Scola della Patienza/Parte seconda/Capitolo II
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CAP. II
Come l’Afflittione insegna la Compassione, e l’Astinenza
E chi è quello, di grazia frà gl’huomini, che, non dico in vent’anni, ma anche in venti giorni non senta qualche cosa contraria? Tutta la nostra vita è pienissima di calamità, e miserie. E Dio benedetto con la sua Provvidenza n’assegnò a ciascuno con giustissima bilancia la sua parte. A tutti si dà a bere dell’assentio, ma a questo un bicchiero, a quello un boccale, a quell’altro un cucchiaro, come meglio pare à Dio; E ciò si fa ancor per questa cagione, accioche un’huomo fusse toccato dal consenso, e dalla compassione d’un’altro, e s’imparasse ancora Temperanza. In che modo adunque l’afflittione insegni così la compassione, come l’Astinenza, l’andaremo noi adesso brevemente in questo capitolo dichiarando.
§. 1.
E per confermarci meglio con gl’essempi, e con la generosa patienza d’altri, ci ammonisce San Giacomo. Accioche non ci pensiamo, che quei, che patirono tanto gran cose, fossero di ferro, e di diamante, e ci dice: Elias homo erat similis nobis passibilis;5 cioè, ch’Elia era un’huomo passibile simile a noi altri. E così quelli, come questi sentirono l’acerbità dei dolori come la sentiamo noi, ma perche fecero più profitto nella Scuola della Patienza, perciò furono più patienti di noi.
Ne tanto dagli essempi, quanto dalle parole de gl’afflitti prendono conforto i poveri travagliati. Poiche fra le cose avverse impariamo a compatire a gl’altri, e consolarli, e a credere facilmente a coloro, che hanno a patire cose simili.
E questa è una delle cause principali per la quale andiamo tanti alla Scuola della Patienza, e habbiamo a essere si variamente afflitti: accioche uno compatisca al dolore dell’altro. E’ certo, che chi hà provato la povertà, non hà difficoltà in compatire a i poveri: chi è stato spesse volte infermo, subito compatisce gli infermi: E chi hà imparato in fatti ciò, che sia l’esser disprezzato, tenuto in poco conto, e da tutti calpestato, facilmente compatisce a quei che sono disprezzati, tenuti in poca stima, e calpestati: E chi è caduto in povertà compatisce facilissimamente a coloro, che hanno corso la medesima fortuna. Et essendo noi stati in diversi travagli habbiamo il medesimo sentimento ch’ebbe la Regina Didone quando disse:
Non ignara mali miseris succurrere disco. 6
Imparo alle mie spese ad haver compassione a i poveri meschini. Onde saviamente disse Eschilo poeta: Infeliciter agenti, quivis condolere, et una suspirare promptus est; morsus autem doloris nullus ad hepar penetrat.7 Ogn’uno è pronto a condolersi con i tribulati, e a sospirar con loro; Ma la forza del dolore a niuno penetra nel cuore. A questo si può benissimo aggiungere quel detto di Sofocle: Qui ipsi miserias expertil, hi soli ex aliorum afflictionibus dolorem capiunt. Quei solamente che han provato le miserie si dogliono dell’afflittioni altrui.
Note
§. 2.
S. Leone dice, che perciò a S. Pietro, Prencipe de gl’Apostoli, fù permesso, che così bruttamente cadesse, accioche essendo egli il sommo Pastore di tutti, fusse più facile a perdonar a gl’altri, che fussero caduti, e perche a questo modo si riponesse nel Principe della Chiesa il rimedio della penitenza. Quindi è che il Padre di famiglia si sdegnò così gravemente con quel servo; perche essendosi egli trovato indebitato con il suo Signore infino à gl’occhi, e havendone ottenuto la remissione, con tutto ciò non havesse voluto havere un tantino di compassione a quell’altro suo compagno, onde gli disse: Nonne oportuit, et te misereri conservi tui?2 Non dovevi tu ancora haver compassione del tuo compagno?
Quindi è che S. Paolo volendoci dare un gran conforto dice: Non habemus Pontificem, qui non possit compati infirmitatibus nostris, tentatum autem per omnia. Adeamus ergo cum fiducia ad thronum gratiae, ut misericrdiam consequamur. 3 Non habbiamo un Pontefice, che non ci possa compatire, mà si bene uno che hà patito ogni sorte di miserie, e tribulationi. E perciò ricorriamo pure con gran fiducia al trono della grazia per ottener la misericordia. Unde (Dice l’istesso in un’altro luogo) debuit per omnia assimilari fratribus, ut misericors fieret, et fidelis Pontifex ad Deum.4 Onde fù di bisogno, che s’assomigliasse a gl’altri suoi fratelli per esser un pietoso, e fedele Pontefice appresso Dio.
Et onde mai fù sì misericordiosa la Beatissima Vergine Madre di Nostro Signore, e fin’hora si chiama, ed è madre di misericordia? Certo perche imparò ancora essa a sue spese ad havere pietà de’ poveri afflitti, essendo stata ancor essa sempre esercitata in ogni sorte di miserie in questa presente vita. Et onde fù sì barbaro, e crudele quel Ricco Epulone; perche senza provar gl’incommodi della povertà. Epulabatur quotidie splendide. ogni giorno facea banchetti, e sguazzava.
Per queste cagioni Dio manda delle tribulationi a molti accioche imparino ad haver compassione a gl’altri, e siano più pronti ad aiutarli. Sentirai molti che in questo dicono la sua colpa: io non volsi credere a quell’infermo; non mi rincrebbe niente di quel poverello; non hebbi niente di compassione a quel povero afflitto, e tribulato; mi risi di chi piangea la morte de’ suoi parenti: con molta ragione adunque mi son date hora a provare l’infermità, la povertà, la mestizia, e le lagrime, perche a questo modo imparerò per l’avvenire ad haver compassione a gl’altri.
Il Profeta Geremia di questa maniera và riprendendo i mali costumi dei Moabiti. Fertilis fuit Moab ab adolescentia sua, et requievit in facibus suis, nec est transfusus de vase in vas.5 Moab fù sempre grasso, e fertile fin dalla sua gioventù, se n’è sempre stato sopra le proprie feccie, ne mai è stato mutato da uno ad un’altro vaso. Va comparando i Moabiti al vino, che stando troppo nelle sue feccie senza mutarsi piglia un cattivo odore. Li Spagnoli sogliono dire: Questo vino vien pur hora dalla madre, nè si è ancor tramutato da una botte in un’altra. Così appunto erano i Moabiti i quali essendo ricchi, e commodi per le fertilissime terre, che possedevano, non sapevano, che cosa volesse dire ne fame, ne povertà: Fertilis Moab ab adolescentia sua, et requievit in faecibus suis. Percioche i Moabiti essendo vicini a quei di Sodoma, e per l’abondanza delle cose troppo effemminati, e nutriti fra le ricchezze, e i vitij, facevano poco conto de i casti consigli della povertà. Nè fù tramutato Moab dal Vaso della Giustazia nel Vaso della Temperanza, della Castità, e della Misericordia. E per dir tutto in una parola: non spesero un dinaro nella Scuola della Patienza. Sanno solamente mangiare, bere, burlare, giocare, e imbriacarsi d’ogni sorte di piacere. Bibentes vinum in phialis, et optimo unguento delibuti, et nihil patiebantur super contritione Ioseph.6 Se ne stavano bevendo allegramente, e tutti quanti benissimo profumati; e non si curavano niente de i travagli, che pativa il povero Gioseppe. Duri affatto, e senza alcuna pietà, e sopra tutto sempre impatientissimi. Hor ecco quanto vale l’haver imparato costumi, e lettere nella Scuola della Patienza. Poiche ciò è di giovamento non solo all’istesso scolare ma a gl’altri ancora. Si che il condolersi, e l’haver compassione quì s’impara.
Note
§. 3.
Così fa Dio con molti, che con una salutifera penuria, gli riduce alla mediocrità, e alla temperanza. Vi sono molti, che stanno così ostinati nel loro proprio giuditio, che dicono, uno: Io non posso stare senza una buona tavola: l’Inedia non fa per il mio stomaco. Un’altro poi dice, il dormir poco mi fà male, e la mia testa non si contenta d’un sonno breve. Questo dice: Io non posso far la vita mia senza compagni. Quell’altro dice: Et io se non bevo molto bene, sono come un pesce in secco. Mà quando la povertà ò qualche altra calamità levano loro il cibo, i compagni, e ’l sonno, e gli mutano il vino in acqua: all’hora sperimentano benissimo in fatti quanto sia facile il vegliare, il mangiar poco, il digiunare, l’esser privo del vino, e de i compagni.
La calamità è maestra della Temperanza. Nelle scarsezze impariamo la sobrietà, e la parsimonia: E spesse volte non giova niente l’esser parco al fine.
Quanti huomini grandi, e nobili, che noi habbiamo conosciuti, hanno imparato in una prigione a mangiare con pochissima spesa, che prima la lor tavola a pena era bastante a sostener tante vivande?
Sentite, di gratia, una cosa maravigliosa, che vi farà strasecolare, ed è cosa, che fa molto al proposito nostro. Pecchio Cisalpino, huomo assai industrioso, e di grand’animo, venne in odio a un Signore assai ricco, e potente; e facendo egli una volta un viaggio, dette negl’agguati del suo nemico, e così fù preso, e come un gatto rinchiuso in un sacco, fù portato in un castello. Quivi il povero Pecchio fù messo in un’oscura, e profonda prigione: E senza, che alcuno di quei di casa sapesse mai, che cosa passasse, fù dal Signore del Castello dato in cura ad un suo più fidato servitore, con ordine severissimo, che senza far di ciò parola con nessuno l’andasse mantenendo di questa maniera: che non gli dasse altro ogni giorno che un pezzetto di pane molto scarso, e un pochetto d’acqua, con che quel meschino potesse non tanto longamente vivere, quanto sentirsi continuamente, e lentamente morire. Fra questo mentre Pecchio era cercato per tutte le Città, e luoghi di quel paese; ne essendosi esso potuto trovare, fu trovato solamente il suo cavallo macchiato un poco di sangue. Laonde sospettandosi, ch’ei fusse stato ucciso, furon fatte grandissime diligenze per trovarne l’autore. Alla fine furono ritrovati due, co’ quali si sapea, che una volta egli haveva havuto una certa rissa. Questi poveri meschini confessarono à forza di tormenti, se bene ciò non era vero, che essi l’haveano ammazzato. Onde essendo stati perciò condennati, ad uno fu tagliato il capo, e l’altro fu impiccato: E così moriron quei meschini senza haver fatto quel delitto; O Signore come son grandi, e profondi i vostri giuditij!
In tanto quell’altro meschino se ne stava stentando in quell’oscurissima prigione, e con quel modo di vivere, ò più tosto di morire, se ne passò lo spatio di dicinove anni. Non si spogliò ne si mutò giammai, ne pigliò mai altro in tutto questo tempo se non quel poco d’acqua, e quel poco di pane, che scarsissimamente gli era dato ogni giorno. Nondimeno, come egli stesso raccontò poi, ricordandosi sempre della misericordia di Dio, e della sua Santissima Madre, havea sempre una gran fiducia, e una fermissima speranza d’uscire un giorno di quella spelonca di morte. Fra tanto i suoi figliuoli li fecero far le esequie, come a morto, e divisero fra loro l’heredità. Passati dunque tutti li detti dicinove anni in sì dura prigione, se ne morì il padrone di quel Castello nemico capitale di questo povero imprigionato. E volendo il successore ingrandire un poco, e abbellire di nuovo il Castello, ordinò che vi si gettassero a terra alcune fabriche antiche. Arrivati, che furono i guastatori a questa sotterranea fossa, che non havea altra entrata, che un buco molto stretto, e gettato a terra tutto quello, che poteva impedire la nuova fabrica, trovarono questo pover’huomo, che a loro parve come un’ombra stigia con tutti i suoi vestimenti rotti, con una barba lunga fino a i ginocchi, e co’i capelli sparsi per le spalle, e tutti rabuffati. Si stupirono quei Lavoranti a un spettacolo tanto inaspettato. E subito si sparse questo caso per tutta quella terra. Vi concorse gran moltitudine di gente, come se havessero a vedere un qualche Satiro, ò qualche Fauno, ò altro simil mostro delle selve. Alcuni de’ più prattici fra quei, che vennero a vederlo furono di parere, che questo huomo non fusse così subito esposto all’aria, accioche con così repentina mutatione non venisse a perdere ò la vista ò la vita. E così trattenuto per alquanti giorni all’oscuro, lo cominciarono a poco a poco a fargli veder la luce. Quivi gli furono fatte molte dimande, come a uno, che fusse ritornato in vita dall’altro mondo. Gli fu dimandato chi egli fusse, di che casata, di che paese, donde fusse colà venuto, quanto tempo vi fusse stato ecc. Alle quali cose rispondendo, e raccontando ogni cosa per ordine, diede ad intendere a tutti la verità del fatto. Onde non solamente gli fù data la libertà, ma dopo d’esser ritornato alla casa sua gli fù ancor per ordine del Principe restituita la sua robba, che i suoi figliuoli s’havevano fra di loro divisa. Ma quello, che sopratutto fa a nostro proposito, ed è degnissimo d’esser notato, è che questo Pecchio, quando fu condotto in questa prigione havea il male della podagra, e grandemente ne pativa; mà col mangiare così parcatamente guadagnò questo, che non solamente non ne patì più mentre se ne stette in quella prigione, ma ne fu ancor sempre libero mentre visse.
Quegli, che scrisse questo fatto a memoria dei posteri; egli stesso dice queste parole: Noi parlammo con questo medesimo huomo, e dalla sua propria bocca udimmo tutte le suddette cose nella Città di Milano l’anno 1566. del mese di Novembre.1
Ecco come Dio conduce, e riduce gl’huomini dall’inferno. Ecco, come una calamitosa povertà, non solo insegna l’astinenza, e la frugalità, mà dà ancora la sanità, che per altra strada ne con qualsivoglia medicina si sarebbe giammai potuta riacquistare.
Ma noi per il più habbiamo la testa tanto dura, che quelle cose, che dovremmo imparar di buona voglia non le impariamo se non per forza. Onde alla fine il maestro nella Scuola della Patienza con gran ragione ci sollecita, e ci riprende in questo modo: Impara dunque per forza ciò, che non volesti imparar di buona voglia. Galeno è di parere che giovino grandemente a qualcuno, quando gli sopravengono, alcune subite infermità,2 e noi lo crediamo; come ancora, che non sia d’alcun nocumento alli scolari della Patienza il sentirle.
Note
§. 4.
Intendete voi questo Christiani? Il celeste medico delle anime vede ogni giorno infiniti Opimij per il mondo, che sono amalati gravemente, e oppressi da un profondo letargo, tanto, che non si curano più della propria salute, e sono per l’intemperanza loro tutti marci, e guasti. Hor che deve fare in questo caso la sollecita cura d’un fedelissimo medico? Tenta diversi rimedij, per risanar l’infermo, ma poco gli giovano. Alla fine dunque ò finge di levargli, ò pur anche gli leva del tutto le più care cose ch’egli habbia, ad effetto, e con intenzione di svegliarlo da quel mortal sonno, far che stia vigilante, ed emendi i suoi mali costumi; e a questo modo recuperi la perduta sanità. Finalmente l’infermo è forzato a confessare, e dire: Io certo mi pensavo di non haver tante forze da poter star senza queste cose, d’astenermi da queste altre, e da non conseguir quell’altre: ma hora come vedo, ò perche io voglio, ò perche devo, posso tutte queste cose, stò senza queste, m’astengo da quest’altre, e non ottengo quelle, e pure io vivo. La calamità è la maestra della Temperanza.
Quel figliuolo Prodigo, che havea dissipato tutto il suo Patrimonio, ò come imparò bene a tollerare la fame, e come galantemente lasciò tutto il vitio della crapula? Era tanto grande la fame, che haveva, che si teneva felice di poter haver un poco di pan d’avena, e quello, che prima havea a nausea il pane bianco, desiava poi riempirsi il ventre degli stessi cibi, che mangiavano i porci; e quello ch’era peggio, non havea chi gliene dasse. E però ricordandosi molto bene dell’abondanza della casa paterna, dove non haveva mai conosciuto, che cosa si fusse il brutto mostro della fame, cominciò fra se stesso ad esclamare, e dire: non già, O chi mi portasse una gallina grassa, ò un buon cappone, ò un poco di pan fresco ò bianco? Mà si bene: ò chi mi desse un poco di pan muffo? Dove, di gratia, imparò egli, e da chi questa così gran temperanza? L’imparò dalla fame, e ciò nella Scuola della Patienza. E perciò ottimamente disse Eusebio: Fames eum revocavit, quem fatuitas expulerat. 2 La fame fù quella, che richiamò colui, che il troppo mangiare haveva cacciato via. Poiche i falconi non ritornano mai da i lor padroni se non sono forzati dalla fame. Noi altri ci crediamo, che la fame sia un gran male, mà è molto maggiore l’intemperanza. Accioche dunque noi fuggiamo questa, Dio ci manda qualche volta quell’altra. Ci castiga con la fame, per insegnarci ad astenerci dalle cose vietate, e a questo modo le calamità ci servono per rimedij.
§. 5.
Tutto questo fa Dio accioche non ci piaccino con nostro danno, le cose che ci fariano male. Quindi è, ò beatelli, ch’io vedo i vostri piaceri, ma non ve l’invidio; perche sò certo, che sono molto ben salati, e molto ben impepati. Tocchigli pure a sua posta chi si vuole scottare. Iddio si porta con noi altri, come un cuoco molto destro, e avvertito, perche tutti i cibi, che ci potriano far danno, come cucumeri, funghi, meloni, e altre cosaccie simili, ce le condisce talmente, che di molto buona voglia le lasciamo stare. Et in cambio di queste cose così dannose, ci manda il piatto reale della sua tavola.
Potea parer un grande favore quello, che faceva il Rè David ad Uria, quando gli mandò dietro le vivande reali della sua tavola, come dicono le sacre historie: Secutus est eum cibus regius.3 Al medesimo modo il Rè Nabuchdonosor ordinò, che alli quattro giovinetti hebrei si dessero ogni giorno le vivande della sua propria tavola, e che mangiassero dei medesimi cibi, ch’esso mangiava, e bevessero del medesimo vino ch’esso beveva.4 Ma che sono questi cibi reali di Christo? e che cosa è questa sua bevanda? Non è altro, che la penuria di tutte le cose, nascere, vivere, e morire in estrema povertà. Dice il Salvatore: Meus cibus est (dice il Salvatore) ut faciam voluntatem eius, qui misit me, ut perficiam opus eius.5 Il mio cibo è il fare la volontà di quello, che mi hà mandato, e di finire l’opera sua. E che opera è questa? L’esser continuamente crocifisso perche Giesù Christo N.S. dal primo instante, che cominciò a stare nel ventre della Beatissima Vergine conobbe che havea da esser crocifisso, quindi è che mentre visse fù sempre crocifisso per la continua memoria della morte sua.6 E dimandando ancora ai due fratelli figli di Zebedeo, come s’egli nol sapesse: Potestis bibere (disse loro) calicem, quem ego bibiturus sum?7 Potete voi bere quel calice, che hò da bevere io? quel calice, che mi hà dato il mio Padre, quel calice tanto amaro? Chi dice di non potere, imparerà nella Scuola della Patienza.
Avvezziamoci dunque a levarci le cose superflue; e il mangiare domi la fame, e il bere la sete. Impariamo a signoreggiare le nostre membra, e accomodiamoci a vivere non secondo gl’essempi moderni. Avezziamoci a mangiare senza fare banchetti ogni giorno, e senza tante delicatezze: a usar de vestimenti per quello che sono che stati trovati, e habitare un poco più stretti. Impariamo ad accrescere la continenza, raffrenar la lussuria, e temperar la gola, mitigar l’ira, amare la povertà, osservar la Parsimonia, e accomodiamo l’animo a pensar le cose future, ed eterne. Tutte queste cose s’imparano nella Scuola della Patienza, ma da quei solamente, che son diligenti, e vogliono fare profitto. Fra tanto stiamo saldi in questo, di non lasciarci abbattere dalle avversità, e di non credere alle prosperità. E’ cosa da huomo prudente il provedere, che non succeda il male mà è cosa da huomo forte sopportare moderatamente ciò, che occorre.
Note
- ↑ [p. 403 modifica]Senec. l. de tranq. c. 9
- ↑ [p. 403 modifica]S. August. ad Marcell. & l. 2 conf. c. 2
- ↑ [p. 403 modifica]1. Reg. c. 11. 8.
- ↑ [p. 403 modifica]Dan. c. 1.5.
- ↑ [p. 403 modifica]Io. 4. 34
- ↑ [p. 403 modifica]Nec obstat [p. 404 modifica]Christum ut Theologis notum, compraehensorem fuisse.
- ↑ [p. 404 modifica]Matth. c. 20. 22.