Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/33
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Traduzione dall'inglese di Davide Bertolotti (1820-1824)
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CAPITOLO XXXIII.
Durante un lungo e disonorevole regno di ventotto anni, Onorio, Imperatore dell’Occidente, fu separato dall’amicizia del suo fratello, e di poi del nipote, che regnarono nell’Oriente; e Costantinopoli rimirò con apparente indifferenza e segreta gioia le calamità di Roma. Le strane avventure di Placidia appoco appoco rinnovarono, e fomentarono l’unione de’ due Imperi. La figlia del Gran Teodosio era stata prigioniera e Regina de’ Goti: essa perdè un affezionato marito; fu tratta in catene dall’insultante di lui assassino; gustò il piacere della vendetta; e fu cambiata nel trattato di pace per seicentomila misure di grano. Dopo il suo ritorno dalla Spagna in Italia, Placidia provò una nuova persecuzione in seno alla sua famiglia. Essa era contraria ad un matrimonio, ch’era stato stipulato senza il suo consenso; ed il prode Costanzo ricevè come un nobile premio delle vittorie, che avea riportate contro i tiranni, dalla mano d’Onorio medesimo, la ripugnante destra della vedova d’Adolfo. Ma terminò lo sua resistenza con la ceremonia delle nozze, nè Placidia ricusò di divenir madre d’Onoria e di Valentiniano III, e d’assumere ed esercitare un assoluto dominio sull’animo del grato di lei marito. Questo generoso soldato, che aveva fin allora diviso il suo tempo fra’ piaceri sociali, ed il militar servizio, apprese nuove lezioni d’ambizione e d’avarizia: egli estorse il titolo d’Augusto; ed il servo d’Onorio fu associato all’Impero dell’Occidente. La morte di Costanzo, nel settimo mese del suo regno, invece di diminuire parve che accrescesse il poter di Placidia; e l’indecente famigliarità1 del fratello, che non era forse che un effetto di puerile affezione, universalmente attribuivasi ad un amore incestuoso. Ad un tratto, per causa d’alcuni bassi intrighi d’un maestro di casa e d’una nutrice, quest’eccessiva tenerezza si convertì in una irreconciliabil contesa: i contrasti dell’Imperatore e della sorella non restarono lungamente nascosti dentro le mura del Palazzo; e siccome i soldati Gotici erano aderenti alla loro Regina, la città di Ravenna fu agitata da sane pericolosi tumulti, che non poterono acquietarsi, che mediante il volontario o forzato ritiro di Placidia e de’ suoi figli. I reali esuli sbarcarono a Costantinopoli, poco dopo il matrimonio di Teodosio, e nel tempo delle feste per le vittorie Persiane. Furono essi trattati con affetto e magnificenza; ma siccome si erano rigettate dalla Corte Orientale le statue dell’Imperator Costanzo, non poteva decentemente accordarsi alla vedova di esso il titolo d’Augusta. Pochi mesi dopo l’arrivo di Placidia, un celere messaggio annunziò la morte d’Onorio, in conseguenza d’un’idropisia; ma non ne fu divulgato l’importante segreto, finattantochè non furono dati gli ordini necessari per la marcia d’un grosso corpo di truppe verso le coste marittime della Dalmazia. Le botteghe e le porte di Costantinopoli restarono chiuse per sette giorni: e la morte d’un Principe straniero, che non poteva essere nè stimato nè desiderato, si celebrò con alte ed affettate dimostrazioni di pubblico lutto.
[A. 423-425] Mentre i Ministri di Costantinopoli deliberavano, il trono vacante d’Onorio fu usurpato dall’ambizione di uno straniero. Giovanni era il nome del ribelle; occupava esso il confidenziale ufizio di Primicerio, o sia di principal Segretario; e l’Istoria ha attribuito al suo carattere più virtù di quelle, che si possano facilmente conciliare con la violazione del dovere più sacro. Incoraggiato Giovanni dalla sommission dell’Italia, e dalla speranza d’una confederazione con gli Unni, osò d’insultare con un’ambasceria la maestà dell’Imperatore Orientale; ma quando seppe, che i suoi agenti erano stati banditi, carcerati, e finalmente cacciati via con la dovuta ignominia, si preparò a sostenere con le armi l’ingiustizia delle sue pretensioni. In tale occasione il nipote del Gran Teodosio avrebbe dovuto marciare in persona; ma i medici facilmente dissuasero il giovane Imperatore da un sì temerario e pericoloso disegno; e la condotta della spedizione d’Italia fu prudentemente affidata ad Ardaburio ed al suo figlio Aspar, che avevano già segnalato il loro valore contro i Persiani. Fu risoluto, che Ardaburio s’imbarcasse coll’infanteria, mentre Aspar, alla testa della cavalleria, conduceva Placidia e Valentiniano suo figlio, lungo le coste dell’Adriatico. La marcia della cavalleria fu eseguita con tale attiva diligenza, che sorprese, senza resistenza, l’importante città d’Aquileia, quando le speranze d’Aspar rimasero inaspettatamente confuse dalla notizia, che una tempesta avea disperso la flotta Imperiale, e che suo padre con due sole galere, era stato preso e condotto schiavo nel porto di Ravenna. Questo accidente, d’altronde, per quanto potesse parer disgraziato, facilitò la conquista dell’Italia. Ardaburio si servì, o piuttosto abusò della cortese libertà, che gli era permesso di godere, per ravvivare fra le truppe un sentimento di fedeltà e di gratitudine; ed appena la cospirazione fu giunta alla sua maturità, invitò, per mezzo di segreti avvisi, e sollecitò l’avvicinamento d’Aspar. Un pastore, che la popolare credulità trasformò in un angelo, guidò la cavalleria orientale per mezzo d’un segreto, e per quanto si credeva, impraticabil sentiero attraverso i pantani del Po: le porte di Ravenna, dopo una breve resistenza, s’aprirono; ed il tiranno senza difesa fu abbandonato alla mercè, o piuttosto alla crudeltà dei conquistatori. Gli fu prima tagliata la mano destra; e dopo essere stato esposto sopra un asino alla pubblica derisione, Giovanni fu decapitato nel Circo d’Aquileia. L’Imperatore Teodosio, quando ricevè le nuove della vittoria, interruppe le corse de’ cavalli; e cantando, nel tempo che camminava per le strade, un opportuno salmo, condusse il suo Popolo dall’Ippodromo alla Chiesa, dove consumò il resto del giorno in grata devozione2.
[A. 425-435] In una Monarchia, che secondo i varj esempi, avuti precedentemente, potea risguardarsi com’elettiva, o come ereditaria, o come patrimoniale, era impossibile che fossero chiaramente definiti gl’intricati diritti di femminile e collateral successione3; e Teodosio, per gius di consanguineità o di conquista, poteva regnar solo come legittimo Imperator de Romani. Forse per un momento restarono abbagliati i suoi occhi dal prospetto d’un illimitato dominio: ma l’indolente sua natura appoco appoco acquietossi a’ dettami della sana politica. Si contentò di possedere l’Oriente, e saviamente abbandonò la faticosa impresa di fare una distante e dubbiosa guerra contro i Barbari di là dalle alpi; o d’assicurarsi dell’ubbidienza degl’Italiani e degl’Affricani, gli animi de’ quali erano alienati dall’irreconciliabile differenza d’interesse e di linguaggio. Teodosio invece d’ascoltar la voce dell’ambizione, risolvè d’imitare la moderazione dell’avo, e di collocare Valentiniano suo cugino sul trono dell’Occidente. Il real fanciullo fu distinto a Costantinopoli col titolo di Nobilissimo: avanti la sua partenza da Tessalonica fu promosso al grado ed alla dignità di Cesare; e dopo la conquista dell’Italia, il patrizio Elione coll’autorità di Teodosio ed in presenza del Senato, salutò Valentiniano III col nome d’Augusto, e solennemente l’adornò del diadema e della porpora Imperiale4. Col consenso delle tre donne, che governavano il Mondo Romano, il figlio di Placidia contrasse gli sponsali con Eudossia, figlia di Teodosio e d’Atenaide, e tostochè furono essi giunti alla pubertà, quest’onorevol legame ebbe il pieno suo effetto. Nel tempo stesso fu distaccato l’Illirico occidentale dagli Stati d’Italia, e ceduto al trono di Costantinopoli5, forse come una compensazione delle spese della guerra. L’Imperatore dell’Oriente acquistò l’utile dominio della ricca e marittima provincia della Dalmazia, e la pericolosa sovranità della Pannonia e del Norico, ch’era stata più di venti anni ripiena e devastata da una promiscua folla di Unni, di Ostrogoti, di Vandali e di Bavari. Teodosio e Valentiniano continuarono a rispettare le obbligazioni della pubblica e domestica loro alleanza; ma l’unità del Governo Romano definitivamente fu sciolta. Con una positiva dichiarazione, la validità di tutte le leggi fu limitata in futuro agli Stati di quello, che particolarmente le avesse fatte; qualora non credesse proprio di comunicarla sottoscritte di sua mano per essere approvate dal suo indipendente collega6.
[A. 428-450] Quando Valentiniano ricevè il titolo d’Augusto, non avea più di sei anni: e la sua lunga minorità fa affidata alla tutelar cura d’una madre, che avrebbe potuto avere un femminile diritto alla successione dell’Impero Occidentale. Placidia invidiò, ma non potè uguagliare la riputazione e le virtù della moglie e della sorella di Teodosio, l’elegante genio d’Eudossia, la savia e felice politica di Pulcheria. La madre di Valentiniano era gelosa del potere, ch’essa era incapace di esercitare7: regnò venticinque anni in nome del figlio; ed il carattere di quell’indegno Imperatore appoco appoco diede valore al sospetto, che Placidia avesse snervato la sua gioventù per mezzo d’una dissoluta educazione, ed a bello studio divertito la sua attenzione da ogni virile ed onorevole impresa. Nella decadenza dello spirito militare, furono comandati gli eserciti da due Generali, Ezio8 e Bonifazio9, che possono meritamente chiamarsi gli ultimi de’ Romani. L’unione loro avrebbe potuto sostenere un cadente Impero; la loro discordia fu l’immediata e fatal causa della perdita dell’Affrica. L’invasione e la sconfitta d’Attila hanno fatta immortale la fama d’Ezio; e quantunque il tempo abbia tirato un velo sopra le imprese del suo rivale, la difesa di Marsiglia, e la liberazione dell’Affrica attestano i militari talenti del Conte Bonifazio. Nel campo di battaglia, ne’ particolari incontri, ne’ combattimenti a corpo a corpo, egli era sempre il terrore de’ Barbari. Il Clero, ed in ispecie Agostino suo amico, erano edificati dalla cristiana pietà, che una volta l’avea tentato a ritirarsi dal Mondo; il Popolo applaudiva la sua irreprensibile integrità; l’esercito ne temeva l’uguale ed inesorabil giustizia, che può dimostrarsi in un esempio assai singolare. Ad un uomo di campagna, che si era doluto della colpevole famigliarità fra la propria moglie ed un soldato Goto, fu ordinato di portarsi al suo tribunale il giorno seguente: la sera il Conte, che s’era diligentemente informato del tempo e del luogo del congresso, montò a cavallo, fece dieci miglia di cammino, sorprese la colpevole coppia, punì coll’immediata morte il soldato, e quietò i lamenti del marito con presentargli, la mattina dopo, la testa dell’adultero. L’abilità d’Ezio e di Bonifazio avrebbe potuto essere utilmente impiegata contro i pubblici nemici in separati ed importanti comandi; ma l’esperienza della passata loro condotta avrebbe dovuto decidere il real favore e la fiducia dell’Imperatrice Placidia. Nell’infelice occasione dell’esilio e dell’angustie di essa, il solo Bonifazio avea sostenuto la sua causa con intrepida fedeltà; e le truppe ed i tesori dell’Affrica essenzialmente avevan contribuito ad estinguere la ribellione. L’istessa ribellione, al contrario, s’era sostenuta dallo zelo e dall’attività d’Ezio, che condusse un’armata di sessantamila Unni dal Danubio a’ confini dell’Italia, in servizio dell’Usurpatore. L’inopportuna morte di Giovanni lo costrinse ad accettare un vantaggioso trattato; ma sempre continuò, quantunque suddito e soldato di Valentiniano, a tenere una segreta e forse perfida corrispondenza co’ Barbari suoi alleati, la ritirata de’ quali erasi comprata con liberali doni, e con più liberali promesse. Ma Ezio aveva un vantaggio di singolare importanza nel regno d’una donna: egli era presente: assediava con artificiosa ed assidua adulazione il palazzo di Ravenna; cuopriva gli oscuri suoi disegni con la maschera della lealtà e dell’amicizia; e finalmente ingannò la sua Signora, quanto l’assente di lui rivale con una sottile cospirazione, che ad una debole donna, e ad un bravo soldato non poteva facilmente cadere in pensiero. Segretamente persuase Placidia10 di richiamar [A. 427] Bonifazio dal governo dell’Affrica; e segretamente avvisò Bonifazio di disubbidire all’Imperiale chiamata: all’uno rappresentò quell’ordine come una sentenza di morte; all’altra espose il rifiuto come un segno di ribellione; e quando il credulo e non sospettoso Conte ebbe armato la Provincia in sua difesa, Ezio applaudì la sua sagacità nell’aver preveduta la rivolta, che aveva eccitato la propria perfidia. Un moderato esame de’ veri motivi di Bonifazio avrebbe restituito un servo fedele al suo dovere ed alla Repubblica; ma le arti d’Ezio continuavano sempre a tradire, ed a fomentare l’incendio, ed il Conte fu costretto dalla persecuzione ad abbracciare i più disperati consigli. Il buon successo, con cui evitò o rispinse i primi attacchi, non poteva inspirargli una vana speranza di potere, alla testa di alcuni sparsi e disordinati Affricani, opporsi alle forze regolate dell’Occidente, comandate da un rivale, di cui egli non poteva disprezzare il militare carattere. Dopo qualche dubbiezza, che fu l’ultimo contrasto della prudenza e della fedeltà, Bonifazio spedì un fedele amico alla Corte o piuttosto al campo di Gonderico Re de’ Vandali, con la proposizione d’una stretta alleanza, e coll’offerta d’un vantaggioso e perpetuo stabilimento.
[A. 428] Dopo la ritirata de’ Goti, l’autorità d’Onorio si era precariamente ristabilita nella Spagna; eccettuata solamente la Provincia della Galizia dove gli Svevi ed i Vandali avevan fortificato i lor campi in mutua discordia, ed in ostile indipendenza. I Vandali prevalsero; ed i loro nemici erano assediati ne’ colli Nervasi fra Leone ed Oviedo; allorchè l’approssimarsi del Conte Asterio costrinse, o piuttosto provocò i vittoriosi Barbari a trasferir la scena della guerra nella pianura della Betica. Il rapido progresso de’ Vandali tosto richiese una più efficace opposizione; ed il Generale Cestino marciò contro di loro con un numeroso esercito di Romani e di Goti. Vinto Castino in battaglia da un nemico inferiore di forze, fuggì vergognosamente a Tarragona; e questa memorabil disfatta, ch’è stata rappresentata come la pena della temeraria sua presunzione11, ne fu poi probabilmente l’effetto. Siviglia e Cartagena divennero il premio, o piuttosto la preda de’ feroci conquistatori; ed i vascelli, ch’essi trovarono nel porto di Cartagena, facilmente li poterono trasportare alle isole di Maiorca, e di Minorca, dove i fuggitivi Spagnuoli avevano inutilmente nascosto, come in un sicuro asilo, le loro famiglie e sostanze. L’esperienza della navigazione, e forse il prospetto dell’Affrica incoraggiò i Vandali ad accettare l’invito, che riceverono dal Conte Bonifazio; e la morte di Gonderico non servì che a fomentare e ad animare l’audace impresa. In luogo d’un Principe, che non fu insigne per alcuna superiore abilità nè di spirito nè di corpo, acquistarono il terribile Genserico12, suo fratello bastardo; nome, che nella distruzione del Romano Impero ha meritato un posto uguale a quelli di Attila e d’Alarico. Il Re de’ Vandali vien descritto di statura mediocre, e zoppo di un piede per causa d’un accidental caduta, ch’ei fece da cavallo. Il tardo e cauto suo discorso rare volte dichiarava i profondi disegni dell’animo suo: ei sdegnava d’imitare il lusso del vinto; ma secondava le più forti passioni dell’ira, e della vendetta. L’ambizione di Genserico era senza limiti e senza scrupoli; ed il guerriero sapeva destramente impiegare le segrete macchine della politica per trarre a se quegli alleati, che potevano favorire i suoi successi, o spargere fra’ suoi nemici i semi dell’odio e della contesa. Quasi nel momento della sua partenza fu informato, che Ermanrico, Re degli Svevi, aveva osato di saccheggiare il territorio della Spagna, che egli aveva risoluto d’abbandonare. Non soffrendo l’insulto, Genserico perseguitò la precipitosa ritirata degli Svevi fino a Merida; gettò il Re e la sua armata nel fiume Anas, e tranquillamente tornò al lido del mare ad imbarcar le vittoriose sue truppe. I vascelli, che trasportarono i Vandali sul moderno stretto di Gibilterra, canale di sole dodici miglia di larghezza, furon somministrati dagli Spagnuoli, che ansiosamente bramavano la loro partenza, e dal Generale Affricano, che aveva implorato il formidabile loro aiuto13.
[A. 429] La nostra fantasia, da tanto tempo assuefatta ad esagerare ed a moltiplicare i marziali sciami de’ Barbari, che parevano scaturire dal Settentrione, sarà probabilmente sorpresa dal numero de’ soldati, che Genserico passò la rivista sulle coste della Mauritania. I Vandali, che in venti anni avean penetrato dall’Elba al monte Atlante, erano uniti sotto il comando del guerriero lor Re; ed ei regnava con uguale autorità sopra gli Alani, che nel termine della vita umana eran passati dal freddo della Scizia all’eccessivo caldo del clima Affricano. Le speranze dell’ardita impresa avevano eccitato molti bravi avventurieri della nazione Gotica, e più Provinciali furon tentati dalla disperazione a riacquistare le sostanze loro con quegli stessi mezzi, che avevan cagionato la loro rovina. Pure questa varia moltitudine non ascendeva che a cinquantamila uomini effettivi; e quantunque Genserico artificiosamente magnificasse l’apparente sua forza con eleggere ottanta Chiliarchi, o Comandanti di mille soldati, il fallace aumento de’ vecchi, de’ fanciulli, e degli schiavi avrebbe appena fatto crescere la sua armata fino al numero d’ottantamila persone14. Ma la sua destrezza, ed i malcontenti dell’Affrica tosto aumentarono le forze de’ Vandali, mediante l’aggiunta di numerosi ed attivi alleati. Le parti della Mauritania, che confinano col gran deserto e col mare Atlantico, erano piene d’una feroce ed intrattabile razza di uomini, l’indole selvaggia de’ quali s’era inasprita piuttosto, che mitigata dal timore che aveano delle armi Romane. I vagabondi Mori15 a misura che appoco appoco ardivano d’accostarsi al lido del mare ed al campo de’ Vandali, dovettero risguardar con terrore e sorpresa l’abito, l’armatura, il marziale orgoglio e la disciplina degli incogniti stranieri, ch’erano sbarcati sulla lor costa; e le belle carnagioni degli occhi-azzurri guerrieri della Germania facevano un contrasto ben singolare col bruno o olivastro colore, che nasce dalla vicinanza della Zona torrida. Poscia che furono in qualche modo superate le prime difficoltà, che nascevano dalla vicendevole ignoranza de’ respettivi loro linguaggi, i Mori, senza riguardo ad alcuna futura conseguenza, fecero alleanza co’ nemici di Roma; ed uscì da’ boschi, e dalle valli del Monte Atlante una folla di nudi selvaggi per saziare la loro vendetta contro i civilizzati tiranni, che gli avevano ingiustamente scacciati dalla nativa sovranità del paese.
La persecuzione de’ Donatisti16 fu un caso non meno favorevole a’ disegni di Genserico. Diciassette anni prima ch’egli sbarcasse nell’Affrica fu tenuta per ordine de’ Magistrati una pubblica conferenza a Cartagine. I Cattolici tenevano per fermo, che dopo le invincibili ragioni, ch’essi avevano addotte, dovesse l’ostinazione degli Scismatici essere inescusabile e volontaria; e l’Imperatore Onorio fu persuaso ad infliggere le più rigorose pene ad una fazione, che aveva tanto tempo abusato della sua pazienza e clemenza. Trecento Vescovi17 con molte migliaia d’inferiori cherici furono strappati dalle lor chiese, spogliati delle ecclesiastiche possessioni, rilegati nelle isole, e proscritti dalle leggi, se ardivano di star nascosti nelle Province dell’Affrica. Le numerose loro congregazioni, sì nelle città che in campagna, furon private de’ diritti di cittadinanza, e dell’esercizio del Culto religioso. Fu curiosamente determinata una scala regolare di pene, da dieci fino a dugento libbre d’argento, secondo le distinzioni del grado e delle facoltà, per punire il delitto di chi assisteva ad una conventicola scismatica; e se la pena era stata pagata cinque volte, senza vincer l’ostinazione del trasgressore, il suo futuro gastigo si rimetteva alla discrezione della Corte Imperiale18. Per mezzo di questi rigori, che ottennero la più calda approvazione di S. Agostino19, un gran numero di Donatisti si riconciliò con la Chiesa Cattolica; ma i fanatici, che tuttavia perseverarono nella lor opposizione, furono spinti alla pazzia ed alla disperazione; la divisa campagna era piena di tumulti e di stragi; le truppe armate de’ Circoncellioni dirigevano il loro furore a vicenda o contro se stessi o contro i loro nemici; ed il calendario de’ martiri ebbe da ambe le parti un considerabile aumento20. In queste circostanze Genserico, Cristiano, ma nemico della comunione ortodossa, comparve a’ Donatisti come un potente liberatore, dal quale potevano essi ragionevolmente aspettare la revocazione degli odiosi ed oppressivi editti degl’Imperatori Romani21. Si facilitò la conquista dell’Affrica dall’attivo zelo e dal segreto favore d’una domestica fazione; i capricciosi oltraggi contro le chiese ed il clero, de’ quali sono accusati i Vandali, possono con ragione imputarsi al fanatismo dei loro alleati; e forse lo spirito d’intolleranza che disonorò il trionfo del Cristianesimo, contribuì alla perdita della più importante Provincia dell’Occidente22.
[A. 430] La Corte ed il Popolo rimasero sorpresi alla strana notizia che un virtuoso Eroe, dopo tanti favori e tanti servigi, avea rinunziato alla sua fedeltà, ed invitato i Barbari a distruggere la Provincia confidata al suo governo. Gli amici di Bonifazio, che sempre credevano si potesse scusare la sua colpevol condotta con qualche onorevol motivo, sollecitarono, nell’assenza di Ezio, una libera conferenza col Conte dell’Affrica; e Dario, ufiziale di gran distinzione, fu eletto per quell’importante ambasceria23. Nel primo loro congresso a Cartagine furono vicendevolmente spiegate le immaginarie provocazioni; si produssero e si paragonaron fra loro le opposte lettere d’Ezio; e facilmente restò scoperta la frode. Placidia e Bonifazio si dolsero del loro fatal errore; ed il Conte ebbe sufficiente magnanimità da confidare nel perdono della sua Sovrana, od esporre la sua testa al futuro sdegno di lei. Il suo pentimento fu fervente e sincero; ma tosto conobbe che non era più in suo potere di restaurar l’edifizio, che egli aveva scosso da’ fondamenti. Cartagine e le guarnigioni Romane tornarono, insieme col lor Generale, all’ubbidienza di Valentiniano; ma il resto dell’Affrica restò tuttavia diviso dalla guerra e dalla fazione; e l’inesorabil Re de’ Vandali, sdegnando qualunque termine d’accomodamento, fieramente ricusò di lasciare il possesso della sua preda. Il corpo de’ Veterani, che marciarono sotto gli ordini di Bonifazio, e le leve di truppe Provinciali fatte precipitosamente, furono rotte con notabile perdita: il vittorioso Barbaro insultava l’aperta campagna; e Cartagine, Cirta, ed Ippona Regia furono le sole città che parvero restare a galla nella generale inondazione.
Il lungo ed angusto tratto della costa dell’Affrica era pieno di frequenti monumenti dell’arte e magnificenza Romana; e potrebbero esattamente misurarsi i respettivi gradi di perfezione, computando la distanza da Cartagine e dal Mediterraneo. Una semplice riflessione imprimerà in chiunque rifletta la più chiara idea della fertilità e della coltivazione: la campagna era estremamente popolata: gli abitanti si riservavano pel proprio uso tanto da poter comodamente sussistere; e l’annua esportazione, specialmente di grano, era sì regolare ed abbondante, che l’Affrica meritò il nome di comune granaio di Roma e del genere umano. Ad un tratto, le sette fertili Province, da Tangeri a Tripoli, furon messe sossopra dall’invasione de’ Vandali, il rovinoso furore de’ quali è stato forse esagerato dalla popolare animosità, dal religioso zelo, e dalla stravagante declamazione. La guerra, nella sua forma più dolce, porta seco la perpetua violazione dell’umanità e della giustizia; e le ostilità de’ Barbari sono infiammate da uno spirito senza legge e feroce, che continuamente disturba la pacifica e domestica società. I Vandali rare volte davan quartiere, dove trovavano resistenza; ed espiavan la morte de’ valorosi lor nazionali con la rovina delle città, sotto le mura delle quali essi eran caduti. Non curando alcuna distinzione d’età, di sesso, o di grado impiegavano qualunque specie d’indegnità e di tortura per forzare i prigionieri a scuoprire i nascosti loro tesori. La severa politica di Genserico giustificò i suoi frequenti esempi d’esecuzione militare: ei non era sempre padrone delle sue passioni, o di quelle de’ suoi seguaci; e le calamità della guerra furono aggravate dalla licenza dei Mori, e dal fanatismo de’ Donatisti. Pure io non mi persuaderò facilmente, che i Vandali avessero comunemente in uso di sradicare gli ulivi, e gli altri alberi fruttiferi d’un paese, dov’essi avevano intenzione di stabilirsi; e sembra incredibile che fosse un ordinario loro stratagemma d’uccidere un gran numero di prigionieri avanti le mura d’un’assediata città, col solo fine d’infettar l’aria, e di produrre una pestilenza, di cui essi medesimi sarebbero stati le prime vittime24.
[A. 430] Lo spirito generoso del Conte Bonifazio era tormentato dall’estremo rammarico di veder la rovina, ch’esso avea cagionato, e di cui non era capace di raffrenare il rapido progresso. Dopo la perdita d’una battaglia, si ritirò ad Ippona Regia, dove fu immediatamente assediato da un nemico, che la risguardava come il vero baloardo dell’Affrica. La colonia marittima d’Ippona25 circa dugento miglia all’occidente di Cartagine, aveva anticamente acquistato il distinto epiteto di regia dalla residenza de’ Re Numidi; e son tuttavia restati nella moderna città, che è conosciuta in Europa col nome corrotto di Bona, alcuni avanzi di popolazione e di commercio. Le militari fatiche, e le ansiose riflessioni del Conte Bonifazio venivano alleggerite e temperate dall’edificante conversazione di S. Agostino26, suo amico; finattantochè quel Vescovo, lume e colonna della Chiesa Cattolica, non fu dolcemente liberato, nel terzo mese dell’assedio e nel settantesimo sesto anno della sua età, dalle presenti ed imminenti calamità della patria. La gioventù d’Agostino fu macchiata di vizi e di errori, ch’egli confessa con tanta ingenuità; ma dal momento della sua conversione a quello della sua morte, i costumi del Vescovo d’Ippona furono puri ed austeri: e la più cospicua delle sue virtù era un ardente zelo contro gli eretici d’ogni denominazione; ed in modo speciale contro i Manichei, i Donatisti, ed i Pelagiani, contro de’ quali agitò una controversia perpetua. Allorchè la città, pochi mesi dopo la sua morte, fu bruciata dai Vandali, fortunatamente si salvò la libreria, che conteneva i voluminosi suoi scritti; cioè dugento trenta due libri o trattati diversi sopra materie teologiche, oltre una compita esposizione del Salterio e dell’Evangelio, ed un copioso magazzino di lettere e di omilie27. Secondo il giudizio de’ più imparziali critici, la superficial erudizione d’Agostino fu ristretta alla lingua Latina28; ed il suo stile, quantunque alle volte animato dall’eloquenza della passione, è quasi sempre adombrato da una falsa ed allettata rettorica. Ma egli aveva uno spirito forte, vasto, ed acuto e arditamente scandagliò l’oscuro abisso della grazia, della predestinazione, della libertà, e del peccato originale29; ed il rigido sistema del Cristianesimo, ch’egli formò, o ristaurò, si è ritenuto con pubblicò applauso e con segreta ripugnanza dalla Chiesa Latina30.
[A. 431] Per l’abilità di Bonifazio, e forse per l’ignoranza de’ Vandali, fu prolungato l’assedio d’Ippona più di quattordici mesi: era il mare continuamente aperto; e quando restò esausta l’addiacente campagna da un’irregolare rapina, gli assedianti medesimi furon costretti dalla fame ad abbandonare la loro impresa. L’Amministratrice dell’Occidente sentì bene l’importanza e il pericolo dell’Affrica. Placidia implorò l’assistenza dell’Orientale suo alleato, e la flotta ed armata Italiana ebbero un rinforzo da Aspar, che partì da Costantinopoli con un potente armamento. Appena furon riunite le forze de’ due Imperi sotto il comando di Bonifazio, egli arditamente marciò contro i Vandali; e la perdita d’una seconda battaglia irreparabilmente decise il destino dell’Affrica. Ei s’imbarcò con una precipitazione da disperato; e fu concesso al Popolo di Ippona d’occupare con le proprie famiglie e facoltà il posto vacante de’ soldati, la maggior parte de’ quali erano stati uccisi, o fatti prigionieri da’ Vandali. Il Conte, di cui la fatale credulità aveva offeso le parti vitali della Repubblica, entrò nel palazzo di Ravenna col cuore perplesso; ma tosto liberato fu dal timore per la cortese accoglienza che Placidia gli fece. Bonifazio accettò con riconoscenza il grado di Patrizio, e la dignità di Generale degli eserciti Romani; ma egli dovè senza dubbio arrossire alla vista di quelle medaglie, nelle quali esso veniva rappresentato col nome e cogli attributi della vittoria31. L’orgoglioso e perfido animo d’Ezio fu esacerbato dalla scoperta della sua frode, dallo sdegno dell’Imperatrice, e dal distinto favore del suo rivale. Tornò in fretta dalla Gallia in Italia, con un seguito o piuttosto con un esercito di Barbari suoi seguaci; e tal era la debolezza del governo, che i due Generali decisero la privata loro contesa in una sanguinosa battaglia. Bonifazio ebbe il vantaggio; ma nella pugna ricevè dalla lancia del suo nemico una mortal ferita, della quale dentro pochi giorni morì, con tali cristiani e caritatevoli sentimenti, ch’egli esortò la sua moglie, ricca erede Spagnuola, a prender Ezio per suo secondo marito. Ma questi non potè ritrarre alcun immediato vantaggio dalla generosità del suo spirante nemico; ei fu dalla giustizia di Placidia dichiarato ribelle, e quantunque tentasse di difendere alcune fortezze erette ne’ suoi fondi patrimoniali, la forza Imperiale tosto lo costrinse a ritirarsi nella Pannonia alle tende de’ fedeli suoi Unni. La repubblica restò priva de’ suoi due più illustri campioni32 a causa della mutua loro discordia.
[A. 431-439] Dopo la ritirata di Bonifazio potrebbe naturalmente aspettarsi che i Vandali terminassero senza resistenza o dilazione la conquista dell’Affrica. Eppure passarono otto anni dall’abbandonamento d’Ippona alla prosa di Cartagine. In questo spazio di tempo l’ambizioso Genserico, in tutto il colmo d’un’apparente prosperità, concluse un trattato di pace, in cui diede per ostaggio Unnerico suo figlio; ed acconsentì a lasciare l’Imperatore occidentale nel pacifico possesso delle tre Mauritanie33. Tal moderazione, che non può imputarsi alla giustizia del conquistatore, si deve attribuire alla sua politica. Era circondato il suo trono da nemici domestici, che accusavano la bassezza della sua nascita, o sostenevano i legittimi diritti de’ figli di Gonderico, suoi nipoti. In fatti ei li sacrificò alla propria salvezza; e la vedova del defunto Re, loro madre, fu di suo ordine precipitata nel fiume Ampsaga. Ma si palesò la pubblica malcontentezza in pericolose e frequenti cospirazioni; e si suppone, che il guerriero tiranno spargesse più sangue Vandalo per mano del carnefice, che nel campo di battaglia34. Le convulsioni dell’Affrica, che avevano favorito il suo attacco, si opposero al pieno stabilimento del suo potere; e le varie sedizioni de’ Mori o de’ Germani, de’ Donatisti e de’ Cattolici continuamente turbavano o minacciavano l’incerto regno del conquistatore. A misura che s’avanzò verso Cartagine, fu costretto a ritirar le sue truppe dalle Province Occidentali; la costa marittima fu esposta alle imprese navali de’ Romani di Spagna e d’Italia; e nel cuore della Numidia la forte mediterranea città di Cirta continuò sempre in un’ostinata indipendenza35. Queste difficoltà furono ad una ad una superate dal coraggio, dalla perseveranza e dalla crudeltà di Genserico, il quale usava a vicenda le arti della pace e della guerra per istabilire il suo regno Affricano. Ei sottoscrisse un solenne trattato con la speranza di trarre qualche vantaggio dal termine della continuazione di esso, e dal momento della rottura. Si diminuì la vigilanza de’ suoi nemici dalle proteste d’amicizia, che coprivano l’ostile suo avvicinamento; e Cartagine alla fine fu sorpresa da’ Vandali, cinquecento ottantacinque anni dopo la distruzione, che fece della città e della Repubblica Scipione il Giovane36.
[A. 439] Dalle sue rovine s’era innalzata una nuova città col titolo di colonia; e quantunque Cartagine cedesse alle reali prerogative di Costantinopoli, e forse al commercio d’Alessandria, o allo splendor d’Antiochia, essa teneva sempre il secondo posto nell’Occidente, come la Roma (se ci è permesso d’usar la frase dei contemporanei) nel Mondo Affricano. Quella ricca ed opulenta Metropoli37 spiegava, in uno stato di dipendenza, l’immagine d’una florida Repubblica. Cartagine conteneva le manifatture, le armi, e le ricchezze di sei Province. Una regolare gradazione di onori civili ascendeva dai Procuratori delle strade e de’ quartieri della città fino al tribunale del sommo Magistrato, che rappresentava, col titolo di Proconsole, lo stato e la dignità d’un Console dell’antica Roma. V’erano instituite scuole e Ginnasi per educazione della gioventù Affricana; e pubblicamente s’insegnavano le arti liberali, i costumi, la grammatica, la rettorica, e la filosofia nelle lingue Greca e Latina. Le fabbriche di Cartagine erano uniformi e magnifiche; nel mezzo della Capitale sorgeva un ombroso bosco; il nuovo porto serviva di sicuro e capace ricetto per la commerciante industria de’ cittadini e degli stranieri; e si rappresentavano gli splendidi giuochi del Circo e del Teatro quasi in presenza de’ Barbari. La riputazione de’ Cartaginesi non corrispondeva a quella del loro paese; e tuttavia si attribuiva al loro sottile ed infedele carattere38 la taccia della fede Punica. L’abitudine del commercio, e l’abuso del lusso avevan corrotto i loro costumi; ma l’empio loro disprezzo de’ Monaci e l’uso sfacciato di non naturali piaceri sono le due abbominazioni, ch’eccitano la pia veemenza di Salviano predicatore di quel tempo39. Il Re de’ Vandali riformò severamente i vizi d’un Popolo voluttuoso, e l’antica, nobile, ingenua libertà di Cartagine (tali espressioni di Vittore non mancano d’energia) fu ridotta da Genserico ad uno stato d’ignominiosa servitù. Dopo d’aver permesso alle licenziose sue truppe di saziare il furore e l’avarizia loro, introdusse un più regolar sistema di rapina e d’oppressione. Fu promulgato un editto, che ordinava a tutti di consegnare senza frode o dilazione l’oro, l’argento, le gioie, ed ogni arnese o adornamento di valore, che avevano, a’ Ministri Regi, ed il tentativo di nascondere qualche parte del lor patrimonio era inesorabilmente punito con la morte e co’ tormenti, come un atto di perfidia contro lo Stato. Furono esattamente misurate e divise fra’ Barbari le addiacenti parti della Numidia e della Getulia40.
Egli era ben naturale, che Genserico odiasse quelli che aveva ingiuriato: la nobiltà ed i Senatori di Cartagine furon esposti alla gelosia e allo sdegno di esse; e tutti quelli, che ricusavano le vergognose proposizioni, che l’onore e la religione impediva loro d’accettare, venivan costretti dall’Arriano Tiranno a prendere il partito d’un perpetuo esilio. Roma, l’Italia e le Province dell’Oriente si empirono d’una folla di esuli, di fuggitivi, e d’illustri schiavi, ch’esigevano la pubblica compassione: e le umane lettere di Teodoreto ci hanno conservato i nomi e le sventure di Celestiano, e di Maria41. Il Vescovo Siro deplora le disgrazie di Celestiano, che dallo stato di nobile ed opulento Senator di Cartagine s’era ridotto con la propria moglie, la famiglia ed i servi a mendicare il pane in un paese straniero: ma egli fa plauso alla rassegnazione dell’esule cristiano, ed alla sua filosofica indole, che nelle angustie di tali calamità potea godere una felicità reale, maggiore di quella, che ordinariamente producano la prosperità e la ricchezza. La storia di Maria, figlia del magnifico Eudemone, è singolare ed interessante. Nel sacco di Cartagine i Vandali la venderono a certi mercanti di Siria, i quali di poi la rivenderono, come una schiava, tornati al loro paese. Una sua domestica trasportata nella medesima nave, e venduta nell’istessa famiglia, continuò sempre a rispettare una padrona, che la fortuna aveva ridotto al medesimo livello di schiavitù; e la figlia d’Eudemone dal grato suo affetto riceveva i medesimi servigi, che soleva già esigere dalla sua ubbidienza. Questo notabil contegno divulgò la real condizione di Maria; che nell’assenza del Vescovo di Cirro fu redenta dalla generosità di alcuni soldati della guarnigione. La liberalità di Teodoreto provvide al suo decente mantenimento; ed essa passò dieci mesi fra le Diaconesse della Chiesa, finattantochè fu inaspettatamente informata, che suo padre, il quale era scampato dalla rovina di Cartagine, si trovava in un onorevol ufizio in una delle Province Occidentali. La sua filiale impazienza fu secondata dal pietoso Vescovo; Teodoreto in una lettera, che tuttavia sussiste, raccomanda Maria al Vescovo d’Ege, città marittima della Cilicia, in cui nell’annua fiera capitavano molti vascelli dell’Occidente, pregando con la maggior caldezza il suo collega a trattar la fanciulla con quell’accoglienza, che conveniva alla sua nascita, e ad affidarla alla custodia di tali fedeli mercanti, che avessero stimato sufficiente guadagno, se avessero riportato nelle braccia dell’afflitto padre una figlia fuor d’ogni umana speranza già perduta.
Fra le insipide leggende dell’Istoria Ecclesiastica io son tentato a distinguere la memorabil novella dei sette Dormienti42; l’immaginaria data de’ quali corrisponde al regno di Teodosio il Giovane, e all’epoca della conquista dell’Affrica fatta da’ Vandali43. Quando l’Imperator Decio perseguitava i Cristiani, sette nobili giovani d’Efeso si nascosero in una spaziosa caverna nel declive d’una vicina montagna, dove furono condannati a perire dal Tiranno, che diede ordine, che ne fosse fortemente chiuso l’ingresso con un cumulo di grosse pietre. Caddero essi immediatamente in un profondo sonno, che fu miracolosamente prolungato, senza offendere le facoltà della vita, pel corso di cento ottantasette anni. Al termine del qual tempo gli schiavi d’Adolfo, il quale aveva ereditato la montagna, tolsero quelle pietre onde servirsene di materiali per una fabbrica di campagna: penetrò la luce del Sole nella caverna; ed i sette Dormienti si risvegliarono. Dopo un sonno, com’essi credevano, di poche ore, si sentirono stimolati dalla fame; e risolvettero, che Jamblico, uno di loro, tornasse segretamente alla città a comprare del pane per uso de’ suoi compagni. Il giovane (se ci è permesso di continuare a chiamarlo così) non sapeva più riconoscere l’aspetto una volta a lui famigliare del suo nativo paese; e se ne accrebbe la sorpresa nel vedere una gran croce trionfalmente innalzata sopra la porta principale di Efeso. Il singolare suo abito e l’antiquato linguaggio confusero il fornaio, al quale presentò un’antica medaglia di Decio, cio, come una moneta corrente dell’Impero; e Jamblico, sul dubbio che avesse trovato un tesoro nascosto, fu condotto avanti al Giudice. Le vicendevoli loro interrogazioni produssero la maravigliosa scoperta, che erano quasi passati due secoli, da che Jamblico ed i suoi compagni si erano sottratti al furore d’un Tiranno pagano. Il Vescovo d’Efeso, il Clero, i Magistrati, il Popolo, e, per quanto si dice, l’istesso Imperator Teodosio corsero a veder la caverna de’ sette Dormienti, i quali riferirono la loro Istoria, diedero ad essi la loro benedizione, e nel medesimo istante tranquillamente spirarono. Non si può attribuir l’origine di questa maravigliosa favola alla pia frode e credulità de’ Greci moderni, poichè se ne può rintracciare l’autentica tradizione circa mezzo secolo in vicinanza del supposto miracolo. Jacopo di Sarug, Vescovo Siriaco, il quale era nato solo due anni dopo la morte di Teodosio il Giovane, ha consacrato una delle sue dugento trenta omilie alle lodi de’ Giovani d’Efeso44. Avanti la fine del sesto secolo la loro leggenda fu dalla lingua Siriaca tradotta nella Latina per opera di Gregorio di Tours. Le Congregazioni Orientali, fra loro nemiche, venerano con ugual riverenza la lor memoria; e sono inseriti onorevolmente i lor nomi ne’ Calendari Romano, Abissinio, e Russo45. Nè la lor fama si è limitata al Mondo cristiano. È stata introdotta nel Koran46 come una rivelazione divina questa popolar novella, che Maometto probabilmente apprese, quando guidava i suoi cammelli alle fiere della Siria. È stata ammessa e adornata la storia dei sette Dormienti dalle nazioni, che professano la religion Maomettana47 da Bengala fino all’Affrica; e si son trovati alcuni vestigi d’una simile tradizione fino nelle remote estremità della Scandinavia48. Questa facile ed universal credenza, che tanto esprime i sentimenti del genere umano, si può attribuire al genuino merito della favola stessa. Noi ci avanziamo senz’accorgercene dalla gioventù alla vecchiaia, senz’osservare l’insensibile ma continuo cangiamento delle cose umane; ed anche nella nostra più estesa esperienza dell’Istoria, l’immaginazione, mediante una perpetua serie di cause e di effetti, è solita d’unire insieme le più distanti rivoluzioni. Ma se ad un tratto si potesse toglier di mezzo l’intervallo fra due memorabili epoche, se fosse possibile, dopo un momentaneo sonno di dugent’anni, presentare il nuovo Mondo agli occhi d’uno spettatore, che tuttavia ritenesse una viva e fresca impressione del vecchio, la sua sorpresa, e le riflessioni somministrerebbero un piacevol soggetto ad un romanzo filosofico. Non poteva porsi la scena più vantaggiosamente, che ne’ due secoli, che passarono fra’ regni di Decio e di Teodosio il Giovane. In questo spazio di tempo erasi trasferita la sede del Governo da Roma in una nuova città sulle rive del Bosforo Tracio; e si era soppresso l’abuso dello spirito militare mediante un artificial sistema d’umile e cerimoniosa servitù. Il trono del persecutor Decio era occupato da una serie di Principi cristiani ed ortodossi, che avevan distrutti i favolosi Dei dell’antichità; e la pubblica devozione di quel tempo era impaziente di esaltare i Santi ed i Martiri della Chiesa Cattolica sopra gli altari di Diana e d’Ercole. S’era sciolta l’unione dell’Impero Romano; era caduto a terra il suo genio; ed eserciti d’incogniti Barbari, venendo fuori dalle gelate regioni del Norte, avevano stabilito il vittorioso lor regno sulle più belle Province dell’Europa e dell’Affrica.
Note
- ↑ Τα συνεχη κατα στομα φιληματα è l’espressione di Olimpiodoro (ap. Photium p. 197), che intende forse di descrivere le stesse carezze, che Maometto faceva alla sua figlia Fatima. Quando (dice il profeta), quando subit mihi desiderium Paradisi, osculor eam et ingero linguam meam in os ejus. Ma questa sensuale dilettazione era giustificata dal miracolo e dal misterio. Tal aneddoto è stato comunicato al Pubblico dal Rev. P. Maracci nella sua versione, e confutazione del Koran Tom. I. p. 39.
- ↑ Per queste rivoluzioni dell’Impero Occidentale si consultino Olimpiodoro, ap. Foz. p. 192, 193, 196, 197, 200, Sozomeno, l. IX, c. 16, Socrate, l. VII. 23, 24, Filostorgio, l. XII c. 10, 11, e Gotofredo, dissert. p. 486, Procopio, de Bell. Vand. l. 1. c. 3. p. 182, 183. Teofane, in Chronograph. p. 72, 73, e le Croniche.
- ↑ Vedi Grozio, de Jur. Bell. et Pac. l. 11. c. 7. Egli ha laboriosamente, ma invano, tentato di formare un ragionevol sistema di Giurisprudenza da’ varj e fra loro contrari modi di real successione, che si sono introdotti dalla frode o dalla forza, dal tempo o dall’accidente.
- ↑ Gli Scrittori originali non convengono (Vedi Muratori, Annali d’Ital. Tom. IV. p. 139) se Valentiniano ricevesse il diadema Imperiale a Roma, o a Ravenna. In questa incertezza io voglio credere, che si dimostrasse qualche rispetto al Senato.
- ↑ Il Conte di Buat (Hist. des Peuples de l’Europe Tom. VII. p. 292, 300) ha stabilito la verità di questa notabil cessione, spiegatine i motivi, e rintracciatene le conseguenze.
- ↑ Vedi la prima novella di Teodosio, con cui ratifica e comunica (l’anno 438) il Codice Teodosiano. Circa quaranta anni prima di quel tempo si era provato l’unità della Legislazione per mezzo d’un’eccezione. Gli Ebrei, ch’erano assai numerosi nelle città della Puglia e della Calabria, produssero una legge dell’Oriente per giustificare la loro esenzione dagli ufizj municipali (Cod. Theodos. lib. XII. Tit. VIII, leg. 13); e l’Imperatore occidentale fu obbligato a derogare con uno special editto ad una legge, quam constat meis partibus esse damnosam. Cod. Theodos. lib. XI. Tit. 1. leg. 158.
- ↑ Cassiodoro (Variar. l. IX. epist. 1 p. 238) ha paragonato fra loro i governi di Placidia e d’Amalasunta. Egli attacca la debolezza della madre di Valentiniano, e loda le virtù della sua real Signora. In tale occasione sembra, che l’adulazione abbia preso il linguaggio della verità.
- ↑ Filostorgio lib. XII. c. 12 col. Gotofred. dissert. p. 493 e Renato Frigerido, ap. Gregor. Turon. l. II. c. 8. in tom II. p. 163. Gaudenzio, illustre cittadino della Provincia della Scizia e Generale di cavalleria, fu il padre d’Ezio: sua madre fu una ricca e nobile Italiana. Fin dalla sua più tenera gioventù, aveva Ezio, e come soldato e come ostaggio, conversato co’ Barbari.
- ↑ Quanto al carattere di Bonifazio, Vedi Olimpiodoro, ap. Foz. p. 196 e S. Agostino ap. Tillemont, Mem. Eccl. T. XII. p. 712, 715, 886. Il Vescovo d’Ippona deplora a lungo la caduta del suo amico, che dopo un voto solenne di castità avea preso una seconda moglie della setta Arriana, e ch’era sospetto di tenere nella sua casa più concubine.
- ↑ Procopio (de Bell. Vandal. l. 1. c. 3. p. 182, 186) riporta la frode d’Ezio, la rivolta di Bonifazio e la perdita dell’Affrica. Quest’aneddoto, ch’è sostenuto dalla testimonianza di alcuni contemporanei (Vedi Ruinart, Hist. Persecut. Vandal. p. 420, 421) sembra coerente alla pratica delle antiche e moderne Corti, e naturalmente si sarebbe reso palese dal pentimento di Bonifazio.
- ↑ Vedi le Croniche di Prospero e d’Idazio. Salviano (de Gubern. Dei l. VII. p. 246. Par. 1608) attribuisce la vittoria de’ Vandali alla superiore loro pietà. Essi digiunarono, pregarono, portaron la Bibbia alla testa dell’esercito, con intenzione forse di rinfacciar la perfidia ed il sacrilegio ai loro nemici.
- ↑ Gizericus (il suo nome vien espresso in varie maniere) statura mediocris et equi casu claudicans, animo profundus, sermone rarus, luxuriae contemptor, ira turbidus, habendi cupidus, ad solicitandus gentes providentissimus, semina contentionum jacere, odia miscere paratus; Giornandes, de reb. Get. c. 33. p. 657. Questo ritratto, ch’è fatto con qualche arte e con forte verisimiglianza, dev’essere stato copiato dall’istoria Gotica di Cassiodoro.
- ↑ Vedi la Cronica d’Idazio. Questo Vescovo, Spagnuolo e contemporaneo, pone il passaggio de’ Vandali nel mese di Maggio dell’anno d’Abramo (che comincia d’Ottobre) 2444. Tal data, che combina coll’anno 429, vien confermata da Isidoro, altro Vescovo Spagnuolo, ed è giustamente preferita all’opinione di quegli scrittori, che hanno assegnato a tal fatto uno de’ due precedenti anni. (Vedi Pagi, Critica Tom. II. p. 205)
- ↑ Si confronti Procopio (de Bell. Vand. l. 1. c. 5, p. 190) con Vittore Vitense (de persecut. Vand. l. 1. c. 1. p. 3. Edit. Ruinart). Siamo assicurati da Idazio, che Genserico abbandonò la Spagna cum Vandalis omnibus, eorumque familiis; e Possidio (in vit. August. c. 28. ap. Ruinart. p. 427) descrive la sua armata, come, manus ingens immanium gentium Vandalorum et Alanorum commixtam secum habens Gothorum gentem, aliarumque diversarum personas.
- ↑ Quanto a’ costumi de’ Mori vedi Procopio (de Bell. Vandal. l. 2. c. 6. n. 249), quanto alla figura e carnagione di essi il Buffon (Hist. natur. Tom. III. p. 430), Procopio dice in generale, che i Mori s’erano uniti a’ Vandali avanti la morte di Valentiniano (de Bell. Vandal. l. 1. c. 5. p. 190) ed è probabile, che le indipendenti Tribù non abbracciassero alcun sistema uniforme di politica.
- ↑ Vedi Tillemont (Memoir. Eccl. Tom. XIII. p. 516, 558), e tutta la serie della persecuzione ne’ monumenti originali pubblicati dal Dupin al fine d’Ottato p. 323, 515.
- ↑ I Vescovi Donatisti nella conferenza di Cartagine, ascendevano a 279 ed asserirono, che tutto il lor numero non era meno di 400. I Cattolici ne avevano 286 presenti, e 120 assenti, oltre sessantaquattro Vescovati vacanti.
- ↑ Il quinto Titolo del XVI libro del Codice Teodosiano Somministra una serie di leggi Imperiali contro i Donatisti dall’anno 400 all’anno 428. Di queste la legge 54 promulgata da Onorio l’anno 414 è la più severa ed efficace.
- ↑ S. Agostino variò la sua opinione intorno al modo con che si dovean trattare gli Eretici. La sua patetica dichiarazione di pietà e d’indulgenza verso i Manichei è stata inserita dal Locke (vol. III. p. 469) fra gli scelti saggi del suo Repertorio. Un altro Filosofo, il celebre Bayle (Tom. II, p. 445, 496), ha ribattuti con superflua diligenza e candore gli argomenti, coi quali il Vescovo d’Ippona giustificò, nella sua vecchiezza, la persecuzione de’ Donatisti.
- ↑ Vedi Tillemont (Mem. Eccl. Tom. XIII. p. 586, 592, 806). I Donatisti vantavano delle migliaia di questi martiri volontari. Agostino asserisce, e probabilmente con verità, che questo numero era molto esagerato; e fieramente sostiene, esser meglio, che alcuni si tormentassero in questo Mondo, piuttosto che tutti dovessero bruciare nelle fiamme dell’inferno.
- ↑ Secondo S. Agostino e Teodoreto i Donatisti erano inclinati a’ principj, o almeno al partito degli Arriani sostenuto da Genserico. Tillemont, Mem. Eccl. Tom. VI. p. 67.
- ↑ Vedi Baron., Annal. Eccl. an. 428 n. 7 an. 439 n. 35. Il Cardinale, benchè più inchinato a cercare la cagione dei grandi avvenimenti nel cielo che sulla terra, ha osservato l’apparente connessione de’ Vandali e de’ Donatisti. Sotto il regno de’ Barbari, gli Scismatici dell’Affrica goderono un’oscura pace di cento anni, al termine de’ quali possiamo di nuovo rintracciarli al lume delle Imperiali persecuzioni. Vedi Tillem. Mem. Eccl. Tom. VI. p. 192.
- ↑ S. Agostino, in una lettera confidenziale al Conte Bonifazio, senza esaminare i fondamenti della contesa, piamente l’esorta a soddisfare i doveri di Cristiano e di suddito, a tirarsi fuori senza dilazione da quella pericolosa e rea situazione, ed anche, se poteva ottenere il consenso della sua moglie, ad abbracciare il celibato e la penitenza (Tillemont, Mem. Eccl. Tom. XIII. p. 890). Il Vescovo era intimamente vincolato con Dario, Ministro della pace. (Ivi, Tom. XIII. p. 928).
- ↑ Le originali querele della desolazione dell’Affrica si contengono: 1. in una lettera di Capreolo, Vescovo di Cartagine per iscusar la sua assenza dal Concilio d’Efeso (ap. Ruinart p. 429): 2. nella vita di S. Agostino scritta dal suo amico e collega Possidio (ap. Ruinart p. 427): 3. nell’istoria della persecuzione Vandalica fatta da Vittore Vitense (l. 1. c. 1, 2, 3, edit. Ruinart). L’ultima pittura, che fu fatta sessant’anni dopo l’evento, esprime più le passioni dell’Autore che la verità de’ fatti.
- ↑ Vedi Cellar., Geogr. antiq. Tom. 2. P. II. 112, Leone Affricano, in Ramusio Tom. 1. fol. 70, l’Affrica di Marmol Tom. II. p. 434, 437, i viaggi di Shavv. p. 46, 47. L’antica Ippona Regia fu finalmente distrutta dagli Arabi nel settimo secolo; ma con que’ materiali fu fabbricata una nuova città alla distanza di due miglia, e questa conteneva nel decimo sesto secolo circa trecento famiglie d’industriosi, ma turbolenti manifattori. Il territorio addiacente è famoso per un’aria pura, un fertile suolo, ed un’abbondanza, di squisiti frutti.
- ↑ La vita di S. Agostino fatta dal Tillemont, empie un volume in quarto (Tom. XIII delle Mem. Eccl.) di più di mille pagine, e la diligenza di quell’erudito Giansenista fu eccitata, in quest’occasione, dal fazioso e devoto zelo pel fondatore della sua Setta.
- ↑ Tale almeno è il ragguaglio che ne dà Vittore Vitense (de Persec. Vandal. l. 1. c. 3) quantunque sembri che Gennadio dubiti, se alcuno abbia letto, o anche raccolto tutte le opere di S. Agostino (Vedi Hieronym. oper. T. 1. p. 319 in catalog. scriptor. Eccles.). Queste si sono stampate più volte; e il Dupin (Biblioth. Eccl. Tom. III. p. 158, 257) ha fatto un esteso e soddisfacente estratto delle medesime, come stanno nell’ultima edizione de’ Benedettini. La mia personal conoscenza col Vescovo d’Ippona non s’estende oltre le Confessioni, e la Città di Dio.
- ↑ Nella prima sua gioventù (Confess. I. 24) S. Agostino non ebbe gusto allo studio del Greco, e lo trascurò; e francamente confessa, ch’ei lesse i Platonici in una versione Latina (Confess. VIII. 9). Alcuni moderni critici hanno pensato, che la sua ignoranza del Greco lo rendesse incapace d’esporre la Scrittura; e Cicerone o Quintiliano avrebbero richiesto la cognizione di questa lingua in un Professor di Rettorica.
- ↑ Siffatte quistioni furono di rado agitate dal tempo di S. Paolo a quello di S. Agostino. Ho saputo che i Patriarchi greci adottavano i sentimenti de’ semi-pelagiani, e che l’ortodossia di S. Agostino era tratta dalla scuola de’ Manichei.
- ↑ La Chiesa di Roma ha canonizzato Agostino, e riprovato Calvino. Eppure come la reale differenza tra loro è invisibile anche ad un microscopio teologico, i Molinisti sono oppressi dall’autorità del Santo, ed i Giansenisti disonorati dalla loro somiglianza coll’eretico. Frattanto i Protestanti Arminiani stanno in disparte, e deridono la reciproca perplessità de’ disputanti. (Vedi una curiosa Rivista della controversia, nella Biblioteca Universale di Le Clerc, Tom. XIV. p. 144-398). Forse un ragionatore, più indipendente ancora, potrebbe ridere, a sua volta, nel leggere un Comentario Arminiano sopra l’Epistola ai Romani.
- ↑ Du Cange, Fam. Byzant. p. 67. Da una parte v’è la testa di Valentiniano, e nel rovescio Bonifazio con una sferza in una mano, e con una palma nell’altra, che sta sopra un carro trionfale tirato da quattro cavalli, e in un’altra medaglia da quattro cervi: sfortunato emblema! Io dubiterei se si trovi altro esempio della testa d’un suddito nel rovescio d’una medaglia Imperiale. Vedi la scienza delle medaglie del P. Jobert Tom. I. p. 132, 150 ediz. del 1739 fatta dal Barone de la Bastie.
- ↑ Procopio (de Bell. Vandal. l. 1 c. 3 p. 145) non continua l’istoria di Bonifazio oltre il suo ritorno in Italia. Fanno menzione della sua morte Prospero e Marcellino; la espressione di quest’ultimo, ch’Ezio il giorno avanti s’era provisto d’una lunga lancia, ha qualche cosa di simile ad un regolar duello.
- ↑ Vedi Procop., de Bell. Vandal. l. 1. c. 4. p. 186. Valentiniano fece varie discrete leggi per sollevare le angustie de’ propri sudditi Numidi e Mauritani: gli assolvè in gran parte dal pagamento de’ loro debiti; ridusse il loro tributo ad un ottavo; e diede loro il diritto d’appellare da’ propri Magistrati Provinciali al Prefetto di Roma. (Cod. Theodos. Tom. VI. Novell. p. 11, 12).
- ↑ Vittore Vitense, de persec. Vandal. l. 2. cap. 5. p. 26. Le crudeltà di Genserico verso i suoi sudditi sono espresse con forza nella Cronica di Prospero An. 442.
- ↑ Possid., in vit. Aug. c. 28, ap. Ruinart p. 428.
- ↑ Vedi le Croniche d’Idazio, d’Isidoro, di Prospero, e di Marcellino. Essi notano il medesimo anno, ma diversi giorni, per la sorpresa di Cartagine.
- ↑ La pittura di Cartagine nello stato, in cui trovavasi nel quarto e quinto secolo, è presa dall’Esposit. totius mundi p. 17, 18, nel terzo tomo de’ Geografi minori di Hudson, da Ausonio, de claris urbibus p. 228, 229., e specialmente da Salviano, De Gubernat. Dei l. VII. p. 257, 258. Mi fa maraviglia, che la Notitia non abbia posto nè una zecca, nè un arsenale in Cartagine, ma solo un Gynecaeum o fabbrica per le donne.
- ↑ L’autore anonimo dell’Exposit. totius mundi confronta nel suo barbaro Latino il paese cogli abitatori; e dopo aver notato la lor mancanza di fede, freddamente conclude difficile autem inter eos invenitur bonus, tamen in multis pauci boni esse possunt. p. 18.
- ↑ Ei dichiara che i vizi particolari d’ogni paese erano raccolti nella sentina di Cartagine (l. VII. p. 257). Gli Affricani s’applaudivano del maschio loro vigore nell’esercizio de’ vizi. Et illi se magis virilis fortitudinis esse crederent, qui maxime viros foeminei usus probrositate fregissent p. 268. Le strade di Cartagine eran contaminate da effemminati miserabili, che pubblicamente prendevano l’aria, le vesti ed il carattere di donne. (p. 264). Se compariva un Monaco nella città, il sant’uomo veniva oltraggiato con empio disprezzo e derisione, detestantibus ridentium cacchinis p. 289.
- ↑ Si paragoni Procopio, de Bell. Vandal. lib. 1. c. 5. p. 189, 190 con Vittore Vitense, de persecut. Vandal. l. 1. c. 4.
- ↑ Il Ruinart (p. 444, 457) ha raccolto da Teodoreto e da altri autori le disgrazie reali e favolose degli abitanti di Cartagine.
- ↑ La scelta delle circostanze favolose è di poca importanza; pure mi son limitato alla narrazione che fu tradotta dal Siriaco per opera di Gregorio di Tours (de gloria martyr. l. 1. c. 95 in maxima Biblioth. Patr. T. XI. p. 856), agli atti Greci del loro martirio (ap. Phot. p. 1400, 1401), ed agli annali del Patriarca Eutichio (T. 1. p. 391, 531, 532, 535 vers. Pocock).
- ↑ Due Scrittori Siriaci, come sono citati dall’Assemanni (Biblioth. Orient. Tom. 1. p. 336, 338) pongono la risurrezione de’ sette Dormienti nell’anno 736 (an. di G. C. 425) o 748, (an. di Gesù Cristo 437) dell’era de’ Seleucidi. I loro atti Greci, che Fozio avea letti, assegnano la data dell’anno trentesim’ottavo del regno di Teodosio che può coincidere coll’anno di Cristo 439 o col 446. Può facilmente determinarsi il tempo, che passò da questo alla persecuzione di Decio: e non vi voleva di meno che l’ignoranza di Maometto, o de’ leggendari per supporre un intervallo di tre o quattrocent’anni.
- ↑ Jacopo, uno de’ Padri ortodossi della Chiesa Siriaca, era nato l’anno 452, principiò a comporre i suoi discorsi l’anno 474, fu fatto vescovo di Barne nel distretto di Sarug e nella Provincia della Mesopotamia l’anno 519 e morì l’anno 521 (Assemanni Tom. 1. p. 268, 289). Quanto all’omilia de pueris Ephesinis, vedi p. 335, 339; sebbene avrei desiderato, che l’Assemanni avesse piuttosto tradotto il testo di Jacopo di Sarug, invece di rispondere alle obiezioni del Baronio.
- ↑ Vedi Acta Sanctorum de’ Bollandisti (mens. Jul. T. VI. p. 375-397). Quest’immenso calendario di Santi in centoventi sei anni (1644, 1770) ed in cinquanta volumi in foglio non ha progredito oltre il dì 7 d’Ottobre. La soppressione dei Gesuiti ha probabilmente arrestato un’opera, che in mezzo alle favole ed alle superstizioni, somministra molte istoriche e filosofiche notizie.
- ↑ Vedi Maracci, Alcoran, Sura XVIII. Tom. II. p. 420, 427 e Tom. I. part. IV, p. 103. Con un privilegio sì ampio Maometto non ha dimostrato molto gusto ed ingegno. Egli ha inventato il cane de’ sette Dormienti (al Rakim); il rispetto del sole, che alterò il suo corso due volte in un giorno per non entrare nella caverna; e la cura di Dio medesimo, che preservò i loro corpi dalla putrefazione, rivoltandoli a destra e a sinistra.
- ↑ Vedi d’Herbelot, Biblioth. Orient. p. 139 e Renaudot, Hist. Patriarch. Alexand. p. 39, 40.
- ↑ Paolo Diacono d’Aquileia (de Gestis Langobard. l. 1. c. 4. p. 745, 746. edit. Grot.), che visse verso il fine dell’ottavo secolo, ha posto in una caverna sotto un masso sulla riva dell’Oceano i sette Dormienti del Norte, il lungo riposo de’ quali fu rispettato da’ Barbari. Il loro abito li dimostrava Romani; ed il Diacono congettura, che dalla Provvidenza vennero riservati per essere i futuri Apostoli di quegl’infedeli paesi.