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dell'impero romano cap. xxxiv. |
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cidente. Nel tempo della loro residenza a Roma, essi riferirono le circostanze d’una spedizione, che avevano ultimamente fatta nell’Oriente. Dopo aver passato un deserto ed una palude, supposta dai Romani la Palude Meotide, penetrarono nelle montagne, ed arrivarono nel termine di quindici giorni di cammino a’ confini della Media, dove s’avanzarono fino alle ignote città di Basic e di Cursic. Nelle pianure della Media incontrarono un’armata Persiana; e l’aria, secondo le loro espressioni, fu oscurata da un nuvolo di frecce. Ma gli Unni furon costretti a ritirarsi pel numero dei nemici. Eseguirono l’incomoda lor ritirata per una strada diversa; perdettero la maggior parte del loro bottino; e finalmente tornarono al campo Reale con qualche cognizione del paese e con una impaziente brama di vendetta. Nella libera conversazione degli Ambasciatori Imperiali, che esaminarono alla Corte d’Attila il carattere e i disegni del loro formidabil nemico, i Ministri di Costantinopoli espressero la speranza, in cui erano, che la sua forza si sarebbe impiegata e divisa in una lunga e dubbiosa contesa coi Principi della casa di Sassan. Ma gl’Italiani, più accorti, avvertirono gli Orientali loro fratelli della follia e del pericolo di tale speranza, e li convinsero, che i Medi ed i Persiani erano incapaci di resistere alle armi degli Unni, e che una facile ed importante conquista avrebbe accresciuto l’orgoglio non meno che il potere del vincitore. Attila invece di contentarsi di una moderata contribuzione e di un titolo militare, che l’uguagliava solo ai Generali di Teodosio, si sarebbe avanzato ad imporre un vergognoso ed intollerabile giogo sul collo degli abbattuti e schiavi Romani,