracoli, o i miracoli sono i buoni ordini; e se alcuna parte dá alla fortuna, la dá principalissima alla virtú. Di lui è questo motto profondo: «I buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese». Il classicismo adunque era la semplice scorza, sotto alla quale le due etá inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di Dante ci è il misticismo e il ghibellinismo: la corteccia è classica, il nocciolo è medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli ci è lo spirito moderno che ivi cerca e trova se stesso. Ammira Roma, quanto biasima i tempi suoi, dove «non è cosa alcuna che gli ricomperi di ogni estrema miseria, infamia e vituperio, e non vi è osservanza di religione, non di leggi e non di milizia, ma sono maculati di ogni ragione [p. 73 modifica]bruttura». Crede con gli ordini e i costumi di Roma antica di poter rifare quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e in molte proposte e in molte sentenze senti i vestigi di quell’antica sapienza. Da Roma gli viene anche la nobiltá dell’ispirazione e una certa elevatezza morale. Talora ti pare un romano avvolto nel pallio, in quella sua gravitá; ma guardalo bene, e ci troverai il borghese del Risorgimento, con quel suo risolino equivoco. Savonarola è una reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a modo dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e alla naturale. È in lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi de’ tempi moderni.

Il medio evo qui crolla in tutte le sue basi: religiosa, morale, politica, intellettuale. E non è solo negazione vuota. È affermazione, è il verbo. Di contro a ciascuna negazione sorge un’affermazione. Non è la caduta del mondo : è il suo rinnovamento. Dirimpetto alla teocrazia sorge l’autonomia e l’indipendenza dello Stato. Tra l’impero e la cittá o il feudo, le due unitá politiche del medio evo, sorge un nuovo ente, la nazione, alla quale il Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi: la razza, la lingua, la storia, i confini. Tra le repubbliche e i principati spunta giá una specie di governo medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e degli altri e assicuri a un tempo la libertá e la stabilitá : governo che è un presentimento de’ nostri ordini costituzionali, e di cui il Machiavelli dá i primi lineamenti nel suo progetto per la riforma degli ordini politici in Firenze. È tutto un nuovo mondo politico che appare. Si vegga, fra l’altro, dove il Machiavelli tocca della formazione de’ grandi Stati, e soprattutto della Francia.

Anche la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole recisa dalla religione ogni temporalitá e, come Dante, combatte la confusione de’ due reggimenti, e fa una descrizione de’ principati ecclesiastici, notabile per la profonditá dell’ironia. La religione, ricondotta nella sua sfera spirituale, è da lui considerata, non meno che l’educazione e l’istruzione, come istrumento di grandezza nazionale. È in fondo l’idea di una Chiesa nazionale [p. 74 modifica]dipendente dallo Stato e accomodata a’ fini e agl’interessi della nazione.

Altra è pure la base morale. Il fine etico del medio evo è la santificazione dell’anima, e il mezzo è la mortificazione della carne. Il Machiavelli, se biasima la licenza de’ costumi invalsa al suo tempo, non è meno severo verso l’educazione ascetica. La sua dea non è Rachele, ma è Lia : non è la vita contemplativa, ma la vita attiva. E perciò la virtú è per lui la vita attiva, vita di azione e in servigio della patria. I suoi santi sono piú simili agli eroi dell’antica Roma che agl’ iscritti nel calendario romano. O, per dir meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è il patriota.

E si rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora, il Machiavelli non combatte la veritá della fede, ma la lascia da parte, non se ne occupa, e, quando vi s’incontra, ne parla con un’aria equivoca di rispetto. Risecata dal suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, vi mette a base l’immutabilitá e l’immortalitá del pensiero o dello spirito umano, fattore della storia. Questo è giá tutta una rivoluzione. È il famoso «cogito», nel quale s’inizia la scienza moderna. È l’uomo emancipato dal mondo soprannaturale e sopraumano, che, come lo Stato, proclama la sua autonomia e la sua indipendenza e prende possesso del mondo.

E si rinnova il metodo. Il Machiavelli non riconosce veritá a priori e principi astratti, e non riconosce autoritá di nessuno come criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di etica fa stima uguale: mondi d’immaginazione, fuori della realtá. La veritá è la cosa effettuale; e perciò il modo di cercarla è l’esperienza accompagnata con l’osservazione, lo studio intelligente de’ fatti. Tutto il formolario scolastico va giú. A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni astratte dell’ intelletto, incardinate nella pretesa esistenza degli universali, sostituisce la forma ordinaria del parlare diritta e naturale. Le proposizioni generali, le «maggiori» del sillogismo, sono capovolte, e compariscono in ultimo come risultati di una esperienza illuminata dalla riflessione. In luogo del sillogismo hai la «serie», cioè a [p. 75 modifica]dire concatenazione di fatti, che sono insieme causa ed effetto, come si vede in questo esempio:


Avendo la cittá di Firenze... perduta parte dello imperio suo, come Pisa e altre terre, fu necessitata a fare guerra a coloro che le occupavano, e perché chi le occupava era potente, ne seguiva che si spendeva assai nella guerra senza alcun frutto: dallo spendere assai ne risultava assai gravezze, dalle gravezze infinite querele del popolo; e perché questa guerra era amministrata da un magistrato di dieci cittadini,... l’universale cominciò a recarselo in dispetto, come quello che fusse cagione e della guerra e delle spese di essa.


Qui i fatti sono schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una doppia serie, l’una complicata, che ti dá le cause vere, visibile solo all’uomo intelligente; l’altra semplicissima, che ti dá la causa apparente e superficiale, e che pure è quella che trascina ad opere inconsulte l’universale, con una serietá ed una sicurezza che rende profondamente ironica la conclusione. I fatti saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella natura e nell’uomo; non vi senti alcuno artificio. Ma è un’apparenza. Essi sono legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, si che ciascuno ha il suo posto, ha il suo valore di causa e di effetto, ha il suo ufficio in tutta la catena: il fatto non è solo fatto o accidente, ma è ragione, considerazione: sotto la narrazione si cela l’argomentazione. Cosí l’autore ha potuto in poche pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anch’essi fatti intellettuali, e perciò l’autore si contenta di enunciare e non dimostra. Sono fatti cavati dalla storia, dall’esperienza del mondo, da un’acuta osservazione, e presentati con semplicitá pari all’energia. Molti di questi fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca di tutti, com’è quel «ritirare le cose a’ loro principi», o quell’ironia de’ «profeti disarmati», o «gli uomini si stuccano del bene, e del male si affliggono», o «gli uomini bisogna carezzarli o spegnerli». Di queste sentenze o pensieri ce ne sono raccolte. E sono un intero arsenale, dove hanno attinto gli scrittori, vestiti delle sue spoglie. Come esempio di questi fatti [p. 76 modifica]intellettuali usciti da una mente elevata e peregrina, ricordo la famosa dedica de’ suoi Discorsi.

Con la forma scolastica rovina la forma letteraria, fondata sul periodo. Ne’ lavori didascalici il periodo era una forma sillogistica dissimulata, una proposizione corteggiata dalla sua «maggiore» e dalle sue idee medie : ciò che dicevasi «dimostrazione», se la materia era intellettuale, o «descrizione», se la materia era di puri fatti. Machiavelli ti dá semplici proposizioni, ripudiato ogni corteggio: non descrive e non dimostra; narra o enuncia, e perciò non ha artificio di periodo. Non solo uccide la forma letteraria, ma uccide la forma stessa come forma; e fa questo nel secolo della forma, la sola divinitá riconosciuta. Appunto perché ha piena la coscienza di un nuovo contenuto, per lui il contenuto è tutto e la forma è nulla. O, per dire piú corretto, la forma è essa medesima la cosa nella sua veritá effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale o materiale. Ciò che a lui importa, non è che la cosa sia ragionevole o morale o bella, ma che la sia. Il mondo è cosi e cosi; e si vuol pigliarlo corri è, ed è inutile cercare se possa o debba essere altrimenti. La base della vita, e perciò del sapere, è il «Nosce te ipsum», la conoscenza del mondo nella sua realtá. Il fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il moralizzare sono frutto d’intelletti collocati fuori della vita e abbandonati all’immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa di ogni elemento astratto, etico e poetico. Guardando il mondo con uno sguardo superiore, il suo motto è: «Nil admirari». Non si maraviglia e non si appassiona, perché comprende; come non dimostra e non descrive, perché vede e tocca. Investe la cosa direttamente, e fugge le perifrasi, le circonlocuzioni, le amplificazioni, le argomentazioni, le frasi e le figure, i periodi e gli ornamenti, come ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la via piú breve, e perciò la diritta : non si distrae e non distrae. Ti dá una serie stretta e rapida di proposizioni e di fatti, soppresse tutte le idee medie, tutti gli accidenti e tutti gli episodi. Ha l’aria del pretore, che «non curat de minimis», di un uomo occupato in cose gravi, che non ha tempo né voglia di guardarsi attorno. Quella sua [p. 77 modifica]rapiditá, quel suo condensare non è un artificio, come talora è in Tacito e sempre è nel Davanzati; ma è naturale chiarezza di visione, che gli rende inutili tutte quelle idee medie, di cui gli spiriti mediocri hanno bisogno per giungere faticosamente ad una conseguenza, ed è insieme pienezza di cose, che non gli fa sentire necessitá di riempiere gli spazi vuoti con belletti e impolpature, che tanto piacciono a’ cervelli oziosi. La sua semplicitá talora è negligenza, la sua sobrietá talora è magrezza: difetti delle sue qualitá. E sono pedanti quelli che cercano il pel nell’uovo, e gonfiano le gote in aria di pedagoghi, quando in quella divina prosa trovino latinismi, slegature, scorrezioni e simili negligenze.

La prosa del Trecento manca di organismo, e perciò non ha ossatura, non interna coesione : vi abbonda l’affetto e l’immaginativa, vi scarseggia l’intelletto. Nella prosa del Cinquecento hai l’apparenza, anzi l’affettazione dell’ossatura, la cui espressione è il periodo. Ma l’ossatura non è che esteriore, e quel lusso di congiunzioni e di membri e d’incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione interna. Il vuoto non è nell’ intelletto, ma nella coscienza, indifferente e scettica. Perciò il lavoro intellettivo è tutto al di fuori, frasche e fiori. Gli argomenti piú frivoli sono trattati con la stessa serietá degli argomenti gravi, perché la coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o frivolo. Ma la serietá è apparente, è tutta formale e perciò rettorica: l’animo vi rimane profondamente indifferente. Monsignor della Casa scrive l’orazione a Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul forno: salvo che qui è nella sua natura e ti riesce cinico, li è fuori della sua natura e ti riesce falso. Il Galateo e il Cortigiano sono le due migliori prose di quel tempo, come rappresentazione di una societá pulita ed elegante, tutta al di fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la principale importanza della vita ne’ costumi e ne’ modi. Anche l’intelletto, in quella sua virilitá ozioso, poneva la principale importanza della composizione ne’ costumi e ne’ modi ovvero nell’abito. Quell’abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve [p. 78 modifica]convenzionale, un meccanismo tutto d’imitazione, a cui l’intelletto stesso rimaneva estraneo. I filosofi non avevano ancora smesse le loro forme scolastiche; i poeti petrarcheggiavano; i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e rettorico, con l’imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una, la passivitá o indifferenza dell’ intelletto, del cuore, dell’ immaginazione, cioè a dire di tutta l’anima. Ci era lo scrittore, non ci era l’uomo. E fin d’allora fu considerato lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che dicevasi «forma letteraria», nella piena indifferenza dell’animo : divorzio compiuto tra l’uomo e lo scrittore. Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche, comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della prosa moderna.

Qui l’uomo è tutto, e non ci è lo scrittore, o ci è solo in quanto uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che ci sia un’arte dello scrivere, ammessa generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora ci si prova e ci riesce maestro; ed è, quando vuol fare il letterato, anche lui. L’uomo è in lui tutto. Quello che scrive è una produzione immediata del suo cervello, esce caldo caldo dal di dentro : cose e impressioni, spesso condensate in una parola. Perché è un uomo che pensa e sente, distrugge e crea, osserva e riflette, con lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la cosa, non il suo colore: pure la cosa vien fuori insieme con le impressioni fatte nel suo cervello, perciò naturalmente colorita, traversata d’ironia, di malinconia, d’indignazione, di dignitá, ma principalmente lei nella sua chiarezza plastica. Quella prosa è chiara e piena come un marmo, ma un marmo qua e lá venato. È la grande maniera di Dante che vive lá dentro. Parlando dei mutamenti introdotti al medio evo ne’ nomi delle cose e degli uomini, finisce cosi : «Gli uomini ancora, di Cesari e Pompei, Pieri, Giovanni e Mattei diventarono». Qui non ci è che il marmo, la cosa ignuda; ma quante vene in questo marmo! Ci senti tutte le impressioni fatte da quell’ immagine nel suo cervello, l’ammirazione per quei Cesari e Pompei, il disprezzo per quei Pieri e Mattei, lo sdegno di quel mutamento; e lo vedi alla scelta caratteristica de’ nomi, al loro collocamento [p. 79 modifica]in contrasto come nemici, e a quell’ultimo ed energico «diventarono», che accenna a mutamenti non solo di nomi ma di animi.

Questa prosa, asciutta, precisa e concisa, tutta pensiero e tutta cose, annunzia l’intelletto giá adulto, emancipato da elementi mistici, etici e poetici, e divenuto il supremo regolatore del mondo: la logica o la forza delle cose, il fato moderno. Questo è in effetti il senso intimo del mondo, come il Machiavelli lo concepisce. Lasciando da parte le sue origini, il mondo è quello che è : un attrito di forze umane e naturali, dotate di leggi proprie. Ciò che dicesi «fato», non è altro che la logica, il risultato necessario di queste forze, appetiti, istinti, passioni, opinioni, fantasie, interessi, mosse e regolate da una forza superiore, lo spirito umano, il pensiero, l’intelletto. Il Dio di Dante è l’amore, forza unitiva dell’intelletto e dell’atto: il risultato era sapienza. Il Dio dí Machiavelli è l’intelletto, l’intelligenza e la regola delle forze mondane: il risultato è scienza. — Bisogna amare — dice Dante. — Bisogna intendere — dice Machiavelli. L’anima del mondo dantesco è il cuore: l’anima del mondo machiavellico è il cervello. Quel mondo è essenzialmente mistico ed etico: questo è essenzialmente umano e logico. La virtú muta il suo significato: non è sentimento morale, ma è semplicemente forza o energia, la tempra dell’animo; e Cesare Borgia è virtuoso perché avea la forza di operare secondo logica, cioè di accettare i mezzi quando aveva accettato lo scopo. Se l’anima del mondo è il cervello, hai una prosa che è tutta e sola cervello.

Ora possiamo comprendere il Machiavelli nelle sue applicazioni. La storia di Firenze sotto forma narrativa è una logica degli avvenimenti. Dino scrive col cuore commosso, con l’immaginazione colpita : tutto gli par nuovo, tutto offende il suo senso morale. Vi domina il sentimento etico, come in Dante, nel Mussato, in tutt’ i trecentisti. Ma ciò che interessa il Machiavelli è la spiegazione de’ fatti nelle forze motrici degli uomini, e narra calmo e meditativo, a modo di filosofo che ti dia l’interpretazione del mondo. I personaggi non sono còlti [p. 80 modifica]nel caldo dell’affetto e nel tumulto dell’azione : non è una storia drammatica. L’autore non è sulla scena né dietro la scena, ma è nella sua camera, e, mentre i fatti gli sfilano avanti, cerca afferrarne i motivi. La sua apatia non è che preoccupazione di filosofo, inteso a spiegare e tutto raccolto in questo lavoro intellettivo, non distratto da emozioni e impressioni. È l’apatia dell’ingegno superiore, che guarda con compassione a’ moti convulsi e nervosi delle passioni.

Ne’ Discorsi ci è maggior vita intellettuale. L’intelletto si stacca da’ fatti, e vi torna per attingervi lena e ispirazione. I fatti sono il punto fermo intorno a cui gira. Narra breve, come chi ricordi quello che tutti sanno ed ha fretta di uscirne. Ma, appena finito il racconto, comincia il discorso. L’intelletto, come rinvigorito a quella fonte, se ne spicca tutto pieno d’ispirazioni originali, sorpreso e contento insieme. Senti li il piacere di quell’esercizio intellettuale e di quella originalitá, di quel dir cose che a’ volgari sembrano paradossi. Quei pensieri sono come una schiera ben serrata, dove non penetra niente dal di fuori a turbarvi l’ordine. Non è una mente agitata nel calore della produzione, tra quel flutto d’immaginazioni e di emozioni che ti annunzia la fermentazione, come avviene talora anche a’ piu grandi pensatori. È l’intelletto pieno di gioventú e di freschezza, tranquillo nella sua forza e in sospetto di tutto ciò che non è lui. Digressioni, immagini, effetti, paragoni, giri viziosi, perplessitá di posizioni : tutto è sbandito in queste serie disciplinate d’idee, mobili e generative, venute fuori da un vigor d’analisi insolito e legate da una logica inflessibile. Tutto è profondo, ed è cosi chiaro e semplice che ti par superficiale.

Il fondamento de’ Discorsi è questo: che gli uomini «non sanno essere né in tutto buoni né in tutto tristi.», e perciò non hanno tempra logica, non hanno virtú. Hanno velleitá, non hanno volontá. Immaginazioni, paure, speranze, vane cogitazioni, superstizioni tolgono loro la risolutezza. Perciò «stanno» volentieri «in sull’ambiguo», e scelgono le «vie di mezzo», e «seguono le apparenze». Ci è nello spirito umano uno stimolo o appetito insaziabile, che lo tiene in continua opera e [p. 81 modifica]produce il progresso storico. Ond’è che gli uomini non sono tranquilli e salgono di un’ambizione in un’altra, e prima si difendono e poi offendono, e piú uno ha piú desidera. Sicché negli scopi gli uomini sono infiniti, e ne’ mezzi sono perplessi e incerti.

Quello che degl’individui, si può dire anche dell’uomo collettivo, come famiglia o classe. Nella societá non ci è in fondo che due sole classi: degli «abbienti» e de’ «non abbienti», de’ ricchi e de’ poveri. E la storia non è se non l’eterna lotta tra chi ha e chi non ha. Gli ordini politici sono mezzi di equilibrio tra le classi. E sono liberi quando hanno a fondamento l’«equalitá». Perciò liberta non può essere dove sono «gentiluomini» o classi privilegiate.

È chiaro che una scienza o arte politica non è possibile quando non abbia per base la conoscenza della materia su che si ha a esercitare, cioè dell’uomo come individuo e come classe. Perciò una gran parte di questi Discorsi sono ritratti sociali delle moltitudini o delle plebi, degli ottimati o gentiluomini, de’ principi, de’ francesi, de’ tedeschi, degú spagnuoli, d’individui e di popoli. Sono ritratti finissimi per originalitá di osservazione ed evidenza di esposizione, ne’ quali vien fuori il «carattere», cioè quelle forze che movono individui e popoli o classi ad operare cosi o cosi. Le sue osservazioni sono frutto di una esperienza propria e immediata, e perciò freschissime e vive anche oggi.

Poiché il carattere umano ha questa base comune, che i desidèri o appetiti sono infiniti, e debole ed esitante è la virtú di conseguirli, hai disproporzione tra lo scopo e i mezzi; onde nascono le oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza politica o l’arte di condurre e governare gli uomini ha per base la precisione dello scopo e la virtú de’ mezzi; e in questa consonanza è quella energia intellettuale, che fa grandi gli uomini e le nazioni. La logica governa il mondo.

Questo punto di vista logico, preponderante nella storia, comunica all’esposizione una calma intellettuale piena di forza e di sicurezza, come di uomo che sa e vuole. Il cuore dell’uomo [p. 82 modifica]s’ingrandisce col cervello. Piú uno sa e piú osa. Quando la tempra è fiacca, di’ pure che l’intelletto è oscuro. L’uomo allora non sa quello che vuole, tirato in qua e in la dalla sua immaginazione e dalle sue passioni, com’ è proprio del volgo.

Un’applicazione di questa implacabile logica è il Principe. Machiavelli biasima i principi che per fraude o per forza tolgono la libertá a’ popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro con quali mezzi debbano mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria, ma la conservazione del principe : se non che il principe provvede a se stesso, provvedendo allo Stato. L’interesse pubblico è il suo interesse. Liberta non può dare, ma può dare buone leggi che assicurino l’onore, la vita, la sostanza de’ cittadini. Dee mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo, tenendo in freno i gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non ammazzandoli, ma studiandoli e comprendendoli: «non ingannato da loro, ma ingannando loro». Come stanno alle apparenze, il principe dee darsi tutte le buone apparenze, e, non volendo essere, parere almeno religioso, buono, clemente, protettore delle arti e degl’ ingegni. Né tema d’essere scoperto; perché gli uomini sono naturalmente semplici e creduli. Ciò che in loro ha piú efficacia è la paura: perciò il principe miri a farsi temere piú che amare. Soprattutto eviti di rendersi odioso o spregevole.

Chi legge il trattato De regimine principum di Egidio Colonna, vi troverá un magnifico mondo etico, senza alcun riscontro con la vita reale. Chi legge questo Principe del Machiavelli, vi troverá un crudele mondo logico, fondato sullo studio dell’uomo e della vita. L’uomo vi è, come natura, sottoposto nella sua azione a leggi immutabili, non secondo criteri morali, ma secondo criteri logici. Ciò che gli si dee domandare non è se quello che egli fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole o logico, se ci sia coerenza tra’ mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato dalla forza come forza, ma dalla forza come intelligenza. L’Italia non ti potea dare piú un mondo divino ed etico: ti dá un mondo logico. Ciò che era in lei ancora intatto era l’intelletto; e il Machiavelli ti dá il mondo dell’ intelletto, purgato dalle passioni e dalle immaginazioni. [p. 83 modifica]

Machiavelli bisogna giudicarlo da quest’alto punto di vista. Ciò a cui mira è la serietá intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtú di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accesscrii o estranei. La chiarezza dell’intelletto, non intorbidato da elementi soprannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E il suo eroe è il domatore dell’uomo e della natura, colui che comprende e regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istrumenti. Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la voce e protestare in nome del genere umano. Veggasi il capitolo decimo, una delle proteste piu eloquenti che sieno uscite da un gran cuore. Ma, posto lo scopo, la sua ammirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo. La responsabilitá morale è nello scopo, non è ne’ mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilitá è nel non sapere o nel non volere, nell’ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l’odioso o lo spregevole. L’odioso è il male fatto per libidine o per passione o per fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare lá dove l’intelletto ti dice che pur bisogna andare.

Quando Machiavelli scrivea queste cose, l’Italia si trastullava ne’ romanzi e nelle novelle, con lo straniero a casa. Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato. La tempra era rotta. Tutti volevano cacciar lo straniero, a tutti «puzzava il barbaro dominio»; ma erano velleitá. E si comprende come il Machiavelli miri principalmente a ristorare la tempra, attaccando il male nella sua radice. Senza tempra, moralitá, religione, libertá, virtú sono frasi. Al contrario, quando la tempra si rifá, si rifá tutto l’altro. E Machiavelli glorifica la tempra anche nel male. Innanzi a lui è piú uomo Cesare Borgia, intelletto chiaro e animo fermo, ancoraché destituito d’ogni senso morale, che il buon Pier Sederini, cima di galantuomo, ma «anima sciocca», che per la sua incapacitá e la sua fiacchezza perdette la repubblica.

Ma, se in Italia la tempra era infiacchita, lo spirito era integro. Se da una parte Machiavelli poneva a base della vita l’essere [p. 84 modifica]«uomo», iniziando l’etá virile della forza intelligente, d’altra parte il motivo principale comico dello spirito italiano nella sua letteratura romanzesca era appunto la forza incoerente, cioè a dire indisciplinata e senza scopo. Il tipo cavalleresco, com’era concepito in Italia, era ridicolo per questo: che si presentava all’immaginazione come un esercizio incomposto di una forza gigantesca, senza serietá di scopo e di mezzi, la forza come forza, e tutta la forza nei fini piú seri e piú frivoli : ciò che rende cosi comici Morgante, Mandricardo, Fracasso.

Ci erano certo i fini cavallereschi, come la tutela delle donne, la difesa degli oppressi; ma che parevano a quel pubblico intelligente e scettico comici non altrimenti che quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può dire, di quei cavalieri foggiati dallo spirito italiano, quello che Doralice dicea a Mandricardo, quando lo vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello avea fatto per impossessarsi di lei : — Non fu amore che ti mosse: fu «naturale feritá di core».— Lo spirito italiano adunque da una parte metteva in caricatura il medio evo come un giuoco disordinato di forze, e dall’altra gittava la base di una nuova etá su questo principio virile: che la forza è intelligenza, serietá di scopo e di mezzi. Ciò che l’Italia distruggeva, ciò che creava, rivelava una potenza intellettuale, che precorreva l’Europa di un secolo.

Ma in Italia c’era l’intelligenza e non ci era la forza. E si credeva con la superioritá intellettuale di potere cacciar gli stranieri. Era una intelligenza adulta, svegliatissima ma astratta, una logica formale nella piena indifferenza dello scopo. Era la scienza per la scienza, come l’arte per l’arte. Nella coscienza non ci era piú uno scopo né un contenuto. E quando la coscienza è vuota, il cuore è freddo, e la tempra è fiacca, anche nella maggiore virilitá dell’ intelletto. Il movimento dello spirito era stato assolutamente negativo e comico. Agl’ italiani era piú facile ridere delle forze indisciplinate che disciplinarsi, e piú facile ridere degli stranieri che mandarli via. Il frizzo era l’attestato della loro superioritá intellettuale e della loro decadenza morale. Mancava non la forza fisica e non il coraggio che ne è [p. 85 modifica]la conseguenza, ma la forza morale, che ci tenga stretti intorno ad una idea e risoluti a vivere e a morire per quella.

Machiavelli ebbe una coscienza chiarissima di questa decadenza o, com’egli diceva, «corruttela»:


Qui — scrive — è virtú grande nelle membra, quando la non mancasse ne’ capi. Specchiatevi nei duelli e nei congressi de’ pochi, quanto gl’ italiani siano superiori con le forze, con la destrezza, con l’ingegno.


Pure l’Italia era corrotta, perché difettiva di forze morali, e perciò di un degno scopo che riempisse di sé la coscienza nazionale. Di lui è questo grande concetto: che il nerbo della guerra non sono i danari né le fortezze né i soldati, ma le forze morali o, com’egli dice, il patriottismo e la disciplina. Di quella corruzione italiana la principal causa era il pervertimento religioso. Abbiamo di lui queste memorabili parole, di cui Lutero era il comento:


La... religione, se nei principi della repubblica cristiana si fusse mantenuta secondo che dal datore d’essa ne fu ordinato, sarebbero gli Stati e le repubbliche piú unite e piú felici assai ch’elle non sono. Né si può fare altra maggiore coniettura della declinazione d’essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono piú propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi e vedesse l’uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo senza dubbio o la rovina o il flagello.


Certo, non è ufficio grato dire dolorose veritá al proprio paese, ma è un dovere di cui l’illustre uomo sente tutta la grandezza:


Chi nasce in Italia e in Grecia, e non sia divenuto in Italia oltramontano e in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi.


Per lui è questo una sacra missione, un atto di patriottismo. Il suo sguardo abbraccia tutta la storia del mondo. Vede tanta gloria in Assiria, in Media, in Persia, in Grecia, in Italia e Roma. Celebra il regno de’ franchi, il regno de’ turchi, quello del soldano e le geste della «setta saracina», e le virtú «de’ [p. 86 modifica]popoli della Magna» al tempo suo. Lo spirito umano, immutabile e immortale, passa di gente in gente e vi mostra la sua virtú. E quando gitta rocchio sull’ Italia, il paragone lo strazia. Le sue piú belle pagine storiche sono dove narra la decadenza di Genova, di Venezia, di altre cittá italiane, in tanto fiorire degú Stati europei. Non adulare il suo paese, ma dirgli il vero, fargli sentire la propria decadenza, perché ne abbia vergogna e stimolo, descrivere la malattia e notare i rimedi, gli pare ufficio d’uomo dabbene. Questo sentimento del dovere dá alle sue parole una grande elevatezza morale:


Se la virtú che allora regnava e il vizio che ora regna non fussero piú chiari che il sole, andrei col parlare piú rattenuto. Ma, essendo la cosa si manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi tempi, acciocché gli animi de’ giovani, che questi miei scritti leggeranno, possano fuggire questi e prepararsi ad imitar quelli... Perché gli è ufficio d’uomo buono quel bene, che per la malignitá de’ tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocché sendone molti capaci, alcuno di quelli piú amati dal cielo possa operarlo.


Queste parole sono un monumento. Ci si sente dentro lo spirito di Dante.

Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica con severitá uomini e cose. Del papato tutti sanno quello che ha scritto. Né è piú indulgente verso i principi :


Questi nostri principi, che erano stati molti anni nel principato loro, per averlo dipoi perso non accusino la fortuna, ma l’ignavia loro; perché, non avendo mai ne’ tempi quieti pensato che possano mutarsi,... quando poi vennero i tempi avversi, pensarono a fuggirsi e non a difendersi.


Degli avventurieri scrive :


Il fine della loro virtú è stato che [Italia] è stata corsa da Carlo, predata da Luigi, forzata da Ferrando e vituperata da’ svizzeri;... tanto che essi hanno condotta Italia schiava e vituperata.


Né è meno severo verso i gentiluomini, avanzi feudali, rimasti vivi ed eterni in questa maravigliosa pittura :

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«Gentiluomini» sono chiamati quelli che oziosi vivono dei proventi delle loro possessioni abbondantemente, senza avere alcura cura o di coltivare o di alcun’altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in ogni repubblica ed in ogni provincia: ma piú perniciosi sono quelli che, oltre alle predette fortune, comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due sorti di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è mai stata alcuna repubblica né alcuno vivere politico, perché tali generazioni d’uomini sono al tutto nimici di ogni civiltá.


Degna di nota è qui l’idea, tutta moderna, che il fine dell’uomo è il lavoro e che il maggior nemico della civiltá è l’ozio: principio che ha gittate giú i conventi ed ha rovinato dalla radice non solo il sistema ascetico o contemplativo, ma anche il sistema feudale, fondato su questo fatto : che l’ozio de’ pochi vivea del lavoro de’ molti. Un uomo, che con una sagacia pari alla franchezza nota tutte le cause della decadenza italiana, potea ben dire, accennando a Savonarola:


Ond’è che a Carlo, re di Francia, fu lecito pigliare Italia col gesso; e chi diceva come di questo ne erano cagione i peccati nostri, diceva il vero; ma non erano giá quelli che credeva, ma questi ch’io ho narrati.



Gli oziosi sono fatalisti. Spiegano tutto con la fortuna. Anche allora de’ mali d’Italia accagionavano la mala sorte. Machiavelli scrive :


La fortuna... dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtú a resisterle, e quivi volta i suoi impeti dove la sa che non sono fatti gli argini e i ripari a tenerla. E se voi considererete l’Italia, che è la sede di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun riparo.


Essendo l’Italia in quella corruttela. Machiavelli invoca un redentore, un principe italiano, che, come Teseo o Ciro o Mosé o Romolo, la riordini, persuaso che a riordinare uno Stato si [p. 88 modifica]richieda l’opera di un solo, a governarlo l’opera di tutti. Ne’ grandi pericoli i romani nominavano un dittatore: nell’estremo della corruzione Machiavelli non vede altro scampo che nella dittatura:


Cercando un principe la gloria del mondo, dovrebbe desiderare di possedere una cittá corrotta, non per guastarla in tutto, come Cesare, ma per riordinarla, come Romolo.


Di Cesare scrive un giudizio originale rimasto celebre:


Né sia alcuno che s’inganni per la gloria di Cesare, sentendolo massime celebrare dagli scrittori; perché questi che lo laudano sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza dell’ imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori parlassero liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbero, vegga quello che dicono di Catilina. E tanto è piú detestabile Cesare, quanto è piú da biasimare quello che ha fatto che quello che ha voluto fare un male. Vegga pure con quante laudi celebrano Bruto; talché, non potendo biasimare quello per la sua potenza, e’ celebrano il nimico suo... E conoscerá allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia e il mondo abbia con Cesare.


Machiavelli promette, a chi prende lo Stato con la forza, non solo l’amnistia ma la gloria, quando sappia ordinarlo :


Considerino quelli a chi i cieli dánno tale occasione, come sono loro proposte due vie: l’una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte li rende gloriosi; l’altra li fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di sé una sempiterna infamia.


Invoca egli dunque un qualche amato dal cielo, che sani l’Italia dalle sue ferite, «e ponga fine ...a’ sacchi di Lombardia, alle espilazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe giá per lungo tempo infistolite». È l’idea tradizionale del redentore o del messia. Anche Dante invocava un messia politico, il veltro. Se non che, il salvatore di Dante ghibellino era Arrigo di Lussemburgo, perché la sua Italia era il giardino dell’impero: dove il salvatore di Machiavelli doveva [p. 89 modifica]essere un principe italiano, perché la sua Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che era fuori di lei era straniero, barbaro, «oltramontano». Chi vuol vedere il progresso dello spirito italiano da Dante a Machiavelli, paragoni la mistica e scolastica Monarchia dell’uno col Principe dell’altro, cosi moderno ne’ concetti e nella forma. L’idea del Machiavelli riusci un’utopia, non meno che l’idea di Dante. Ed oggi è facile assegnarne le cagioni. «Patria», «libertá», «Italia», «buoni ordini», «buone armi», erano parole per le moltitudini, dove non era penetrato alcun raggio d’istruzione e di educazione. Le classi colte, ritiratesi da lungo tempo nella vita privata, tra ozi idillici e letterari, erano cosmopolite, animate dagl’ interessi generali dell’arte e della scienza, che non hanno patria. Quell’Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua indipendenza, e non aveva quasi aria di accorgersene. Gli stranieri prima la spaventarono con la ferocia degli atti e de’ modi; poi la vinsero con le moine, inchinandola e celebrando la sua sapienza. E per lungo tempo gl’ italiani, perduta libertá e indipendenza, continuarono a vantarsi, per bocca de’ loro poeti, signori del mondo e a ricordare le avite glorie. Odio contro gli stranieri ce ne era, ed anche buona volontá di liberarsene. Ma ci era cosi poca fibra, che di una redenzione italica non ci fu neppure il tentativo. Nello stesso Machiavelli fu una idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di serio, per giungere alla sua attuazione, che di scrivere un magnifico capitolo, in un linguaggio rettorico e poetico fuori del suo solito, e che testimonia piú le aspirazioni di un nobile cuore che la calma persuasione di un uomo politico. Furono illusioni. Vedeva l’Italia un po’ a traverso de’ suoi desidèri. Il suo onore, come cittadino, è di avere avuto queste illusioni. E la sua gloria, come pensatore, è di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della societá moderna e della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire piú o meno lontano del quale egli tracciava la via. Le illusioni del presente erano la veritá del futuro.

Non è maraviglia che il Machiavelli, con tanta esperienza del mondo, con tanta sagacia d’osservazione, abbia avuto illusioni, [p. 90 modifica]perché nella sua natura ci entrava molto del poetico. Vedilo nell’osteria giocare con l’oste, con un mugnaio, con due fornaciari a «picca» e a «tric trac»:


E... nascono mille contese e mille dispetti di parole ingiuriose, e il piú delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti nondimanco gridare da San Casciano.


Questo non è che plebeo, ma diviene profondamente poetico nel comento appostovi:


Rinvolto in quella viltá, traggo il cervello di muda e sfogo la malignitá di questa mia sorte, sendo contento mi calpesti per quella via, per veder se la se ne vergognasse.


Vedilo tutto solo pel bosco, con un Petrarca o con un Dante, «libertineggiare» con lo spirito, fantasticare, abbandonato alle onde dell’immaginazione:


Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; ed in sull’uscio mi spoglio quella vesta contadina piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito condecentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui: dove io non mi vergogno parlare con loro e domandare della ragione delle loro azioni, ed essi per loro umanitá mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertá, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro.


Quel «trasferirsi in loro», quel «libertineggiare» sono frasi energiche di uno spirito contemplativo, estatico, entusiastico. Ci è una parentela tra Dante e Machiavelli. Ma è un Dante nato dopo Lorenzo de’ Medici, nutrito dello spirito del Boccaccio, che si beffa della «divina commedia» e cerca la commedia in questo mondo. Nella sua utopia è visibile una esaltazione dello spirito, poetica e divinatrice. Ecco : il principe leva la bandiera, grida: — Fuori i barbari! — a modo di Giulio. Il poeta è li; assiste allo spettacolo della sua immaginazione: [p. 91 modifica]

Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l’ubbidienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l’ossequio?

E finisce co’ versi del Petrarca:
                                    Virtú contro al Furore
prenderá l’arme, e fia il combatter corto:
ché l’antico valore
negl’italici cuor non è ancor morto.
     

Ma furono brevi illusioni. C’era nel suo spirito la bella immagine di un mondo morale e civile e di un popolo virtuoso e disciplinato, ispirata dall’antica Roma : ciò che lo fa eloquente ne’ suoi biasimi e nelle sue lodi. Ma era un mondo poetico troppo disforme alla realtá, ed egli medesimo è troppo lontano da quel tipo, troppo simile per molte parti a’ suoi contemporanei. Ond’è che la sua vera musa non è l’entusiasmo: è l’ironia. La sua aria beffarda, congiunta con la sagacia dell’osservazione, lo chiariscono uomo del Risorgimento. De’ principi ecclesiastici scrive:


Costoro soli hanno Stati e non li difendono, hanno sudditi e non li governano, e gli Stati per essere indifesi non sono loro tolti, e i sudditi per non essere governati non se ne curano, né pensano né possono alienarsi da loro... Essendo quelli retti da cagione superiore, alla quale la mente umana non aggiugne, lascerò il parlarne; perché, essendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe ufficio d’uomo presuntuoso e temerario il discorrerne.


In tanta riverenza di parole, non è difficile sorprendere sulle labbra di chi scrive quel piglio ironico che trovi ne’ contemporanei. Famosi sono i suoi ritratti per l’originalitá e vivacitá dell’osservazione. De’ francesi e spagnuoli scrive:


Il francese ruberia con lo alito, per mangiarselo e mandarlo a male, e goderselo con colui a chi lo ha rubato. Natura contraria alla spagnuola, che di quello che ti ruba mai ne vedi niente.


Da questo profondo ed originale talento di osservazione, da questo spirito ironico usci la Mandragola: l’alto riso nel quale finirono le sue illusioni e i suoi disinganni. [p. 92 modifica]

Dopo i primi tentativi idillici, la commedia si era chiusa nelle forme di Plauto e di Terenzio. L’Ariosto scrivea per la corte di Ferrara; il cardinale di Bibbiena scrivea per le corti di Urbino e di Roma. Vi si rappresentavano anche con molta magnificenza traduzioni dal latino. Talora gli attori erano fanciulli.


Fur pur troppo nuova cosa — scrive il Castiglione — vedere vecchiettini lunghi un palmo servare quella gravitá, quelli gesti cosi severi, [simular] parasiti e ciò che fece mai Menandro.


Accompagnamento alla commedia era la musica, e intermezzi o intromesse erano le «moresche», balli mimici. Le decorazioni magnifiche. Nella rappresentazione della Calandria in Urbino vedevi


un tempio,... tanto ben finito — dice il Castiglione, — che... non saria possibile a credere che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con istorie bellissime: finte le finestre d’alabastro: tutti gli architravi e le cornici d’oro fino e azzurro oltramarino:... figure intorno tonde fínte di marmo:... colonnette lavorate... Da un de’ capi era un arco trionfale... Era finta di marmo, ma era pittura, la istoria delli tre Orazi, bellissima... In cima dell’arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda, armata, con un bello atto, che feria con un’asta un nudo che gli era a’ piedi.


L’Italia si vagheggiava colá in tutta la pompa delle sue arti: architettura, scultura, pittura. Musiche bizzarre, tutte nascoste e in diversi luoghi. Quattro intromesse, una «moresca di Iasón» o Giasone, un carro di Venere, un carro di Nettuno, un carro di Giunone. La prima intromessa è cosi descritta dal Castiglione:


La prima fu una moresca di Iasón, il quale comparse nella scena da un capo ballando, armato all’antica, bello, con la spada e una targa bellissima; dall’altro furon visti in un tratto due tori, tanto simili al vero che alcuni pensârno che fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca, ecc. A questi s’accostò il buon Iasón, e feceli arare, posto loro il giogo e l’aratro; e poi seminò i denti del dracone: e nacquero appoco appoco, del palco, uomini armati all’antica, tanto bene quanto credo io che si possa. E questi ballarono una fiera moresca, per ammazzar Iasón; e poi, quando furono all’entrare, s’ammazzar Iasón e poi, quando [p. 93 modifica]furono all'entrate,s'ammazzavono ad uno ad uno, ma non si vedeano morire. Dietro ad essi se n’entrò Iasón, e subito usci col vello d’oro alle spalle, ballando eccellentissimamente. E questo era il Moro, e questa fu la prima intromessa.


Finita la commedia nacque sul palco all’ improvviso un amorino, che dichiarò con alcune stanze il significato delle intromesse. Poi


s’udi una musica nascosa di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono una stanza con un bello aere di musica, quasi una orazione ad Amore: e cosi fu finita la festa, con grande satisfazione e piacere di chi la vide;


dice sempre il Castiglione, l’autore del Cortigiano, che ci ebbe non piccola parte ad ordinarla.

Cosa era questa Calandria, nella cui rappresentazione Urbino e poi Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro, un facsimile di Calandrino, il marito sciocco: motivo comico del Decamerone, rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante o l’astrologo che vive a spese de’ gonzi. L’intreccio nasce da un fratello e una sorella similissimi di figura, che, vestiti or da uomo or da donna, generano equivoci curiosissimi. Dov’è lo sciocco ci è anche il furbo, e il furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al padrone, il cui pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo e Fessenio: il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dá la baia. Come si vede, l’argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela è antica, lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle piú ciniche novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è vivo e fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l’alito di Lorenzo de’ Medici. È uno sguardo allegro e superficiale gittato sul mondo. I caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti piú strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo, piú simili a’ balli mimici delle intromesse che a vere e serie rappresentazioni. Pare che quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di [p. 94 modifica]sentire, e che tutta la loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in certi tempi è stata tutta nelle gole de’ cantanti e nelle gambe delle ballerine. Queste erano le commedie dette «d’intreccio», sullo stesso stampo delle novelle.

A prima vista, ti pare alcuna cosa di simile la Mandragola. Anche ivi è grande varietá d’intreccio, con accidenti i piu comici e piú strani. Ma niente è lasciato al caso. Machiavelli concepisce la commedia come ha concepito la storia. Il suo mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna di qualitá proprie, che debbono condurre inevitabilmente al tale risultato. L’ interesse è perciò tutto nei caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è il solito marito sciocco. Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo istrutto e che sa di latino, gabbato facilmente da uomini che hanno minor dottrina di lui ma piú pratica del mondo. Ci è giá qui un concetto assai piú profondo che non è in Calandro: si sente il gran pensatore. L’obbiettivo dell’azione comica è la moglie, virtuosissima e prudentissima donna, vera Lucrezia. E si tratta di vincerla non con la forza, ma con l’astuzia. Gli antecedenti sono simili a quelli della Lucrezia romana. Callimaco, come Sesto, sente vantar la sua bellezza, e lascia Parigi e toma in Firenze sua patria, risoluto di farla sua. La tragedia romana si trasforma nella commedia fiorentina. Il mondo è mutato e rimpiccinito, Collatino è divenuto Nicia.

Come Machiavelli ha potuto esercitare il suo ingegno a scriver commedie?


                               Scusatelo con questo: che s’ ingegna
con questi van pensieri
fare il suo tristo tempo piú soave,
perché altrove non ave
dove voltare il viso;
ché gli è stato interciso
mostrar con altre imprese altre virtue,
non sendo premio alle fatiche sue.
     


[p. 95 modifica]Cattivi versi, ma strazianti. Il suo riso è frutto di malinconia. Mentre Carlo ottavo correva Italia, Piero de’ Medici e Federigo d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore; il cardinale da Bibbiena,« assassinato di amore », e il Bembo esalavano in lettere i loro sospiri, e l'uno scrivea gli Asolani e l'altro la Calandria; e Machiavelli parlava al deserto, ammonendo, consigliando; e non udito e non curato, fece come gli altri: scrisse commedie, ed ebbe l'onore di far ridere molto il papa e i cardinali.

Callimaco, l' innamorato di Lucrezia, si associa all' impresa Ligurio, un parasito che usava in casa Nicia. Lo sciocco è Nicia: il furbo è Ligurio, l'amico di casa, come si direbbe oggi. Ligurio tiene le fila in mano, e fa movere tutti gli attori a suo gusto, perché conosce il loro carattere, ciò che li move.

Ligurio è un essere destituito d'ogni senso morale e che per un buon boccone tradirebbe Cristo. Non ha bisogno di essere lago, perché Nicia non è Otello. È un volgare mariuolo, che con un po' piú di spirito farebbe ridere. Riesce odioso e spregevole, il peggior tipo d'uomo che abbia nel Principe concepito Machiavelli. Fessenio è piú allegro e più spiritoso, perciò più tollerabile. Ciò che move Ligurio e gli aguzza lo spirito è la pancia: finisce le sue geste in cantina. Ma questo suo lato comico è appena indicato, e questa figura ti riesce volgare e fredda.

Un altro associato di Callimaco è il suo servo Siro. Costui ha poca parte, ma è assai ben disegnato. Ode tutto, vede tutto, capisce tutto; ed ha aria di non udire, non vedere e non capire: fa l'asino in mezzo a' suoni. Ma questo lato comico è poco sviluppato, e ti riesce anche lui freddo: ciò che non guasta nulla, essendo una parte secondaria.

Colui, che è dietro la scena e fa ballare i suoi figurini, è Ligurio. E sembra che l'ambizione di questo furfante sia di nascondere sé e mettere in vista tutto il suo mondo. Poco interessante per se stesso, lo ammiri nella sua opera e perdi lui di vista.

Callimaco è un innamorato: per aver la sua bella farebbe monete false. La parte odiosa è riversata sul capo di Ligurio. A lui le smanie e i delíri. Non è amore petrarchesco e non [p. 96 modifica]è cinica volgaritá: è vero amor naturale coi colori suoi, rappresentato con una esagerazione e una bonomia che lo rende comico:


... Mi fo di buon cuore, ma io ci sto poco su; perché d’ogni parte mi assalta tanto desio d’essere una volta con costei, che io mi sento dalle piante dei piè al capo tutto alterare: le gambe tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi si sbarba del petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi abbarbagliano, il cervello mi gira.


Ma queste sono figure secondarie. L’interesse è tutto intorno al dottor Nicia, il marito sciocco, si sciocco che diviene istrumento inconsapevole dell’innamorato e lo conduce lui stesso al letto nuziale. L’autore, molto sobrio intorno alle figure accessorie, concentra il suo spirito comico attorno a costui e lo situa ne’ modi piú acconci a metterlo in lume. La sua semplicitá è accompagnata con tanta presunzione di saviezza e con tanta sicurezza di condotta, che l’effetto comico se ne accresce. E Ligurio non solo lo gabba, ma ci si spassa, e gli tiene sempre la candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori. Nelle ultime scene ci è una forza e originalitá comica che ha pochi riscontri nel teatro antico e moderno.

Il difficile non era gabbare Nicia, ma persuadere Lucrezia. L’azione, cosi comica per rispetto a Nicia, qui s’illumina di una luce fosca e ti rivela inesplorate profonditá. Gl’istrumenti adoperati a vincer Lucrezia sono il confessore e la madre, la venalitá dell’uno, l’ignoranza superstiziosa dell’altra. E Machiavelli, non che voglia palliare, qui è terribilmente ignudo : scopre senza pietá quel putridume. Sostrata, la madre, in poche pennellate è ammirabilmente dipinta. È una brava donna, ma di poco criterio, e avvezza a pensare col cervello del suo confessore. Alle ragioni della figliuola risponde : — «Io non ti so dir tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirá, e farai quello che tu dipoi sarai consigliata da lui, da noi e da chi ti vuol bene».— E non si parte mai di lá: è la sua idea fissa, la sua sola idea : — «Io t’ ho detto e ridicoti che, se fra Timoteo ti dice che non ci sia carico di coscienza, che tu lo [p. 97 modifica]faccia senza pensarvi». — Il confessore sa perfettamente che madre è questa. — «...È... una bestia — dice — e sarammi un grande aiuto a condurla [Lucrezia] alle mie voglie».—

Il carattere piú interessante è fra Timoteo, precursore di Tartufo: meno artificiato, anzi tutto naturale. Fa bottega della chiesa, della Madonna, del purgatorio. Ma gli uomini non ci credono piú, e la bottega rende poco. E lui aguzza l’ingegno. Se la prende co’ frati, che non sanno mantenere la riputazione all’immagine miracolosa della Madonna:


Io dissi mattutino, lessi una Vita de’ santi padri, andai in chiesa, ed accesi una lampana ch’era spenta, mutai il velo ad una Madonna che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi frati che la tengano pulita? E si maravigliano poi se la divozione manca... Oh quanto poco cervello è in questi miei frati!


Il suo primo ingresso sulla scena è pieno di significato: còlto sul fatto in un dialogo con una sua penitente: pittura di costumi profonda nella sua semplicitá. Sta spesso in chiesa, perché «in chiesa vale piú la sua mercanzia». È di mediocre levatura, buono a uccellar donne:


... Madonna Lucrezia è savia e buona. Ma io la giungerò in su la bontá, e tutte le donne hanno poco cervello; e come n’ è una che sappia dire due parole, e’ se ne predica; perché in terra di ciechi chi ha un occhio è signore.


Conosce bene i suoi polli:


Le piú caritative persone che sieno son le donne, e le piú fastidiose. Chi le scaccia, fugge i fastidi e l’utile; chi le intrattiene, ha l’utile e i fastidi insieme. Ed è il vero che non è il mele senza le mosche.


Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il linguaggio del mestiere con la facilitá indifferente e meccanica dell’abitudine. A Ligurio, che. promettendo larga limosina, lo richiede che procuri un aborto, risponde: — «Sia col nome di Dio, facciasi ciò che volete, e per Dio e per caritá sia fatta ogni cosa... Dsatemi... [p. 98 modifica]cotesti danari, da poter cominciare a far qualche bene». — Parla spesso solo, e si fa il suo esame, e si dá l’assoluzione, sempre che gliene venga utile:


Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e da ciascuno per diversi rispetti sono per trarre assai. La cosa conviene che stia segreta, perché l’importa cosi a loro dirla come a me. Sia come si voglia, io non me ne pento.


Se mostra inquietudine, è per paura che si sappia :


Dio sa ch’io non pensava a ingiuriare persona: stavami nella mia cella, diceva il mio officio, intratteneva i miei divoti. Capitommi innanzi questo diavolo di Ligurio, che mi fece intignere il dito in un errore, donde io vi ho messo il braccio e tutta la persona, e non so ancora dove io m’abbia a capitare. Pure mi conforto che, quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura.


Questo è l’uomo a cui la madre conduce la figliuola. Il frate spiega tutta la sua industria a persuaderla, e non si fa coscienza di adoperarvi quel poco che sa del Vangelo e della storia sacra:


Io son contenta — conchiude Lucrezia; — ma non credo mai esser viva domattina.


E il frate risponde:


Non dubitare, figliuola mia, io pregherò Dio per te, io dirò l’orazione dell’angiol Raffaello, che t’accompagni. Andate in buon’ora, e preparatevi a questo misterio, ché si fa sera.

— Rimanete in pace, padre, —


dice la madre; e la povera Lucrezia, che non è ben persuasa, sospira :


Dio m’aiuti e la Nostra Donna ch’io non capiti male.


Quel fatto il frate lo chiama un «misterio», e il mezzano è l’«angiol Raffaello» !

Queste cose movevano indignazione in Germania e provocavano la Riforma. In Italia facevano ridere. E il primo a ridere [p. 99 modifica]era il papa. Quando un male diviene cosí sparso dappertutto e cosí ordinario che se ne ride, è cancrena e non ha rimedio.

Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria, passatempo. Nel riso del Machiavelli ci è alcunché di tristo e di serio, che oltrepassa la caricatura e nuoce all’arte. Evidentemente, il poeta non piglia confidenza con Timoteo, non lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se ne sta lontano, quasi abbia ribrezzo. Timoteo è anima secca, volgare e stupida, senz’ immaginazione e senza spirito : non è abbastanza idealizzato, ha colori troppo crudi e cinici. Lo stile, nudo e naturale, ha aria piú di discorso che di dialogo. Senti meno il poeta che il critico, il grande osservatore e ritrattista.

Appunto perciò la Mandragola è una commedia che ha fatto il suo tempo. È troppo incorporata in quella societá, in ciò ch’ella ha di piú reale e particolare. Quei sentimenti e quelle impressioni, che la ispirarono, non li trovi oggi piú. La depravazione del prete e la sua terribile influenza sulla donna e sulla famiglia appare a noi un argomento pieno di sangue: non possiamo farne una commedia. Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella pittura di Nicia, qui perde il suo buon umore e la sua grazia, e mi assimiglia piuttosto un anatomico che nuda le carni e mostra i nervi e i tendini. Nella sua immaginazione non ci è il riso e non ci è l’indignazione al cospetto di Timoteo : c’è quella spaventevole freddezza con la quale ritrae il principe o l’avventuriere o il gentiluomo. Sono come animali strani, che, curioso osservatore, egli analizza e descrive, quasi faccia uno studio, estraneo alle emozioni e alle impressioni.

La Mandragola è la base di tutta una nuova letteratura. È un mondo mobile e vivace, che ha varietá, sveltezza, curiositá, come un mondo governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si nascondono le piú profonde combinazioni della vita interiore. L’impulso dell’azione viene da forze spirituali, inevitabili come il fato. Basta conoscere i personaggi per indovinare la fine. Il mondo è rappresentato come una conseguenza, le cui premesse sono nello spirito o nel carattere, nelle forze che lo movono. E chi meglio sa calcolarle, colui vince. [p. 100 modifica]Il soprannaturale, il maraviglioso, il caso sono detronizzati. Succede il carattere. Quello, che Machiavelli è nella storia e nella politica, è ancora nell’arte.

Si distinsero due specie di commedie: «d’intreccio» e «di carattere». «Commedia d’intreccio» fu detta dove l’interesse nasce dagli avviluppi dell’azione, come erano tutte le commedie e novelle di quel tempo e anche tragedie. Si cercava l’effetto nella stranezza e nella complicazione degli accidenti. «Commedia di carattere» fu detta dove l’azione è mezzo a mettere in mostra un carattere. E sono definizioni viziose. Hai da una parte commedie sbardellate per troppo cumulo d’intrighi, dall’altra commedie scarne per troppa povertá d’azione. Machiavelli riunisce le due qualitá. La sua commedia è una vera e propria azione, vivacissima di movimenti e di situazioni, animata da forze interiori, che ci stanno come forze o istrumenti e non come fini o risultati. Il carattere è messo in vista vivo, come forza operante, non come qualitá astratta. Ciò che di piú profondo ha il pensiero esce fuori sotto le forme piú allegre e piú corpulente, fino della piú volgare e cinica buffoneria, come è il «don Cuccú», e la «palla di aloè». Ci è li tutto Machiavelli, l’uomo che giocava all’osteria e l’uomo che meditava allo scrittoio.

Di ogni scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli una parte è morta: quella per la quale è venuto a trista celebritá. È la sua parte piú grossolana, è la sua scoria quella che ordinariamente è tenuta parte sua vitale, cosi vitale che è stata detta il «machiavellismo». Anche oggi, quando uno straniero vuol dire un complimento all’ Italia, la chiama «patria di Dante e di Savonarola», e tace di Machiavelli. Noi stesa non osiamo chiamarci «figli di Machiavelli». Tra il grande uomo e noi ci è il machiavellismo. È una parola, ma una parola consacrata dal tempo, che parla all’ immaginazione e ti spaventa come fosse l’orco.

Del Machiavelli è avvenuto quello che del Petrarca. Si è chiamato «petrarchismo» quello che in lui è un incidente ed è il tutto ne’ suoi imitatori. E si è chiamato «machiavellismo» quello che nella sua dottrina è accessorio e relativo, e si è [p. 101 modifica]dimenticato quello che vi è di assoluto e di permanente. Cosí è nato un Machiavelli di convenzione, veduto da un lato solo e dal meno interessante. È tempo di rintegrare l’immagine.

Ci è nel Machiavelli una logica formale e c’è un contenuto.

La sua logica ha per base la serietá dello scopo, ciò ch’egli chiama «virtú». Proporti uno scopo quando non puoi o non vuoi conseguirlo, è da femmina. «Essere uomo» significa «marciare allo scopo». Ma nella loro marcia gli uomini errano spesso, perché hanno l’intelletto e la volontá intorbidata da fantasmi e da sentimenti, e giudicano secondo le apparenze. Sono spiriti fiacchi e deboli quelli che stimano le cose come le paiono e non come le sono, a quel modo che fa la plebe. Cacciar via dunque tutte le vane apparenze e andare allo scopo con luciditá di mente e fermezza di volontá, questo è essere un uomo, aver la stoffa d’uomo. Quest’uomo può essere un tiranno o un cittadino, un uomo buono o un tristo. Ciò è fuori dell’argomento, è un altro aspetto dell’uomo. Ciò a che guarda Machiavelli è di vedere se è un uomo; ciò a che mira è rifare le radici alla pianta «uomo» in declinazione. In questa sua logica la virtú è il carattere o la tempra, e il vizio è l’incoerenza, la paura, l’oscillazione.

Si comprende che in questa generalitá ci è lezioni per tutti, po’ buoni e pe’ birbanti, e che lo stesso libro sembra agli uni il codice de’ tiranni e agli altri il codice degli uomini liberi. Ciò che vi s’impara è di essere un uomo, come base di tutto il resto. Vi s’impara che la storia, come la natura, non è regolata dal caso, ma da forze intelligenti e calcolabili, fondate sulla concordanza dello scopo e de’ mezzi; e che l’uomo, come essere collettivo o individuo, non è degno di questo nome se non sia anch’esso una forza intelligente, coerenza di scopo e di mezzi. Da questa base esce l’etá virile del mondo, sottratta possibilmente all’influsso dell’ immaginazione e delle passioni, con uno scopo chiaro e serio e con mezzi precisi.

Questo è il concetto fondamentale, l’obbiettivo del Machiavelli. Ma non è principio astratto e ozioso: ci è un contenuto, che abbiamo giá delineato ne’ tratti essenziali. [p. 102 modifica]

La serietá della vita terrestre col suo istrumento, il lavoro; col suo obbiettivo, la patria; col suo principio, l’eguaglianza e la libertá; col suo vincolo morale, la nazione; col suo fattore, lo spirito o il pensiero umano, immutabile ed immortale; col suo organismo, lo Stato, autonomo e indipendente; con la disciplina delle forze; con l’equilibrio degl’interessi: ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente nel mondo del Machiavelli, a cui è di corona la gloria, cioè l’approvazione del genere umano, ed è di base la virtú o il carattere: «agere et pati fortia».

Il fondamento scientifico di questo mondo è la cosa effettuale, come te la porge l’esperienza e l’osservazione. L’immaginazione, il sentimento, l’astrazione sono cosi perniciosi nella scienza come nella vita. Muore la scolastica: nasce la scienza.

Questo è il vero machiavellismo, vivo, anzi giovane ancora. È il programma del mondo moderno, sviluppato, corretto, ampliato, piú o meno realizzato. E sono grandi le nazioni che piú vi si avvicinano. Siamo dunque alteri del nostro Machiavelli, Gloria a lui quando crolla alcuna parte dell’antico edificio, e gloria a lui quando si fabbrica alcuna parte del nuovo! In questo momento che scrivo, le campane suonano a distesa e annunziano l’entrata degl’italiani a Roma. Il potere temporale crolla, e si grida il «viva» all’unitá d’Italia. Sia gloria al Machiavelli!

Scrittore non solo profondo, ma simpatico. Perché nelle sue transazioni politiche discerni sempre le sue vere inclinazioni. Antipapale, antimperiale, antifeudale, civile, moderno e democratico. E quando, stretto dal suo scopo, propone certi mezzi, non di rado s’interrompe, protesta, ha quasi aria di chiederti scusa e di dirti:— Guarda che siamo in tempi corrotti; e se i mezzi son questi e il mondo è fatto cosi, la colpa non è mia. —

Ciò che è morto del Machiavelli non è il sistema, è la sua esagerazione. La sua «patria» mi rassomiglia troppo l’antica divinitá, e assorbe in sé religione, moralitá, individualitá. Il suo «Stato» non è contento di essere autonomo esso, ma toglie l’autonomia a tutto il rimanente. Ci sono i dritti dello Stato: mancano i dritti dell’uomo. La «ragione di Stato» ebbe le sue forche, come l'Inquisizione ebbe i suoi roghi, e la «salute [p. 103 modifica]pubblica» le sue mannaie. Fu Stato di guerra, e in quel furore di lotte religiose e politiche ebbe la sua culla sanguinosa il mondo moderno. Dalla forza usci la giustizia. Da quelle lotte usci la libertá di coscienza, l’indipendenza del potere civile e piú tardi la libertá e la nazionalitá. E se chiamate «machiavellismo» quei mezzi, vogliate chiamare anche «machiavellismo» quei fini. Ma i mezzi sono relativi e si trasformano, sono la parte che muore : i fini rimangono eterni. Gloria del Machiavelli è il suo programma; e non è sua colpa che l’intelletto gli abbia indicati de’ mezzi, i quali la storia posteriore dimostrò conformi alla logica del mondo. Fu piú facile il biasimarli che sceglierne altri. «Dura lex, sed ita lex».

Certo, oggi il mondo è migliorato in questo aspetto. Certi mezzi non sarebbero piú tollerati e produrrebbero un effetto opposto a quello che se ne attendeva Machiavelli: allontanerebbero dallo scopo. L’assassinio politico, il tradimento, la frode, le sètte, le congiure sono mezzi che tendono a scomparire. Presentiamo giá tempi piú umani e civili, dove non sieno piú possibili la guerra, il duello, le rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato e la salute pubblica. Sará l’etá dell’oro. Le nazioni saranno confederate, e non ci sará altra gara che d’industrie, di commerci e di studi.

È un bel programma. E quantunque sembri un’utopia, non dispero. Ciò che lo spirito concepisce, presto o tardi viene a maturitá. Ho fede nel progresso e nell’avvenire.

Ma siamo ben lontani dal Machiavelli. E anche da’ nostri tempi. E non è co’ criteri di un mondo nascosto ancora nelle ombre dell’avvenire che possiamo giudicare e condannare Machiavelli. Anche oggi siamo costretti a dire: — Crudele è la logica della storia; ma quella è. —

Nel machiavellismo ci è una parte variabile nella qualitá e nella quantitá, relativa al tempo, al luogo, allo stato della coltura, alle condizioni morali de’ popoli. Questa parte, che riguarda i mezzi, è molto mutata, e muterá in tutto, quando la societá sia radicalmente rinnovata. Ma la teoria de’ mezzi è assoluta ed eterna, perché fondata sulle qualitá immutabili della natura [p. 104 modifica]umana. Il principio, dal quale si sviluppa quella teoria, è questo: che i mezzi debbono avere per base l’intelligenza e il calcolo delle forze che movono gli uomini. È chiaro che in queste forze c’ è l’assoluto e il relativo; e il torto del Machiavelli, comunissimo a tutt’i grandi pensatori, è di avere espresso in modo assoluto tutto, anche ciò che è essenzialmente relativo e variabile.

Il machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di sostanziale, è l’uomo considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso, che ha nella sua natura i suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della sua grandezza e della sua decadenza, come uomo e come societá. Su questa base sorgono la storia, la politica, e tutte le scienze sociali. Gl’inizi della scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo che alla coltura classica unisca esperienza grande e un intelletto chiaro e libero. Questo è il machiavellismo, come scienza e come metodo. Ivi il pensiero moderno trova la sua base e il suo linguaggio. Come contenuto, il machiavellismo su’ rottami del medio evo abbozza un mondo intenzionale, visibile tra le transazioni e i vacillamenti dell’uomo politico: un mondo fondato sulla patria, sulla nazionalitá, sulla libertá, sull’uguaglianza, sul lavoro, sulla virilitá e serietá dell’uomo.