Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro III/Capo II

Capo II

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CAPO SECONDO.

Guerre aperte co’ Francesi; e paci; e mancamenti. Sospetti di regno; cause di maestà. Casi varii di stato e di fortuna.

X. La lega con la Inghilterra, non appena fermata, fu posta in atto. Tolone, città francese e fortezza, con arsenali, magazzini pieni, venti vascelli ancorati nel porto, e legnami e materie per costruirne altrettanti, artiglierie poderose e molte, armi infinite, ricchezze ed uomini, si diede per tradigione alle forze inglesi che bordeggiavano nella gran rada. Ciò fu a’ 24 di agosto di quell’anno 1793; e subito accorsero alla preda Spagnuoli, Sardi e Napoletani con gli uomini e le navi promesse nell’alleanza. Il cittadino Makau, intimato dal governo di Napoli a partire perchè ambasciatore di potentato nemico, visto salpar le flotte per Tolone, senza dichiarazione o cartello alla sua repubblica, mosse sdegnato verso Francia, conducendo seco le due donne Basville, orbate miseramente dal popolo di Roma di Ugo Basville, padre dell’una, marito all’altra, meste, abbrunate; incitamenti alla pietà e alla vendetta. Intanto navigavano per Tolone le milizie napoletane sotto l’impero del maresciallo Fortiguerri, e dei generali de Gambs e Pignatelli; e, la giunte, obbedivano al generale O-Hara spagnuolo, capitano supremo in quella guerra. Venivano a stormi dai paecsi della Francia le milizie della repubblica, e dall’opposta parte crescevano i munimenti e le opere della fortezza; il servizio d’armi facevasi dai collegati per ugual giro; e i Napoletani, non mai da meno delle altre genti, ebbero ventura di miglior fama sul monte Faraone, e nel difendere il forte Malbousquette. Stavano nella città da quattro mesi, e non pareva cominciato l’assedio, benchè il combattere fosse continuo; quando [p. 151 modifica]a’ 17 del dicembre, in giro in giro si smascherarono fuochi ed assalti; più vivi e pertinaci al posto detto il Caire, munito di argine e cannoni, tanto che dagl’Inglesi, creduto inespugnabile, ebbe nome di nuova Gibilterra. Ma Napoleone Bonaparte, che allora faceva le prime armi da tenente-colonnello e comandante delle artiglierie nello assedio, aveva disposti gli assalti così che in breve tempo ottomila bombe cadessero sopra piccolo spazio, e trenta pezzi da ventiquattro guastassero e spianassero i ripari. In meno di due giorni, e propriamente nella notte del 18 al 19 del dicembre, l’altiera Gibilterra fu espugnata, e volte a’ collegati le artiglierie che la guardavano da’ Francesi.

Sporgendo in mare quel posto così che batte la piccola rada di Tolone, molta parte della grande, ed il canale tra le due rade, fu necessario ai collegati fuggir que’ mari, e trarre dalla città le milizie per non lasciarle a certa prigionia. L’ammiraglio Hood inglese diede segno di partenza; le schiere di terra cominciarono la fuga; i forti esteriori Malbousquette, il Faraone, la Vallette, la Malgue, presi da’ repubblicani senza contrasto, tirando contro la città, vi accrescevano i pericoli e lo scompiglio. Gl’Inglesi atterrarono per mine il forte Ponè; mancò il tempo e gli apparecchi a distruggere gli altri forti o la città; il gran magazzino delle costruzioni ardeva, e bruciavano nel porto tredici vascelli della repubblica; era notte, e cadeva pioggia distemperata. Ne’ quali esterminii imbarcavano (annegandone alcuni per la fretta) soldati e Tolonesi, che, partigiani della Inghilterra o nemici di repubblica, avevano macchinato il tradimento. Cavalli, armi, tende, artiglierie di campo, e poche schiere lente o incapaci alla fuga, restarono prede a’ Francesi. E la fortuna non ancora sazia di sventure alzò tempesta impetuosa per vento libeccio, che sospingeva le navi alle due rade; dal quale pericolo camparono le flotte per forza d’arte, ma i legni disuniti, navigando a ventura per molti dì, ripararono in porti differenti gli uni agli altri lontani e sconosciuti. Passava perciò lungo tempo a raccorre le milizie delle quattro collegate nazioni, e gli arredi, le salmerie; e Napoli in quel mezzo stava dolente più di quanto i casi meritassero, come accade ne’ disastri confusamente narrati dalla fama. Comparvero finalmente il 2 di febbrajo del 1794 le aspettate vele; e seppesi che mancavano duecento Napoletani, morti o feriti, quattrocento prigioni e tutti i cavalli; molti viveri, le tende, gli arredi, le bandiere; sterminate somme avea speso l’erario. Venne in Napoli fra’ Tolonesi il generale conte Mandet, il quale comandando in Tolone avea consegnata, voglioso ed allegro, a’ nemici della sua patria l’affidatagli fortezza. I fatti che ho descritto diedero maggior grido alla repubblica, e dissero la prima volta, e a voce appena intesa, un nome che poco appresso empiè il mondo. [p. 152 modifica]

XI. Le genti venute da Tolone, raccontando ed esagerando fatti veri o falsi, generavano idea spaventosa de’ Francesi e della guerra. Il governo, impedite le feste giocose del carnevale, comandate pubbliche orazioni, ma costante agl’impegni ed alla vendetta, levati nuovi coscritti e guardie urbane nella città, pose nei piani di Sessa venti battaglioni di fanti, tredici squadroni di cavalieri, ed un reggimento di artiglieria (diciannove mila soldati), destinati a guerreggiare con gli eserciti tedeschi nella Lombardia; i sudditi ammiravano le opere sacre perchè dicevoli a principi devoti; e le militari, perchè animose. Il re, la regina e ’l ministro general Acton, stando spesso al campo, eccitavano con discorsi e promettevano larghe mercedì alle azioni di guerra; intanto che nel golfo di Napoli si vedevano movimenti e simulacri di battaglie e di mare. La Inghilterra volendo assaltare la Corsica, dimandati a noi vascelli, armi e soldati, tutto ebbe; e sebbene infelice la impresa, furono laudate le geste. Tre reggimenti di cavalleria, duemila cavalli mossero per Lombardia sotto il principe di Cutò, scelta laudata, perchè di regnicolo dopo le altre di stranieri e sfortunate. Le navi cannoniere e bombardiere montavano a centoquaranta, i legni maggiori a quaranta, le milizie assoldate a quarantadue migliaja, le civili a maggior numero; le provvisioni erano infinite, le imprese grandi e continue. Le quali prove superiori alla forza de’ porti e della marineria, al censo e alle condizioni politiche del regno, arrecavano stenti all’erario, nocumento alle arti ed alle industrie, povertà alle famiglie. Pareva miracolo sostener tanta spesa, e dicevasi che la soccorresse il privato tesoro del re, aperto da’ bisogni e dallo sdegno. La regina per accreditare quelle voci confidava scortamente a’ suoi partigiani, e questi al pubblico, aver ella venduti o dati a pegno i suoi giojelli, e per le viste del monde andare ornata de’ contraffatti nelle gale della reggia.

Quelle opinioni giravano, quando per nuovo decreto il governo dimandò soccorsi o doni che per essere a pro della patria chiamò patriottici: tutte le comunità, tutte le congreghe, molti cittadini ne diedero in copia; e i loro nomi vennero scritti per onore ad essi, stimolo agli altri, sopra tabelle pubbliche. Altro decreto impose taglia del dieci per cento (perciò appellata decima) su le entrate prediali; escludendo i possessi del demanio regio, del fisco e de’ feudi: le terre della chiesa vi andarono soggette; e poichè delle imposte antiche pagavano (per il concordato del 1741) sola metà, oggi, abolite le ultime immunità de’ cherici, furono agguagliate alle comuni; dicendo, ma per inganno, che le gravezze su gli ecclesiastici sarebbero scritte in preparato libro come pigliate a prestito. Con gli altri decreti furono venduti molti beni della chiesa in pro del fisco; e banditi, per vendere, altri beni che si dicevano allodiali. La città [p. 153 modifica]di Napoli andò gravata di centotrè mita ducati al mese; la baronia di centoventi mila. E dopo ciò, il re disse con editto: «Quanto altro bisogni alla difesa ed alla quiete del regno sarà fornito dagli assegnamenti e risparmii della mia casa.» Facevano peso le nuove taglie; ma poi che grande l’obietto, certe le spese, liberali le promesse del re, non si udivano lamenti, e rinforzavano gli odii contro i Francesi, cagioni a quelle strettezze. Nell’anno medesimo altro regio decreto prescrisse che le chiese, i monasteri, i luoghi pii dessero alla zecca dello stato gli argenti sacri, salvo i necessarii ai divini uffici: e i cittadini gli argenti proprii; fuorchè gli arredi, ma pochi, da mensa: polizza di banco, valevole dopo certi anni, ne pagava il prezzo; e si confiscavano gli argenti nascosti, concessane quarta parte a’ denunziatori. Il quale decreto fu chiamato suntuario; nome spesso dato alle leggi che apportano per la parsimonia de’ soggetti opulenza all’erario. Gran copia di argenti fu donata, obbedendo e tacendo i donatori.

XII. Ma il silenzio dell’universale volse a tumulto quando fu visto che il governo spogliava i banchi pubblici. Così chiamavano, come è noto per le nostre istorie, sette casse di credito, che per dote, legati ed industrie divennero possedittrici di tredici milioni di ducati. I pubblici offizii, i privati, la stessa casa del re, depositavano al banco il proprio danaro, là tenuto sicuro perchè guardato e guarentito. Una carta, detta fede di credito, accertava il deposito: la presentazione della fede produceva immediato pagamento: le fedi circolavano come danaro, nulla perdevano al cambio; guadagnavano a’ tempi delle maggiori fiere del regno per il comodo e la sicurezza di portare in un foglio somme grandissime. Il danaro contrastato per liti andava al banco; i pagamenti legati si facevano per carte di banco: molto danaro del regno; il tutto, quasi, della città; ventiquattro milioni almeno di private ragioni, stavano in quelle casse. Ma i bisogni dello stato, l’istinto del dispotismo, l’agevolezza d’involare e di coprire per nuove carte il danaro involato, ln speranza di rimediare al mancamento prima che manifesto, ed alla fin fine il sentimento ne’ re assoluti che la roba come la vita de’ soggetti sieno della corona, furono argomenti a stender mano rapace a que’ depositi. Durava tacitamente lo spoglio; le fedi già soperchiavano di molti milioni la moneta; il credito le sosteneva: era dunque introdotta nel commercio la carta monetata, ma buona perchè incognita. Svelata dall’abuso, i depositarii, traendo in folla ed a furia i loro crediti, fecero vote le casse; e, trattenuti gli ultimi pagamenti, fu distrutto il prestigio della fedeltà. Essendo grande il danno perchè infinite le relazioni coi banchi, divenne uguale il grido e lo spavento. «Ecco, dicevano, i tesori del re disotterrati per amor nostro! Ecco i giojelli della regina pegnorati o venduti! Questi sono. [p. 154 modifica]i risparmii e gli stenti della famiglia donati alla difesa e alla quiete del regno. Pianto fallace di povertà; mostre generose e ingannevoli, mercato infame delle nostre sostanze! Le nuove taglie sono assai maggiori delle nuove spese; il re, la regina, il ministro, provvedono al loro ricco vivere in qualunque fortuna.» Così per giudizii gli uni agli altri contrarii, saltando da cima a cima come la plebe.

Il governo sollecito a’ rimedii ridusse in uno i sette banchi della città, col nome di banco nazionale; stabilì botteghini di suo conto soccorsali dei banchi, e per contrapporli a’ guadagni strabocchevoli degli usurai; svergognò e punì molti uffiziali di banco per frodi vere o apposte. E non però migliorando le condizioni, e vedendo le polizze rifiutate nel commercio, comandò che valessero nelle private contrattazioni antiche o presenti: così offendendo e nuocendo alle ragioni dell’universale. Nacque allora ne’ fogli di cambio la indicazione di moneta fuori banco, la quale regge ancora, e forse, scordata la origine (perciò ne parlo), starà in eterno. Andando sempre in peggio la sorte de’ banchi, le fedi circolavano con perdita, che montò sino all’85 ne’ 100. Il danaro involato fu cinquanta milioni di ducati; e perciò, distrutte te doti de’ sette banchi, si rapirono trentasette milioni, senza giustizia, senza misura comune, a caso, a ventura, dalle sostanze de’ cittadini.

Quelle che ho descritte furono in otto anni, dal 91 al 99, le leggi di finanza. Se ne tessero due di amministrazione; utili e ineseguite: l’una prescrivente in ogni comunità la formazione di una carta o tabella indicativa de’ terreni e delle colture; l’altra ordinante il censimento del demanio comunale, a patti giovevoli a’ censuarii, preferendo i poveri. Nulla sì fece in legislazione, in commercio, in iscienze, in arti, in tutta la vasta mole della economia dello stato: però che non reggere nè guidare il regno, ma imperare e combattere erano le sole cure de’ governanti; così accresciuto l’imperio, scemavano le leggi.

XIII. Una contesa presto nata e spenta fra i re di Napoli e di Svezia io leggo in tutte le istorie del tempo come che non degna di ricordanza: e se pur io la registro ne’ miei libri è solamente per non torre fede agli scrittori che mi han preceduto nel faticoso cammino di comporre le istorie. Dopo la morte di Gustavo III, il re successore governava la Svezia negl’interessi di quella parte ch’ebbe ucciso il fratello: nuove congiure perciò si ordirono, e la vita del novello re fu in pericolo. Era tra’ congiurati l’ambasciatore in Napoli barone di Armfeldt, scoperto reo, e dimandato per lettere cortesi del re di Svezia al re delle Sicilie. La morte di Gustavo, principe guerriero e sdegnoso contro la Francia, era spiaciuta alla casa di Napoli, che tenendo giacobini coloro che lo spensero, e sostenitori della causa de’ re la parte contraria, diede al barone d’Armfeldt agio [p. 155 modifica]e mezzi da fuggire in Austria. Il re di Svezia se ne sdegnò, e con dichiarazione fatta pubblica, espose alle corti di Europa le sue ragioni e ’l proponimento di sostenerle: altra dichiarazione del re di Napoli, non timida, non umile, rispose. Disputa scandalosa durò fra’ ministri delle due corti; e ’l sovrano svedese intimò ammenda o guerra. Ma quella non fu data, questa non cominciò; tanti romori si sperderono.

XIV. Alle male venture, guerra, fame, povertà, discordie, che finora ho narrate, si aggiunse nell’anno 1794 altra più fiera perchè inevitabile. Nella notte del 12 giugno, forte tremoto scosse la città, e rombo cupo e grave pareva indizio d’imminente eruzione di foco dal Vesuvio. Gli abitanti delle città e terre sottoposte al monte fuggirono dalle case, aspettando allo scoperto il nuovo giorno; il quale spuntò sereno: ma in cima del volcano nugolo denso e scuro copriva l’azzurro e lo splendore del cielo; e come il giorno avanzava così crescevano il romore, l’oscurità e la paura. Passarono tre dì; la notte del quarto, 15 a 16 di giugno, scoppio che diresti di cento artiglierie chiamò a guardare il Vesuvio, e fu vista nella costa del monte colonna di foco alzarsi in alto, aprirsi e per proprio peso cadere e rotolare su la pendice: saette lucentissime e lunghe uscenti dal volcano si perdevano in cielo, globi ardenti andavano balestrati a gran distanze; il rombo sprigionato in tuono. Foco a foco soprapposto, perciocchè lo sbocco era perenne, formò due lave, le quali con moto prima rapido poi lento s’incamminavano verso la città di Resina e Torre del Greco. Stavano gli abitanti, trentadue mila uomini, mesti ed attoniti a riguardare. La città di Resina cuopre l’antica Ercolano: la Torre del Greco fu in origine fondata al piede del monte, dove le ultime pendici si confondono con la marina. Eruzione antica ne coprì metà, e tanta materia vi trasportò che fece promontorio su la città rimasta. In quell’altura fabbricarono nuove case: e però le due città, l’alta e la bassa comunicavano per erte strade a scaglioni, essendo di ottanta braccia almeno l’una sul’altra. La eruzione del 94 le adeguò, lasciando dell’alta, segnali della sventura, le punte di pochi edifizii, e coprendo della bassa e soperchiando le umili case, le sublimi, le stesse torri delle chiese. In Resina bruciarono molti campi e pochi edifizii più vicini al monte, fermandosi l’esterminio quasi al limitare della città. La prima lava, quella che sotterrò Torre del Greco, entrò nel mare, pinse indietro le acque, e vi lasciò massa di basalto sì grande che fece un molo ed una cala, dove le piccole navi riparano dalle tempeste. Spesso le due lave, docili alle pendenze o curvità del terreno, si univano; e spesso si spartivano in rivoli: ne’ quali rigiri fu circondato un convento dove tre persone, impedite dal fuggire, soffocate dal grande ardore, perirono. Il cammino della maggior lava, quattro miglia, [p. 156 modifica]fu corso in tre ore, le materie vomitate erano tante che parevano maggior volume del monte intero.

Ciò nella notte. Batteva l’ora ma non spuntava la luce del giorno, trattenuta dalla cenere, che densa e bruna dirottamente pioveva molte miglia in giro della città. Lo spettacolo di notte continua oppresse l’animo degli abitanti, che volgendosi, come è costume delle moltitudini, agli argomenti di religione, uomini e donne di ogni età o condizione, con piedi scalzi, chiome scielte e funi appese al collo per segno di penitenza, andavano processionando dalla città al ponte della Maddalena, dove si adora una statua di san Gennaro, per memoria di creduto miracolo in altra eruzione; così che sia scolpita in attitudine di comandare al volcano di arrestarsi. Colà giunte le processioni, quelle de’ gentiluomini pregavano le consuete orazioni a voce bassa, quelle del popolo gridavano canzone allora composta nello stile plebeo. Ed in quel mezzo si vedeva cerimonia più veneranda; il cardinale arcivescovo di Napoli, e tutto il clero in abito sacerdotale, portando del medesimo santo la statua d’oro e le ampolle del sangue, fermarsi al ponte, volgere incontro al monte la sacra immagine, ed invocar per salmi la clemenza di Dio. Nè cessarono i disastri della natura. Potendo la cenere adunata sopra i tetti e i terrazzi rovinar col peso gli edifizii, il magistrato della città bandì che si sgomberasse; e più del comando valendo il pericolo, subito dall’alto si gettarono quelle materie su le strade oscurando viepiù e bruttando il paese. Non si vide, si udì giunger la notte da’ consueti tocchi della campana; ma dopo alcune ore si addensarono tenebre così piene come in un luogo chiuso; nè la città in quel tempo era illuminata da lampadi; e i cittadini intimoriti da’ tremuoti, non osando ripararsi nelle case, stavano dolenti per le strade o piazze ad aspettare l’abisso estremo. Al dì vegnente, che fu il terzo, scemò la oscurità ma per luce sì scarsa che il sole appariva, come al tramonto, pallido e fosco: diradarono le piove delle ceneri, cessò il fuoco ed il tuono del volcano. Quello aspetto di sicurtà, le patite fatiche, la stanchezza, invitarono gli abitanti a tornare alle case; ma nella notte nuovo remoto li destò e impaurì; e mentre la terra tremava, udito uno scroscio come di mille rovine, temeva ogni città che la città vicina fosse caduta.

Il nuovo giorno palesò il vero, perchè fu visto il monte troncato dalla cima, e quella inghiottita nelle voragini del volcano; sì che il tremuoto e lo scroscio della sera, da’ precipizii. E se prima il monte Vesuvio torreggiava su la montagna di Somma che gli siede appresso, oggi, mutate le veci, questa si estolle. Essendo quelli gli ultimi fatti della eruzione, per non dire de’ soliti diluvii e delle frane, io raccoglierò delle cose che avvennero, le più notabili. La parte troncata del monte era di figura conica; l’asse tremila metri (circa [p. 157 modifica]palmi napoletani novemiladuecento); la base, ellittica, cinque miglia in giro; la grossezza maggiore della lava, undici metri (quaranta palmi); la terra coperta di fuoco, cinquemila moggia; il molto largo la quarta parte di un miglio, sporgente in mare ventiquattro metri, elevato su l’acqua sei metri; gli uomini morti trentatrè, gli animali quattromiladuecento. Furono le cure del governo solamente pietose, impedita la liberalità dalle strettezze dell’erario. In breve tempo, sopra il suolo ancora caldo, videsi alzare nuova città; soprapponendo le case alle case distrutte, e le strade alle strade, i tempii a’ tempii. Possente amor di patria che dopo tanti casi di esterminio si direbbe cieco ed ostinato, se in lui potesse capir difetto!

In que’ giorni di lutto universale, Îl re con la casa e col generale Acton, caro alla famiglia, andarono agli accampamenti di Sessa, lontani dal pericolo e dalla mestizia. I teatri, la curia, le magistrature si chiusero. Solamente in quel feriato di dolore, la giunta di stato non sospese i crudeli offizii; essendosi trovati negli archivii molti atti segnati di que’ giorni. Prima opera di lei fu la morte di Tommaso Amato, che in giorno festivo, nella chiesa del Carmine, spingendosi verso il santuario e lottando con un frate che lo impediva, proferì a voce alta bestemmie orrende contro Dio, contro il re. Arrestato dal popolo e dato alle guardie del vicino castello, accusato reo di lesa maestà divina ed umana, fu condannato a morire su le forche. Il re prescrisse pubbliche orazioni onde placare la collera di Dio, mossa dal veder profanato il tempio e i sacerdoti. Le spoglie di Tommaso Amato non ebbero cristiana sepoltura, e si citava il nome ad orrore. Ma per lettere che da Messina, patria dell’infelice, scrisse il generale Danero governatore della città, seppesi Tommaso Amato soffriva in ogni anno accessi di pazzia, e che da certo tempo era fuggito dalla casa de’ matti. Il pre sidente Cito, e ’l giudice Potenza, avendone avuto sospetto nel processo, votarono che fosse custodito come demente; ma piacque agli altri giudici punire uomo creduto malvagio dal popolo, e radicar la sentenza nella plebe: nemico del re, nemico a Dio. Dal primo sangue, gli animi inferociti, prepararono la gran causa de’ rei di stato; così portava nome. Il governo incitava i giudici alla severità, spaventato dalle nuove cose di Francia e d’Italia; era capo in Francia Robespierre, e trionfavano allo interno le dottrine più feroci; allo esterno, gli eserciti: nel Piemonte scoprivasi congiura contro il re, e tumulti la secondavano; spuntavano in Bologna germi di libertà ed in Napoli si passava dalle finte alle vere cospirazioni, per gli scarsi ricolti sempre pericolosi alla quiete, e la povertà del popolo, e lo sdegno degli oppressi, è l’usato cammino della scontentezza. La giunta di stato giudicava. Era inquisitorio il processo, scritta la pruova; le secrete accuse o denunzie potevano come indizii; i [p. 158 modifica]testimonii, benchè fossero spie a pagamento, valevano; nè a’ servi, figliuoli, a’ più stretti parenti era interdetto l’uffizio di testimonio. Il processo, compiuto in secreto, passava a’ difensori, magistrati eletti dal re; le difese producevansi scritte; nè all’accusato era concesso il parlare; il giudizio spedito a porte chiuse; la relazione dell’inquisitore valeva quanto il processo, non che fosse vietato a’ giudici leggere nei volumi, ma nol comportava la strettezza del tempo, perchè ad horas; era inquisitore nel processo lo scrivano; nel giudizio, un magistrato scelto tra i peggiori, quale il Vanni nel tempo di cui scrivo, poi Fiore, Guidobaldi, Speciale, Sommavano i giudici numero dispari per torre il benefizio della parità. Le pene, severissime: morte, ergastolo, esilio; le sentenze inappellabili; l’effetto, immediato; l’infamia sempre ingiunta, non mai patita.

XVI. Compiuto il processo de’ rei di stato, il procurator fiscale diceva chiare le pruove contro parecchi de’ prigioni, e preparato il proseguimento per gli altri carcerati, o fuggitivi, o nascosti, o fortunati che sebben rei godevano di libertà e d’impieghi; avvegnachè (ci soggiugneva) teneva pruove certe per ventimila colpevoli, e sospetti per cinquantamila. A’ quali avvisi ed istanze il re prescrisse la giunta di stato, ad modum belli e ad horas, giudicasse i rei che il procurator della legge indicava; e il tribunale adunato il 16 di settembre, sciolto il 3 di ottobre, senza intermissioni e senza riposo a’ giudici fuor che il necessario alla vita, giudicò. Di cinquanta accusati, con processo di centoventiquattro volumi, il procurator fiscale dimandò pena di morte per trenta, prima da cruciarsi con la tortura ad effetto di conoscere i complici; sospensione di giudizio per altri diciannove, ma da collocarsi co’ primi trenta; dell’ultimo non parlò. Questi non ostante, fu giudicato in primo luogo, e confinato a vita nell’isola di Tremiti; egli era chiamato Pietro de Falco, capo ed anima della congiura, fellone alla setta e svelatore de’ settarii. Poscia il tribunale condannò tre alla morte, tre alle galere, venti al confino, tredici a pene minori; mandò liberi gli ultimi dieci. Era tra’ confinati il duca di Accadia; e ’l re, mantenendo i privilegi de’ sedili, fece assistere al giudizio due nobili, col nome di pari; ultimo rispetto alle antiche leggi. La sentenza che puniva i congiurati taceva della congiura, vergognando castigare acerbamente adunanze secrete di giovanetti, ardenti di amore di patria, inesperti del mondo, senza ricchezze, o fama, o potenza, o audacia, condizioni necessarie a novità di stato; ed avversi alle malvagità ed a’ malvagi, che fanno il primo nerbo de’ rivolgimenti; perciò non altre colpe che voti, discorsi, speranze. Questa era la congiura per la quale tre morivano, molti andavano a dure pene, tutti pericolavano; e si spegneva la morale pubblica, si creavano parti e nemicizie, cominciava [p. 159 modifica]tirannide di governo. contumacia di soggetti, odii atroci ed inestinguibili per andar di tempo e per sazietà di vendette.

I condannati a morire, Vincenzo Vitaliano di ventidue anni, Emanuele de Deo di venti, e Vincenzo Galiani di soli diciannove, erano gentiluomini per nascita, notissimi nelle scuole per ingegno, ignoti al mondo. Dopo la condanna, la regina chiamò Giuseppe de Deo, padre di uno de’ tre miseri, e gli disse di promettere al giovane vita e impunità, solo che rivelasse la congiura e i congiurati. Andò il vecchio alla cappella dove il figlio ascoltava gli estremi conforti di religione e, rimasti soli (così avea comandato la regina), lo abbracciò tremando, espose l’ambasciata ed il premio, rappresentò il dolor suo, il dolor della madre, l’ onore del casato; proponeva, dopo la libertà, fuggire assieme in paese lontano, e tornare in patria quando fossero i tempi meno atroci. E però che l’altro ascoltava senza dir motto, egli credendolo vicino ad arrendersi, ruppe in pianto, s’inginocchiò a’ piedi del figliuolo, e tra gemiti confusi potè dire appena: «Ti muova la pietà del mio stato.» E allora il giovine sollecito inalzandolo, e baciatogli quando le mani e quando il viso, così disse: «Padre mio, la tiranna per cui nome venite, non sazia del nostro dolore, spera la nostra infamia, e per vita vergognosa che a me lascia, spegnerne mille onoratissime. Soffrite che io muoja; molto sangue addimanda la libertà, ma il primo sangue sarà il più chiaro. Qual vivere proponete al figlio e a voi? dove nasconderemmo la nostra ignominia? Io fuggirci quel che più amo, patria e parenti; voi vergognereste di ciò che più vi onora, il casato. Calmate il dolor vostro, calmate il dolore alla madre, confortatevi entrambo del pensiero che io moro innocente e per virtù. Sostenghiamo i presenti martorii fuggitivi; e verrà tempo che il mio nome avrà fama durevole nelle istorie, e voi trarrete vanto che io, nato di voi, fui morto per la patria.» L’alto ingegno, il dir sublime, e valor che trascende in giovine acceso di gloria, tolsero lena e voce al vecchio padre, che quasi vergognoso della maggior virtù del giovinetto, ammirando e piangendo, coperta dalle mani la fronte, ratto uscì dalla orrenda magione.

Al dì vegnente andarono i tre giovani al supplizio, senza pianti, o que’ discorsi che pajono intrepidezza e sono distrazioni e conforto alle infelicità del presente; serenità che mancava (debita sorte della tirannide) a’ tiranni; sì che di loro altri diceva, altri credevano che cinquanta migliaja di giacobini, adunati nella città, si leverebbero per sottrarre i compagni, ed uccidere del governo i capi e i seguaci.

Alzato perciò il palco nella piazza detta del Castello, sotto i cannoni del forte, circondato il luogo di guardie, muniti di artiglierie gli sbocchi delle strade, ed avvicinate alla città numerose milizie [p. 160 modifica]bandirono cha ad ogni moto di popolo i cannoni de’ castelli tirerebbero strage. Uffiziali di polizia travestiti, sgherri in abito, e spie a sciami si confusero nella folla. E fra tanti provvedimenti di sicurtà stavano i principi nel palagio di Caserta, più timidi ed ansanti de’ tre giovanetti che rassegnati morivano. Quelle mostre di timore produssero timor vero a’ cittadini; e sarebbe rimasta vota la piazza, se le atrocità non fossero come feste alla plebe; perciò fu piena. E poi che Galiani e de Deo furono morti, al salire del terzo sul patibolo, piccola mossa, della quale s’ignora il principio, allargata nel popolo, ingigantita da’ sospetti, pericolosa per le minacce e per gli apprestamenti che si vedevano ne’ soprastanti bastioni, tanta paura sparse in quelle genti, che nel fuggire alcuni restarono feriti, molti rubati, la piazza si vuotò, e i ministri della pena compierono nella solitudine l’uffizio scelerato.

XVII. Mesto anche per segni di natura l’anno 1794; parecchi uomini morirono di fulmine, un fulmine entrò in chiesa, un altro ruppe dentro al porto di Napoli gli alberi e l’armatura di un vascello nuovo (il Sannita), pronto a salpare per la guerra; un marinajo vi fu incenerito. Accaddero nelle nostre marine continui e miserevoli naufragi, molte morti in città d’ uomini grandi, morbi gravissimi. Così che finito quell’anno, auguroso per i creduli, si speravano tempi migliori; ma ne’ primi giorni dell’anno vegnente si udì la morte del principe di Caramanico, vicerè in Sicilia, con tali voci e opinioni che apportò ragionevole spavento ne’ due regni. Rammento in questo luogo che il principe di Caramanico propose alla regina la chiamata dell’Acton dalla Toscana; il quale, venuto in Napoli, piacque; poi geloso del benefattore (valendogli la prepotenza degli affetti nuovi), ottenne che il principe andasse lontano dalla reggia. Si tenne ch’ei morisse di veleno macchinatogli dal rivale, o preso per evitare a sè il dolore, al nemico il trionfo di essere menato nella fortezza di Gaeta come reco di maestà; di che avuto avviso per sicuri annunzii, volle schivare con la morte il pericolo e la vergogna. Alcuni fatti della casa del principe, molti provvedimenti, morte sollecita, segni (dicevano) di veleno, tempi tristi, grandezza di lui, maggior potenza di nemico malvagio, aggiungevano fede a’ racconti. Cresciuto l’odio pubblico per il ministro e per la regina, cominciato allora per il re (non bastando la infingardaggine a scusarlo de’ mali che si facevano col suo nome), circolavano contro tutti e tre dicerie plebee, spregianti la maestà de’ principi, ed incitatrici allo sdegno di quei potenti. Dopo la morte compianta del vicerè, l’universale sperando la caduta dell’odiato ministro per lo innalzamento del cavalier Medici, nobile di casato, sciolto come li vuole fortuna da’ ritegni della coscienza, e gia sul cammino della civile grandezza, rammentava il celere [p. 161 modifica]corso de’ sostenuti offizii, e lo diceva degno di offizii maggiori, tanto più ne’ presenti pericoli dello stato. Il quale grido che, quando è di popolo, raccomanda, rinforzando l’ambizione del giovine gli attirò sguardi significanti della regina, biechi del ministro; tanto più che questi nella corte e nello stato non vedendo altro uomo che sollevasse nè manco il desiderio a quella altezza, divisava che lo spegner quel solo gli era certezza e durata di fortuna.

Sapeva il modo: l’accusa di maestà; ma bisognavano tempo e ordimenti alla calunnia. Fra i condannati dalla giunta era un Annibale Giordano professore di matematica, egregio per ingegno, malvagio per natura, usato ed accetto in casa Medici. Egli (non è ben chiaro se richiesto o scaltro) accusò il cavalier Medici di complicità nella congiura; ma il ministro Acton, tenendo celato il foglio, premiato il delatore, impostogli secreto, adunò altre accuse, sottoscritte del nome degli accusatori, o senza nome con la promessa di palesarlo, quando al reo fosse tolta la smisurata autorità di reggente. Unite le carte in processo, andò il ministro a pregare i due sovrani di ascoltarlo in privato; e concessogli, disse:

«Corrono tempi tristi e difficili, spesso la fedeltà confusa con la fellonia, il vero col falso; se non credi alle accuse, pericola lo stato; e, se le credi, adombri la quiete de’ principi, e forse offendi l’onestà e la giustizia. Perciò ne’ casi leggieri, io, con l’autorità che le maestà loro mi hanno concessa, opero e taccio; se non che delle asprezze fo me autore, delle blandizie, il principe. Ma ne casi gravissimi dove non basta l’autorità di ministro, mi vien meno l’animo di operare o di tacere; gran tempo ho taciuto grave affare (mostrò le carte): oggi più lungo silenzio mi farebbe colpevole. Annibale Giordano, reo di maestà tra i primi, con foglio firmato del suo nome, animosamente accusò di complicità nella congiura il reggente della vicaria cavalier de Medici.» (Parve maraviglia in viso del re, indignazione alla regina; ed egli, come a que’ segni non avvertisse, proseguiva:) «La enormità del delitto scemava fede all’accusa; giovine alzato a’ primi gradi dello stato, avendo in prospetto gradi maggiori, nobile per famiglia, piacente a’ sovrani, venerato da’ ministri (e da uno di essi anche amato), come credere che arrischiasse tanti benefizii presenti per sognate speranze di avvenire? Tenni l’aceusa malvagia, e di nemico. Ma dalle regole di pubblica sicurezza sapientemente da vostra maestà ordinate, non isfuggendo verità che assicuri o che incolpi, si palesarono altri fatti ed altre pruove contro il reggente; egli assiste al club de’ giacobini radunati a Posilipo sotto specie di cena, per congiura; egli conferì con La Touche; per lui fallò l’arresto de’ giacobini che andavano al vascello francese; del quale mancamento io mi avvidi, ma lo credetti mala ventura [p. 162 modifica]o mal consiglio, non già proposito e delitto. Altre colpe di lui stanno registrate in quei fogli; e ve ne ha tali per fino malediche a suoi principi. Molti nobili (egli stesso n’ è cagione col consiglio e con l’esempio) sono tra congiurati; i Colonna, i Caracciolo, i Pignatelli e Serra e Caraffa, ed altri nomi chiari per natali, titoli e ricchezze; i giovani bensì, non i capi delle famiglie, ma i giovani si riempiono le congiure; e poscia i maggiori, per naturale affetto di sangue difendendo i figliuoli, ajutano l’impresa. Sono queste le cose che io doveva rassegnare alle loro maestà; elle decidendo ricordino che incontro a’ tristi e ingrati vi ha l’obbedienza dell’esercito, la fedeltà del popolo, la vita di molti.»

E tacque. La regina non osava parlare prima del re; ma questi disse al ministro, «E, dopo ciò, che proponete?» E quegli:

«So che è debito di ministro, esponendo i mali proporre i rimedii; ma lungo riflettere non mi è bastato a sciorre i dubbii che si affollano in mente, ed ho sperato dalle loro maestà comando e consiglio. Non vi ha che due modi, pericolosi entrambo: la clemenza o il rigore; pochi mesi addietro erano congiurati uomini mezzani, oggi lo sono i primi dello stato; dove giugnerà la foga, se spavento non l’arresti? ma quai nemici e quanto potenti affronterebbe il rigore? Egli è vero che i tempi sono mutati, ma vive ancora la memoria e la superbia delle guerre baronali, e si citano i danni e i cimenti de’ re aragonesi; egli è ancor vero che la baronia di oggidì non è guerriera, ma l’ajuta passione di libertà, che pur troppo è ne’ popoli. Fra le quali dubbiezze mi venne pensiero utile, non giusto; ed alle maestà vostre lo confido. Ambizione muove il cavalier de’ Medici, il giovine impaziente non può soffrire la incertezza ed il tedio dell’aspettare; se vostra maestà lo innalzasse a ministro, cesserebbero le voglie ree di mutar lo stato, ed egli spegnerebbe in un giorno le trame, note a lui, della congiura.» E non anco finiva il bugiardo discorso, se la regina, rompendolo, non diceva: «Ludibrio della corona! siamo a tale ridotti che dobbiamo dar premii a’ congiurati? E chi d’oggi innanzi non congiurerà contro il trono, se avrà mercede, quando fortunato, dalla impresa; e quando scoperto, da noi? Sire (volgendosi al re), è diverso il mio voto. II cavalier Medici, comunque abbia i natali e l’autorità, i nobili d’ogni nome, di qualunque ricchezza, corrano le sorti comuni, e un tribunale di stato li condanni. Un alto esempio val mille oscuri.» E allora il re sciolse la secreta conferenza, prescrivendo che al doman l’altro i ministri dello stato, il general Pignatelli capo dell’armi, il cardinale Fabrizio Ruffo, il duca di Gravina e il principe di Migliano si adunassero a suo consiglio nella reggia di Caserta. [p. 163 modifica]

XVIII. Al dì seguente disse la regina saper ancor ella le trame rivelate dal ministro, ed averle nascoste al re per non turbarne il riposo, ed aspettare la maturità delle pruove: vanto e menzogna. Furono quelle trame ordite dall’Acton a rovina de Medici, e tenute secretissime per impedire che se ne scolpasse. Ella millantava di saperle, perchè fin anco i re, quando s’intrighino tra’ maneggi di polizia, ne prendono il peggior difetto, la vanagloria. Ma lo scaltro Inglese, giovandosi della menzogna, disse in privato alla maggior parte de’ consiglieri eletti, che la regina avea scoperto nuove congiure; che un discorso di lui del giorno innanzi era stato da’ principi male accolto per la proposta clemenza; ch’era dunque il rigore necessità; tacque i nomi, e pregato il secreto, n’ebbe promessa; e della confidenza, rendimento di grazie. Raccolta in Caserta la congrega, il re dicendo voler consiglio sopra materia gravissima, chiuse il breve discorso. «Dimenticate i privati affetti, o di classe, o di parentado: un solo sentimento vi guidi, la sicurezza della mia corona. Il generale Acton esporrà i fatti.» Gli espose con discorso studiato ed ingannevole; e poscia il re permettendo il parlare, dimandò i voti. Non alcuno fra tanti dissentì, e solamente aggiunsero accuse alle accuse del ministro; malvagi o timidi per meritata sorte delle tirannidi, mancar di schietto consiglio nei bisogni maggiori. Fermarono, porre sotto giudizio il cavalier de Medici e quanti altri, nobili o no, fossero colpevoli. La giunta di stato, quella medesima tanto sollecita nel punire che non aspettò per Tommaso Amato le lettere di Messina, e tanto spietata che uccise tre giovanetti ai quali appena ombrava le gote il pelo dell’adolescenza, non fu creduta bastevole alla voluta speditezza del processo ed al rigore; e si temeva l’aderenza de’ giudici al cavalier dei Medici, sino allora giudice anch’esso della giunta, e severo contro que’ congiurati che ora dicevano suoi compagni. Lo giunta fu sciolta; e ricomposta di giudici peggiori, avvegnachè, mantenuti Vanni e Giaquinto, furono messi alle veci di Cito, Porcinari, Bisogni, Potenza, il magistrato Giuseppe Guidobaldi, Fabrizio Rufo principe di Castelcicala, ed altri famosi per tristizie. Castelcicala in quel tempo ambasciatore del re a Londra venne allegro del nuovo uffizio che davagli, diceva, opportunità di provar la fede a’ sovrani, e sfogare lo sdegno proprio contro ,i ribelli al trono ed a Dio. La regina festosamente lo accolse, però che un principe inquisitore di stato avvalorava la sentenza, «dover ella distruggere l’antico errore che riputava infami le spie, cittadini veramente migliori perchè fedeli a1 trono e custodi alle leggi.» Quindi nominava marchese il Vanni, fregiava dell’ordine Costantiniano i delatori più tristi e diffamati; e solo ad essi, disegnandoli col nome di meritevoli, dava gli offizii dello stato. [p. 164 modifica]

L’insita loquacità della regina, cui abbiamo debito di aver saputo i secreti parlari dell’ Acton, del re, di lei stessa, svelò il consiglio di Caserta alla marchesa di Sammarco, dama tra le prime, confidente e compagna negli amori, dicendole che il fratello cavalier de’ Medici (giacobino, che sarebbe se lo ajutasse fortuna il piccolo Robespierre) conspirava contro il trono. Egli, così avvisato del pericolo, andò alla reggia; e negatogli accesso alla regina, parlò al re, il quale a’ ragionamenti ed alle preghiere nulla rispose; ma nel vegnente giorno lo depose d’uffizio, e lo chiuse nella fortezza di Gaeta. Nel tempo stesso menavano alle prigioni un Colonna figlio del principe di Stigliano, il duca di Canzano, il conte di Ruvo, un Serra di Cassano, e i Caracciolo, i Riarii ed altri nomi chiari per le grandezze degli avi e per le presenti; primi baroni, imparentati alla più alta nobiltà del regno, e per immemorabile feudalità venerati e temuti da’ popoli. Del quale ardire del governo importa svolgere le cagioni. Le passioni de’ sovrani di Napoli, sdegno cioè della offesa monarchia e pietà degl’infelici parenti, si accesero prime e cieche contro i Francesi; ma poi che videro disperata la vendetta sopra popolo fortissimo e lontano, si volsero a sfogare nel proprio regno su le immagini della Francia; chiamarono giacobini gli amanti semplici ed innocenti di vaga libertà, i lodatori delle repubbliche, i leggitori delle gazzette straniere, coloro che imitavano nel vestimento le mode francesi; ed indi a poco, di giacobini gli dissero congiurati ad abbattere il trono, a rovesciare gli altari, a spegnere il re e i sacerdoti. Così che ad oneste brame, o a semplici apparenze di vita diedero colpa e peso di maggiori delitti. Veramente all’arrivo dell’ammiraglio La Touche parecchi Napoletani, come ho riferito, convennero in secrete combriccole per comunicare con quei Francesi, e per volgere in italiano e stampare le costituzioni del 91; ma sciolte dai rigori del governo le adunanze, i vaghi di libertà s’incontravano alla sfuggita, balbettavano l’un l’altro all’ orecchio le notizie correnti, si rallegravano de’ successi della Francia, speravano e separavansi; non avevano di congiura npè scopo, nè mezzi; la polizia, la giunta di stato, i ministri del re, la regina col numeroso corteggio delle spie, percuotevano i fantasmi. E più inferocivano per non trovare le pruove del delitto, e credere nel silenzio degli accusati forza di secreto e di fede; quindi moltiplicavano i martorii a’ prigionieri; imprigionavano Pagano, Ciaja, Monticelli, Bisceglia, il vescovo Forges ed altri venerati per dottrina e virtù; insidiavano l’onestà, promettendo uffizii e doni a chi rivelasse le colpe di maestà; guastavano i costumi delle famiglie, nemicando il fratello al fratello, il figlio al padre; pervertivano la morale del popolo, sciogliendo tutte le fedeltà, di servo, di custode, di cliente, di confessore. Scomponevano la società. [p. 165 modifica]

XIX. Venne ad aggravare i sospetti e le miserie un sucesso infelice di Palermo, dove le genti affamate per iscarso ricolto di quell’anno, impoverite per nuovi tributi, scontente dell’arcivescovo Lopez, che dopo la morte del Caramanico reggeva l’isola, tumultuarono pazzamente di moti confusi, facili a trattenere e ad opprimere. Un avvocato Blasi, ed altri pochî si unirono in secreto per consultare se quella popolare disperazione bastasse ad aperto sconvolgimento: ma subito traditi e imprigionati, il Blasi per sentenza morì, prima torturato co’ modi antichi nella pubblica piazza; altri andarono alle galere, altri all’esilio; il popolo s’intimorì, successe pazienza non calma; la tirannide imperversò. In Napoli durando le incertezze della creduta congiura, e i principi travedendo intorno a se il tradimento e la morte, congedarono le antiche guardie del corpo, ed altre ne scelsero, mutarono i custodi, variarono gli ordini della casa, facevano saggiare i cibi, nascondevano alla comune de’ servi le camere del sonno; e, più timorosi tuttodì, toglievano ad altri la quiete e la perdevano. Ne’ quali commovimenti di paura e di rigore fu pubblicato editto che perdonava le colpe di maestà, e prometteva segretezza e premii a quei rei che rivelassero la congiura, e i capi d’essa, o i compagni. Per effetto del quale editto riferirono cose leggere o mentite tre fuggitivi e nobili, de’ quali taccio i nomi, perchè lavarono col sangue la vergogna; uno morto in guerra, gli altri due (erano fratelli) sul patibolo. Nè quello editto altra cosa notabile produsse.

XX. In mezzo a riferiti dolori e vergogna qualche conforto apportavano le geste de’ reggimenti di cavalleria napoletana, che insieme agli Alemanni, con uguale, almeno, disciplina e valore guerreggiavano in Lombardia; e delle nostre navi che unite agli Inglesi combattevano nel mare di Savona il navilio di Francia uscito da Tolone a portar guerra e sbarcar soldati su le coste della Romagna. Erano pari le forze combattenti, maggiore l’arte e la fortuna de’ nostri; così che i Francesi, dopo aver perduto due vascelli, e un brigantino, tornarono al porto sdruciti e vinti. L’ammiraglio Hotham capo della flotta anglo-napoletana fece lodi bellissime a’ nostri, e più notò la intrepidezza e il sapere del capitano di fregata Francesco Caracciolo, cui preparavano i cieli, e non lontane, gloriosa celebrità e misera fine. Nel regno le comunità mandavano i richiesti soldati, e la baronia, cavalieri e cavalli; si pagavano le taglie pubbliche; si comportavano le perdite crescenti delle carte di banco. E fra tanti documenti di virtù civile la sventurata nazione, creduta ribelle dal suo re, ribalda dal mondo, tollerava i pesi e gli sforzi della fedeltà con le pene e le infamie dei felloni. Negli anni sino al 95, mentre in Napoli seguivano le narrate cose, la Francia governavasi a repubblica; ma vedevi alcuni come tiranni opprimere [p. 166 modifica]popolo come schiavo, e la schiavitù e la tirannide aver cagioni sincere nella libertà. Non è uffizio nostro stendere quella istoria, ma felice chi giugnerà a quell’altezza, dove rimarrà chiaro in fin che duri la memoria degli uomini; avvegnachè non ha il mondo argomento che pareggi la storia di Francia dell’anno 89 del passato secolo al 15° del corrente. Basterà a noi, narratore di poca parte di quegli avvenimenti, rammentare che nel governo della convenzione surse la tirannide di Robespierre, per la quale in breve tempo morirono di scure mille ottocento Francesi, e si fece salda la libertà; che, morto lui, e pure di scure, passò il potere a cinque appellati Direttorio; e che allora, cessate le atrocità, ebbe il governo della Francia sembianze meno ingrate alle genti straniere, ma più da’ principi abborrite, perchè più adatte alla intelligenza de’ popoli.

XXI. Il generale Bonaparte, appena conosciuto per i fatti di Tolone, acquistata fama nel parteggiare della città di Parigi, venne capitano dell’esercito guerreggiante in Italia. Giovine che di poco avea scorsi venticinque anni, moveva dileggio a’ vecchi capitani delle case d’Austria e di Savoja: ma in pochi di que’ sensi facili mutarono in altri più veri di maraviglia e di paura, Per le battaglie di Montenotte, Millesimo, Dego, Mondovì, spartiti gli eserciti collegati, il Piemontese forzato a scegliere tra la sommissione o la prigionia, l’Austriaco a ritirarsi negli stati lombardi, stupirono di timore tutti i prìincipi italiani; tra’ quali, i deboli, negoziarono pace; e i forti o prosuntuosi, accrebbero le difese e le milizie. Venezia ricordevole delle sue grandezze, inaccessibile, stando in mare, a’ battaglioni francesi, pregata di alleanza quando dalla Francia e quando da’ potentati contrari, aveva risposto, ch’ella armata in neutralità non assalirebbe gli altrui dominii, difenderebbe i proprii. Napoli, alla estremiti della penisola, con buona frontiera, molto popolo, e la Sicilia isola grande, cittadella del regno e della Italia, dominava per possanza propria e di confederazione i mari del Mediterraneo; il suo re passionato, arrischioso, e sino allora offeso e invendicato, disfidò le ostilità, inviando altri cavalieri nella Lombardia; e facendo per molti editti bando di guerra così composto: «Quei Francesi che uccisero i loro re; che desertarono i tempii, trucidando e disperdendo i sacerdoti; che spensero i migliori e i maggiori cittadini; che spogliarono de’ suoi beni la chiesa; che tutte le leggi, tutte le giustizie sovvertirono, que’ Francesi non sazii di misfatti, abbandonando a torme le loro sedi, apportano gli stessi flagelli alle nazioni vinte, o alle credule che li ricevono amici. Ma già popoli e principi armati stanno intesi a distruggerli. Noi, imitando l’esempio de’ giusti e degli animosi, confideremo negli ajuti divini e nelle armi proprie. Si facciano preci in tutte le chiese; e voi, devoti popoli napoletani, andate alle orazioni per [p. 167 modifica]invocare da Dio la quiete del regno; udite le voci de’ sacerdoti; seguitene i consigli, predicati dal pergamo e suggeriti da confessionali.»

«Ed essendosi aperta in ogni comunità l’ascrizione de’ soldati, voi adatti alle armi correte a scrivere il nome su quelle tavole; pensate che difenderemo la patria, il trono, la libertà, la sacrosanta religione cristiana, e le donne, i figli, i beni, le dolcezze della vita, i patrii costumi, le leggi. Io vi sarò compagno alle preghiere e a’ cimenti; che vorrei morire quando per vivere bisognasse non esser libero, o cessare di esser giusto.»

Poi volto a’ vescovi, a’ curati, a’ confessori, ai missionarii, disse:« È nostra volontà che nelle chiese de’ due regni si celebri triduo di orazioni e di penitenza; e ne sia scopo invocare da Dio la quiete de’ miei stati. Perciò dagli altari e da’ confessionali voi ricorderete a’ popolani i debiti di cristiano e di suddito, cioè cuor puro a Dio, e braccio armato a difesa della religione e del trono. Mostrate gli orrori della presente Francia, gl’inganni della tirannia che appellano libertà, le licenze o peggio delle truppe francesi, l’universale pericolo. Eccitate con processioni ed altre sacre cerimonie lo zelo del popolo. Avvertite che l’impeto rivoluzionario, comunque inteso a scuotere tutti gli ordini della società, segna a morte i due primi, la chiesa e il trono.»

E infine per altro editto a’ regii ministri diceva essere bisogno dello stato e sovrana volontà che tutti gli uomini atti alle armi si ascrivessero all’esercito; così per obbedienza de’ regali comandamenti, come allettati da’ consueti premii e privilegi della milizia, e da maggiore stipendio a’ volontarii; immunità di foro per sè e le famiglie; e franchigia, a’ valorosi di guerra, da’ pesi fiscali per un decennio. Promesse maggiori fossero fatte a’ baroni ed a’ nobili che venivano alle bandiere, o assoldavano buon numero di vassalli. Andavano gli editti nelle province con la fama dell’esempio; imperciocchè nel duomo della città, alla cappella di San Gennaro, cominciato il sacro triduo, il re con la famiglia, i grandi della corte, i magistrati e i ministri vi assisterono di continuo; seguiti dalle classi minori e dal popolo, sì che il vasto tempio non capiva la folla dei supplicanti. Così pure nelle province; nè mai forse tanti voti caldi e sinceri andarono al cielo quanti in que’ giorni; indizio di pericolo. I sermoni (tanto più de’ missionarii e de’ frati) furono ardenti; dipingendo i Francesi con immagini atroci, persuadendo contr’essi non che assolvendo gli atti più fieri; santificala la guerra di distruzione, richiamate ad uso ed a merito le immanità della barbarie. E peggio ne’ confessionali, dove senza i ritegni della civiltà aguzzavano gli odii nel cuor di plebe ignara e spietata. 1l seme, che poi fruttò strage infinita, fu sparso in quell’anno. Accorrevano d’ogni [p. 168 modifica]parte i soldati con voglia tanto pronta che la diresti da repubblica non da signoria. E quando l’esercito fu pieno, andarono trentamigliaja ne’ campi ed alloggiamenti della frontiera per guardia e minaccia. La difesa del regno divenne studio comune; ma essendo in quel tempo scarse e rare per noi le cognizioni di guerra, variavano le opinioni e i disegni. Divise le cure tra i capi della milizia, altri provvedendo ad una parte della frontiera, altri ad altra, si moltiplicavano le opere e le spese, vagavano infinite idee sopra infiniti punti; mancava il concetto universale di quella guerra. Ed oltracciò traendo regole dalla storia più che dall’arte, temevano il nemico dalle sponde del Liri, non da’ monti degli Abruzzi, e disponevano i campi e munimenti così che la parte meglio guardata fosse quella del fiume. Ma non mi arresto a questi errori però che il regno per altre sventure fu vinto. Molti soldati raccolti sopra piccoli spazii, poca scienza, nessun uso di milizie, amministratori nuovi, nuovi uffiziali, generali stranieri, componevano l’esercito; e la inespertezza universale ingenerò molti mali, de’ quali gravissimo un morbo radicato ne campi. A distanze grandi sul Garigliano e sul Tronto, i soldati infermavano di febbre ardente che al settimo e più spesso al quinto giorno apportava la morte; il vicino n’era preso come il lontano, purchè dimorassero ne’ campi o nelle stanze de’ soldati; non era conosciuta la natura del male, non la virtù de rimedii; rimedii opposti del pari nocevano; pareva febbre incurabile. Nè bastando allo impreveduto disastro gli ospedali antichi, nè fatti i nuovi, stando gli infermi confusi a’ sani, la malattia dilatando in ogni parte, uccise diecimila soldati; lo zelo dei popoli, iniquamente rimunerato dalla fortuna, intiepidì.

XXIII. Insieme al bando di guerra, altro regio editto decretava reo di morte chi all’appressar del nemico ne ricevesse lettere o imbasciate; e chi a lui ne mandasse, chi gli giovasse, o eccitasse tumulti; le adunanze sol di dieci uomini punite come delitti di maestà; ed altre asprezze o sollecitudini, quasi il nemico stesse alle porte. Il procedimento in que’ giudizii, ad Horas: le pruove facili, però che bastanti le affermazioni di tre, anche denunziatori o correi che rivelassero per benefizio d’impunità; il convincimento nella coscienza del magistrato; magistrato la giunta; le sentenze inappellabili e nel giorno istesso eseguite. Furono cagione all’editto le battaglie vinte in Italia dal general Bonaparte, la confederazione spezzata tra l’Austria e ’l Piemonte, l’armistizio indi la pace col re di Sardegna, la espugnata Milano, le debellate città; tutte le maraviglie del giovine guerriero; sventure del generale Beaulieu, cui obbedivano con gli Alemanni quattro reggimenti di cavalleria napoletana. Il quale Beaulieu, inattesamente assalito e rotto sul Mincio, stentò a ritirar l’esercito nelle strette del Tirolo; e quella istessa [p. 169 modifica]infelice ventura de’ fuggitivi gli negavano i vincitori, se i cavalieri napoletani, allora nelle prime armi, non avessero combattuto con valor degno di agguerriti squadroni; soldati ed uffiziali onoratamente morirono; il generale Cutò cadde ferito nel campo, e fu prigione; il principe di Moliterno capitano di centuria, colpito di scimitarra nel viso, rimase orbato di un occhio. Al grido delle nostre armi i Francesi sospesero la preparata guerra contro il regno, certi di trovarlo difeso da prodi soldati; e Bonaparte, per iscemare di quello ajuto il maggior nemico, offerì armistizio al re di Napoli; il quale, volte le speranze a timori, accettò l’offerta, e per patti stipolati in Brescia rivocò di Lombardia i suoi reggimenti, e dall’armata anglo-sicula i suoi vascelli; facendo le mostre della pattuita neutralità, comechè in petto crescessero il sospetto e la nemicizia per sentire le occupate città d’Italia ordinarsi a repubblica, avanzare il pericolo rapidamente come le conquiste, e ’l general Bonaparte correre la bassa Italia sino a Livorno, con una legione debole, sola, sicura nei nome e nel fatto del condottiero.

Cosicchè all’avviso che il maresciallo Wurmser con esercito nuovo scendeva in Italia, e che il generale francese affaticavasi a radunare le separate schiere per ripararle (diceva fama) in campo lontano, il re di Napoli, rianimate le speranze dello sdegno, scordando il fresco armistizio, spedì altri soldati alla frontiera, occupò una città (Pontecorvo) degli stati del papa, e si dispose alle ostilità. Il pontefice ancor egli, amico della Francia per fede recentemente giurata, preparò mezzi di guerra, e concertò i modi con le case d’Austria e di Napoli. Non farà quindi a’ dì nostri maraviglia che il maggior legame delle società, la fede pubblica, veggasi sciolto e spregiato da’ popoli; l’esempio cominciò da coloro che sopra gli uomini possono per isterminata forza d’imperio e di opinioni. Ferdinando di Napoli e Pio VI maturavano il momento di prorompere, massimamente che udirono tolto a Mantova l’assedio con tanta celerità da’ Francesi che mancò tempo, non che a trasportare, a distruggere le immense artiglierie che munivano le trinciere. Cacault, visti gli apparati guerrieri, dimandò al pontefice, al quale era ministro, i motivi dell’armamento, e n’ebbe risposte lente, ingannevoli. ma nuove protestazioni di amicizia e di pace. Venne in Napoli, e qui, per troppo sdegno meno finto il discorso, udì che la occupazione di Pontecorvo era stata accordata col sovrano del luogo; che se i nemici del papa entrassero ne’ suoi stati, vi entrerebbero per altra frontiera i Napoletani: ma che frattanto rimarrebbe fede all’ armistizio, Cacault, delle risposte dissimulate del pontefice, altiere del re. menzognere di entrambo, avvisò il governo di Francia e ’l generale d’Italia. E si stava in punto delle mosse quando giunse nuova che Bonaparte, visti gli errori di Wurmser, assaltate or l’una or [p. 170 modifica]l’altra le divise squadre imperiali, per tre battaglie le ruppe, e ritornò all’assedio di Mantova, trovando nelle trinciere gran parte de’ munimenti colà rimasti; però che tanto celere fu la vittoria che mancò tempo al presidio, come poco innanzi era mancato agli assediatori, di trasportare o distruggere macchine ed opere. Tremarono i governi contrarii alla Francia, quanto più mentitori e superbi tanto divenuti più timidi e vili. La corte di Roma riprotestò l’amicizia, ma i Francesi occuparono le Legazioni, e non concederono sospension d’armi che a patti gravi per la santa sede. Il re delle Sicilie pregando che l’armistizio di Brescia divenisse pace durevole, spedì ambasciatore a Bonaparte e al Direttorio il principe di Belmonte, il quale in Parigi li 11 di ottobre ottenne pace a’ seguenti patti:

«Napoli, sciogliendosi dalle sue alleanze, resterà neutrale; impedirà l’entrata ne’ suoi porti a’ vascelli, oltre il numero di quattro, de’ potentati che sono in guerra; darà libertà a’ Francesi carcerati ne’ suoi dominii per sospetto di stato; intenderà a scuoprire e punire coloro che involarono le carte al ministro di Francia Makau; lascerà libero a’ Francesi il culto delle religioni; concorderà patti di commercio che diano alla Francia ne’ porti delle due a Sicilie que’ medesimi benefizii che le bandiere più favorite vi godono; riconoscerà la repubblica Batava, e la riguarderà compresa nel presente trattato di pace.»

E per patti secreti:

«Il re pagherà alla repubblica francese otto milioni di franchi (due milioni di ducati); i Francesi prima che si accordino col pontefice, non procederanno oltre la fortezza di Ancona, ne seconderanno i moti rivoluzionarii nelle regioni meridionali dell’Italia.»

Questo ultimo patto, e il silenzio su i Napoletani prigionieri per cause di maestà, costarono al nostro erario un milione di franchi in doni e seduzioni; e perciò l’ingegno della tirannide e l’avarizia de’ liberi governi fecero pagare a noi stessi l’infame prezzo delle nostre miserie. Quella pace non si stringeva (tanto il Direttorio era sdegnato contro Napoli) se Bonaparte non consigliava dissimular le ingiurie sino a che l’Austria fosse vinta ed oppressa. «Oggi, ci diceva, mancherebbero le forze al risentimento, e verrà certo il giorno punitore delle colpe presenti e delle future, perciccehè gli odii de’ barbari per la Francia non cesseranno prima che tutto il nuovo diventi antico.» In quel tempo le sorti della repubblica erano prospere; l’esercito piemontese vinto, tre eserciti d’Austria disfatti, Mantova cadente, fermata pace con la Sardegna e con la Prussia e la Spagna, chetate le Russie perla morte della imperatrice Caterina e l’indole pacifica del successore, ordinati a repubblica e collegati alla Francia alcuni stati d’Italia, tributarii o neutri gli altri principi italiani. Così stavano le cose al finire dell’anno 1796. [p. 171 modifica]

XXIV. La pace, come già l’armistizio, essendo scaltrezze del governo di Napoli per aspettare miglior tempo alla guerra, vedevasi crescere di battaglioni l’esercito, di munimenti la frontiera, di tributi l’erario. Nè cessando le provvidenze chiamate di sicurezza pubblica, ci gravavano due guerre, la esteriore, la interna; e i danni e i pericoli di entrambe. Una speranza rallegrò gli animi al sentire che dopo la caduta di Mantova e le altre sventure degli eserciti d’Austria, fermato armistizio, si apriva in Leoben conferenza di pace; e che negoziatore per lo Impero fosso il marchese del Gallo ambasciatore a Vienna della corte di Napoli. Egli, sul confine della giovinezza, di sottile ingegno, e tale in viso che appariva ingenuo più del vero, piacque allo imperatore che lo mandò, avuta permissione dal re di Napoli, a trattare in Leoben con Bonaparte. Tenemmo ad onore che un Napoletano maneggiasse l’occorrenza più grande di Europa. e confidavamo che i nostri interessi non sarieno traditi o negletti. Sospesa la guerra, riaperte le strade d’Italia con Alemagna, posate le ansietà de’ sovrani di Vienna e di Napoli, fu loro cura il viaggio dell’arciduchessa Clementina per venire sposa del principe Francesco; nozze, come ho detto altrove, fermate sette anni avanti, e non celebrate per la età infantile d’ambo gli sposi. L’arciduchessa andava a Trieste, dove navilio napoletano l’attendeva; lo sposo la incontrava a Manfredonia; le religioni del matrimonio si fecero a Foggia. Accompagnarono il principe i regali genitori, con seguito infinito di baroni e di grandi; e celebrate in giugno le nozze, tornarono in Napoli nel seguente luglio, tra feste convenevoli ad erede della corona. Il re dispensando largamente premii e doni, nominò il general Acton capitan-generale, nulla più restando, per entrambo, a donare, a ricevere; inaridito il favore e l’ambizione. Quindi coprì quarantaquattro sedi vescovili, rimaste lungo tempo vacanti per goder delle entrate; diede gradi, titoli e fregi di onore per azioni di guerra o di pace. Solamente la sposa, vaga giovinetta che di poco soperchiava i quindici anni, mostrava in volto certa mestizia, più notata nella universale allegrezza e più compianta. Il re diede a parecchi Foggiani titolo di marchese, in ricompensa del maraviglioso lusso nelle feste delle regali nozze; e subito mutarono i costumi di quelle genti che, agricoli o pastori, si volsero alle soperchianze del gran commercio ed agli ozii de’ nobili; ozii crassi perchè nuovi e insperati. Così le dignità mal concesse accelerarono il decadimento della città, compiendo in breve ciò che lentamente i vizii della ricchezza producevano.

XXV. In quell’anno fu menato schiavo da pirata tunisino il principe di Paternò, come racconterò brevemente perchè il fatto racchiude parti pubbliche, e perchè di quel principe dovrò dir lungamente in altro libro. Egli nobile, ricchissimo, e di ricchezze [p. 172 modifica]millantatore orgoglioso, veniva di Palermo, sua patria, in Napoli presso il re agli officii di corte, sopra nave greca-ottomana, perciò franca da’ pirati; e seco viaggiavano altri signori e un mercante di gioje e d’oro. Per tante ricchezze accesa la cupidigia del Greco, accordatosi co’ pirati che scorrevano i mari della Sicilia, fu predato il legno poco lontano dal porto; e i ladroni carichi e lieti del bottino portarono in schiavitù i viandanti. Il principe della barbara prigionia scrisse lettere miserevoli al re, il quale impose al suo ambasciatore presso la Porta di cercar vendetta de’ pirati, e maggiore e più giusta del perfido Greco. Quindi rispose al Paternò sensi amorosi, promettendo regia protezione presso il governo turco, assumendo paterna cura della famiglia, ed esortandolo a cristiana filosofia nella schiavitù. I richiami presso la Porta nulla valsero, fuorchè protestazioni di amicizia e di zelo; ma i rei non furono puniti, le involate ricchezze (duecentomila ducati) non rendute, nè fatto libero il principe prima del riscatto di un milione di piastre, Per lo che scemò non cadde la sua ricchezza.

XXVI. Non era guerra in Italia se non de’ Francesi col papa, il quale manteneva in arme molte milizie sotto l’impero del Colli generale tedesco, e faceva erger campi ed altre opere militari su la frontiera; quindi scrisse all’imperatore gli ostili proponimenti, e rassegnando le sue forze, conchiudeva: «Se non bastassero, aggiungerei le forze di Dio, dichiarando guerra di religione.» Bonaparte pubblicò il foglio venutogli in mano per intercetto corriere; ed avvisando di que’ fatti il direttorio, mosse le schiere con editto che diceva: «Il papa ricusa di eseguire il fermato armistizio; mostrasi lento e schivo alla pace, leva nuove milizie, arma i popoli a crociata, cerca alleanza con la casa d’Austria; rompe, viola, calpesta le giurate fedi. L’esercito della repubblica entrerà nel territorio romano, difenderà la religione, il popolo, la giustizia; guai solamente a chi ardisse di contrastargli.» Nel qual tempo scriveva il direttorio a Bonaparte: «La religione romana, irreconciliabile con le repubblicane libertà, essere il pretesto e l’appoggio de’ nemici della Francia. Egli perciò distruggesse il centro della unità a romana, e, senza infiammare il fanatismo delle coscienze, rendesse odiato e spregevole il governo de’ preti; sì che i popoli vergognassero d’obbedirgli, e ’l papa e i cardinali andassero a cercare asilo e credito fuori d’Italia.» Ma nella mente di Bonaparte i tempi e i destini di Roma non erano maturi.

Le schiere di lui, Francesi e Italiani delle nuove repubbliche, fugati facilmente i papalini, occuparono le tre legazioni, parte delle Marche, Perugia e Foligno. Bonaparte in Ancona ordinava meno la guerra che la politica degli stati nuovi, quando il principe di Belmonte ambasciatore di Napoli gli riferì essere desiderio del suo re [p. 173 modifica]che l’armistizio tra ’l papa e la repubblica fosse guida e principio della pace. E poichè Bonaparte, numerando i sofferti oltraggi, diceva impossibile adempimento di quel desiderio, il principe, per semplicità o astuzia, ma incauto, mostrò i mandati del suo governo; e il generale vi lesse; «Degli affari di Roma essere il peso così grave all’animo del re, ch’egli in sostegno degli amichevoli officii avrebbe mosso l’esercito.» Al che l’altro: «Non ho, tre mesi addietro, abbassato l’orgoglio pontificale, perchè supposi il re di Napoli confederarsi contro la Francia, in tempi ne’ quali guerra maggiore impediva rispondergli. Oggi (senza scemare gli eserciti acquartierati, solo per prudenza, incontro all’Austria), trentamila Francesi sciolti dall’assedio di Mantova, e quarantamila già mossi dalla Francia stanno liberi e vogliosi di guerra. Se dunque il re di Napoli alza segno di sfida, voi ditegli che io l’accetto.» Così a voce. Rispondendo alla nota scrisse cortesemente, essere gravi i mancamenti del pontefice, più grande la modestia della repubblica; trattar quindi la pace, ma togliendo a Roma le armi temporali; e confidando alla sapienza del secolo vincer le sacre; essergli gradevole aderire alle commendazioni de’ sovrani di Napoli e di Spagna.

La pace con Roma fu poco appresso conchiusa in Tolentino; e per essa il pontefice, oltre milioni di danaro e cavalli ed armi e tesori d’arti e di lettere, perdè i dominii delle legazioni e della fortezza di Ancona; restò impoverito, adontato e scontento. Gli stati passati alla Francia ottennero di ordinarsi a repubblica per legge; gli stati vicini per tumulti. E nella stessa Roma i cittadini, ricordando la gloria, senza la virtù, degli avi, si levarono parecchie volte a ribellione; ma perchè pochi, e imprigionati i capi, dispersi gli altri, fu sempre misera la fine. La plebe parteggiava dal pontefice, non per affetto ma per impeto cieco, disonesti guadagni e impunità. Era dicembre, Alcuni patriotti (così erano chiamati gli amanti di repubblica) inseguiti da birri, fuggirono per asilo nella casa dell’ambasceria di Francia; e con seco entrarono i persecutori ed alcuni del popolo. Il luogo, gli usi, l’onore di proteggere gli oppressi, e l’aura e il nome francese, fecero che tutti dell’ambasceria si ponessero a scudo de’ fuggiti; ma quelle cose istesse. e l’aspetto di ragguardevoli personaggi nulla ottennero dagli assalitori, i quali uccisero il generale. Duphot, chiaro in guerra, e minacciarono l’ambasciatore Giuseppe Bonaparte, fratello al vincitore d’Italia. Nella città si alzò tumulto; nel Vaticano niente operavasi a sedarlo, nè a punire o ricercare gli assassini di Duphot. Era scorso il giorno; molte lettere aveva scritte l’ambasciatore a’ ministri di Roma; nessun uomo, nessun foglio del governo rassicurava gli animi e le vendette. Perciò, abbassate le insegne di Francia, [p. 174 modifica]partirono da Roma i Francesi, e tornò lo stato di guerra. Il governo romano, a quegli aspetti di nemicizia, spedì oratori al ministro di Francia, e lettere a’ potentati stranieri, delle quali caldissime e preghevoli al vicino sovrano delle Sicilie. Ma niente poteva quanto il disegno del direttorio, e de’ popoli francesi e italiani; fu rammentata la morte di Basville, le brighe del Vaticano, le paci sempre iradite, le promesse mancate, la necessità di cacciare d’Italia la carie che da tanti secoli la rode. E fu subita la vendetta; chè il 28 del dicembre morì Duphot, e il 25 di gennajo le schiere francesi movevano di Ancona contro Roma, per comando venuto da Parigi.

Le guidava il general Berthier; poichè Bonaparte, fermata la pace dli Campoformio, era andato in Francia per trionfare, non come gl’imperatori dell’antichità (però che alla repubblica francese mancò il senno di ravvivare l’augusta cerimonia del trionfo), ma per pubbliche lodi e accoglienze. Il presidente del direttorio lo chiamò l’uomo della provvidenza; in tutte le adunanze, ne’ circoli, tra le moltitudini, si ripeteva ciò che stava scritto sopra bandiera donatagli dalla repubblica. «Ha disfatto cinque eserciti; trionfato in diciotto battaglie e sessantasette combattimenti; imprigionato centocinquantamila soldati. Ha mandato centosessanta bandiere alle casi militari della Francia; milacentocinquanta cannoni agli arsenali, duecentomilioni all’erario, cinquantuno legni da guerra a’ porti; tesori d’arti e di lettere alle gallerie e biblioteche. Ha fermato nove trattati, tutti a gran pro della repubblica. Ha dato libertà a diciotto popoli.» Ma più che il desiderio del trionfo, egli portava il disegno di altra guerra, e la speranza di maggiori glorie. Per la pace di Campoformio ebbe la Francia frontiere più vaste, meglio difese tra l’Alpi e il Reno; sorse la repubblica cisalpina, e spuntarono altre repubbliche; finì la veneta; e per i suoi stati ceduti all’impero si agguagliarono le disparità di dominio che le nuove avean prodotte; fu misera la sorte de’ Veneziani ma condegna di popolo tralignato. Il re delle Sicilie riconobbe la repubblica cisalpina. Parve durevole quella pace perchè danno alla Frania confini desiderati e naturali, ed all’Austria, benchè sempre vinta, una frontiera in Italia meglio configurata dell’antica, e dominii più vasti, e maggior numero di soggetti, soffrivano danno alcuni principi del corpo germanico incapaci di guerra, e la repubblica veneziana, prima invilita e allora spenta. I negoziatori d’ambe le parti ebbero premii da’ proprii governi, lodi dal mondo; il marchese del Gallo, che aveva sostenute le ragioni dell’impero, tornò in Napoli ricco di doni e di fama.

XXVII. Erano altri cehe di pace i destini di Europa; e di già la turbavano i fatti di Roma. Il generale Berthier, negando ascolto agli ambasciatori del papa ed agli offizii delle corti di Vienna, Napoli e [p. 175 modifica]Spagna, fece chiaro il proponimento di guerra. E allora in Roma la moribonda potestà concitò alle difese, lusingando la coscienza dei popoli con le arti sacre di processioni, preghiere, e giubileo; e col trovato del cardinal Caleppi che le immagini delle madonne, rispondendo al pianto de’ sacerdoti, versavano dalla tela e dal legno lagrime vere. In mezzo alle processioni e miracoli pervenne in città l’editto di Berthier, che annunziava già vicino l’esercito punitore degli assassini di Duphot e di Basville, ma proteggitore del popolo e delle sue ragioni, obbediente alla disciplina; timori, speranze, agitazioni, secondo le parti, si levarono. E poco appresso all’editto il luccicare delle armi, e le bandiere dei tre colori, viste sopra i colli di Roma, bastarono a’ novatori per adunarsi tumultuosamente a Campovaccino; e gridando libertà, ergere l’albero che n’era il segno. Ambasciatori della non ancora nata repubblica andarono a Berthier, attendato alle porte di Roma, per pregarlo ad entrare in città e stabilire gli ordini nuovi co’ diritti sovrani del popolo e della conquista. Egli entrando pomposamente per armi, suoni, e plausi, decretò cessato il tirannico impero de’ preti, e ristabilita la repubblica di Roma da’ discendenti di Brenno, che davano libertà nel Campidoglio a’ discendenti di Camillo; rammentava Bruto, Catone ed altri nomi e memorie che rialzavano la eloquenza del discorso, e la solennità di quell’atto. Ciò ai 15 di febbrajo dell’anno 1798. Il pontefice Pio VI, in que’ tumulti chiuso in Vaticano, ignaro di governo, immobile, silenzioso, avrebbe fatto maraviglia di serenità e di filosofica rassegnazione se necessaria pazienza non togliesse virtù a quelle mostre. Non governava, nè partiva; era intoppo e scandalo alla repubblica; della quale andato ambasciatore il general Cervoni per chiedergli che in qualità di pontefice riconoscesse il nuovo stato, egli, preparato alle risposte, disse: «Mi viene da Dio la sovranità; non mi è lecito rinunziarla. Ed alla età di ottanta anni non mi cale della persona e degli strazii.» Bisognando a discacciarlo i modi della forza, fu investito il Vaticano, disarmate le guardie pontificie, scacciati i famigli, messo il suggello agli appartamenti, e infine impostogli che in due giorni partisse, Obbedì, e il dì 20 di quel mese con piccolo corteggio uscì di Roma per la volta di Toscana.

Io ne compio la istoria. Si fermò à Siena, ma, spaventato da’ tremuoti, passò alla Certosa di Firenze; e poi (per sospetti e comandamenti della repubblica francese) a Parma, a Tortona, a Turino, a Briançon. Sommo pontefice, cadente per estrema vecchiezza, infermo, afflitto, era portato prigioniero di città in città, partendosi prima degli albori ed arrivando nella notte per celarlo alle viste de’ devoti. Nè a Briançon quietò, ma fu menato nella fortezza di Valenza; e di là volevano trasportarlo a Dijon; ma ne fu libero per [p. 176 modifica]morte desiderata, che lo colpì ai 29 di agosto del 1799. Posero le spoglie in oscuro deposito dove restarono sino a che decreto consolare, segnato Bonaparte, non dicesse: «Considerando che il corpo di Pio VI sta da sei mesi senza gli onori del sepolcro, che sebbene quel pontefice fosse stato, quando ci vivea, nemico alla repubblica, lo scusano vecchiezza, perfidi consigli e sventure; che è degno della Francia dare argomento di rispetto ad uomo che fu de’ primi della terra; i consoli decretano che le spoglie mortali di Pio VI abbiano sepoltura conveniente a pontefice; e che si alzi monumento che dica di lui e nome e dignità.» Fu eseguito il decreto; quindi le ceneri trasportate in Roma, e deposte nel tempio di San Pietro sotto il pontificato del successore.

XXVII. Alla partita di Pio VI fuggirono da Roma le antiche autorità, cardinali, prelati, personaggi più chiari; venutane gran parte in Napoli ad accrescere la pietà per i sacerdoti, lo sdeegno per la Francia. Si vedevano lungo le frontiere di Abbruzzo e del Liri, stendardi, squadre francesi, alberi di libertà; e con essi, spogli, violenze, povertà di cittadini, e, sotto specie di repubblica, vera tirannide. Chi prevedeva i futuri benefizii di stato libero tollerava le passeggiere licenze della conquista; chi giudica e vive del presente, abborriva e temeva gli ordini nuovi. Cosicchè per i Napoletani la vicina libertà fu più ritegno che stimolo all’esempio. Il generale Balait venne messaggero di Berthier per chiedere al nostro governo l’esilio degli emigrati, il congedo dell’ambasciatore inglese, la espulsione del general Acton, il passaggio per il territorio napoletano a’ presidii di Benevento e Pontecorvo. E soggiungeva che il re, oggi feudatario della repubblica romana, perchè già della chiesa, offrisse ogni anno il solito tributo, e pagasse in quel punto centoquarantamila ducati, debiti alla camera di Roma. Così per ambasciata; e il re sapeva che i suoi stati farnesiani erano, come di nemico, sottoposti a sequestro. Ira giusta e grande lo prese; e rispondendo all’ambasciatore che ne tratterebbero, per ministri, i due governi; fatto occupare con buone squadre le città di Pontecorvo e Benevento, afforzò le linee della frontiera. Perciò sdegni, sequestri, sospetti, vigilie, tutte le condizioni della guerra, fuorchè le battaglie, travagliavano le due parti.

Tra le quali agitazioni venne riferito da Sicilia, che la flotta già di Venezia, ora francese, sciolta da Corfù, correva il mare di Siracusa; e, giorni appresso, che ne’ porti dell’isola erano approdati legni innumerevoli francesi, da guerra, da trasporto, carchi di soldati e cavalli; altri avvisi soggiunsero esserne partiti; ed altri, che l’isola di Malta, scacciatone l’ordine de’ cavalieri, era stata presa da’ Francesi, e subito il navilio salpato per novelli destini; che Bonaparte stava imbarcato sul vascello l’Oriente; che il disegno era [p. 177 modifica]ignoto, smisurati gli apparecchi. Alle quali notizie il governo di Napoli più temendo per la Sicilia che per l’altro regno, fece ristaurare le antiche fortezze, alzar nuove batterie di costa, meglio guardare i porti, presidiare l’isola di ventimila soldati, e quaranta migliaja di milizie civili, concertare i segnali a prender l’armi, e i luoghi dove accampare. E a maggiori cose provvedendo, strinse nuove alleanze, ma secrete, con l’Austria, la Russia, la Inghilterra, la Porta. Delle quattro confederazioni uno il motivo: la vendetta; uno il pretesto, ristabilire la quiete di Europa. Per l’alleanza con l’Austria, durevole quanto la guerra, l’imperatore terrebbe stanziati nel Tirolo e nelle sue province italiane sessantamila soldati; il re, nelle sue frontiere, trentamila; e l’uno e l’altro accrescerebbe il numero quanto il bisogno; quattro fregate napoletane correbbero l’Adriatico in servizio delle due parti. Il ministro Thugut per l’Austria, il duca di Campochiaro per Napoli, fermarono il trattato, a Vienna, il 19 di maggio del 1798.

L’imperatore di Russia Paolo I fu magnanimo, concedendo senza prezzo o mercede una flotta in difesa della Sicilia, e battaglioni di soldati, duecento Cosacchi, le corrispondenti artiglierie di campagna, per combattere in Italia sotto il generale supremo del re di Napoli. Alleanza per otto anni, fermata in Pietroburgo il 29 di novembre dal marchese di Serracapriola per le nostre parti, e da Bezborodko, Kotschoubey e Rostopchin per la Russia. L’imperatore amaya Serracapriola, che n’era degno per prudenza e virtù. La lega con la Inghilterra, negoziata il 1° del dicembre in Londra tra ’l marchese del Gallo e ’l cavaliere Hamilton, stabiliva che la Gran Bretltagna terrebbe nel Mediterraneo tanto navilio che soperchiasse al navilio nemico; e Napoli vi unirebbe quattro vascelli, quattro fregate, quattro legni minori; e darebbe al bisogno dell’armata inglese del Mediterraneo tremila marinari di ciurma. E infine con la Porta ottomana ripeterono in quei giorni medesimi le proteste antiche di amicizia; quello imperatore promettendo a richiesta del re dieci migliaja di Albanesi.

XXIX. Le cure di guerra grandi e sollecite non distoglievano dalle tristizie de’ processi, ed anzi per nemico più vicino e felice imperversarono i sospetti; le autorità di polizia vedevano in ogni giovine un congiurato; in ogni moda o foggia di vestimento un segno di congiura; la coda dei capelli tagliata, i capelli non incipriati, i peli cresciuti sul viso, i calzoni allungati sino al piede, i cappelli a tre punte e piegati; certi nastri, o colori, o pendagli, erano colpe aspramente punite, apportando prigionia e martorii come in cause di maestà. Quindi stavano le carceri piene di miseri; le famiglie di lutto, il pubblico di spavento; e tanto più che profondo silenzio copriva i delitti e le pene. Alcuni prigionieri erano stati uditi, [p. 178 modifica]altri non mai; nessuno difeso; come tirannide usa con gl’innocenti.

Benchè nuova legge stabilisse che la infamia per i delitti o le pene di maestà non si spandesse nel casato ma rimanesse intera sul colpevole, e benchè fosse vietato, tanto più nella reggia, difendere o raccomandare i creduti rei, pure due donne, madre di due prigioni, la duchessa di Cassano e la principessa Colonna, questa grave d’anni, quella uscita di giovinezza, entrambe specchi di antica costumatezza, vinte dal dolore, andarono in vesti nere alla regina; e or L’una or l’altra confusamente parlando e piangendo insieme, la pregarono in questi sensi: «Vostra maestà che è madre può considerare il dolor nostro, che madri siamo di miseri figliuoli. Eglino da quattro anni penano in carcere, e quasi ignoriamo se vivono. Le nostre case stanno in lutto; genitori, sorelle, parentado, non troviamo quiete, e dalla prima orrida notte non spunta riso da’ nostri labbri. Senta pietà di noi, ci renda i figli e la pace; e Dio la rimuneri di queste grazie con la felicità della sua prole. Ma se fossero rei? la regina riprese. Ed elle per dolore affrettando il discorso, ad una voce replicarono : «Sono innocenti; lo attesta il silenzio degl’inquisitori, la tenera età de’ nostri figli, e gli onesti costumi, la religione verso Iddio, l’obbedienza che ci portavano, e nessuna macchia, nessun fallo, nemmeno que’ leggieri che si perdonano alla inesperta gioventù.» Nè altro dissero, instupidite e accommiatate. Più de’ discorsi l’aspetto dolentissimo e la egregia fama delle donne commossero la regina; non così da far grazie alla reità degli accusati, ma perchè sospetto della innocenza. Ella inflessibile a’ rei, non bramava travagliare i giusti; diversa da’ ministri suoi, che dall’universale martirio traevano grandezza e potere. Quei principi, credendo ad inique genti, furono spietati non ingiusti; sino ad altra età, che, non più ingannati, ma volontarii, cruciarono i soggetti, innocenti o rei, per amore di parti e insazietà d’impero.

Ma in quell’anno 1798, men guasto il senno è l’animo di loro, il re, dopo il riferito discorso delle due donne, scrisse lettere alla giunta di stato che imponevano di spedire il processo degli accusati di maestà. i quali da quattro anni languivano nelle prigioni, stando in sospeso la giustizia, con grave danno dell’esempio , e forse travagliando immeritamente gran numero di sudditi infelici. Per quello stile di pietà, nuovo, inatteso, intimorendo la giunta (che tutti tremano della tirannide; chi la esercita, chi la sopporta), i duo primarii inquisitori, Castelcicala e Vanni, consultarono. Nulla i processi provavano, ed eglino temendo l’ira de’ principi, le grida popolari, la vendetta degli accusati, macchinarono partiti estremi e disperati, cosicchè a tutti, raccolti nel seguente giorno in magistrato, letto il messaggio del re, vista la necessità di spedire i referti, [p. 179 modifica]Vanni disse; «I processi, che sono tanti, almeno quanti gli accusati, voi vedrete compiuti nelle parti che agli inquisitori spettavano;: manca per la pienezza la pruova antica, la tortura, che i sapienti legislatori prescrissero indispensabile ne’ delitti di maestà, ed anche allora che le altre pruove soperchiassero. Così per legge, ne’ casi presenti tanto più necessaria, perchè incontrammo rei pertinaci al mentire o al tacere; promessa di comune silenzio chiude le labbra di que’ malvagi, ma forza di giustizia e di tormenti snoderà la parola, da infame sacramento rattenuta. Io, nella qualità che il mio re mi ha concessa, d’inquisitore e di fiscale, dimando che i principali colpevoli, cavaliere Luigi de’ Medici, duca di Canzano, abate Teodoro Monticelli e Michele Sciaronne, sieno sottoposti allo sperimento della tortura, nel modo più acerbo prefisso dalla legge con la formola torqueri acriter adhibitis quatuor funiculis. Dopo del quale atto, compiuta la procedura, io dimanderò in nome del mio re quali altri esperimenti crederò necessarii alla integrità delle pruove. Non vi arresti, o giudici, debole ritegno di martoriare que’ colpevoli, che voi stessi a maggior martoro e più giusto condannerete, quando tra poco si tratterà non del processo ma del giudizio.» Ciò detto, levossi dalla seggia, e girando intorno il viso imperterrito, di pallore naturale ricoperto, con sguardi terribili come di fiera, soggiunse: «Son due mesi che io veglio, non di fatica su i processi, ma di affanno per i pericoli corsi dal mio re; e voi, giudici, vorrete sentir pietà d’uomini perfidi, che le più sante cose rovineranno, se gli ajuta fortuna, e non gli opprime giustizia? E perciò, ripetendo la istanza per la tortura de’ rei maggiori, io vi esorto alla giustizia, alla fede verso il re, alla intrepidezza, ch’è la virtù più bella di giudici chiamati a salvare un regno.»

Il magistrato Mazzocchi, presidente della giunta, rispose al Vanni: «Pompeggia su i vostri labbri la frase di mio re, nella quale nascondete, sotto specie di zelo, soperchianza e superbia; dite d’ora innanzi, e meglio direte, nostro re.» Poi volto a’ giudici, e chiesto il voto su la istanza del Vanni, tutti la ributtarono come spietata ed inutile, però che l’inquisitore avea tante volte accertato evidenti le pruove, chiari i misfatti e i colpevoli. Solo fra tutti alzò minaccioso la voce il principe di Castelcicala, che sostenendo gli argomenti dell’inquisitore, ed aggiungendo i suoi, diceva giusta e necessaria la dimandata tortura; chiamava quella riluttanza de’ giudici debolezza o colpa; ne agitava la coscienza e la timidezza, con dire che il re ne prenderebbe vendetta. Tutte le insidie adoprò, che forse egli medesimo ha obliate; ma oggi la storia le palesa perchè vadano di età in età, con le debite infamie, agli avvenire. Bramava il Castelcicala la tortura del Medici, sperando che [p. 180 modifica]vi morisse di vergogna e di dolore; o che scampato, restasse inabile agli offizii, infamato se non d’altro, dalla infamia della pena. Ma rimasto fermo il voto de’ più, la giunta rispose al regale messaggio, essere compiuti i processi, per quanto volevano le leggi, ed avea suggerito l’ingegno e l’arte degl’inquisitori; mancar null’altro che il giudizio; ma essere la giunta nominata solamente ad inquisire.

Il re compose altra giunta, della quale il medesimo Vanni fiscale. I processi, che questi diceva forniti e portava in giudizio, risguardavano ventotto accusati; tra’ quali udivansi nomi chiari per nobiltà, de’ Medici, Canzano, di Gennaro, Colonna, Cassano; ed altri chiarissimi per dottrina, Mario Pagano, Ignazio Ciaja, Domenico Risceglia, Teodoro Monticelli. Il fiscale, riferendo le denunzie, le colpe, le pruove, amplificandole a danno, e tacendo le scuse, dimandava, per cinque la morte, preceduta dai tormenti della tortura, spietati come sopra cadaveri, sia per incremento di supplicio, sia per tirarne altri nomi di complici e di fautori. Al Medici e ad altri tre (que’ medesimi accennati dalla giunta d’inquisizione) la sola tortura, per gli argomenti già riferiti, ed ora con maggior impeto ripetuti. E per i rimanenti diciannove, continuazione di carcere e di procedura, sperando migliori pruove dalle confessioni per tortura, e dal tempo. Parlarono a difesa gli avvocati; e benchè magistrati scelti dal re a quell’uffizio, amanti e devoti alla monarchia, rotti nel discorso e tempestati dal Vanni, sostennero animosamente le parti degli accusati. Giusti furono i giudizi, che ne decretarono la innocenza e la libertà. Usciti del penoso carcere quei ventotto ed altri parecchi, la dimostrata ingiustizia della prigionia, la morte in essa di alcuni miseri e ’l racconto de’ patiti strazii, generarono lamento universale; tanto che il governo per iscolparsene unì il suo sdegno allo sdegno comune, ed indicando il Vanni fabbro di falsità, lo depose di carica, lo cacciò di città, l’oppresse di tutti i segni della disgrazia; il principe di Castelcicala, suo compagno alle colpe, se ne mondò, gravandone il suo amico infelice; il general Acton simulò di allontanarsi da’ carichi dello stato; altri uomini, altre forme si videro nel ministero, ma le cose pubbliche non mutarono. Sgomberate le carceri di alcuni prigioni, ripopolavansi di molti; gli stessi uomini malvagi rimasero potenti; le spie, la polizia, i delatori, non caddero nè scemarono; Castelcicala fu ministro per la giustizia; ed al Vanni passavano in secreto ricchi stipendii e consolatrici promesse.

XXX. In mezzo alle riferite male venture della città, si udì arrivato in Egitto il navilio di Francia, e sbarcati con Bonaparte quarantamila soldati che prendevano il cammino di Alessandria. Palesato il disegno di quella impresa, il napoletano governo si rinfrancò per [p. 181 modifica]vedere allontanato il pericolo dalla Sicilia; ed accolse; e spandeva le voci trovate dalla malignità, che dicevano scaltrezza del direttorio cacciare della repubblica uomo ambizioso e potentissimo, e mandarlo in paese dove perderebbe vita o riputazione per nemico infinito, e clima pestifero ed invincibile. Pochi dì appresso giunse nuova della battaglia navale di Aboukir; per la quale l’ammiraglio inglese Nelson, arditamente manovrando, aveva prese o bruciate le navi di Francia, ancorate dopo il disbarco dell’esercito in quella rada, stoltamente sicure dagli assalti: talune da guerra fuggirono in Malta, ed altre poche da trasporto nelle rade siciliane di Trapani e Girgenti, dove gli abitanti non fedeli alla pace, spietati alla sventura di quelle genti, e sordi alla carità di rifugio, ricevettero i Francesi ostilmente, negando asilo, predando i miseri avanzi della disfatta, uccidendo alcuni marinari, fugando i resti: mentre in Napoli si bandiva lietamente il commentario della battaglia. Poco di poi videsi far vela verso noi l’armata inglese, la stessa di Aboukir, accresciuta de’ legni predati che navigavano senza bandiera dietro a’ superbi e vincitori. Subito il re, la regina, il ministro d’Inghilterra e sua moglie, sopra navi ornate a festa, andarono incontro per molto cammino al fortunato Nelson; e, passati nel suo vascello, l’onorarono in varii modi; il re facendogli dono di spada ricchissima, e di lodi sì allegre, che non più se la vittoria fosse stata della propria armata in salvezza del regno; la regina presentandogli altre ricchezze, tra le quali un giojello col motto: «All’eroe di Aboukir»; l’ambasciatore Hamilton ringraziandolo da parte dell’Inghilterra; e la bellissima Lady mostrandosi per lui presa di amore. Tutti vennero in Napoli alla reggia, tra pazza gioja che si propagò nella città; e la sera, come usa nelle felicità pubbliche o della casa, fu illuminato il gran teatro; dove al giugnere dei sovrani e di Nelson si alzarono dal popolo infinite voci di evviva, confondendo insieme i nomi e le geste. La regina, le dame della corte, le donne nobili, portavano fascia o cinto gemmato, con lo scritto : «Viva Nelson.» Intanto le navi trionfanti e le vinte, ancorarono, contro i trattati, nel porto: ed allora l’ambasciatore di Francia Garat, presente a’ fatti, e schernito documento di pace tra i due governi, facendo oneste lamentanze ni ministri di Napoli, sentì rispondere che i legni inglesi erano stati accolti per la minaccia dell’ammiraglio di bombardare (quando fosse negato l’ancoraggio) la città: non dando, per la concitata pubblica gioja, nè scusa, nè risposta.