Saggio di interpretazione della geometria non euclidea/Saggio
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SAGGIO DI INTERPETRAZIONE
DELLA GEOMETRIA NON-EUCLIDEA
del professor
E. BELTRAMI
In questi ultimi tempi il pubblico matematico ha incominciato ad occuparsi di alcuni nuovi concetti i quali sembrano destinati, in caso che prevalgano, a mutare profondamente tutto l’ordito della classica geometria.
Questi concetti non sono di data recente. Il sommo Gauss li aveva abbracciati fino dai suoi primi passi nella carriera delle scienze, e benché nessuno dei suoi scritti ne contenga l’esplicita esposizione, le sue lettere fanno fede della predilezione con cui li ha sempre coltivati e attestano la piena adesione che ha data alla dottrina di Lobatschewsky.
Siffatti tentativi di rinnovamento radicale dei principii si incontrano non di rado nella storia dello scibile. Oggi poi essi sono un portato naturale dello spirito critico cui a buon dritto si vanno sempre più informando tutte le indagini scientifiche. Quando questi tentativi si presentano come frutto di investigazioni coscienziose e di convinzioni sincere, quando essi trovano il patrocinio di un’autorità imponente e fin qui indisputata, il dovere degli uomini di scienza è di discuterli con animo sereno, tenendosi lontani egualmente dall’entusiasmo e dal disprezzo. D’altronde nella scienza matematica il trionfo di concetti nuovi non può mai infirmare le verità già acquisite: esso può soltanto mutarne il posto o la ragion logica, e crescerne o scremarne il pregio e l’uso. Nè la critica profonda dei principii può mai nuocere alla solidità dell’edificio scientifico, quando pure non conduca a scoprirne e riconoscerne meglio le basi vere e proprie.
Mossi da questi intendimenti noi abbiamo cercato, per quanto le nostre forze lo consentivano, di dar ragione a noi stessi dei risultati a cui conduce la dottrina di Lobatschewsky; e, seguendo un processo che ci sembra in tutto conforme alle buone tradizioni della ricerca scientifica, abbiamo tentato di trovare un substrato reale a quella dottrina, prima di ammettere per essa la necessità di un nuovo ordine di enti e di concetti. Crediamo d’aver raggiunto questo intento per la parte planimetrica di quella dottrina, ma crediamo impossibile di raggiungerlo in quanto al resto.
Il presente scritto è destinato principalmente a svolgere la prima di queste tesi; della seconda non daremo che un cenno sommario alla fine, solo perchè si possa più rettamente giudicare del significato inerente alla proposta interpetrazione.
Per non interrompere troppo spesso la nostra esposizione, abbiamo rimandato a note speciali, poste in fine, le dichiarazioni relative a certi risultati analitici sui quali dobbiamo appoggiarci.
Il criterio fondamentale di dimostrazione della geometria elementare è la sovrapponibilità delle figure eguali.
Questo criterio non è applicabile soltanto al piano, ma a tutte quelle superficie su cui possono esistere figure eguali in differenti posizioni, cioè a tutte quelle superficie di cui una porzione qualunque può essere adagiata esattamente, per via di semplice flessione, sopra una qualunque altra porzione della superficie stessa. Ognun vede infatti che la rigidezza delle superficie sulle quali le figure si concepiscono non è una condizione essenziale dell’applicazione di quel criterio, talchè p. es. non nuocerebbe all’esattezza delle dimostrazioni della geometria piana euclidea il concepirne le figure come esistenti sulla superficie di un cilindro o di un cono, anzichè su quella di un piano.
Le superficie per le quali si avvera incondizionatamente la proprietà anzidetta sono, in virtù di un celebre teorema di Gauss, tutte quelle che hanno costante in ogni punto il prodotto dei due raggi di curvatura principale, ossia tutte quelle la cui curvatura sferica è costante. Le altre superficie non ammettono l’applicazione incondizionata del principio di sovrapposizione al confronto delle figure tracciate sovr’esse, e quindi queste figure non possono avere una struttura affatto indipendente dalla loro posizione.
L’elemento più essenziale delle figure e delle costruzioni della geometria elementare è la linea retta. Il carattere specifico di questa è d’essere completamente determinata da due soli dei suoi punti, talchè due rette non possono passare per due dati punti dello spazio senza coincidere in tutta la loro estensione. Però nella geometria piana questo carattere non viene esaurito in tutta la sua latitudine, perchè, a ben guardare, la retta non è introdotta nelle considerazioni della planimetria che mercè il seguente postulato: Facendo combaciare due piani su ciascuno dei quali esiste una retta, basta che le due rette si sovrappongano in due punti, perciò riescano sovrapposte in tutta la loro estensione.
Ora questo carattere, così circoscritto, non è peculiare alle linee rette rapporto al piano; esso sussiste eziandio (in generale) per le linee geodetiche di una superficie di curvatura costante rapporto a questa superficie. Una linea geodetica ha già sopra qualsivoglia superficie la proprietà di essere (generalmente parlando) determinata senza ambiguità da due dei suoi punti. Ma per le superficie di curvatura costante, e per queste sole, sussiste integralmente la proprietà analoga a quella della retta nel piano, cioè: Se si hanno due superficie, la cui curvatura sia costante in ogni punto ed eguale in entrambe, e se su ciascuna di esse esiste una linea geodetica, facendo combaciare le due superficie in modo che le geodetiche si sovrappongano in due punti, esse riescono sovrapposte (generalmente) in tutta la loro estensione.
Ne consegue che, salvi quei casi nei quali questa proprietà va soggetta ad eccezioni, i teoremi che la planimetria dimostra, col mezzo del principio di sovrapposizione e del postulato della retta, per le figure formate sul piano da linee rette, sussistono altresi per le figure formate analogamente sopra una superficie di curvatura costante da linee geodetiche.
In ciò si fondano le molteplici analogie della geometria della sfera con quella del piano — alle rette di questo corrispondendo le geodetiche, cioè i cerchi massimi, di quella — , analogie che i geometri hanno già notate da lungo tempo. Se altre analogie, di specie diversa ma di eguale origine, non sono state del pari notate prima d’ora, lo si deve ascrivere a ciò che il concetto di superficie flessibili ed applicabili le une sulle altre, non è diventato famigliare che in questi ultimi tempi.
Abbiamo fatta allusione ad eccezioni che possono interrompere o limitare l’analogia ora discorsa. Queste eccezioni esistono realmente. Sulla superficie sferica, p. es, due punti cessano di determinare senza ambiguità un cerchio massimo quando sono diametralmente opposti. Questa è la ragione per cui alcuni teoremi della planimetria non hanno i loro analoghi sulla sfera, come p. es. il seguente: Due rette perpendicolari ad una terza non possono incontrarsi.
Queste riflessioni sono state il punto di partenza delle nostre presenti ricerche. Abbiamo incominciato col notare che le conseguenze di una dimostrazione abbracciano necessariamente l’intera categoria degli enti nei quali esistono tutte le condizioni necessarie alla sua legittimità. Se la dimostrazione è stata concepita in vista di una determinata categoria di enti, senza che in essa sieno state effettivamente introdotte quelle determinazioni che individuano la categoria stessa in confronto di una categoria più estesa, è chiaro che le conseguenze della dimostrazione acquistano una generalità più grande di quella che si cercava. In questo caso può benissimo succedere che alcune di tali conseguenze sembrino inconciliabili colla natura degli enti specialmente contemplati, in quanto che certe proprietà che sussistono generalmente per una data categoria di enti possono modificarsi notabilmente od anche scomparire affatto per alcuni di essi in particolare. Se ciò avviene, i risultati della fatta investigazione presentano delle apparenti incongruenze, di cui la mente non può rendersi capace, se prima non siasi resa conscia della base troppo generale data alla sua investigazione.
Ciò premesso, consideriamo quelle dimostrazioni della planimetria che si fondano unicamente sull’uso del principio di sovrapposizione, e sul postulato della retta, quali sono appunto quelle della planimetria non-euclidea. I risultati di queste dimostrazioni valgono incondizionatamente in tutti quei casi nei quali sussistono quel principio e quel postulato. Questi casi sono tutti necessariamente compresi, per quanto si è veduto, nella dottrina delle superficie di curvatura costante, ma non possono verificarsi che per quelle, fra queste superficie, in cui non ha luogo alcuna eccezione alle ipotesi di quelle dimostrazioni. La sussistenza del principio di sovrapposizione non patisce eccezione per alcuna delle dette superficie. Ma rispetto al postulato della retta (o per meglio dire della geodetica) abbiamo già notato che si incontrano delle eccezioni sulla sfera, e per conseguenza su tutte le superficie di curvatura costante positiva. Ora queste eccezioni esistono anche sulle superficie di curvatura costante negativa? Vale a dire, può egli darsi il caso, su queste ultime superficie, che due punti non determinino una sola ed individuata linea geodetica?
Questa quistione non è, per quel ch’io sappia, ancora stata esaminata. Se si può provare che tali eccezioni non sono possibili, diventa evidente a priori che i teoremi della planimetria non-euclidea sussistono incondizionatamente per tutte le superficie di curvatura costante negativa. Allora certi risultati che sembravano incompatibili coll’ipotesi del piano possono diventar conciliabili con quella di una superficie della specie anzidetta, e ricevere da essa una spiegazione non meno semplice che soddisfacente. In pari tempo le determinazioni che producono il passaggio dalla planimetria non-euclidea alla euclidea possono spiegarsi con quelle che individuano la superficie di curvatura nulla nella serie delle superficie di curvatura costante negativa.
Tali sono le considerazioni che ci hanno servito di guida nelle ricerche seguenti.
La formola
(1) |
In particolare anche i due sistemi coordinati , . sono formati di linee geodetiche, delle quali è facile riconoscere la mutua disposizione. Infatti chiamando l’angolo delle due curve coordinate nel punto () si ha
(2) |
quindi tanto per , quanto per si ha . Dunque le geodetiche componenti il sistema sono tutte ortogonali alla geodetica dell’altro sistema, e le geodetiche del sistema sono tutte ortogonali alla geodetica dell’altro sistema. Vale a dire: nel punto concorrono due geodetiche ortogonali fra loro , , che diremo fondamentali, e ciascun punto della superficie viene individuato come intersezione di due geodetiche condotte per esso perpendicolarmente alle due fondamentali; ciò che costituisce una evidente generalizzazione dell'ordinario metodo cartesiano.
Le formole (2) fanno vedere che i valori ammissibili per le variabili , sono limitati dalla relazione
(3) |
Entro questi limiti le funzioni , , sono reali, monodrome, continue e finite, e le , , sono inoltre positive e differenti da zero. Dunque, per quel che abbiamo stabilito al principio della Memoria Delle variabili complesse in una superficie qualunque (Annali di Matematica, IIa Serie, t. I), la porzione di superficie terminata al contorno d’equazione
(4) |
è semplicemente connessa, ed il reticolo formato su di essa dalle geodetiche coordinate presenta intorno a ciascun punto il carattere di quello formato da due sistemi di rette parallele su di un piano, cioè: due geodetiche di egual sistema non hanno mai alcun punto comune, e due geodetiche di sistema diverso non sono mai fra loro tangenti. Ne consegue che, sulla regione considerata, a ciascuna coppia di valori reali delle soddisfacenti alla condizione (3) corrisponde un punto reale, unico e determinato; e, reciprocamente, a ciascun punto corrisponde una sola e determinala coppia di valori reali delle soddisfacenti alla condizione anzidetta.
Quindi se indichiamo con le coordinate rettangolari dei punti di un piano ausiliare, le equazioni
stabiliscono una rappresentazione della regione considerata, rappresentazione nella quale a ciascun punto di quella regione corrisponde un punto unico e determinato del piano, e reciprocamente; e tutta la regione trovasi rappresentata dentro un cerchio di raggio col centro nell'origine delle coordinate, che chiamiamo cerchio limite. In questa rappresentazione le geodetiche della superficie sono rappresentate dalle corde del cerchio limite, ed in particolare le geodetiche coordinate sono rappresentate dalle corde parallele ai due assi coordinati.
Vediamo ora come sia limitata, sopra la superficie, la regione alla quale si applicano le precedenti considerazioni.
Una linea geodetica uscente dal punto può essere rappresentata colle equazioni
(5) |
dove e sono le coordinate polari del punto corrispondente al punto sulla retta che rappresenta (nel piano ausiliare) la geodetica considerata. Per tali valori si ricava dalla (1), essendo costante,
donde |
dove è l’arco della geodetica, contato dal punto . Si può scrivere anche
(6) | , |
essendo le coordinate del secondo termine dell'arco : il radicale deve prendersi qui positivamente, affine di ottenere il valore assoluto della distanza .
Questo valore è nullo per , va crescendo indefinitamente col crescere di ossia di da ad , diventa infinito per ossia per quei valori di che soddisfanno alla (4), ed è imaginario quando . È chiaro dunque che il contorno espresso dall’equazione (4) e rappresentato nel piano ausiliare dal cerchio limite non è altro che il luogo dei punti all’infinito della superficie, luogo che può considerarsi come un cerchio geodetico descritto col centro nel punto e con un raggio (geodetico) infinitamente grande. Al di là di questo cerchio geodetico di raggio infinito non esistono che le regioni imaginarie od ideali della superficie, talchè la regione dianzi considerata si estende indefinitamente e continuamente in ogni senso ed abbraccia la totalità dei punti reali della superficie. In tal guisa dentro il cerchio limite viene a rappresentarsi tutta la regione reale della nostra superficie, e propriamente in modo che, mentre lo stesso cerchio limite corrisponde alla linea dei suoi punti all’infinito, i cerchi concentrici ed interni ad esso corrispondono ai cerchi geodetici della superficie col centro nel punto .
Se nelle equazioni (5) si riguarda come costante, come variabile, quelle equazioni convengono ad un cerchio geodetico, e la formola (1) dà
(7) | , |
dove è l’arco di cerchio geodetico rappresentato nel piano ausiliare dall’arco circolare il cui raggio è e l’angolo al centro . Essendo poporzionale a qualunque sia , si vede facilmente che lo geodetiche fanno tra loro, nell'origine comune, angoli eguali ai raggi che loro corrispondono nel piano ausiliare; e che la piccolissima porzione di superficie immediatamente circostante al punto è simile alla sua rappresentazione piana, proprietà che non si verifica per alcun altro punto.
Dalla (6) si trae
(7') | , | e | , |
, |
cosicchè il semiperimetro della circonferenza geodetica di raggio è dato da
(8) | ossia | . |
Dalle cose precedenti risulta che le geodetiche della superficie sono rappresentate, nel loro totale sviluppo (reale), dalle corde del cerchio limite, mentre i prolungamenti di queste corde fuori del cerchio stesso sono destituiti d’ogni rappresentanza (reale). D’altronde due punti reali della superficie sono rappresentati da due punti, parimente reali, interni al cerchio limite, i quali individuano una conda del cerchio stesso. Si vede dunque che due punti reali della superficie, scelti in modo qualunque, individuano sempre una sola e determinata linea geodetica, che è rappresentata nel piano ausiliare dalla corda passante pei loro punti corrispondenti.
Così le superficie di curvatura costante negativa non vanno soggette a quelle eccezioni che si verificano sotto questo rapporto in quelle di curvatura costante positiva, epperò sono ad esse applicabili i teoremi della planimetria non-euclidea. Anzi questi teoremi non sono in gran parte suscettibili di concreta interpetrazione, se non vengono riferiti precisamente a queste superficie anzichè al piano, come ora procediamo a diffusamente dimostrare. Per evitare circonlocuzioni ci permettiamo di denominare pseudosferiche le superficie di curvatura costante negativa, e di conservare il nome di raggio alla costante da cui dipende il valore della loro curvatura.
Cerchiamo primieramente la relazione generale che sussiste fra l’angolo di due linee geodetiche e l’angolo delle corde che le rappresentano.
Sia () un punto della superficie, () un punto qualunque di una delle geodetiche uscenti da esso. Le equazioni di due fra queste geodetiche siano
. |
Chiamando l'angolo delle geodetiche nel punto () si ha da una formula nota
, |
.
Indicando con l’angolo delle due corde e con gli angoli formati da esse coll’asse delle , si ha , , , e quindi
.
Il denominatore del secondo membro si mantiene sempre finito in ogni punto reale della superficie, quindi l’angolo non può essere nullo che quando è nullo il numeratore. Ma non è nullo, finchè le due corde si intersecano dentro il cerchio limite e non coincidono in una sola retta: dunque non è nullo che per , cioè quando il punto in cui s’incontrano le due geodetiche è all’infinito.
Conseguentemente possiamo formulare le regole seguenti:
I. A due corde distinte che s’intersecano dentro il cerchio limite corrispondono due geodetiche che si intersecano in un punto a distanza finita sotto un angolo differente da e da .
II. A due corde distinte che s’intersecano sulla periferia del cerchio limite corrispondono due geodetiche che concorrono verso uno stesso punto a distanza infinita e che fanno in esso un angolo nullo.
III. E finalmente a due corde distinte che s’intersecano fuori del cerchio limite, o che sono parallele, corrispondono due geodetiche che non hanno alcun punto comune su tutta l’estensione (reale) della superficie.
Sia ora una corda qualunque del cerchio limite, un punto interno al cerchio ma esterno alla corda. A questa corda corrisponde sulla superficie una geodetica , diretta verso i punti all’infinito , (corrispondenti a , ); al punto corrisponde un punto , situato a distanza finita ed esterno alla geodetica . Da questo punto si possono spiccare infinite geodetiche, delle quali alcune incontrano la geodetica , le altre non la incontrano. Le prime sono rappresentate dalle rette che vanno dal punto ai varii punti dell’arco (), le altre sono rappresentate da quelle che vanno dallo stesso punto ai varii punti dell’arco (). Due geodetiche speciali formano il trapasso da quelle dell’una schiera a quelle dell’altra: sono quelle rappresentate dalle rette , , ossia sono le due geodetiche che partono da e concorrono all’infinito colla , l’una da una parte, l’altra dall’altra. Siccome gli angoli rettilinei , hanno i loro vertici sulla periferia del cerchio limite, così (II) i corrispondenti angoli geodetici , sono nulli, benchè i primi sieno finiti. All’incontro, essendo interno al detto cerchio ed esterno alla corda , l’angolo è differente da e da e quindi (I) le geodetiche corrispondenti , formano in un angolo pure differente da e da . Dunque se le geodetiche , si dicono parallele alla , in quanto segnano il trapasso dalla schiera di quelle che. intersecano la alla schiera di quelle che non la intersecano, si può enunciare il risultato dicendo che: Da ogni punto (reale) della superficie si possono sempre condurre due geodetiche (reali) parallele ad una medesima geodetica (reale) che non passi per quel punto, e queste due geodetiche fanno tra loro un angolo differente tanto da quanto da .
Questo risultato s’accorda, salva la diversità delle espressioni, con quello che forma il cardine della geometria non-euclidea. Per iscorgere subito, nella geometria pseudosferica, l’interpetrazione di qualche altra affermazione della geometria non-euclidea, consideriamo un triangolo geodetico. — Ognuno sa che quando si studiano figure esistenti sopra una superficie la quale non sia sviluppabile sopra un piano, riesce spesso opportuno, per la più facile intelligenza, di delineare in piano un’altra figura, la quale, senza essere ricavala dalla prima secondo una determinata legge geometrica, serva tuttavia ad indicarne approssimativamente la disposizione generale, riproducendone le più sostanziali relazioni di sito. Perchè la figura indicativa adempia a tale condizione, bisogna che tutte le grandezze, si lineari che angolari, della figura data, vi si trovino sostituite da grandezze di eguale specie (rispettivamente); bisogna inoltre che le lunghezze di due linee corrispondenti, e i seni di due angoli corrispondenti abbiano sempre fra loro un rapporto finito, poco importando poi che tale rapporto varii arbitrariamente da una parte all’altra della figura, purchè non diventi mai nè nullo nè infinito. È ovvio del resto che in tanta latitudine di scelta, conviene far si che nella figura indicativa il rapporto anzidetto non presenti eccessivo deviazioni da un certo valor medio. — Ciò posto, se il triangolo geodetico testè immaginato ha tutti i suoi vertici a distanza finita, è chiaro che ogni triangolo piano può servire ad indicarlo. Questo triangolo piano potrebbe essere lo stesso triangolo rettilineo che ne forma la rappresentazione nel piano ausiliare, triangolo che sarebbe totalmente interno al cerchio limite. Si potrebbe ancora, secondo le circostanze, proferire un triangolo curvilineo, i cui angoli fossero p. es. eguali a quelli del triangolo geodetico. Ma se si suppone che i vertici del triangolo geodetico vadano allontanandosi indefinitamente e passino a distanza infinita, è chiaro che, mentre il triangolo stesso continua ad essere una figura esistente sulla superficie, con tutti i suoi punti, tranne i vertici, a distanza finita, la figura indicativa non potrebbe essere finita in ogni senso senza violare in qualche parte le condizioni che abbiamo formulato. Per es. il triangolo rettilineo rappresentante il triangolo geodetico sul piano ausiliare avrebbe i suoi angoli finiti, mentre quelli del triangolo geodetico sarebbero nulli. E un triangolo curvilineo coi lati tra loro tangenti nei vertici violerebbe del pari le condizioni anzidette in ciò che, prendendo due punti , sui lati che concorrono in un vertice , si otterrebbero degli intervalli , il cui rapporto sarebbe finito nel triangolo indicativo, infinito nel geodetico (fig. 1a). Per togliere questa discordanza bisognerebbe che tutti gli intervalli analoghi a fossero nulli nella figura indicativa, il chè non potrebbe ottenersi altrimenti che dando ad essa la disposizione (fig. 2a), dove il punto concentra in sè stesso la rappresentanza di tutti i punti posti a distanza finita nel triangolo geodetico. Una tale figura potrebbe concepirsi come risultante dall’osservare il triangolo geodetico con una lente dotata della proprietà (fittizia) di produrre un impiccolimento infinito. Infatti in tale ipotesi tutti gli intervalli finiti apparirebbero come nulli e gli infiniti come finiti.
Ciò concorda sostanzialmente con quello che ha notato Gauss nella sua lettera del 12 luglio 1831 a Schumacher (Veggasi l’Appendice alla traduzione data dal signor Hoüel della Teoria delle parallele di Lobatschewsky); nella quale è pur detto che il semiperimetro del cerchio non-euclideo di raggio ha per valore
dove è una costante. Questa costante, che Gauss dice esserci offerta dall’esperienza come estremamente grande rapporto a tulio ciò che noi possiamo misurare, non è altro, secondo l’attual punto di vista ed in base alla formola (8), che il raggio di quella superficie pseudosferica che noi introduciamo inconsapevolmente nella planimetria, al posto del piano euclideo, ogni volta che le nostre considerazioni si appoggiano a quelle sole premesse che sono vere tanto per il piano quante per tutte le superficie della detta classe.
Volendo ora procedere a mostrare in modo più concreto l’accordo della geometria pseudosferica colla planimetria non euclidea, si rende necessario di esaminare attentamente l’espressione analitica che abbiamo usata per rappresentare l’elemento lineare della superficie pseudosferica. E innanzi tutto si affaccia la seguente quistione: Le due geodetiche che abbiamo chiamate fondamentali debbono essere scelte in qualche modo particolare perchè l’elemento abbia la forma anzidetta? Veramente sembrerebbe che esse potessero essere scelte ad arbitrio, poichè se ogni pezzo di superficie è sovrapponibile in modo qualunque alla superficie stessa, chiaro è che due qualisivogliano geodetiche ortogonali esistenti in quel pezzo si possono far coincidere con due altre qualsivogliano, purchè ortogonali del pari. Siccome però la quistione che abbiamo sollevata è essenziale per lo scopo nostro, così abbiamo creduto di dedicare ad essa la Nota II, nella quale, dimostrandosi direttamente che le geodetiche fondamentali sono arbitrarie, risulta al tempo stesso provato, senza bisogno di ammettere preliminari conoscenze in proposito, che ogni pezzo di superficie è applicabile in modo qualunque sulla superficie stessa.
In conseguenza di questo fatto e delle ragioni già esposte, i teoremi della planimetria non-euciidea relativi alle figure rettilinee piane, diventano necessariamente validi per le analoghe figure geodetiche esistenti sullo superficie pseudosferiche. Tali sono per esempio quelli dei ni 310, 1624, 2930, ecc. della Théorie géométrique di Lobatschewsky.
Prendiamo ora a considerare le due geodetiche spiccate da un punto dato, parallelamente ad una geodetica data. Sia la lunghezza della normale geodetica condotta dal punto questa geodetica. Questa normale divide per metà l’angolo delle due parallele. Infatti staccando la striscia di superficie compresa fra la geodetica normale, una delle parallele e la corrispondente metà della geodetica data, invertendola, ed applicandola di nuovo sulla superficie, in modo ohe la normale coincida con sè stessa, mentre la metà della geodetica data si sovrapponga sull’altra metà, è chiaro che la parallela limitante la striscia si deve sovrapporre all’altra parallela, senza di chè dal punto dato si potrebbero condurre più di due parallele alla geodetica data. Chiamiamo angolo di parallelismo l’angolo formato da ciascuna delle parallele colla normale e denotiamolo con . Per calcolare questo angolo, facciamo uso della nostra solita analisi, ponendo l’origine () nel punto dato e dirigendo la geodetica fondamentale normalmente alla geodetica data; talchè quest’uitima risulta rappresentata dall’equazione
come facilmente si rileva dalla formola (8).
A questa geodetica corrisponde nel piano ausiliare una corda perpendicolare all’asse delle , bisecata da questo asse, uno dei cui termini ha per ordinata la quantità . Questo punto del cerchio limite determina i1 raggio d’equazione
,
al quale corrisponde sulla superficie una delle parallele considerate; e poichè gli angoli intorno all’origine sono eguali sulla superficie e sul piano ausiliare, si deve evidentemente avere
(9) | , |
e dedurne
.
Il segno inferiore è inammissibile perchè è quantità reale, quindi
,
la quale è appunto la formola di Lobatschewsky (Théorie géométrique, n° 38, salva la differenza dei simboli e quella che proviene dalla scelta dell’unità.
Indicando, come fa Lobatschewsky (n° 16), con l’angolo di parallelismo relativo alla distanza normale , si ha dalla (9)
(10) | , | . |
Ora, per una osservazione del sig. Minding (nel t. XX del Giornale di Crelle), sviluppata dal sig. Codazzi (negli Annali di Tortolini, 1857), è noto che le ordinarie formole relative ai triangoli sferici si convertono in quelle relative ai triangoli geodetici delle superficie di curvatura costante negativa, apponendo il fattore ai rapporti dei lati col raggio e lasciando inalterati gli angoli, ciò che equivale a mutare le funzioni circolari dei lati in funzioni iperboliche. Per es. la prima formola della trigonometria sferica
diventa
.
Introducendo invece dei lati , , i corrispondenti angoli di parallelismo mediante le formole (10), questa relazione si converte nella seguente:
,
e questa è una delle equazioni fondamentali della planimetria non-euclidea (Théorie géométrique, n° 37). Analogamente si possono ottenere le altre. (Il passaggio inverso da queste equazioni a quelle della trigonometria sferica è stato indicato da Lobatschewsky, alla p. 34, ma come un semplice fatto analitico).
I risultati precedenti ci sembrano manifestare pienamente la corrispondenza vigente fra la planimetria non-euclidea e la geometria pseudosferica. Per verificare la stessa cosa da un altro punto di vista, vogliamo ancora stabilire direttamente, colla nostra analisi, il teorema relativo alla somma dei tre angoli di un triangolo.
Consideriamo il triangolo rettangolo formato dalla geodetica fondamentale , da una delle geodetiche perpendicolari , e dalla geodetica uscente dall’origine sotto l’angolo , la cui equazione è
.
Chiamiamo il terzo angolo di questo triangolo. L’angolo corrispondente ad esso nel piano ausiliare è , epperò la relazione stabilita precedentemente fra gli angoli corrispondenti nella superficie e nel piano dà
,
donde si scorge che quando è un angolo acuto, lo è pure . Essendo , questa formola può scriversi, prendendo il radicale positivamente,
donde | , |
{{Noindent|espressione dell’incremento che riceve quando, rimanendo costante , si sposta il cateto opposto a quest’angolo. Ciò posto se dell’elemento superficiale
si prende l’integrale rispetto a , fra e , che si trova essere
ossia | , |
,
espressione dell’area totale del triangolo rettangolo. Da questa si passa tosto a quella di un triangolo geodetico qualunque , dividendolo in due triangoli rettangoli con una geodetica condotta da un vertice normalmente al lato opposto, e si trova
.
Questa espressione, dovendo riuscire positiva, manifesta che la somma dei tre angoli di un triangolo geodetico qualunque non può mai eccedere . Se essa fosse eguale a in un solo triangolo, di dimensioni finite, bisognerebbe che fosse , ed allora in ogni altro triangolo finito si avrebbe parimente . Ma per la (9) dà , quindi l’angolo di parallelismo sarebbe necessariamente retto; e reciprocamente. Questo sono pure le conclusioni cui giunge la geometria non-euclidea.
Il triangolo formato da una geodetica e dalle due geodetiche ad essa parallele condotte per un punto esterno, ha due angoli nulli ed il terzo eguale a ; quindi la sua area è finita e data da
ossia, per la (9), da | , |
dove è la distanza dal punto alla geodetica. Per molto grande questa quantità è prossimamente eguale a , ed è quindi infinita per il piano, come è noto, ma non lo è che in questo caso.
Un triangolo geodetico i cui vertici sono tutti all’infinito ha un’area finita e determinata, il cui valore è indipendente dalla sua forma.
Un poligono geodetico di lati, cogli angoli interni , , ,... ha l’area
.
Se il poligono ha tutti i vertici all’infinito, la sua area, che non cessa d’essere finita, si riduce a ed è quindi indipendente dalla sua forma.
Passiamo ora ad esaminare quelle curve che abbiamo chiamate, secondo un uso già ricevuto, circonferenze geodetiche.
Alla fine della Nota II abbiamo trovato che la circonferenza geodetica col centro nel punto qualunque e col raggio geodetico è rappresentata dell'equazione
(11) | . |
Quest'equazione generale ci diventa utile in seguito, ma ora possiamo approfittare delle semplificazioni che risultano dal supporre collocata l’origine nel centro della circonferenza considerata. Dando all'espressione dell'elemento lineare (come nella Nota II) la forma
,
e ponendo
, |
se ne deduce tosto l'espressione equivalente
.
Ma chiamando la distanza geodetica del punto , ossia dall'origine, si ha, come sappiamo,
, | , |
dunque
(12) | , |
espressione già conosciuta dell’elemento lineare della superficie pseudosferica.
Quest'espressione rientra nella forma canonica dell'elemento lineare di una superficie di rotazione. Ma bisogna osservare che nel caso attuale non si potrebbe applicare effettivamente sopra una superficie di rotazione la calotta pseudosferica circostante al punto , senza alterarne la continuità per mezzo di un qualche taglio operato in essa partendo dal punto stesso. Infatti la supposta superficie di rotazione, se esistesse senza tale condizione, incontrerebbe il proprio asse nel centro comune di tutte le circonferenze geodetiche . ed avrebbe quindi in questo punto le sue due curvature di egual senso, il che non può essere, perchè una superficie pseudosferica ha tutti i suoi punti iperbolici. La stessa impossibilità risulta dal considerare che, quando non si volesse eseguire il taglio anzidetto, la variabile rappresenterebbe la longitudine del meridiano variabile, epperò il raggio del parallelo corrispondente all'arco meridiano sarebbe .
La variazione di questo raggio sarebbe quindi cioè , il che è assurdo, poichè la variazione anzidetta eguaglia la proiezione di sul piano del parallelo.
L'espressione (12) dell'elemento lineare, benchè priva dei vantaggi inerenti all'uso dello nostre variabili , , può essere utile talvolta per la sua semplicità. Essa si presta p. es. alla determinazione della curvatura tangenziale delle circonferenze geodetiche, la quale', per la circonferenza di raggio , ha il valore ; questa curvatura è adunque costante lungo tutta la periferia del cerchio geodetico e non dipende che dal raggio. Questa proprietà riesce manifesta anche a priori, osservando che il pezzo di superficie terminato da un cerchio geodetico si può applicare in modo qualunque sulla superficie medesima, senza che il suo lembo cessi mai di essere un cerchio geodetico col centro nel punto su cui si applica il suo centro primitivo.
Il teorema che — le geodetiche erette normalmente nei punti medii delle corde di una circonferenza geodetica concorrono tutte nel suo centro — si dimostra come il corrispondente teorema della planimetria ordinaria, e se ne conclude che la costruzione del centro della circonferenza passante per i tre punti non situati sopra una stessa geodetica è affatto analoga all'ordinaria, talchè tale circonferenza è sempre unica e determinata.
Ma qui sorge una difficoltà. Scelti ad arbitrio tre punti della superficie, può accadere che le geodetiche perpendicolari nei punii medii delle loro congiungenti non si intersechino in alcun punto reale della superficie, e quindi, se si restringe la denominazione di circonferenze geodetiche alle curve descritte dall’estremità di un arco geodetico invariabile che gira intorno ad un punto reale della superficie, bisogna necessariamente ammettere che non sempre si può far passare una circonferenza geodetica per tre punti della superficie scelti in modo qualunque. Anche questo, mutatis mutandis, è d'accordo coi principii di Lobatschewsky (Théorie géométrique, n° 29).
Nondimeno, poichè le geodetiche della superficie sono sempre rappresentate dalle corde del cerchio-limite, se più corde sono tali che prolungate si incontrino in uno stesso punto esterno al cerchio, è lecito riguardare le geodetiche corrispondenti come aventi in comune un punto ideale, e le loro traiettorie ortogonali come alcunchè di analogo alle circonferenze geodetiche propriamente dette.
Cerchiamo direttamente l'equazione di queste traiettorie.
L'equazione
rappresenta il sistema delle geodetiche uscenti dal punto reale od ideale secondo che è minore o maggiore di . L'equazione differenziale dello stesso sistema è
,
epperò quella del sistema ortogonale è
,
cioè, pei valori attuali di E, F, G,
. |
Quindi
(13) |
è l’equazione finita delle circonferenze geodetiche concepite nel senso più generale, cioè qualunque ne sia il centro , reale od ideale.
Quando questo centro è reale, la sua distanza dalla curva è costante, in virtù di un teorema notissimo; ed infatti, denominando questa distanza, si ha, dal confronto coll’equazione (11)
.
In questo caso è chiaro che fra i valori ammissibili per la costante C non è compreso il valor zero, poiché il luogo corrispondente a questa ipotesi, essendo rappresentato nel piano ausiliare da una retta esterna al cerchio limite, cade tutto nelle regioni ideali della superficie.
Quando invece il centro è ideale, la nozione del raggio geodetico manca, ma la costante C può ricevere il valor zero, perchè l’equazione risultante
rappresenta, sul piano ausiliare, una corda del cerchio-limite e precisamente la polare del punto esterno . Quest’equazione definisce una geodetica reale della superficie: possiamo dunque concludere che fiale infinite circonferenze geodetiche aventi lo stesso centro ideale esiste sempre una (ed una sola) geodetica reale, talchè le circonferenze geodetiche a centro ideale si possono anche definire come curve parallele (geodeticamente) allo geodetiche reali. Quest’ultima proprietà venne notata già dal Sig. Battaglini, con diverso linguaggio (l. c., p. 228). Si vede dunque che mentre sulla superficie sferica i due concetti di — circonferenza geodetica — e di — curva parallela ad una linea geodetica — coincidono perfettamente fra loro, sulla superficie pseudosferica invece presentano una difrenza, procedente dalla realità od idealità del centro.
Poichè ogni circonferenza geodetica a centro ideale è equidistante in tutti i suoi punti da una geodetica determinata, supponiamo clic questa sia la stessa , ciò che è sempre lecito, e chiamiamo la distanza geodetica del punto da questa fondamentale. Questa distanza è misurata sopra una delle geodetiche del sistema . ed è data dalla formula
.
Supponendo costante, si ha di qui l’equazione fra e di una qualunque delle circonferenze geodetiche che hanno il centro nel punto ideale di concorso di tutte le geodetiche normali alla .
Chiamiamo l’arco della geodetica compreso fra l’origine e la normale : il suo valore è dato da
.
Dalle due equazioni qui scritte si trae
, | , |
donde
.
Trasformando dalle variabili , alle , l’espressione (1) si trova
(14) | , |
espressione che conviene ad una superficie di rotazione.
Designando con il raggio del parallelo minimo di questa superficie, che corrisponde evidentemente a , con quello del parallelo , si ha
e quindi | . |
Dunque la zona di superficie pseudosferica che può essere realmente conformata a superficie di rotazione e definita dalla condizione
,
ossia è racchiusa fra due circonferenze geodetiche equidistanti dalla geodetica , la quale si dispone secondo il parallelo minimo. La larghezza di questa zona dipende dal raggio che si vuole assegnare al parallelo minimo, ed è tanto maggiore quanto questo è minore. La lunghezza della zona stessa è indefinita, epperò essa si ravvolge infinite volto sulla superficie di rotazione, nel che è da osservare che i punti i quali si sovrappongono in tal modo l’uno all’altro devono sempre concepirsi come distinti, senza di che cesserebbe d’esser vero il teorema che per due punti della superficie passi una sola geodetica: in altre parole, si deve concepire la superficie di rotazione come il limite di un elicoide il cui passo converge verso zero. I due paralleli estremi hanno il raggio , e i loro piani sono tangenti circolarmente alla superficie.
Fra le circonferenze geodetiche a centro reale e quelle a centro ideale si trovano, come ente intermedio, le circonferenze geodetiche che hanno il centro a distanza infinita, le quali meritano di essere considerate a cagione delle loro notabilissime proprietà.
L’equazione generale di questo circonferenze conserva la forma (13), poichè il processo che ci ha condotto a questa vale per ogni posizione dol centro; ma se tale equazione si confronta colla (11), in cui la quantità ossia converge verso zero quando il centro passa all’infinito, mentre nella stessa ipotesi il secondo membro cresce indefinitamente, si vede che il prodotto converge verso un valore finito, al quale converge del pari, evidentemente, il prodotto . Ora se in luogo di si pone , la (11) può scriversi
quindi, mantenendo finito e facendo crescere indefinitamente mentre converge verso zero, si ha, al limite,
,
dove è una costante. Rappresentando in questo modo il sistema delle circonferenze geodetiche col centro all’infinito nel punto , il parametro esprime l’intervallo costante fra una qualunque di queste circonferenze ed una determinata fra esse, e cresce positivamente da questa verso il centro all’infinito. Ponendo la circonferenza diventa quella che passa per il punto .
Se coll’equazione cosi ottenuta
(15) |
(16) | , |
e si tien conto della relazione , si trova che l’elemento lineare (1) assume la forma
(17) | , |
la quale conviene di nuovo ad una superficie di rotazione.
Indicando con il raggio del parallelo , di cui è l’arco, con quello del parallelo , si ha
,
e quindi la supeficie di rotazione non è reale che dentro i limiti determinali
dalla relazione , talchè la circonferenza non può diventare realmente un parallelo se non si prende . Il parallelo massimo ha il raggio R e corrisponde al valore ; quindi con una opportuna determinazione di esso può essere occupalo da una qualunque delle circonferenze considerate; p.es. facendo si ha la stessa circonferenza iniziale . Il parallelo minimo corrisponde a ed ha il raggio nullo, cosicchè la superficie di rotazione si avvicina assintoticamente al suo asse da una sola parte, mentre dall’altra è limitata dal piano del parallelo massimo col quale si accorda tangenzialmente. Su questa superficie si ravvolge infinite volte la superficie pseudosferica, terminata alla linea , se .
La curvatura tangenziale di un parallelo qualunque si trova essere , cioè eguale per tutti. Ora il raggio della curvatura tangenziale di un parallelo non è altro che, la porzione di tangente al meridiano compresa fra il punto di contatto (sul parallelo considerato) e l’asse. Dunque per l’attuale superficie di rotazione questa porzione di tangente è costante, la curva meridiana è la nota linea dalla tangenti costanti, e la superficie generata è quella che si suole risguardare come tipo delle superficie di curvatura costante negativa (Liouville nella nota IV a Monge).
D’altra parte le circonferenze geodetiche col centro all’infinito corrispondono manifestamente agli oricicli della geometria di Lobatschewsky (Théorie géométrique, n°31 e 32). Conservando questa denominazione noi possiamo dunque dire che un sistema di oricicli concentrici si trasforma, mediante una flessione opportuna della superficie, nel sistema dei paralleli della superficie di rotazione generata dalla linea delle tangenti costanti.
Per avere una riprova della corrispondenza dei nostri oricicli con quelli di Lobatschewsky, osserviamo che all’angolo diedro di due piani meridiani corrispondono sui paralleli , e , i due archi , dati da
, | , |
donde, chiamando la distanza , si trae
,
formola che coincide con quella di Lobatschewsky (n°33), salva la solita differenza nella scelta dell’unità.
L’espressione (15) dell’elemento lineare è indipendente dalle coordinate , del centro degli oricicli considerati; inoltre abbiamo veduto che ciascuno degli oricicli di un dato sistema può prendere il posto del parallelo massimo. Possiamo dunque concludere che due oricicli qualisivogliano della superficie possono sempre essere sovrapposti l’uno sull’altro.
Per due punti della superficie pseudosferica passano sempre due oricicli, che sono determinati conducendo pel punto medio della loro congiungente geodetica una geodetica perpendicolare, i cui due punti all’infinito sono i centri degli oricicli cercati. Gli archi di questi oricicli, compresi fra i punti dati, hanno una stessa grandezza, che dipende unicamente dalla distanza geodetica dei due punti. Chiamando questa distanza e la lunghezza di quegli archi si trova agevolmente col mezzo delle equazioni (15) (16) (dove ha però un significato diverso)
,
formola che presenta una singolare analogia con quella notissima che dà la corda in funzione dell’arco sotteso nel cerchio di raggio R. (Veggasi Battaglini, l. c., p. 229, ed anche una nostra Nota negli Annali di Matematica, t. VI, 1865, p. 271).
Da quanto precede ci sembra confermata in ogni parte l’annunciata interpetrazione della planimetria non-euclidea per mezzo delle superficie di curvatura costante negativa.
La natura stessa di questa interpetrazione lascia facilmente prevedere che non ne può esistere una analoga, egualmente reale, per la stereometria non euclidea. Infatti per conseguire l’interpetrazione testè esposta si è dovuto sostituire al piano una superficie che è con esso irriducibile, cioè il cui elemento lineare non può in alcun modo essere ridotto alla forma
che caratterizza essenzialmente il piano stesso. Se quindi ci mancasse la nozione delle superficie non applicabili sul piano, ci sarebbe impossibile attribuire un vero significato geometrico alla costruzione fin qui svolta. Ora l’analogia porta naturalmente a credere che, se può esistere una costruzione consimile per la stereometria non-euclidca, essa deve attingersi dalla considerazione di uno spazio il cui elemento lineare non sia riducibile alla forma
che caratterizza essenzialmente lo spazio euclideo. E poichè finora la nozione di uno spazio diverso da questo sembra mancarci, od almeno sembra trascendere il dominio dell’ordinaria geometria, è ragionevole supporre che quand’anche le considerazioni analitiche alle quali si appoggiano le precedenti costruzioni sieno suscettive d’essere estese dal campo di due variabili a quello di tre, i risultati ottenuti in quest’ultimo caso non possano tuttavia essere costruiti coll’ordinaria geometria.
Questa congettura acquista un grado di probabilità molto vicino alla certezza quando s’imprende effettivamente ad estendere l’analisi precedente al caso di tre variabili. Infatti ponendo
(18) | ||
↲ | ||
↲ | ||
, |
formola la cui composizione a priori colle tre variabili , , è suggerita dall’ispezione di quella della (1) colle due variabili , , si verifica agevolmente che le deduzioni analitiche cui dava luogo l’espressione (1) sussistono integralmente per la nuova, e che il valore di dato da essa è effettivamente quello dell’elemento lineare di uno spazio in cui la stereometria non-euclidca trova un’interpetrazione altrettanto completa, analiticamente parlando, quanto quella data per la planimetria.
Ma se alle variabili , , se ne sostituiscono tre nuove , , , ponendo
, | , | , |
si trova
,
formola la quale mostra essere , , coordinate curvilinee ortogonali dello spazio consideralo. Ora il sig. Lamé ha dimostrato (Leçons sur les coordonnées curvilignes, p. 76, 78) che assumendo come coordinate curvilinee dei punti dello spazio i parametri , , , di tre famiglie di superficie ortogonali, nel qual caso il quadrato della distanza di due punti infinitamente vicini è rappresentato da un’espressione della forma
,
le tre funzioni H, , di , , che figurano in quest’espressione sono necessariamente soggette a soddisfare due distinte terne di equazioni a derivate parziali, che hanno a tipo le due seguenti:
,
.
Nel nostro caso , , , e per questi valori le prime tre equazioni riescono identicamente soddisfatte, ma le seconde lo sono solamente nel caso di . Dunque l’espressione (18) non può appartenere all’elemento lineare dell’ordinario spazio euclideo e le formole appoggiate ad essa non possono essere costruite cogli enti forniti dall’ordinaria geometria.
Per completare la dimostrazione dell’impossibilità di conseguire una costruzione della stereometria non euclidea, senza uscire dal campo della geometria ordinaria, bisognerebbe poter escludere la possibilità di attingerla altrove che in una estensione del metodo seguito per la planimetria. Noi non pretendiamo di provare che ciò non si possa assolutamente fare: diciamo solo che la cosa ci sembra molto improbabile.
Abbiamo detto di passaggio che l’espressione (18) serve di base ad una completa interpetrazione analitica della stereometria non-euclidea. Questa interpetrazione viene da noi indicata altrove1. Qui facciamo solamente osservare che ponendo nella (18) si ottiene l’espressione dell’elemento lineare di una superficie reale di curvatura costante negativa; talchè quella superficie sulla quale abbiamo veduto verificarsi i teoremi della planimetria non-euclidea, può considerarsi come esistente tanto nello spazio ordinario, quanto nello spazio non-euclideo.
Note
- ↑ In uno scritto che davo comparire sugli Annali di Matematica, dove i principii più generali della geometria non euclidea sono considerati indipendentemente dalle loro possibili relazioni cogli ordinarli enti geometrici.
Col presente lavoro abbiamo avuto principalmente in animo di attirare qualche interesse sopra tali ricerche, offrendo lo sviluppo di un caso nel quale la geometria astratta trova riscontro nella concreta; ma non vogliamo ometterò di dichiarare che la validità del nuovo ordine di concetti non è punto subordinata alla possibilità o mono di un cosiffatto riscontro.