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coi loro santi; i pellegrini continuano come in passato a battere alla porta del monastero. Non hanno a temere più dei Saraceni, dei baroni rapaci, dei capitani di ventura, ma vivono in continuo pensiero per la rivoluzione, la quale finirà per tornare loro più fatale che i Saraceni ed i masnadieri del medio evo, imperocchè questi non avevano a temere che l’incendio od il saccheggio, con quella si tratterà di essere, o non essere. Inoltre i beni dei monasteri saranno incamerati, e l’importanza della chiesa non potrà a meno di soffrirne grave iattura. Un monastero finirà per diventare unicamente un soggetto d’arte di studio, di distrazione, come un antica pergamena, un codice miniato.

Il nome di Casamari venne spiegato erroneamente; come pure erroneamente lo spiega Wesphal nella sua opera sulla campagna di Roma per Casa amara, in allusione alla regola severa dell’assoluto silenzio prescritto ai monaci i quali vi hanno stanza. Vuolsi invece derivare da Casæ Marii, case di Mario, imperocchè la badia venne eretto in un fundus Marii, in un antico possedimento del rinomato eroe di Arpino. Così porta la tradizione, e così pure asserisce Rondini, che scrisse la storia del monastero pubblicata a Roma nel 1707. Venne questo fondato nel 1036 da alcuni pii abitanti di Veroli, e primi ad abitarlo furono i monaci dell’ordine di S. Benedetto; se non che essendo venuta a rilassarsi la loro disciplina; Eugenio III v’introdusse nel 1152 i Certosini, che possedono pure il bello e vicino convento di Trisulti. Federico II con un diploma del 1221, datato da Veroli, e che tuttora sussiste, confermò i monaci di Casamari in possesso dei loro beni, ma i suoi soldati rovinarono il monastero quando quell’imperatore venne a rottura con Roma.

La storia di Casamari non offre del resto veruna particolarità; non fu che una continua successione di guerre, di distruzioni, di costruzioni, alla quale andarono soggetti più o meno tutti gli antichi monasteri. Nessun uomo distinto uscì dalle sue mura. Casamari non ebbe una storia

F. Gregorovius. Ricordi d’Italia. Vol. II. 6