Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XV. Machiavelli/II.
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In letteratura, belletto immediato del machiavellismo è la storia e la politica emancipate da elementi fantastici, etici, sentimentali, e condotte in forma razionale; è il pensiero vólto agli studi positivi dell’uomo e della natura, messe da parte le speculazioni teologiche e ontologiche; è il linguaggio purificato della scoria scolastica e del meccanismo classico, e ridotto nella forma spedita e naturale della conversazione e del discorso. È l’ultimo e piú maturo frutto del genio toscano. Su questa via incontriamo prima Francesco Guicciardini, con tutti gli scrittori politici della scuola fiorentina e veneta; poi Galileo Galilei, con la sua illustre coorte di naturalisti.
Francesco Guicciardini, ancorché di pochi anni piú giovane di Machiavelli e di Michelangelo, giá non sembra della stessa generazione. Senti in lui il precursore di una generazione piú fiacca e piú corrotta, della quale egli ha scritto il vangelo ne’ suoi Ricordi.
Ha le stesse aspirazioni del Machiavelli. Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole l’Italia unita. Vuole anche la liberta, concepita a modo suo, con una immagine di governo stretto e temperato, che si avvicina a’ presenti ordini costituzionali o misti. Ma sono semplici desidèri, e non metterebbe un dito a realizzarli:
Tre cose — scrive — desidero vedere innanzi alla mia morte: ma dubito, ancora che io vivessi molto, non ne vedere alcuna: uno vivere di repubblica bene ordinato nella cittá nostra, Italia liberata da tutti i barbari, e liberato il mondo della tirannide di questi scelerati preti.
Una libertá bene ordinata, l’indipendenza e l’autonomia delle nazioni, l’affrancamento del laicato : ecco il programma del Machiavelli, divenuto il testamento del Guicciardini, e che oggi è ancora la bandiera di tutta la parte liberale e civile europea.
Si può credere che questi fossero i desidèri anche delle classi colte. Ma erano amori platonici, senza influsso nella pratica della vita. Il ritratto di quella societá è il Guicciardini, che scrive: «Conoscere non è mettere in atto». Altro è desiderare, altro è fare. La teoria non è la pratica. Pensa come vuoi, ma fa’come ti torna. La regola della vita è «l’interesse proprio», «il tuo partículare».
Il Guicciardini biasima «l’ambizione, l’avarizia e la mollizie da’ preti» e il dominio temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero, per vedere ridurre «questa caterva di scelerati a’ termini debiti, cioè a restare o senza vizi o senza autoritá»; ma «per il suo particulare» è necessitato amare la grandezza de’ pontefici e servire a’ preti e al dominio temporale. Vuole emendata la religione in molte parti; ma non ci si mescola, lui, «non combatte con la religione né con le cose che pare che dependono da Dio, perché questo obbietto ha troppa forza nella mente delli sciocchi». Ama la gloria e desidera di fare «cose grandi ed eccelse», ma a patto che non sia «con suo danno o incommoditá». Ama la patria, e, se perisce, gliene duole, non per lei, perché «cosi ha a essere», ma per sé, «nato in tempi di tanta infelicitá». È zelante del ben pubblico, ma «non s’ingolfa tanto nello Stato» da mettere in quello tutta la sua fortuna. Vuole la libertá, ma, quando la sia perduta, non è bene fare mutazioni, perché «mutano i visi delle persone, non le cose, e non puoi fare fondamento sul populo», e, quando la vada male, ti tocca «la vita spregiata del fuoruscita». Miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che «governano non ti abbiano in sospetto e neppure ti pongano fra’ malcontenti». Quelli che altrimenti fanno sono uomini «leggieri». Molti, è vero, gridano «libertá», ma «in quasi tutti prepondera il rispetto dell’ interesse suo». Essendo il mondo fatto cosi, hai a pigliare il mondo com’è, e condurti di guisa che non te ne venga danno, anzi la maggiore comoditá possibile. Cosi fanno gli uomini «savi».
La corruttela italiana era appunto in questo: che la coscienza era vuota e mancava ogni degno scopo alla vita. Machiavelli ti addita in fondo al cammino della vita terrestre la patria, la nazione, la libertá. Non ci è piú il cielo per lui, ma ci è ancora la terra. Il Guicciardini ammette anche lui questi fini, come cose belle e buone e desiderabili; ma fi ammette sub conditione, a patto che sieno conciliabili col tuo «particulare», come dice, cioè col tuo interesse personale. Non crede alla virtú, alla generositá, al patriottismo, al sacrificio, al disinteresse. Ne’ piú prepondera l’interesse proprio, e mette sé francamente tra questi piú, che sono i «savi» : gli altri li chiama «pazzi», come furono i fiorentini, che «vollero contro ogni ragione opporsi», quando «i savi di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta», e intende dell’assedio di Firenze, illustrato dall’eroica resistenza di quei pazzi, tra’ quali erano Michelangelo e Ferruccio. Machiavelli combatte la corruttela italiana e non dispera del suo paese. Ha le illusioni di un nobile cuore. Appartiene a quella generazione di patrioti fiorentini, che in tanta rovina cercavano i rimedi, e non si rassegnavano, e illustrarono l’Italia con la loro caduta. Nel Guicciardini comparisce una generazione giá rassegnata. Non ha illusioni. E perché non vede rimedio a quella corruttela, vi si avvolge egli pure e ne fa la sua saviezza e la sua aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana codificata e innalzata a regola della vita.
Il dio del Guicciardini è il suo particolare. Ed è un dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici o lo Stato del Machiavelli. Tutti gl’ ideali scompariscono. Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla scena del mondo che l’individuo. Ciascuno per sé, verso e contro tutti. Questo non è piu corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina predicata e inculcata, è l’arte della vita.
Il Guicciardini si crede piú savio del Machiavelli, perché non ha le sue illusioni. Quel venir fuori sempre con l’antica Roma lo infastidisce, e rompe in questo motto sanguinoso:
Quanto si ingannano coloro che ad ogni parola allegano e’ romani! Bisognerebbe avere una cittá condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello esemplo: il quale a chi ha le qualitá disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facesse il corso di un cavallo.
In questo concetto della vita il Guicciardini è di cosi buona fede, che non sente rimorso e non mostra la menoma esitazione, e guarda con un’aria di superioritá sprezzante gli uomini che fanno altrimenti. Il che avviene, a suo avviso, non per virtú o altezza d’animo, ma «per debolezza di cervello», avendo offuscato lo spirito dalle apparenze, dalle impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle passioni. Ci si vede l’ultimo risultato a cui giunge lo spirito italiano, giá adulto e progredito, che caccia via l’immaginazione e l’affetto e la fede, ed è tutto e solo cervello o, come dice il Guicciardini, «ingegno positivo».
Perché l’ingegno sia positivo si richiede la «prudenza naturale», la «dottrina» che dá le regole, l’«esperienza» che dá gli esempli, e il «naturale buono», tale cioè che stia al reale e non abbia illusioni. E non basta. Si richiede anche la «discrezione» o il discernimento, perché è «grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire cosi, per regola, perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non si trovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la discrezione». Il vero libro della vita è dunque «il libro della discrezione», a leggere il quale si richiede da natura «buono e perspicace occhio». La dottrina sola non basta, e non è bene «stare al giudicio di quelli che scrivono, e in ogni cosa volere vedere ognuno che scrive: cosi quello tempo che s’arebbe a mettere in speculare, si consuma in leggere libri con stracchezza d’animo e di corpo, in modo che l’ha quasi piú similitudine a una fatica di facchini che di dotti».
L’uomo positivo vede il mondo altro da quello che «a’ volgari» pare. Non crede agli astrologi, ai teologi, a’ filosofi e a tutti quelli che scrivono le cose sopra natura o che non si veggono, «e dicono mille pazzie» : perché in effetti gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagazione ha servito e serve piú a esercitare gl’ ingegni che a trovare la veritá.
Questa base intellettuale è quella medesima del Machiavelli: l’esperienza e l’osservazione, il fatto e lo «speculare» o l’osservare. Né altro è il sistema. Il Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega, e in forma anche piú recisa; e ammette quello che il Machiavelli ammette. Ma è piú logico e piú conseguente. Poiché la base è il mondo com’ è, crede un’ illusione a volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo quando esso le ha di asino; e lo piglia com’ è, e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo istrumento. Conoscere non è mettere in atto. Ciò che è nella tua mente e nella tua coscienza non può essere di regola alla tua vita. Vivere è conoscere il mondo e voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con tutti, perché «gli uomini si riscontrano». Stai con chi vince, perché «te ne viene parte di lode e di premio». «Abbi appetito della roba», perché la ti dá riputazione, e la povertá è spregiata. Sii schietto, perché, «quando sia il caso di simulare, piú facilmente acquisti fede». Sii stretto nello spendere, perché «piú onore ti fa uno ducato che tu hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi». Studia di «parere buono», perché «il buon nome vale piu che molte ricchezze». Non meritarti nome di sospettoso; ma, perché piú sono i cattivi che i buoni, «credi poco e fidati poco». Questo è il succo dell’arte della vita seguita da’ piú, ancorché con qualche ipocrisia, come se ne vergognassero. Ma il Guicciardini ne fa un codice, fondato sul divorzio tra l’uomo e la coscienza e sull’interesse individuale. È il codice di quella borghesia italiana, tranquilla, scettica, intelligente e positiva, succeduto a’ codici d’amore e alle regole della cavalleria.
Ma il Guicciardini, con tutta la sua saviezza, trovò un altro piú savio di lui, e, volendo usare Cosimo a benefizio suo, avvenne che fu lui istrumento di Cosimo. Cosí fini la vita, come il Machiavelli, nella solitudine e nell’abbandono. Ebbe anche lui le sue illusioni e i suoi disinganni, meno nobili, meno degni della posteritá, perché si riferivano al suo particolare. Ritirato nella sua villa d’Arcetri, usò gli ozi a scrivere la Storia d’Italia.
Se guardiamo alla potenza intellettuale, è il lavoro piú importante che sia uscito da mente italiana. Ciò che lo interessa non è la scena, la parte teatrale o poetica, sulla quale facevano i loro esercizi rettorici il Giovio, il Varchi, il Giambullari e gli altri storici. I fatti piú maravigli osi o commoventi sono da lui raccontati con una certa sprezzatura, come di uomo che ne ha viste assai e non si maraviglia e non si commove piú di nulla. Non ha simpatie e antipatie, non ha tenerezze e indignazioni, e neppure ha programmi o preconcetti intorno a’ risultati generali dei fatti e alle sorti del suo paese. Il suo intelletto chiaro e tranquillo è chiuso in sé, e non vi entra nulla dal di fuori che lo turbi o lo svii. È l’intelletto positivo, con quelle qualitá che abbiamo notate e che in lui sono egregie: la prudenza naturale, la dottrina, l’esperienza, il naturale buono e la discrezione. Maravigliosa è soprattutto la sua discrezione nel non riconoscere principi né regole assolute, e giudicare caso per caso, guardando in ciascun fatto la sua individualitá, quel complesso di circostanze sue proprie, che lo fanno esser quello e non un altro; dov’è la vera distinzione tra il pedante e l’uomo d’ingegno.
Con queste disposizioni, è naturale che lo interessa meno la scena che il dietroscena, dove penetra con sicurezza il suo occhio perspicace. Ha comune col Machiavelli il disprezzo della superficie, di ciò che si vede e si dice il parere; e lo studio dell’essere, di ciò che è al di sotto e che non si vede. Hai innanzi non la sola descrizione de’ fatti, ma la loro genesi e la loro preparazione: li vedi nascere e svilupparsi. I motivi piú occulti e vergognosi sono rivelati con la stessa calma di spirito che i motivi piú nobili. Ciò che l’interessa non è il carattere etico o morale di quelli, ma la loro azione su’ fatti. Il motivo determinante è l’interesse, ed è sagacissimo nell’ indagazione non meno degl’ interessi privati che degl’ interessi detti pubblici, e sono interessi di re e di corti. Ma gl’ interessi hanno la loro ipocrisia, e si nascondono sotto il manto di fini piú nobili, come la gloria, l’onore, la libertá, l’indipendenza: fini che escono in mezzo quando si vuol cattivare i popoli o gli eserciti. Di che nasce, massime nelle concioni, una specie di rettorica ad usum delphini, voglio dire ad uso de’ volgari, che non guardano nel fondo e si lasciano trarre alle belle apparenze. I popoli e gli eserciti vi stanno come istrumenti, e i veri e principali attori sono pochi uomini, che li movono con la violenza e con l’astuzia, e li usano a’ fini loro.
Lo storico avea intenzioni letterarie. La sua prosa, massime ne’ Ricordi, ha la precisione lapidaria di Machiavelli, con quella rapiditá e semplicitá e perfetta evidenza che ravvicina agli esempli piú finiti della prosa francese, senza che ne abbia i difetti. Lo stile e la lingua in questi due scrittori giunge per vigore intellettuale ad un grado di perfezione che non è stato piú avanzato. Ma il Guicciardini, di un giudizio cosi sano nell’andamento de’ fatti umani, avea de’ preconcetti in letteratura: opinioni ammesse senza esame, solo perché ammesse da tutti. Lo scrivere è per lui, come per i letterati di quel tempo, la traduzione del parlare e del discorso naturale in un certo meccanismo molto complicato e a lui faticoso, quasi vi facesse allora per la prima volta le sue prove. Molti uomini mediocri, quali il Casa e il Castiglione o il Salviati o lo Speroni, vi riescono con minore difficoltá, come disciplinati ed educati a quella forma. La sua chiarezza intellettuale e la sua rapida percezione è in visibile contrasto con quei giri avviluppati e affannosi del suo periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare in quelle pieghe i suoi concetti e le sue intenzioni, se non fosse manifesta la sua franchezza spinta sino al cinismo. Sono artifici puramente letterari e rettori ci. E sono rettori ca le sue circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue orazioni, le sue sentenze morali, un certo calore d’immaginazione e di sentimento, una certa solennitá di tuono. Al di sotto di questi splendori artificiali trovi un mondo di una ossatura solida e di un perfetto organismo, freddo come la logica ed esatto come la meccanica, e che non è forse in fondo se non un corso di forze e d’interessi seguiti nei loro piú intimi recessi da un intelletto superiore.
La Storia d’Italia è in venti libri e si stende dal i494 al i534. Comincia con la calata di Carlo ottavo: finisce con la caduta di Firenze. Apparisce in ultimo, come un funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo terzo, il papa della Inquisizione e del concilio di Trento. Questo periodo storico si può chiamare la «tragedia italiana», perché in questo spazio di tempo l’Italia dopo un vano dibattersi cesse in potestá dello straniero. Ma lo storico non ha pur sentore dell’unitá e del significato di questa tragedia; e il protagonista non è l’Italia e non è il popolo italiano. La tragedia c’è, e sono le grandi calamitá che colpiscono gl’individui: le arsioni, le prede, gli stupri, tutt’i mali della guerra. Avvolto fra tanti «atrocissimi accidenti», sagacissimo a indagarne i piú riposti motivi nel carattere degli attori e nelle loro forze, l’insieme gli fugge. La Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra Carlo quinto e Francesco primo, la trasformazione del papato, la caduta di Firenze, e l’Italia bilanciata di Lorenzo divenuta un’ Italia definitivamente smembrata e soggetta: questi fatti generali preoccupano meno lo storico che l’assedio di Pisa e i piú oscuri pettegolezzi tra’ principi. Sembra un naturalista, che studi e classifichi erbe, piante e minerali, e indaghi la loro struttura interna e la loro fisiologia, che li fa essere cosi o cosi. L’uomo vi apparisce come un essere naturale, che operi cosí fatalmente come un animale, determinato all’azione da passioni, opinioni, interessi, dalla sua natura o carattere, con la stessa necessitá che l’animale è determinato da’ suoi istinti e qualunque essere vivente dalle sue leggi costitutive. Considerando l’uomo a questo modo, lo storico conserva quella calma dell’intelletto, quell’apatia e indifferenza che ha un filosofo nella spiegazione de’ fenomeni naturali. Ferruccio e Malatesta gl’ispirano lo stesso interesse; anzi Malatesta è piú interessante, perché la sua azione è meno spiegabile e attira piú la sua attenzione intellettuale. Di che si stacca questo concetto della storia: che l’uomo, ancora che sembri nelle sue azioni libero, è determinato da motivi interni o dal suo carattere, e si può calcolare quello che fará e come riuscirá, quasi con quella sicurezza che si ha nella storia naturale. Perciò chi perde ha sempre torto, dovendo recarne la cagione a se stesso, che ha mal calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa specie di fisica storica non oltrepassa gl’ individui, i quali ci appaiono qui come una specie di macchinette maravigliose anzi miracolose alla plebe: a noi poco interessanti, perché sappiamo il segreto, conosciamo l’ingegno da cui escono quei miracoli, e tutto il nostro interesse è concentrato nello studio dell’ingegno.
Il Machiavelli va piú in lá. Egl’intravede una specie di fisica sociale, come si direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non solo gl’individui, ma la societá e il genere umano. Perciò patria, libertá, nazione, umanitá, classi sociali sono per lui fatti non meno interessanti che le passioni, gl’ interessi, le opinioni, le forze che movono gl’individui. E se vogliamo trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo ad imparare nelle sue opere. Indi è che, come carattere morale, il segretario fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl’intelletti elevati, che sanno mirare al di lá della scorza nel fondo delle sue dottrine; e, come forza intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una virtú sintetica, una larghezza di vista, che manca in quello. Lui, è un punto di partenza nella storia, destinato a svilupparsi; l’altro è un bel quadro, finito e chiuso in sé.