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dell'impero romano cap. xxxiv. |
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della nazione nei suoi divertimenti conviviali. Stavano davanti al letto d’Attila due Sciti, e recitavano i versi che avevan composti per celebrare il valore e le vittorie di esso. Si fece nella sala un profondo silenzio; l’attenzione dei convitati venne richiamata dalla vocale armonia, che rammentava e perpetuava la memoria delle proprie lor geste. Dagli occhi dei guerrieri usciva un marziale ardore, che li dimostrava impazienti della battaglia; e le lagrime dei vecchi esprimevano la generosa loro disperazione di non poter più essere a parte del pericolo e della gloria del campo1. A questo trattenimento, che potrebbe risguardarsi come una scuola di valor militare, successe una farsa, che abbassava la dignità della natura umana. Un buffone Moro ed uno Scita eccitavano a vicenda il brio dei rozzi spettatori con la deforme loro figura, co’ ridicoli abiti, coi gesti caricati, con gli assurdi discorsi e con lo strano non intelligibil mescuglio delle lingue Latina, Gotica ed Unna; e la sala risuonava di alti e licenziosi scrosci di risa. In mezzo a questo smoderato fracasso il solo Attila senza mutar positura mantenne la sua costante ed inflessibile gravità, che non lasciò mai, fuori che nell’entrare d’Irnac, che era il più piccolo dei suoi figli: abbracciò egli il fanciullo con un sorriso di tenerezza paterna, lo prese gentilmente per le gote, e dimostrò una parziale affezione, che veniva giustificata dalla sicurezza, datagli da’ suoi
- ↑ Se prestiam fede a Plutarco (in Demetrio Tom. V, p. 24) gli Sciti avevano per costume, allorchè si davano al piacere della tavola, di risvegliare il languido loro coraggio con la marziale armonia, che veniva dal suono delle corde dei loro archi.