Pellegrino Rossi e la rivoluzione romana - Vol. III/Capitolo XIX
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CAPITOLO XIX
Il secondo Turno del Supremo Tribunale della Sacra Consulta, avanti al quale doveva discutersi questa causa fu convocato in una sala dell’edificio delle Carceri nuove in via Giulia, per il giorno di venerdì 24 marzo 1854.
A mezzo dei verbali — per quanto monchi ed incompleti — raccolti nel XVI ed ultimo Tomo di questo processo esistente nell’Archivio di Stato di Roma, fedelmente da me copiati e che, man mano, verrò riproducendo, i lettori assisteranno all’ultimo atto di questo dramma, cominciato col sangue e finito nel sangue.
Oggi, venerdì 24 marzo 1854.
Il secondo Turno del Supremo Tribunale della Sacra Consulta, composto degli Ill.mi e Rev.mi Monsignori Paolo Paolini Presidente, Luigi Fiorani, Giacomo Gallo, Giovanni Muccioli, Orazio Mignanelli e Vincenzo Golia tutti in qualità di Giudici, con l’intervento degli Ill.mi e Rev.mi Monsignori Bonaventura Orfei1 Procuratore dei poveri e Pietro Benvenuti2 Procuratore Generale del Fisco e della Reverenda Camera Apostolica e degli Ecc.mi signori avvocati Pietro Frassinelli, Pietro Gui e Giovanni Sinistri difensori di Ufficio3, assistendo l’infrascritto Notaio Cancelliere, si è adunato in una sala entro le Carceri nuove per giudicare in inerito ed a forma di legge la causa
ROMANA
DI LESA MAESTÀ CON OMICIDIO
CONTRO
Grandoni Luigi, Costantini Sante, Francesco Costantini, Selvaggi Gioacchino, Papucci Paolo, Testa Alessandro, Caravacci Giuseppe, Diadei Cesare, Colonnello Ruggero, Facciotti Bernardino, Facciotti Filippo, Giovannelli Giuseppe, Capanna Filippo, Zeppacori Innocenzo e Fabiani Giuseppe.
Aperta la seduta alla solita ora (9 antimeridiane), recitate le solite preghiere da Monsignor Presidente:
Vista la dichiarazione del prevenuto Ruggero Colonnello, il quale rinunzia all’intervento;
Vista la dichiarazione di tutti gli altri prevenuti di voler presenziare la seduta;
Introdotti liberi e sciolti gli inquisiti e fatti sedere ecc.4 ed interrogati secondo l’ordine che sedevano sulle generali risposero chiamarsi;
Giuseppe di Giosafatte Giovannelli, da Pofi, di anni quaranta, calzolaio;
Francesco di Feliciano Costantini, da Fuligno, di anni ventuno, ebanista;
Filippo di Giacomo Facciotti, da Palestrina, di anni trenta, ebanista;
Gioacchino del fu Nicola Selvaggi, romano, di venticinque anni, orologiaio;
Luigi del fu Pietro Grandoni, romano, di anni quaranta, mercante di campagna;
Cesare del fu Luigi Diadei, di Albano, di anni ventotto, vetturino;
Sante di Feliciano Costantini, da Fuligno, di anni ventiquattro, scultore;
Paolo di Giuseppe Papucci, romano, di anni ventisei, rigattiere;
Filippo del fu Domenico Capanna, romano, di anni quarantatre, possidente;
Giuseppe del fu Luigi Fabiani, alias Carbonaretto, di Bocca di Rapa, di anni quarantasei, negoziante di carbone;
Innocenzo del fu Filippo Zeppacori, romano, di anni ventinove, pescivendolo;
Alessandro di Clemente Testa, romano, di anni trentadue, cacciatore;
Bernardino di Giacomo Facciotti, da Palestrina, di anni trentaquattro, ebanista;
Giuseppe di Angelo Caravacci, alias Mecocetto, romano, di anni venti, negoziante di pellami.
Inteso il rapporto fatto da Monsignore Ill.mo e Rev.mo Muccioli, Giudice Relatore;
Ammoniti ed esortati da Monsignor Presidente i prevenuti ad esser veritieri nelle loro risposte, mentre la verità può giovarli, come al contrario la bugia può nuocerli;
Fatti ritirare gli altri prevenuti è rimasto solo Luigi Grandoni, il quale, alle opportune domande ecc. rispose desiderare che siano chiamati a confronto alcuni testimoni. Sa che lo spirito della legge si oppone a questo confronto, perchè non sian palesati i nomi dei testimoni, ma poichè qui i nomi dei testimoni sono palesi, non ha più ragione tale disposizione di legge.
Il Presidente risponde vietato dalla legge il confronto dei testimoni nelle cause politiche quindi non si può ecc.
Grandoni vuol sapere se il Fisco, quando pretende che a Capranica si cospirasse, intende che ciò si facesse ad alta voce ed in modo di riunione, oppure in complotti particolari.
Il Presidente gli soggiunge che i testimonii depongono che al Capranica si cospirasse e che, in conseguenza, quando il Fisco ha ciò potuto stabilire legalmente nulla gli importa se ciò si facesse ad alta voce, o in complotti particolari.
Grandoni replica che se il signor Presidente ha pazienza e si vuol prestare egli è pronto a provare che tutte le riunioni del Teatro Capranica nelle quali egli intervenne furono tutte presenziate anche da Ruspoli, Costa e Belli e, perciò, brama sapere come il Fisco pretenda si riunissero, se col mezzo di biglietti, o di intimo verbale.
Il Presidente quando il Fisco ha stabilito che si riunivano al Capranica e che esso Grandoni vi interveniva ciò basta e non è necessario sapere modi e mezzi di riunione.
Ad istanza dell’avvocato Gui, il presidente interroga Grandoni a precisare chi somministrava, chi custodiva, chi apriva, chi chiudeva il teatro Capranica.
Grandoni, il locale fu trovato da un tal Buti e se si fosse subito esaminata la custode del teatro si sarebbe da essa saputo chi accomodasse il teatro, quante sedie si ponevano, chi vi accedeva, di che si parlava ecc.
Dichiara poi che, aperti i ruoli a San Claudio ognuno vi si iscriveva di proprio carattere.
Domanda che gli vengano presentate tutte le carte perquisitegli, giacchè nelle medesime, forse, si troveranno pezze d’appoggio per la sua giusticazione.
Nega di essere andato all’osteria Mattei, al fienile Brunetti, di avere la sera del 14 novembre 1848 accompagnato Sterbini a Ripetta.
Ranucci, Todini, Trentanove non erano Legionari.
Nega di aver detto ai Legionari di recarsi il 15 novembre con la tunica di Vicenza alla Cancelleria.
Si riporta ai suoi costituti e prega il Tribunale di volerlo risentire prima di principiare la discussione.
È fatto ritirare.
È introdotto Innocenzo Zeppacori il quale dice esser tutto falso quanto ha narrato nei suoi costituti ad eccezione della gita a Frascati e della mostra fatta dal Costantini dell’arma che uccise il Rossi. Falso tutto ciò che deduce la Di Bianchi e lui non può confermarlo. Spessissimo i fratelli Costantini accedevano al palazzo di Venezia.
Lui fu fatto capo-popolo quando i Francesi sbarcarono a Civitavecchia.
E, ad onta delle ammonizioni e contestazioni fattegli dal Presidente, sostiene che la verità è quella che dice oggi e che i suoi costituti non sono che un ammasso di menzogne da esso dette per liberarsi dalla segreta.
È fatto ritirare.
Stante l’ora tarda è rimandata la prosecuzione a lunedì 27 corrente5.
Chi legge oggi, dopo oltre mezzo secolo, i verbali così sommari e, spesso, così incompleti e vede i metodi di procedura seguiti a quei tempi e dinanzi a quei Giudici, metodi così diversi dagli odierni, non può non rimanere meravigliato vedendo tre soli difensori per quindici imputati, nessuna presenza di testimonii ai dibattimenti, non confronti e contestazioni orali fra accusati e accusatori, mancanza assoluta, insomma, di qualunque di quelle garanzie che, oggi, forse, con soverchia abbondanza, sono concesse per la serietà dei dibattimenti e della difesa, e dopo essere rimasto stupefatto e atterrito dal metodo immorale ed infame della concessione di impunità non può non rimanere più atterrito e più indignato ancora, osservando che l’impunitario accusatore è assente dal dibattimento.
I dibattimenti, fatti in questa guisa e con questi metodi, si riducevano ad una quasi irrisoria formalità e già i lettori hanno veduto, con quale piglio secco e sprezzatore, il Presidente Monsignor Paolini tagliasse corto sulle domande del Grandoni; e tale piglio insolente si legge chiaramente fra le linee del sommario verbale quando il Grandoni, pur così fiero ed irruente, dice: se il signor Presidente ha pazienza e si vuol prestare — come sarebbe stato suo rigoroso dovere, del resto — io sono pronto a provare ecc.
Ma a ben altre sorprese sono riservati i lettori di que-, sto libro circa agli atti di questo Supremo Tribunale.
Il quale il 27 marzo tenne la sua seconda udienza come si rileva dal seguente verbale.
Lunedì 27 marzo 1854.
Aperta la seduta alla solita ora (9 antimeridiane) recitate le solite preci ecc., libero e sciolto è introdotto Sante Costantini, il quale ripete ciò che disse nei costituti. Arrestato ad Ancona mentre era sul punto di imbarcarsi ecc.
Era partito da Fuligno a istigazione degli zii, giunse a Roma il 5 o l’8 novembre ecc.
Ammette aver conosciuto di vista Angelo e Luigi Brunetti, Neri, Selvaggi, Ranucci; nel Veneto conobbe Grandoni: andò talvolta all’osteria Mattei, al fienile di Ciceruacchio per la distribuzione delle pistole per pattugliare ma dopo il 15 novembre 1848: non fu al Circolo popolare la sera del 14 novembre, non accompagnò Sterbini a casa; conosce Zeppacori.
Monsignor Procuratore Fiscale vuol sapere dove l’inquisito si trattenesse ieri, mentre si interrogava Grandoni.
Risponde: in una camera contigua alla camera di seduta in unione degli altri coinquisiti, compreso Zeppacori. Dio protegge l’innocenza, mentre lui ha inteso che Zeppacori si è ricreduto delle menzogne inventate.
Nega di essere stato ai pranzi al palazzo di Venezia, stette sempre al suo posto a San Pancrazio.
Nega le manifestazioni che Zeppacori afferma fattegli per la strada di Frascati.
Del resto si riporta ai suoi costituti.
È fatto ritirare.
È introdotto Alessandro Testa. Da Alessandro Folcari seppe come fu ucciso il Rossi e come i due Pennacchini fossero fra gli uccisori, afferma propriamente quelli che con le daghe dettero le puntate al Rossi stesso.
Per avere un posto a Tor di Quinto, da Guerrini fu mandato a Ciceruacchio che trovò all’osteria Hattei coi fratelli Costantini, che non conosceva e imparò a conoscere.
Nega il suo accesso al Capranica. Fino al 18 e al 14 novembre stette alla caccia delle lodole fuori di Porta San Giovanni a nove miglia da Roma e cita a testimoni Filippo Renazzi e Paoletto Borghi.
È fatto ritirare.
È introdotto Gioacchino Selvaggi, il quale non può che ripetere che ciò che disse nei costituti.
Ad istanza dell’avvocato Pietro Frassinelli interrogato dice che nel 1851 fu chiamato dal Capo ufficio passaporti De Magistris da cui gli fu intimato il rimpatrio: provato esser lui romano gli fu ingiunto il rigoroso precetto politico: convinto di non meritarlo fece istanza per giustificarsi. Intanto nel carnevale del 1852 fu arrestato. Dopo sedici giorni fu dimesso e gli fu rinnovato il precetto.
Poi fu carcerato per la presente causa e, dieciotto mesi dopo che stava in carcere, andarono a casa sua per arrestarlo.
Nega aver firmato il ruolo dei Legionari. Dice che queste sue persecuzioni non le può ripetere che da domestici dissapori.
Stante l’ora tarda, recitate le solite preci, l’udienza è rinviata a domani 28 corrente6.
Martedì 28 Marzo 1854.
Recitate ecc. si è introdotto Filippo Capanna, il quale non è andato ad alcuna riunione: un tal Gualdi e un tale Scalzi potranno dire se ciò sia vero.
Ad istanza dell’avvocato Pietro Frassinelli, il Capanna, interrogato, dice che tutte le sere dell’intero mese di Novembre 1848 egli le passò nei negozi del cappellaio Vincenzo Valentini e dell’armiere Giuliano Smoracetti e potranno attestarlo il figlio di Nardoni, di nome Luigi, il figlio di Galanti, Scalzi e Gualdi.
Il signor avvocato Frassinelli chiede che siano interrogati i suddetti giudizialmente.
Il Procuratore fiscale non si oppone, ma vuole sapere perchè tali deduzioni non furono dal Capanna fatte quando era esaminato dal Giudice.
Risponde quando fui interrogato ero in stato di convulsione e non ricordai questi particolari: la notte, calmato, ripensandoci, me ne rammentai: feci istanza al Giudice Istruttore per essere risentito, non mi si volle udire, perchè dissero che il Giudice Processante era partito da Civitacastellana.
Ritiratisi Capanna e tutti gli altri7 il Tribunale è rimasto solo (!) per deliberare sulla domanda dell’avvocato Frassinelli.
Il Tribunale decreta che si proceda nella discussione della causa, riserbandosi nel giorno del relativo giudizio di emettere analoghe risoluzioni sulla dimanda della difesa relativamente al prevenuto Capanna.
Questi è introdotto di nuovo: nnll’altro ha da dire: è fatto uscire, ed entra Giuseppe Caravacci.
Ripete ciò che disse nei costituti: la distribuzione del danaro e delle pistole al fienile non avvenne prima, ma dopo il 15 Novembre 1848.
Non fu Capo-popolo, non appartenne al Battaglione Reduci e ripete lui essere stato il 15 ad assistere il fratello Luigi, gravemente malato.
Esce Caravacci e introducesi Cesare Diadei che si riporta a ciò che disse nei costituti. Dice che a Tor di Quinto era Vice-Caporale e trovarsi in miseria per la cattiveria di Bernasconi.
Attesa l’ora tarda recitate le solite ecc. rinviasi l’udienza a domani 29 corrente8.
Mercoledì 29 Marzo 1854.
Recitate le solite preci ecc. Bernardino Facciotti è introdotto: ripete ciò che disse nei costituti: nega la conoscenza di Grandoni; non ha altro da dire.
Si ritira: entra Giuseppe Fabiani che dice esservi altri soprannominati Carbonaretti. Il 15 Novembre 1848 era all’esame del Giudice Picchiorri, il quale potrà dire a quale ora terminò l’esame, avendo esso Picchiorri guardato l’orologio e poi dà una coartata del dove e con chi passò, tutta la, giornata del 15. Dice che, due o tre giorni dopo partito il Papa, egli cantò al Caffè delle Belle Arti un inno in lode di Pio IX e fu fischiato.
Si ritira: entra Paolo Papucci, che si riporta ai costituti.
Si ritira il Papucci, entra il Giovannelli: ripete che il 15 Novembre era di guardia al quartiere e che due religiosi, dei Ss. Cosma e Damiano parlarono con lui sulla porta del quartiere stesso. Si ritira.
Entra Filippo Facciotti, si riporta ai suoi costituti e aggiunge solo: nego di aver detto al Processante che Salvati godeva opinione di spia.
Ora tarda: solite preci: a domani 309.
Giovedì 30 Marzo 1854.
Recitate le solite preci, entra Francesco Costantini, nega qualunque sua responsabilità nel delitto, ripetendo quanto ha detto nei suoi costituti.
È nuovamente introdotto, in seguito ad istanza fatta pervenire al Presidente per mezzo dell’Avvocato Gui, Luigi Grandoni che ripete quanto ha detto nella prima discussione. Torna ad insistere perchè gli siano mostrate tutte le carte appresegli: su di che il Signor Presidente gli ha detto saranno dati gli ordini opportuni al Giudice Processante.
Attesa l’ora tarda e avendo i Difensori domandato qualche giorno di sospensione onde potersi meglio orizzontare il Presidente ha differito la prosecuzione ad altra udienza da destinarsi. Solite preci ecc.10.
Mercoledì 5 Aprile 1854.
Il Presidente fa dare lettura di una istanza del prevenuto Costantini Sante in data 4 aprile che chiede essere nuovamente inteso.
Il Fiscale non si oppone. Il Tribunale rimasto solo emette ordinanza con cui è accolta la domanda di Sante Costantini e si ordina che esso venga condotto avanti al Tribunale.
Il Costantini, prima di entrare nella Camera ove era adunato il Tribunale, ha consegnato al Notaio Cancelliere un foglio affinchè fosse consegnato al Presidente.
Ciò eseguito Monsignor Presidente ha ordinato che la prosecuzione di questa causa sia inviata ad altra udienza da destinarsi11.
Solite preci ecc.
Ora ecco la lettera con cui il Costantini indirizzava al proprio difensore Avvocato Pietro Gui la istanza rivolta al Presidente del Supremo Tribunale, che parimenti riproduco.
Ambedue i documenti sono di carattere di Sante Costantini
- (Fuori).
«All’Ill.mo e Preg.mo Signore
- Il Sig. Avv. Gui, Difensore presso la S. Consulta
Pressante | S. R. M. |
- (Dentro).
- «Ill.mo Signore
Perdonerà se col mezzo della presente vengo ad incomodarla, ma siccome ho deciso di avanzare un’istanza presso l’Ecc.mo Tribunale onde essere riammesso in udienza per dare nuovi ed esattissimi schiarimenti per conoscere la verità e nel medesimo tempo la mia innocenza, prego V. S. Ill.ma perchè voglia insistere presso il sullodato Tribunale a volermi accordare tanto favore e spero che, dal canto suo, non ometterà cosa alcuna perchè mi venga concesso.
«Pel caso, come spero, mi verrà accordato avrei bisogno estremo di vederla qualche giorno prima della udienza; e, in attesa di una qualche risposta in proposito, La prego a tenermi per iscusato e nel momento che Le rinnovo tutta la mia stima e servitù, ho l’onore di segnarmi
- «Dell’Eccellenza Vostra Rev.ma (sic).
- Da S. Michele 4 aprile 1854
U.mo Dev.mo, servitore |
Ed ecco la istanza:
(Fuori).
«A sua Eccellenza Rev.ma Monsignor Paolini Presidente del secondo Turno della Sacra Consulta,
Per Sante Costantini Detenuto a San Michele».
(Dentro).
- «Eccellenza Rev.ma,
«Le malignità di qualche miserabile, offuscando, con le sue menzogne in modo veramente strano la verità e l’innocenza, fa vedere avanti l’Ecc.mo Tribunale un caos tutto esagerato, tutto travisato, tentando, se potesse, di tenere l’Ecc.mo Giudice nel dubbio e nelle tenebre col sacrificare tanti innocenti, per tenere celati sè stessi coi loro delitti.
«Deciso prima di morire che permettere, per quanto potrò dal canto mio, tanta infamia mi faccio ardito di rivolgermi supplichevole all’Eccellenza Vostra Rev.ma perchè voglia degnarsi, prima di decidere la causa di volermi sentir nuovamente, avendo nuove cose e reali proposte da fare per giungere all’esattissimo scoprimento della cosa.
«Sicuro che l’Ecc.mo Tribunale non vorrà omettere cosa alcuna dal canto suo per rendere giustizia a chi di dovere, così pure vorrà degnarsi di accordarmi tanto favore; e nella speranza di essere esaudito, non manco di porgere fervidi voti all’Altissimo pella lunga e prospera vostra conservazione.
- «Li 4 aprile 1854».
Ed ora riproduco il Rivelo stragiudiziale da Sante Costantini indirizzato a Monsignor Presidente del secondo Turno del Supremo Tribunale della Sacra Consulta e da lui consegnato nelle mani del Notaio Cancelliere.
A proposito di questo Rivelo — pur troppo tardivo e pur troppo fallace e menzognero — vedranno i lettori quale formidabile lotta si impegnò fra Monsignor Procuratore Generale Fiscale Benvenuti e il Presidente del secondo Turno Monsignor Paolini da una parte e il coraggioso e integro Avvocato Pietro Gui dall’altra.
Il Rivelo era preceduto dalla seguente lettera e tanto l’uno quanto l’altro documento sono scritti tutti due di mano di Sante Costantini.
(Fuori).
«A Sua Eccellenza Rev.ma Monsignor Paolini
Presidente del secondo Turno presso il Tribunale
della S. Consulta
Per Sante Costantini che supplica come entro.
(Dentro).
- «Eccellenza Rev.ma,
«Onde il Supremo Tribunale della S. Consulta conosca che nulla, per quanto le mie forze potevano, fu omesso da me allo scopo non solo di giustificarmi da tante accuse false che mi gravano, ma bensì di far conoscere cose circostanziate e dettagliate, dietro le quali facilmente si possa giungere all’esatto scoprimento della verità: mi faccio ardito umiliare all’Eccellenza Vostra Rev.ma questi fogli che accludo, vergati di mio pugno, facendo nel medesimo tempo calda istanza presso la sullodata Eccellenza Vostra Rev.ma perchè voglia degnarsi farli leggere a tutti l’Ecc.mi Giudici componenti il secondo Turno che mi devono giudicare, prima della decisione, onde se ne faccia quell’uso che se ne crederà opportuno.
«Nella viva speranza di essere compiaciuto, sperando che non giungeranno al Supremo Tribunale discari, non manco nel medesimo tempo di porgere fervidi voti all’Altissimo pella lunga e prospera vostra conservazione.
«Che ecc.».
Ed ecco i fogli delle rivelazioni Costantini o meglio della confessione stragiudiziale Costantini che, per seguire il frasario giudiziario, si deve chiamare Rivelo13.
«Sicuro della mia innocenza, dormiva i miei sonni tranquilli, aspettando che l’Ecc.mo Tribunale, illuminato e informato della pura verità, fosse per ridonarmi nel seno della mia cara famiglia. Immerso in queste belle speranze, giunta l’ora del disinganno, toccai quasi con mani che tutt’altro destino mi si preparava dalle astutissime e nere trame dei malvaggi (sic), dopo aver tessuto con somma birberia e scaltrezza calunnie di nuovo genere, incolpandomi di cose in cui non feci peccato nemmeno di pensiero.
«Eccellenza Rev.ma, deh! prima di pronunciare qualunque giudizio degnatevi di ascoltare le parole di un innocente, giocato nel modo più barbaro dalla sorte, parole che non solo tendono a farvi veder chiaro come la luce del giorno la mia innocenza, ma bensì, siccome tratterò di narrare certi fatti, visti coi miei propri occhi (quali tutti potranno essere provati) necessariamente bisogna che ne venga lo scoprimento di quanta scaltrezza si servirono onde ingannarvi, inventando, offuscando, travisando circostanze e persone le più essenziali del fatto e preparandovi in seguito di tutto ciò al sagrificio tanti innocenti (sic), tacendovi i Rei e quei che in qualche modo mi parvero spettatori del delitto.
«L’idea funesta di dover divenire un delatore, una spia, la paura di un nome infamante, i pericoli, le odiosità personali, le minaccie, sì, tutte queste cose, Eccellenza Rev.ma, mi fecero tacere sino a questo punto, quanto era a mia cognizione innocentemente pervenuto e per loro tra mille miserie soffrii un duro carcere di 52 mesi, coll’incessante tormento davanti agli ocelli di vedere un povero e infelice fratello, innocente come Dio, languire anche esso nello squallore d’un carcere, purgando così i peccati altrui.
«Veniamo a noi.
«Qual parte delittuosa ebbi mai nell’assassinio del Conte Rossi? Lo dirò, Eccellenza Rev.ma, come inquisito a gloria della verità e dell’innocenza, lo dirò perchè, scevro da qualunque colpa, non intendo avere promesse e ricompense, lo dirò, in fine, perchè in seguito di tante imposture è impossibile che l’Ecc.mo Tribunale non possa incorrere in qualche falso giudizio e acciò, smentita la menzogna, e messo sulla retta strada, possa facilmente giungere all’esatto scoprimento della verità».
E qui comincia il Rivelo, ossia il racconto che io riassumo fedelmente, spogliandolo solamente delle frasi retoriche di cui inutilmente abbonda.
«Sui primi di novembre 1848 egli partì da Fuligno con suo fratello Francesco, coi mezzi che aveva loro somministrato lo zio Don Luigi, per trovare lavoro a Roma nelle loro respettive professioni. Egli propose al fratello di fare un viaggetto artistico, andando a piedi e lasciando le loro robe a Fuligno perchè fossero inviate — come di fatti furono inviate verso la fine di novembre — per mezzo di qualche vetturino. Così si incamminarono verso Campello, ove furono bene accolti in casa di Luigi Perfetti, donde, accompagnati da Bartolomeo Perfetti, andarono in carrettino a Spoleto, ove non trovarono alcuno che li attendesse, come depose quel bugiardo Stamigna; poi per lo stradale di Terni, Narni, Otricoli, Civita Castellana, Monte Rosi, vennero a Roma fra il 9 e il 10 di novembre e andarono ad abbracciare la madre e gli pare di essere andato subito a vedere i suoi compagni scultori allo studio Ierican, i quali gli dissero che in tutti gli studii di scultura si stentava il lavoro: nè andò mai in quei giorni, a riunioni di sorta.
«Il 15 novembre egli uscì di casa fra le 9 e le 10 antimeridiane, vestito in borghese, perchè la montura di legionario era nel suo equipaggio, non ancor giunto da Fuligno. Uscì tardi perchè soffriva di emorroidi. Andò, a caso, verso San Lorenzo in Lucina, ove incontrò un certo Annibale Focolari legionario, vestito con la tunica di Vicenza.
Il Focolari gli disse di trovarsi in dure necessità ed egli fraternamente gli rispose di trovarsi egli pure allo stremo. Allora il Focolari gli disse che Sua Eccellenza il Principe Don Marcantonio Borghese era tanto buono e soccorrevole e gli propose di andare tutti due insieme da lui a chiedergli un sussidio. E andarono, si fecero annunziare: il Principe li accolse con molta buona grazia e disse al Focolari, che era stato quello che aveva parlato, che un giovane robusto come lui poteva trovare mezzi di sussistenza, arruolandosi nelle truppe del Pontefice. Al che il Focolari rispose che aveva già parlato col Colonnello Calderari per essere accolto fra i Gendarmi a Cavallo e che aspettava appunto da un giorno all’altro l’ammissione. Il Principe disse spiacergli l’assenza del suo maestro di casa: fossero tornati la sera verso mezz’ora di notte: avrebbe loro fatto dare qualche sussidio.
«Egli desidera che sia interrogato il Principe Borghese perchè, essendo il Focolari alto e lui Sante Costantini piccolo, facilmente esso Principe potrà ricordare che quegli era in pannutella e lui rivelante in borghese.
«Usciti dal palazzo Borghese egli e il Focolari andarono verso il Caffè Nuovo e il Focolari volle fare un tentativo per avere soccorso in casa del Duca Marino Torlonia. Egli, spiacente di fare simili figure, accompagnò il Focolari sino al portone del palazzo Torlonia: l’altro andò su, ma inutilmente, non avendo trovato in casa il Duca.
«E allora egli e il Focolari se ne andarono verso piazza Colonna e là venne loro l’idea — non ricorda più come precisamente — di andare ad assistere alla seduta di riapertura della Camera, tanto più che esso ne aveva curiosità, perchè non c’era mai stato.
«E andarono a bell’agio. Giunti sulla piazza trovarono gran folla di gente, vestita in varia guisa, borghesi, civici e parecchi Legionari in divisa; entrarono nel portone a stento e nell’atrio affollato riconobbe qualcuno di quei Legionari, Giovanni Costa, i due fratelli Buti, un tal Rocchi, certo Piastrini, Alessandro Testa, Felice Neri e vide anche un Dragone. Gli pare di aver veduto anche un tal Selvaggi e un certo Giuseppe Scipioni. Chi più attrasse la sua attenzione fu un giovane non tanto alto, bruno di carne, con barbetta nera, di età di circa trent’anni, che discorreva premurosamente non sa di che con qualcuno e che poi, un mese dopo, apprese essere uno dei figli di Sebasti.
«Egli e il Focolari salirono la scala facendosi largo, e andarono su per entrare nelle tribune. Ma ne videro la porta chiusa e guardata dalla Civica. Videro entrare il Principe Borghese, e poco dopo Sterbini, accolto con una battuta di mani.
«Le emorroidi non gli davano tregua, quindi ridiscese solo, avendo perduto nella folla il Focolari e mentre cercava farsi largo nella calca, udì venire una carrozza, accolta da fischi, e vide scendere un vecchietto e, soffermatosi alquanto per curiosità, egli rivelante in questo momento si accorse che presso alla scala, ove poc’anzi aveva visto il Sebasti, c’era Luigi Brunetti, che egli conosceva di vista, il quale esso vide coi propri occhi dare come un solenne schiaffo al Ministro. Nel momento esso rivelante rimase atterrito senza far moto alcuno, quando tutto ad un tratto vide (sic) il medesimo Brunetti, vestito con la tunica di Vicenza, con una lama nella mano, staccarsi dalla scala e incontrarsi con Raffaele Pennacchini vestito in borghese e che esso rivelante pure conosceva e vide unirsi a quei due altri cinque o sei individui, vestiti, come or ora dirà, in diverse forme.
«Vide agitarsi la massa del popolo, cercando uno scampo e lui seguí, allo stesso scopo, la corrente che si dirigeva per l’interno del cortile verso il Vicolo dei Leutari. Egli fu raggiunto al voItone che mette a quella sortita dei Leutari da Luigi Brunetti in mezzo a Raffaele Pennacchini e ad uno vestito con la divisa del Battaglione Universitario, ad un tale in borghese dalla barba rossa, a lui rivelante ignoto: appresso a quei tre quel giovine col berretto da Dragone, un altro a lui sconosciuto e che non vide mai più e il minore dei fratelli Pennacchini. Imparò esso rivelante, nello stesso giorno, come si vedrá, che quel della barba rossa si chiamava Ranucci e che quello vestito dell’uniforme del Battaglione Universitario si chiamava Filippo Medori.
«Al sopraggiungere di quel complotto di persone lui non potè ristare dal non osservarli (sic) e uno di quelli notò lui e lo indicò a quel della barba rossa con un brutto sogghigno: di che accortosi Raffaele Pennacchini disse all’altro che lasciasse andare lui Costantini, perchè era un buon giovinotto. Esso rivelante rimase alquanto indietro e, in compagnia di molte altre persone, procedeva per via, seguendo a trenta o quaranta passi quel gruppo di Brunetti e dei suoi amici: a Sant’Eustachio quello col berretto da dragone e l’altro, che rimase sempre a lui ignoto, presero per la Palombella: alla Rotonda i due Pennacchini presero per la Maddalena; il Brunetti, il Ranucci e il Medori per gli Orfanelli e per piazza Colonna, dove esso rivelante li perde di vista.
«Egli andò dritto a casa, ove pranzò con la sua famiglia, cioè con la madre, con Francesco e coi fratelli uterini di Bartolomeo Cimarelli e crede che sopraggiungesse pure Maria Spacca. Circa le ore ventuna uscì di casa, dirigendosi a via Frattina, quando fu a metà di Via della Vite si incontrò con Raffaele Pennacchini, in compagnia — gli pare, ma non ne è sicuro — di Alessandro Testa. Il Pennacchini gli disse che doveva parlargli e lo condusse all’osteria Mattei a piazza di Spagna. Là trovò molta gente che egli non conosceva e qualcuno che aveva veduto già, ma solo di vista. Furono essi invitati a bere e il Pennacchini lo presentò ad Angelo Brunetti, che egli vedeva per la prima volta. Si scambiarono qualche complimento e il Pennacchini fece intendere a Ciceruacchio che lui Costantini poteva aver veduto qualche cosa alla mattina, alla Cancelleria; e lui rivelante alla meglio che potè fece capire che non aveva visto nulla; giacchè lui non aveva nessun piacere di intrigarsi negli affari altrui. Va bene — disse Ciceruacchio e, passando in una retro-camera, indi a poco, lo fece chiamare, pregandolo e ingiungendogli a voler tener celato per carità qualunque cosa avesse egli rivelante obito, promettendogli in questo caso la sua protezione e nel caso diverso facendogli intendere che gliene sarebbe venuto molto male.
«Intanto sopraggiunse un tale, che poi egli seppe essere Pietro Guerrini, il quale domandò che cosa fosse, al che il Brunetti narrò di che si trattava, onde il Guerrini, volgendosi a lui Costantini disse: Già ... si sa ... non sarai, al caso, una creatura: al mondo quel che si vede si vede e quel che si sente si sente, diversamente chi la c... se la mangia e poi e poi... E qui il Guerrini si arrestò: e lui rivelante ad affannarsi a fare intendere al Guerrini che lui Costantini non poteva dir niente di nessuno. .. e in poche parole, anche nel caso diverso gli promise che si sarebbe taciuto.
«Trattenendomi in questo luogo — continua a scrivere Sante Costantini — sentii che il Guerrini, mentre erano presenti il Ranucci, il Testa e il Pennacchini, avendo appreso come fosse stato trafugato Luigi Brunetti, rimproverò aspramente Ciceruacchio, ingiungendogli che bisognava con tutti i mezzi non dar motivo alcuno a sospetti sulla persona del figlio e bisognava all’istante farlo ritornare e che, insomma, bisognava lavorarla con grande pulizia, che, magari, potendo, si facesse ogni sforzo, perchè, lanciati all’uopo anche altri sospetti, si confondesse e si offuscasse la verità. E qui seguitò dire altre cose che non rammento, tutte analoghe presso a poco al discorso: alle quali parole sentii che Angelo Brunetti gli rispose che già si era pensato di mandare a riprender suo figlio Luigi e che, al proposito, aveva dato la commissione a un tal vetturino che udii nominare Langricchia. Il luogo poi dove lo trafugassero non lo so.
«Poco dopo lui rivelante, fatti i complimenti, se ne andò e prese per la Via Condotti, versò il Caffè Nuovo per trovare il Focolari, a fine di andare dal Principe Borghese. Dopo qualche ricerca, lo rinvenne e, passata con lui il resto della giornata, verso mezz’ora di notte, si avviarono al palazzo Borghese e, all’angolo del Caffè Nuovo, videro traversare la dimostrazione nella quale notò Luigi Brunetti, i fratelli Pennacchini, Medori, Neri, Selvaggi, Testa e Ranucci. Ma lui e il Focolari non si trattennero e si recarono all’appuntamento. Attesero che Sua Eccellenza terminasse da pranzo: poi il Principe venne e si scusò che stante la giornata inquieta, egli non si fosse rammentato di dare ordini al Maestro di casa: tornassero da lui la mattina seguente: impreteribilmente li avrebbe favoriti, scuse e complimenti da parte di loro due, che se ne andarono, lamentando il Focolari che per loro sventurati anche quella infame combinazione dell’uccisione del Rossi doveva succedere!
«E qui lui Costantini rivelante si meraviglia e protesta che qualche malvagio abbia voluto accusar lui di essere stato a fare il pagliaccio nella dimostrazione della sera del 15, proprio nell’ora che egli era dal Principe Borghese.
«La mattina appresso col Focolari, con cui aveva preso appuntamento, si recavano ambedue al palazzo Borghese, ove il Maestro di casa del Principe diede loro, a nome di esso, due scudi, o ventidue paoli d’argento per ciascuno. Uscirono: non ricorda bene dove andassero, crede bene a far colazione. Così esso rivelante ha creduto dare i suoi discarichi pel giorno 15 novembre: ora aggiungerà, con lealtà e sincerità, qualche altro fatto in parte ignoto o oscuro sugli avvenimenti del giorno 16 a scoprimento di verità e di innocenza. Si trovò pel Corso quando passò la dimostrazione per Monte Cavallo e si unì innocentemente (?!) a quella. Ma siccome lassù non vide nè Luigi Brunetti, nè alcuno dei compagni di questo del 15 novembre e siccome il Pontefice per quei fatti di Monte Cavallo ha dato completa amnistia così non crede narrare ciò che vide e udí.
«Il 17 novembre circa i tre quarti di notte, traversando piazza di Pietra con un certo Mazzanti musaicista, trovarono, presso l’osteria dell’Archetto, che urinava uno dei fratelli Orengo, che lui conosceva di vista e che salutò il Mazzanti e li invitò ambedue ad andare a bere. Di fatti lui, il Mazzanti e l’Orengo entrarono tutti tre nell’osteria e vi trovarono diversi individui che mangiavano e bevevano fra cui Luigi Brunetti, Filippo Medori, Angelo Civilotti e un tal Giovanni Marchetti. Bevvero tutti insieme: a un tratto Luigi Brunetti si alzò e andò a parlare con un uomo, che era apparso sull’ingresso dell’osteria, di circa quarantanni, piuttosto tendente all’alto, complesso, senza barba e senza baffi.
«Quei due parlavano in segreto nè lui rivelante sa di che: solo gli pareva che il Brunetti si lamentasse di qualche cosa e che l’altro si scusasse. Poi Luigi Brunetti condusse quello dentro e gli diede da bere: poi uscirono tutti e lui rivelante e il Mazzanti furono pregati (?) di andar con loro a Monte Cavallo. Camminando lui domandò, per curiosità, chi fosse quel tale che aveva discorso e che, dopo bevuto, se ne era andato pei fatti suoi e il Civilotti rispose a lui rivelante essere colui un tal Salvatori, il cocchiere del Conte Cini, il quale — ma ciò lui Costantini lo seppe qualche mese dopo — avrebbe dovuto avvertire il Brunetti del quando sarebbe partito il Duca di Rignano, con cui stava per cocchiere il figlio di quel tal Salvatori; e in quella sera costui aveva detto al Brunetti sull’uscio dell’osteria dell’Archetto che il Duca era già partito, per Napoli, gli pare.
«Così, continuando a camminare, il Brunetti, lui rivelante e gli altri menzionati, andarono alla Consulta, dove Brunetti parlò con un Dragone, che lui Costantini riconobbe per quello che era alla Cancelleria col Brunetti stesso il 15 novembre. Il Brunetti andò su per la scala del palazzo con Medori, col Civilotti e con un altro; lui restò nel cortile con Mazzanti, con Marchetti e con Orengo: dopo un poco gli altri quattro tornarono giù con un lume e condussero anche loro, che erano rimasti giù, a perquisire le scuderie, dove cercavano il Cardinale Lambruschini, il quale abitava in quel palazzo.
«Da quella sera passò gran tempo e senza che egli rivedesse alcuno dei sunnominati.
«Tutto questo è il male che lui ha fatto: Giovane, a ventidue anni, inesperto, cercò di vivere alla meglio, in tempi difficili, senza nuocere ad alcuno, ma senza attirarsi odiosità, anche per paura della vita.
«Quanto vi ho detto — prosegue il Costantini — son pronto anche a provarlo coi mezzi i più straordinari. . .».
E qui c’è un segno di chiamata e, riportato lo stesso segno a margine del foglio, ivi, sempre di tutto carattere del Costantini, è scritto così:
«E qui fin da questo momento mi sottopongo a qualunque esperimento chimico (sic) di magnetizzazione animale (!) a subire qualunque esame per la verità mi venga fatto in proposito».
Qui finisce la chiamata e tornando alla continuazione del suo rivelo, il Costantini soggiunge:
«Sì, Eccellenze Rev.me, eccomi pronto, prontissimo ad essere soggetto a qualunque esperimento; così potrete leggere a chiare note nel mio cuore. Di più non posso fare altrimenti lo farei. Così si vedrebbe la verità di ciò che io esposi nei vari miei costituti e cioè che dovetti rivolgermi al mio compatriota Cesare Agostini, Deputato alla Costituente, per essere raccomandato a Ciceruacchio, il quale rispose che, pel momento non v’era posto a Tor di Quinto e che appena se ne facesse uno lo avrei avuto: onde soltanto agli ultimi di dicembre il Brunetti mi mise come assistente a Tor di Quinto, ove fui costretto ad avvicinare il Ranucci ed altri e a stringermici in una apparente relazione per la dura necessità della mia posizione.
«Coi Pennacchini ed altri di quelli che conobbi il 15 novembre non ho discorso più da quel giorno che parlai con loro all’osteria Mattei a piazza di Spagna: col Medori, che era pure lui a Tor di Quinto, ebbi semplice conoscenza e alla prima favorevole occasione che mi si offrì me ne andai da quel luogo, per non aver da fare con quella gente e abbandonai l’impiego a Tor di Quinto con notevole mio discapito pecuniario, arruolandomi Sergente Maggiore nel 1° Reggimento di Fanteria leggera sui primi di febbraio 1849, ove soltanto verso la fine di aprile, nelle promozioni fatte nel Reggimento, ebbi la nomina di Sotto Tenente. Così mi staccai completamente dal personale di Tor di Quinto.
«Conoscendo io come si trova la mia coscienza come non instupidire (sic) vedendo con quanta scaltrezza il Bernasconi, il Longhi, il Zeppacori e il Luzi, anche con giuramenti falsi, abbiano fatto deposizione a mio carico false di pianta, piene di contraddizioni e di menzogne, mentre, fra le altre cose, prima dei lavori di Tor di Quinto essi non mi conoscevano! Ecco come un misero innocente si sacrifica sull’ara dell’impostura! Se tanti detenuti a San Michele nel 1851 volessero parlare e dire la verità si saprebbe come Bernasconi, Longhi e Zeppacori pubblicamente gridassero, parlando di me e di mio fratello: Son figli di preti, che momno ammazzati!
«Fin da allora si tramavano insidie, trame per offuscare la verità, talune delle quali sono state smascherate e le altre si smaschereranno. Sì, ne sono sicuro, poichè è impossibile che, dopo tanti stenti e sacrifica, il Signore Iddio possa permettere un tanto scempio! Io per quel poco di tempo che avvicinai, come ho detto, qualcuno di quelli che viddi (sic) uniti al Brunetti il giorno 15, pella pura ventà posso dire che tutt’altro che riunione al Capranica, tutt’altro che Hunione al fienile fosse (sic) stato il motore di quel delitto: insomma non intesi mai nemmeno una delle menzogne che si vonno far credere dal Bernasconi. Conosco benissimo che anche io potevo essere ingannato, ma siccome in questi fatti si vuol fare di me una delle figure principali, cotà con tutta la franchezza asserisco che l’accordo al Capranica e la riunione al fienile la sera del 14 io non li conosco affatto.
«Se si volessero esaminare i compagni di Bernasconi alle Carceri di Montecitorio si saprebbe in che modo si mercanteggiava la carne umana, peggio che carne da macello: il Luzi, il Bernasconi, il Longhi si concertavano nelle più sfacciate menzogne, suggerendosi vicendevolmente ciò che avrebbero dovuto ciascuno dire fimo a sostegno delle deposizioni dell’altro. Mentì il Longhi quando disse avermi veduto in carrettino con Angelo Brunetti passare, poco dopo il fatto, per la Maddalena; mentì il Luzi falsando ad arte il fatto della colazione di Termini. Che dire del Rutili che volle, con la sua falsa deposizione, far paga una inimicizia che ha con me fin da fanciullo? E tale inimicizia nacque da una ruzza innocente fatta da me a lui in un capanno da caccia di detto Rutili, mentre eravamo tutti in tenera età come potranno attestare Francesco Ricci, Rinaldo Rinaldi e un certo Ferrucci tutti di Fuligno, che conoscono il fatto.
«Di Zeppacori non ragionerò più oltre perchè, dopo le sue tante contraddizioni e dopo la sua ritrattazione in pubblica seduta, confido che il Supremo Tribunale, considerandolo per quello che è, non voglia dare alcun peso e valore alle sue deposizioni.
Qui il Costantini fa la perorazione: ciò che egli ha detto esser la pura verità, lui essere innocente ecc.
Sante Costantini».
Tale è la confessione stragiudiziale di Sante Costantini, la quale presenta una tessitura di fatti immaginata con una grandissima abilità, con una abilità che dà prova della prontezza d’ingegno dello scultore fulignate, ma la quale oltre a non essere sussidiata di prove nè giudiziali, nè stragiudiziali, è anche in parecchi punti debole nella logica e lascia aperto l’adito a inoppugnabili obiezioni.
Evidentemente Sante Costantini non poteva dire la verità, non poteva, come fece il Trentanove nell’atto di fuggire dallo Stato, dire ai Giudici suoi; la sera del 14 novembre, per appuntamento fissatomi dal mio amico Angelo Bezzi, mi trovavo, verso le undici di sera, all’osteria del Fornaio in Via di Ripetta, insieme a Luigi Brunetti, a Filippo Trentanove, a Felice Neri, ad Antonio Ranucci ed al detto Bezzi, quando apparve il Dottor Pietro Sterbini che ci diede degli ubriaconi e delle carogne ecc.: evidentemente questa, che sarebbe stata la verità, il Costantini non poteva e non doveva dire perchè avrebbe peggiorato la già pessima condizione a lui fatta dalle resultanze processuali, di cui, durante i dibattimenti, egli aveva potuto misurare tutta la terribile gravità.
Allora, volendo pur fare un disperato tentativo con la speranza di poter mutare almeno in galera a vita l’estremo supplizio che incombeva su lui, Sante Costantini ricorse a quell’espediente di una rivelazione tardiva, che arrivava ad atti compiuti e nessun nuovo e importante elemento adduce va in processo, nessuna circostanza ignota di qualche valore arrecava in atti e che, quindi, non poteva tendere e non tendeva che ad attenuare la parte di responsabilità che a lui spettava nell’omicidio Rossi, non poteva tendere e non tendeva che a mitigare, a blandire, ad addolcire i contorni e il colorito della bieca e quasi truce figura di Sante Costantini quale scaturiva dalle risultanze processuali.
Riaffermare che lui non era stato l’esecutore materiale dell’omicidio Rossi, indicandone come, il Neri e come il Trentanove, il vero autore, dimostrare che lui si trovò là nell’atrio del palazzo della Cancelleria per caso; dare la ragione della posteriore protezione e benevolenza di Angelo Brunetti per lui; dare la prova della sua estrema poverezza, per cui era ridotto a implorare sussidii e dimostrare, quindi, come legittima conseguenza, che non era vero che egli appartenesse ad un potente nucleo di cospiratori, e che non era vero che egli fosse uno dei principali personaggi di quella congiura, se si trovava sprovvisto quasi dei mezzi di sussistenza; ecco ciò che Sante Costantini si era proposto, traendo profitto dal fatto vero di essere egli col Focolari andato a chiedere — ma il 14, non il 15, come si vedrà — un sussidio al Principe Borghese.
E, ripeto, che su quell’unico fatto vero il Costantini seppe lavorare di ricamo con grandissima abilità: ma, per sua sfortuna, a tutta la sua narrazione manca il meglio, ciò che sarebbe stato necessario; anche se quella rivelazione egli l’avesse fatta il primo giorno che comparve innanzi al Giudice Istruttore essa avrebbe avuto bisogno di essere accompagnata e sostenuta da prove, figurarsi poi se di prove aveva bisogno ora che tanti elementi processuali completamente in opposizione al contenuto di quella rivelazione si erano venuti accumulando ai danni del Costantini!
Intanto, con tutta l’abilità che ho notata, questo racconto presentava subito uno sdruscito visibile, il Focolari, Sante Costantini se lo era smarrito sulla scalea del palazzo della Cancelleria proprio nel momento in cui la presenza di esso sarebbe stata così necessaria, per convalidare le deposizioni del Costantini stesso. Il secondo punto debole di quel racconto sta nella pretesa che ha il Costantini di voler dare a credere che Ciceruacchio lo vedeva per la prima volta in quel giorno, mentre in atti è provato che egli lo conosceva precedentemente.
Il terzo punto illogico è là dove egli torna a mettere innanzi la raccomandazione del suo compatriotta Cesare Agostini, quando è evidente che, dato per vero il racconto del Costantini, Ciceruacchio non aveva bisogno di spinte altrui, per collocare subito come Assistente ai lavori di Tor di Quinto Sante Costantini.
E infatti subito ve lo collocò: e a torto — altro punto debole della rivelazione —il Costantini si lamenta di essere stato impiegato tardi, cioè, sugli ultimi di Dicembre, giacchè soltanto sugli ultimi di Dicembre furono iniziati — e non prima — i lavori di Tor di Quinto.
Ma il vero tallone di Achille della confessione di Sante Costantini agli occhi del Fisco sta nelle parole: Io per quel poco di tempo che avvicinai, come ho detto, qualcuno di quelli che riddi uniti al Brunetti il giorno 15, pella pura verità posso dire che tutt’altro che riunione al fienile, tutt’altro che riunione al Capranica, fosse stato il motore di quel delitto. Ma allora egli sa qualche cosa del vero motore, ha appreso notizie che crede vere e che, con manifesta reticenza, tace alla inquisitrice Giustizia? Tali sono i rilievi più salienti che lo storico deve fare su questa rivelazione, intorno alla efficacia della quale Sante Costantini si faceva grandi illusioni.
Comunque quella rivelazione fu consegnata, pel tramite del Notaio Cancelliere, al Presidente del Supremo Tribunale nella udienza del 5 Aprile.
Ora quale uso fece il Presidente di quel documento?... Che cosa fecero il 6 Aprile il Presidente, il Procuratore Generale Fiscale e il Giudice Istruttore?... Assunsero in atti il rivelo stragiudiziale del Costantini?... Lo chiamarono a qualche nuovo costituto?...
Dagli atti contenuti nel XVI ed ultimo tomo del processo e che or ora fedelmente riferirò non apparisce chiaramente che cosa sia avvenuto: e soltanto dalle parole dell’Avvocato Pietro Gui pare che realmente il Processante abbia assunto un costituto stragiudiziale dal Costantini, del quale non v’è traccia in atti.
Ad ogni modo venerdì 7 Aprile 1854 con le solite preci si riprende la discussione della causa.
«Il Presidente comunica essersi rigettata la domanda di impunità fatta da Sante Costantini14.
«L’Avvocato Gui dice che, stante la presentazione, fatta nella udienza del 5 Aprile corrente, di una istanza del Costantini che chiede di comparire nuovamente avanti al Tribunale per dedurre altri fatti e circostanze importanti in questa causa ed avendo il Tribunale medesimo fatto assumere in seguito d tale domanda uno stragiudiziale dal Processante, sul quale riunito in Camera di consiglio ha emanato decreto interlocutorio di recezione, riaprendo in questa mattina la discussione, chiede gli sia data preventivamente comunicazione dello stragiudiziale suddetto e di qualunque altro foglio relativo al medesimo, non che di potersi nuovamente abboccare col suo difeso, col quale dal giorno 5 suddetto non ha più potuto abboccarsi per divieto fattogliene dal Tribunale, dichiarando e protestando, se non gli si comunica ecc. e se non gli si accorda colloquio ecc., non potere egli oggi spiegare una difesa nè per Costantini, nè per gli altri ecc.
«L’Avvocato dei poveri e gli Avvocati Frassinelli e Sinistri si riportano alla domanda del sig. Avvocato Gui.
«Il Fiscale Generale sostiene ciò che ha fatto il Tribunale non essere in opposizione con alcun articolo di procedura, specialmente trattandosi di lesa maestà, in cui si procede sommariamente e che il Presidente ha il potere discrezionale di ordinare ciò che crede e come crede conducente alla verità. Ciò premesso dice che nè la domanda de) Costantini, nè il rivelo stragiudiziale di lui hanno addotto nessun nuovo elemento in causa, non indicato fatti nuovi, nulla ha variato o debilitato in causa. Respinge quindi la protesta della difesa e la domanda da essa fatta che gli (sic) sia comunicato il rivelo stragiudiziale, comunicazione che non è nè legale, nè di consuetudine.
«Vigorosamente risponde l’Avvocato Gui e dice che benchè la legge fissi norme sommarie ed eccezionali per le cause di lesa maestà e cospirazione, pure ha tracciato le norme da seguirsi, dalle quali non si può uscire senza illegalità. Che il potere discrezionale del Presidente, secondo l’articolo 434 del Regolamento di procedura dà al Presidente il potere discrezionale,15 ma questo deve essere esercitato presenti il Fisco e la Difesa.
«Quanto all’introdurre o no elementi nuovi il rivelo stragiudiziale del Costantini — per quanto sia grande la deferenza che la Difesa ha per l’Ill.mo e Rev.mo Monsignor Procuratore Generale del Fisco — dovrà giudicarlo nell’interesse dei prevenuti la difesa, la quale non potrà farlo se non ha comunicazione ecc. Che dei riveli stragiudiziali non si debba dare comunicazione sta bene, se il rivelo è consegnato nelle mani del Processante e prima della ultimazione dell’incarto, ma se ciò avviene a processo ultimato e chiuso e dopo che la causa si è cominciata a portare a cognizione del Tribunale ed è tuttavia vigente e in continuazione la discussione della medesima non si può ammettere, giacchè sarebbe un impossibile che il Tribunale si ritenesse ignaro di ciò che gli è stato dedotto a cognizione.
«Quanto alla necessità per la difesa di abboccarsi coi suoi patrocinati e specialmente col Costantini l’Avvocato Gui, a nome anche dei colleghi, invoca a sostegno il disposto dell’articolo 389 del Regolamento di procedura criminale.
«L’Avvocato Frassinelli si associa all’Avvocato Gui e osserva al Procuratore Generale del Fisco che le deduzioni del Costantini, essendo a propria discolpa, possono pur troppo, per raggiungere l’intento, gravare altri coinquisiti: onde più che mai deriva la necessità della richiesta comunicazione.
«L’Avvocato Sinistri e quello dei poveri si riportano ecc.
«Il Procuratore Generale Fiscale torna all’assalto: analizza sulle espressioni e intenzioni della lettera diretta dal Costantini al Gui, a cui il patrocinato chiedeva assistenza per essere nuovamente udito in udienza, ciò che fu fatto: ma non perchè prendesse cognizione delle cose da lui rivelate. Il Tribunale usò dei suoi poteri, senza porsi in contraddizione con alcun articolo di procedura.
«Non può ammettere la distinzione dell’Avvocato Gui sui riveli stragiudiziali; perchè al Capo del Tribunale, in tutti e due i casi, la religione e la coscienza obbligano il Presidente a non fare alcun carico di quei riveli, allorchè si discute la causa in merito ed esso Procuratore Generale Fiscale è certo che la stessa religione e coscienza consiglierà i presenti Giudici a non fare alcun carico ecc.
«Risponde poi all’Avvocato Frassinelli che il rivelo stragiudiziale Costantini, mentre non pregiudica lui, non nuoce ad alcuno.16 E poichè il Costantini scriveva al Gui nella supposizione che il suo rivelo fosse accettato e poichè questo è stato rigettato, la lettera resta insignificante.
«L’Avvocato Gui risponde; qualunque fosse la intenzione del Costantini nello scrivergli e chiedergli abboccamento, anche se lo avesse fatto nella supposizione e speranza che la sua domanda di comparire nuovamente avanti al Tribunale per farvi nuove deduzioni fosse stata accettata — mentre invece fu respinta — è sempre vero nondimeno che il Costantini abbia chiesto di abboccarsi col suo difensore: a ciò non osta alcuna legge: anzi si aggiunga che, a prescindere da domande dell’inquisito, il difensore ha sempre il diritto e il dovere di essere insieme, di essere in comunicazione col suo cliente fino al momento della decisione della causa in cui cessa il suo mandato. Egli invoca, quindi, nuovamente il disposto dell’articolo 389.
«Quanto alla distinzione da lui fatta sui riveli stragiudiziali, insiste nell’affermare che i riveli stragiudiziali fatti durante la ordinatoria debbono essere comunicati soltanto al capo del Tribunale per accettarli o rigettarli, ma quando si tratta già la causa e si discute non è ammissibile la pretesa fiscale.
«Quanto alla religione e alla coscienza ecc. ma quale dubbio? la difesa è pienamente d’accordo col Procuratore Generale Fiscale per ciò che riguarda il Presidente e i Giudici presenti; ma l’argomento fiscale proverebbe troppo, perchè, avendo la legge stabilito precettivamente che di tali riveli prenda cognizione il solo Presidente del Tribunale, non si possono tali riveli, senza aperta violazione di legge, portare a cognizione dell’intero Tribunale, salvo che vi siano presenti le altre parti interessate, il Fisco e la difesa.
«L’Avvocato Frassinelli ha, per conto suo, piena fede in quanto affermò il Procuratore Generale, ma come difensore, secondo la legge, non può basarsi che sulle risultanze degli atti.
«L’Avvocato dei Poveri e l’Avvocato Sinistri si riportano ecc.
«Il Tribunale rimasto solo, dopo un congruo spazio di tempo, rientra e pubblica il decreto con cui, rigettando la domanda della Difesa, ordina si prosegua nella discussione della causa.
«L’Avvocato Gui rispetta altamente il decreto del Tribunale, ma torna a dichiarare di non essere nel caso di spiegare le sue difese per le suesposte ragioni.
«L’Avvocato dei Poveri e gli Avvocati Frassinelli e Sinistri si associano pienamente alle dichiarazioni dell’Avvocato Gui.
«Il Tribunale rimasto solo ecc. ha poi pubblicato un decreto in cui, attesa la ulteriore protesta della difesa di non essere in caso ecc. scioglie l’adunanza, riserbandosi di prendere in proposito le determinazioni che stimerà opportune.
«Solite preghiere».17
Così terminò quella memoranda seduta del 7 Aprile, nella quale l’Avvocato Pietro Gui diede ampia prova del suo acume, del fine suo discernimento e della sua eloquenza, ma più assai della fermezza e integrità del suo carattere e del suo coraggio civile, compiendo un atto senza esempi nella storia dei dibattimenti del Supremo Tribunale della Sacra Consulta.18 Le conseguenze di quell’atto di ribellione il lettore le rileverà in nota dalla parola stessa dell’insigne Penalista, che così alto tenne, in quella circostanza, la dignità e l’inpendenza della toga.
La conseguenza finale fu il trionfo della giusta e onesta tesi sostenuta dall’Avvocato Gui, tesi che fu imposta, dopo diecinnove giorni di resistenza, al Supremo Tribunale, il quale vi si dovette rassegnare.
Di fatti ecco il verbale della udienza del 26 Aprile che ne fa testimonianza.
Mercoledì 26 Aprile 1854.
Il secondo Turno del Supremo Tribunale della Sacra Consulta si è raccolto in seduta e, dopo le solite preci, il Presidente, dà parte all’intero Tribunale della rivelazione di Sante Costantini e delle disposizioni date perchè esso inquisito Sante Costantini sia nuovamente condotto innanzi al Tribunale.
Quindi entra Sante Costantini che dal Presidente è identificato.
Quindi dal Notaio Cancelliere il Presidente fa dar lettura dei fogli dal Costantini inviati.
Quindi interrogato il Costantini confermò le cose esposte ed aggiunse aver saputo da Ranucci che Sterbini, Guerrini e Salvati riuniti in casa del primo avessero, giorni innanzi alla mattina del 15 Novembre, concertata la uccisione del Rossi. Ripete che non è a sua cognizione che si stabilisse la uccisione suddetta nelle riunioni al fienile del Brunetti o al Teatro Capranica.
Fatto ritirare il Costantini, l’Avvocato Gui appoggia la domanda del Costantini per la verifica delle di lui deduzioni.
L’Avvocato Frassinelli non interloquisce, anzi si riserva di dare tutte le eccezioni che possono essere di ragione.
L’Avvocato Sinistri si riserva come l’Avvocato Frassinelli.
L’Avvocato dei Poveri non ha che aggiungere.
L’Avvocato Fiscale non può opporsi a tutto ciò che può condurre allo scoprimento del vero.
Il Tribunale rimasto solo prende le sue decisioni e fatti rientrare ecc. emana il seguente Decreto: Il Tribunale differisce a venerdì prossimo l’ulteriore discussione della causa per l’assunzione di alcuna verifica secondo gli ordini da darsi da Monsignor Fiscale Generale.
Recitate le solite preci il Tribunale si è sciolto19.
In sostanza il Tribunale riapriva l’istruttoria con una istruttoria suppletiva diretta, a quanto risulta da baleni di luce qua e là, come i lettori vedranno — giacchè gli atti assunti non sono allegati nel Tomo XVI e i verbali del notaio Cancelliere sono così sommari, monchi e incompleti che quasi nulla da essi si può raccapezzare — diretta a verificare se realmente il Costantini fosse andato il 15 novembre a chiedere, insieme col Focolari, un sussidio al Principe Borghese.
Venerdì, 28 aprile 1854. Il secondo Turno del Supremo Tribunale ecc. Recitate le solite preci il Presidente ha fatto dare dal Cancelliere ecc. lettura degli atti assunti20 in seguito al Decreto del 26 corrente e, fatto introdurre Sante Costantini, col mezzo di me ecc. fa al medesimo riconoscere la firma apposta alligata negli atti assunti ieri dal signor Giudice Laurenti, quale firma il Costantini riconosce per propria e non sa attribuire che ad uno scorso di penna la differenza del nome e cognome21.
Il Presidente fa notare al Costantini che la ricevuta porta la data del 15 novembre 1848 e non del 16 come esso aveva dedotto.
Costantini resta sorpreso e dice che deve essere un equivoco del Maestro di casa.
Alle opportune avvertenze e contestazioni di Monsignor Presidente Costantini sostiene che nei fogli ecc. ha detto la verità e riguardo alla data della ricevuta sostiene che deve essere un equivoco del Maestro di casa, quindi dichiara di non avere altro da aggiungere.
È fatto ritirare.
Il signor Avvocato Frassinelli, conforme alla richiesta fatta nella sua scrittura stampa al § 9, torna a fare formale istanza perchè il Tribunale ordini sia richiamato nella presente causa il processo compilato dal Tribunale Criminale di Roma contro il custode carcerario Onofrio Colafranceschi e che finì con sentenza del Tribunale stesso in data 15 novembre 1852 e che ha direttamente interesse nella presente causa.
Il Fiscale Generale, ignorando di quali maneggi si tratti, perchè nella causa di cui è parola non egli ma uno dei suoi sostituti prese le conclusioni, non ammette e non si oppone e se ne rimette al Tribunale.
Il Tribunale ordina che il Cancelliere ritiri immediatamente il processo di cui ecc.
Il Cancelliere si reca alla Cancelleria del Tribunale e riporta al Presidente il processo indicato, di cui il Cancelliere dà lettura, per ordine del Presidente, del Ristretto fiscale.
Il Procuratore Generale Fiscale dice essere più che sufficiente la lettura di tale Ristretto.
L’Avvocato Frassinelli si riserva a fare su tale processo le sue deduzioni.
Il Procuratore Fiscale prende la parola e per le ragioni ecc. nota dice che il titolo da darsi al presente delitto è di lesa maestà con omicidio di un Primo Ministro e, passando alle specifiche responsabilità, ritenendo correi di tal delitto Sante Costantini, Ruggero Colonnello, Bernardino Facciotti, Francesco Costantini, Filippo Facciotti, Innocenzo Zeppacori e Gioacchino Selvaggi, opina doversi applicare ai primi tre gli articoli 89 e 103 del Regolamento penale ed agli altri i medesimi articoli col concorso dell’articolo 13 dello stesso Regolamento; non essendo poi sufficienti gli indizi finora accumulati a carico di Luigi Grandoni, Filippo Capanna, Giuseppe Fabiani, e Giuseppe Giovannelli opina che per questi sia ordinata la impinguazione degli atti; opina, in fine, doversi rimettere in libertà provvisoria, a senso e per gli effetti degli articoli 446, 675 e 676 del Regolamento organico di procedura criminale Alessandro Testa, Paolo Papucci, Cesare Diadei e Giuseppe Caravacci, a doversi sospendere la risoluzione sul conto dell’imputato Filippo Bernasconi fino a che non avrà adempito alle condizioni del medesimo assunte relativamente ad altri delitti.
Insiste perchè si proceda contro i contumaci.
Il signor Avvocato dei Poveri dichiara che avrebbe voluto trattare la questione di diritto, ma essendosene incaricato l’Avvocato Gui egli si riporta a ciò che questi sará per dire.
Il signor Avvocato Gui prende la parola, ed avendo
22 prima sviluppato la quistione di diritto, discende a parlare a favore del prevenuto Luigi Grandoni nota.
L’Avvocato Frassinelli e l’Avvocato Sinistri anche essi aggiungono qualche cosa a quanto ha dedotto l’Avvocato Gui rapporto alla questione di diritto, quindi il primo parla a favore di Gioacchino Selvaggi e il secondo favore di Alessandro Testa.
Attesa l’ora tarda, recitate le solite preci, il Tribunale si è sciolto.
Sabato 29 aprile 1854. Aperta l’udienza e recitate le solite preci il Presidente fa dare da me Cancelliere ecc. lettura di una nuova istanza presentata da Sante Costantini il quale, poichè dalla ricevuta della computisteria Borghese risultava che il Costantini e il Focolari fossero andati il 14 novembre a sera a chiedere il sussidio e il 15 a sera a ritirare il danaro, egli si scusa di essere rimasto all’udienza interdetto e sconcertato. Forse la grande distanza di tempo può avergli fatto prendere abbaglio; che potrebbe anche essere che il danaro fosse stato dato dal Maestro di casa a lui e al Focolari la sera del 16, ma che Vordine avendolo esso avuto dal Principe il 15 egli avesse messo nella ricevuta la data del 15. Ma ad ogni modo — prosegue il Costantini — o il 14 e il 15, ovvero il 15 e il 16, il fatto di avere dovuto andare ad accattare un sussidio di due scudi sta a provare la sua innocenza. Come? un uomo che fa parte, e parte principale della pretesa congiura, alla vigilia di un fatto come quello, ha bisogno di andare ad accattare e non ha largo sussidio di danaro dai capi del partito?!...
Quindi si raccomanda che si interroghi bene il Focolari, che non gli si metta paura, che si incoraggi a dire la verità,
23 anche perchè dica ne è vero o non è vero che la sera del 15 videro la dimostrazione all’angolo del Caffè Nuovo e dica se è vero che nè esso Focolari, nè egli Costantini non vi presero alcuna parte.
Il Costantini chiude la sua istanza con nuove proteste della propria innocenza e con fervorose suppliche ai Giudici del Supremo Tribunale per ottenerne la pietà e l’indulgenza24.
Quindi Monsignor Presidente dà parte che il Principe Borghese per mezzo del suo uditore gli ha fatto sapere che ad onta la ricevuta di S. Costantini e S. Focolari esibita al Giudice Laurenti porti la data del 15 novembre 1848 pure nella sua Computisteria è allibrata in data 16 novembre.
Il signor Avvocato Gui parla a favore di Sante Costantini e di Francesco Costantini25.
Il signor Avvocato Frassinelli a favore di Ruggero Colonnello, di Paolo Papucci, di Giuseppe Caravacci, di Filippo Capanna e di Innocenzo Zeppacori26.
Il signor Avvocato Sinistri a favore di Bernardino e di Filippo Facciotti, di Giuseppe Fabiani e di Cesare Diadei.
Attesa l’ora tarda, dopo le solite preci, l’udienza è rinviata al prossimo martedì 2 maggio.
«Martedì 2 maggio 1854, aperta l’udienza e recitate le solite preci.
L’Avvocato Gui parla a favore di Giuseppe Giovanelli.
Monsignor Fiscale sussume e, per le ragioni ecc. ribattendo quanto hanno detto i difensori a favore dei prevenuti persiste nelle conclusioni esternate.
I signori difensori replicano alla sussunta fiscale ed insieme a Monsignor Avvocato dei Poveri dichiarano di null’altro avere da aggiungere.
Il Tribunale rimase solo onde deliberare.
Dopo vario spazio di tempo il Tribunale rientra.
Monsignor Presidente ha consegnato a me ecc. la dispositiva del tenore che ho qui alligata per ogni buon fine.
Quindi le solite preci ecc.
R. Castelli Cancelliere».
E qui segue la parte dispositiva della sentenza e che io trascrivo tale quale dall’originale del Cancelliere Castelli e dico originale perchè è conchiusa dalle firme autografe di tutti i Giudici.
«Oggi martedì 2 maggio 1854.
Il secondo Turno del Supremo Tribunale della Sacra Consulta adunato nelle solite stanze del palazzo Innocenziano a Montecitorio27 per giudicare in merito ed a forma di legge la causa intitolata
ROMANA
di lesa maestà con omicidio in persona del Conte Pellegrino Rossi Ministro di Stato
Contro
Luigi Grandoni, Sante Costantini ed altri ecc.
Ha dichiarato e dichiara che consta in genere di mandato per spirito di parte dato ed accettato per uccidere il Conte Pellegrino Rossi, non che della eseguita morte del medesimo, mediante istromento incidente e perforante, avvenuta in Roma nel palazzo della Cancelleria Apostolica il giorno 15 novembre 1848 e che, in specie, ne furono e ne sono convinti colpevoli come mandatarii Luigi Grandoni e Sante Costantini ed in applicazione dell’articolo 100 § 2° prima parte del Regolamento Penale ha condannato e condanna ad unanimità di voti Sante Costantini e a maggioranza di voti Luigi Grandoni alla pena dell’ultimo supplizio; non che in applicazione del sullodato (!) articolo 100 § 2° prima Parte col concorso dell’articolo 13 dello stesso Regolamento Penale ha condannato e condanna in qualità di complici nel suespresso delitto Ruggero Colonnello e Bernardino Facciotti alla pena della galera perpetua, Francesco Costantini, Filippo Facciotti e Innocenzo Zeppacori ad anni 20 della stessa pena.
Ha condannato e poi condanna tutti i summenzionati individui all’emenda dei danni in favore degli eredi dell’ ucciso e alla rifazione delle spese processuali ed alimentarie verso il pubblico erario da liquidarsi in separato giudizio, come di ragione.
Non constando poi abbastanza dalla colpabilità in detto titolo del prevenuto Gioacchino Selvaggi ha ordinato ed ordina che il medesimo venga trattenuto in carcere per lo spazio di tempo non maggiore di mesi sei per l’assunzione di ulteriori indagini a senso e per gli effetti dell’articolo 447 del Regolamento organico di procedura criminale e secondo le istruzioni che verranno date in proposito dal Ministero fiscale.
Inoltre ha dichiarato che non consta abbastanza della colpabilità dei prevenuti Paolo Papucci, Alessandro Testa, Giuseppe Caravacci, Cesare Diadei, Giuseppe Giovannelli, Filippo Capanna e Giuseppe Fabiani e perciò ha ordinato e ordina che i medesimi per il giudicato titolo siano rimessi in libertà provvisoria a senso e per gli effetti degli articoli 446, 670 e 676 del Regolamento organico di procedura criminale.
Ha parimenti differito e differisce il giudizio sul conto di Filippo Bernasconi in ordine al godimento dell’accordatagii impunità, dovendo ancora adempiere alle condizioni dal medesimo assunte relativamente ad altri delitti.
Finalmente ha ordinato ed ordina che si proseguano gli atti a forma di legge contro i contumaci e chiunque sia indiziato nel presente delitto.
C. Paolini Presidente, L. Fiorani, G. Gallo, G. Muccioli, 0. Mignanelli, V. Golia».
Tale fu la sentenza emessa dal secondo Turno del Supremo Tribunale della Sacra Consulta.
E siccome la condanna a morte di Luigi Grandoni non aveva raccolta la unanimità dei voti dei Giudici, — pare che fossero quattro contro due — così ne conseguì, per la procedura allora in vigore, la necessità di un secondo giudizio che il Supremo Tribunale doveva emettere a turni riuniti.
Nel Tomo XVI di questo processo non esiste alcun atto che preluda o preceda a questo secondo giudizio.
Per conseguenza l’atto che sussegue subito alla dispositiva della prima sentenza, come sopra da me riferita, è questo.
«Oggi martedì 16 maggio 1854, i due Turni del Supremo Tribunale della Sacra Consulta composti ecc., presenti ecc. si è adunato (sic) ecc. per giudicare nella causa ecc.
Recitate le solite preci e fatto il rapporto della causa da Monsignor Ill.mo e Rev.mo Muccioli Relatore.
Letta la sentenza emanata dal secondo Turno ecc. il 2 maggio ecc. con la quale ecc.
Letti i Verbali delle udienze tenute dal lodato secondo Turno nei giorni 24, 27, 28, 29, 30 marzo, 5, 7, 26, 28, 29 aprile e 2 maggio 1854.
Monsignor Fiscale prende la parola e per le ragioni ecc. torna a confermare le conclusioni già esternate nell’udienza del 28 aprile, ma facendo riflettere che, non potendosi in questo giudizio esasperare la pena, il Tribunale confermi la sentenza emanata dal secondo Turno il 2 corrente, variando però il titolo del delitto ritenuto in detta sentenza ed applicando l’articolo 89 col concorso dell’articolo 13 per i complici e differendo il giudizio pel Grandoni onde fare impinguare gli atti.
Monsignor Avvocato dei Poveri prende la parola ed insieme coi difensori Gui e Frassinelli parlarono a favore dei prevenuti Luigi Grandoni, Ruggero Colonnello e Innocenzo Zeppacori.
Quindi attesa l’ora tarda, recitate le solite preci ecc.».
«Oggi mercoledì 17 maggio 1854. I due Turni recitate ecc.
Il signor Avvocato Sinistri parla a favore dei fratelli Facciotti.
Il signor Avvocato Frassinelli a favore di Gioacchino Selvaggi.
Monsignor Fiscale Generale dichiara che nella presente sede di giudizio non può farsi luogo alla difesa del Selvaggi, perchè per ora non è colpito da una sanzione penale.
Il signor Avvocato Frassinelli per le ragioni ecc. insiste per difendere anche in questa sede di giudizio Gioacchino Selvaggi.
Il Tribunale rimane solo per deliberare su tale incidente ecc.
Il Presidente pubblica il seguente decreto : non farsi luogo alla difesa del Selvaggi in questa sede di giudizio.
Il signor Avvocato Gui prende la parola e parla a favore dei fratelli Costantini.
Ricevuta la dichiarazione di Monsignor Avvocato dei Poveri e dai difensori signori Avvocati Gui, Frassinelli e Sinistri null’altro aver da aggiungere, il Tribunale è rimasto solo onde deliberare.
Rientrato ecc.
Monsignor Presidente ha consegnato a me ecc. in un foglio del tenore ecc. la dispositiva che, per ogni buon fine ed effetto, ho qui alligato.
R. Castelli Cancelliere».
Ecco la dispositiva originale con le firme autentiche dei dodici Giudici.
«S. Consulta, oggi mercoledí 17 maggio 1854. Il Supremo Tribunale, adunato a Turni riuniti, nelle sale della Curia Innocenziana a Monte Citorio per giudicare, a forma e per gli effetti dell’articolo 565 del Regolamento organico di procedura criminale, la causa intitolata
ROMANA
di lesa Maestá con omicidio in persona del Conte Pellegrino Rossi
Contro
Luigi Grandoni, Sante Costantini ed altri.
Ha dichiarato e dichiara constare in genere di omicidio in persona del Conte Pellegrino Rossi, avvenuto in Roma nel palazzo della Cancelleria Apostolica il giorno 15 novembre 1848 intorno alle ore due pomeridiane per ferita prodotta da istromento incidente e perforante, ed in specie esserne convinti colpevoli in seguito di mandato dato ed accettato per spirito di parte Luigi Grandoni e Sante Costantini con pieno dolo; e con minor dolo Ruggero Colonnello, Bernardino Facciotti, Francesco Costantini, Filippo Facciotti e Innocenzo Zeppacori, in applicazione quindi dell’articolo 100 § 2° del Regolamento penale ha condannato e condanna Luigi Grandoni e Sante Costantini alla pena di morte: ed in base al succitato articolo 100 § 2° combinato con l’articolo 13 dello stesso Regolamento ha condannato e condanna Ruggero Colonnello e Filippo Facciotti alla pena della galera perpetua; Francesco Costantini, Filippo Facciotti e Innocenzo Zeppacori ad anni venti’ della stessa pena.
Ha inoltre condannato e condanna tutti i summenzionati colpevoli all’emenda dei danni in favore degli eredi dell’ucciso, ed alla rifazione delle spese alimentarie e processuali verso il pubblico erario da liquidarsi le une e le altre in separata sede di giudizio, come di ragione; nulla innovando sul rimanente di quanto è stato disposto nella primitiva sentenza.
S. Sagretti Presidente, P. Paolini, C. Borgia, D. Bartolini, L. Fiorani, G. Gallo, G. Arborio Mella, L. Valenzi, G. Muccioli, G. De Ruggero, O. Mignanelli, V. Golia».
Fra la dispositiva della prima e seconda sentenza esistono talune piccole differenze di redazione, alcune delle quali dipendono dai due diversi gradi di giurisdizione in cui la causa fu trattata la prima e la seconda volta, altre minori tendono a condurre a stato di maggior precisione alcune locuzioni giuridiche della primitiva sentenza e si potrebbero supporre suggerite da Monsignor Sagretti Presidente dei due Turni riuniti all’estensore di ambedue le sentenze, che deve essere stato indubitabilmente il relatore Monsignor Muccioli.
In atti non esiste traccia dei considerando che precedettero la dispositiva della prima sentenza: ma assai probabilmente essi dovevano essere perfettamente i medesimi che sono premessi in numero di quarantotto alla parte dispositiva della seconda e definitiva sentenza emessa dai Turni riuniti, sentenza che io riferisco per intero fra i documenti28.
Intorno a quei quarantotto considerando, come intorno alla dispositiva della sentenza finale, in non posso fare larghi e lunghi commenti senza ripetere tutto ciò che ho detto nel capitolo precedente, esaminando la Relazione Sommaria del Giudice Processante Laurenti, sulle orme della quale, seguite con fedeltà scrupolosa da Monsignor Muccioli Giudice relatore, sono fondati i quarantotto considerando stessi.
Anche qui si è costretti ad esclamare: Fata trahunt.
Il Giudice Processante Laurenti, costretto a servire ai preconcetti, attratto ineluttabilmente entro la via prestabilitagli, aveva presentato come resultanze degli atti tutto quel tessuto di menzogne e di favole ordito, sulle suggestioni del capitano Galanti e con le più sfacciate cabale e subornazioni dall’impunitario Bernasconi, e Monsignor Muccioli relatore della causa, aveva accettato come resultanza degli atti il sommario Laurenti e se ne era fatto vangelo e lo aveva religiosamente adottato come unica fonte della sua relazione; e il Supremo Tribunale, giurando sulle parole e sui considerando di Monsignor Muccioli — come questi aveva giurato sulla relazione del Laurenti e come il Laurenti aveva giurato sulle rivelazioni del Bernasconi, tuttochè quasi mai convalidate da qualche testimonianza, tuttochè quasi sempre smentite dagli atti — aveva emessa, prima col voto del solo secondo Turno, poi col voto complessivo dei due Turni riuniti, quella iniqua sentenza che era prestabilito si dovesse emettere29. Quindi i quarantotto considerando altro non sono che un riassunto delle considerazioni svolte nella Relazione sommaria del Laurenti: per conseguenza a quei quarantotto considerando sono applicabili tutte le osservazioni, le obiezioni, le critiche da me poste innanzi a i rilievi di falsificazione fatti nel precedente Capitolo, quando venivo esaminando la relazione, o Ristretto sommario del Laurenti.
La maggior parte delle cose in quei considerando spacciate per cose provate e vere, è un continuato amalgama di cose asserite dall’impunitario ma, quasi tutte, non provate e non vere.
Per conseguenza, essendo false le premesse, falsa doveva riuscire la illazione, cioè la sentenza che, per ciò, si risolvette in una grande iniquità.
Avanti a un Tribunale imparziale e coi metodi di procedura moderna, nessuno di quegli imputati, a rigore di risultanze processuali — nessuno — tranne Sante Costantini — avrebbe potuto essere probabilmente condannato per vera e constatata complicità nell’omicidio Rossi, neppure Ruggero Colonnello, neppure Innocenzo Zeppacori, neppure Bernardino Facciotti, i quali, se risultavano dagli atti processuali colpevoli di aver o promosso cospirazioni più o meno serie dirette all’abbattimento del Ministero Rossi e del Governo pontifício o di avere ad esse partecipato, se risultavano imputabili di reati, più tentati che eseguiti, contro la proprietà, quanto all’omicidio Rossi non risultavano — come i lettori hanno potuto vedere — complici necessari o cooperatori personali del delitto. Nulla dico di quei due sventurati di Filippo Facciotti e di Francesco Costantini non di altro rei, e l’uno e l’altro, che di essere fratelli minori, appendici, umbrae l’uno e l’altro dei loro due fratelli maggiori Bernardino e Sante, che essi quasi sempre seguivano e accompagnavano e di cui passivamente l’uno e l’altro subivano l’autorità e la suggestione.
I primi tre, a voler essere rigorosi più per le resultanze generiche che per le specifiche emerse in atti contro di loro, avrebbero potuto, tutto al più esser riconosciuti come complici non necesmrii ed esser condannati, tutt’al più — poichè pel decoro, pel prestigio del Governo pontifício avanti all’Europa qualcheduno — oltre Sante Costantini — bisognava pur condannare a dieci anni di galera e Filippo Facciotti e Francesco Costantini, tutto al più, avrebbero potuto esser condannati a quattro o cinque anni di reclusione; ma, a rigor di giustizia e in ragione delle vere resultanze degli atti, nessuno di quei cinque, pel fatto sempre dell’omicidio Rossi, si intende, avrebbe potuto esser condannato da mi Tribunale moderno alle pene enormi a cui furono — per ragione di stato — condannati dai due Turni riuniti del Supremo Tribunale della Sacra Consulta.
Quindi — giudicando quella sentenza con criteri giuridici e storici e alla stregua degli atti processuali — quella sentenza fu severa, ma non ingiusta per rispetto a Sante Costantini — il quale in parte per colpa propria, in parte per le resultanze gravissime degli atti, appariva, per lo meno, complice necessario del delitto — siccome sarebbe stata severa, ma non ingiusta se di uguale pena avesse potuto colpire Felice Neri, e Luigi Brunetti defunti e Angelo Bezzi, Antonio Ranucci e Filippo Trentanove contumaci — ma — fu iniqua per ciò che riguarda i cinque condannati Colonnello, Zeppacori, Bernardino e Filippo Facciotti e Francesco Costantini, e, finalmente in rapporto a Luigi Grandoni fu iniquissima e diede a tutto il giudizio l’impronta di enormezza giuridica quasi senza esempio simile nella storia moderna.
Imperocchè la condanna degli altri sei, per quanto o severa, o iniqua, il Supremo Tribunale la aveva decretata sulle conchiusioni di Monsignor Benvenuti Procuratore Generale Fiscale, ma pel Grandoni Monsignor Benvenuti, tanto avanti al secondo Turno, quanto avanti ai Turni riuniti, aveva conchiuso che, non essendo sufficienti gli indizi accumulati a carico di lui, si ordinasse la impinguazione degli atti.
La qual conchiusione dimostra ad evidenza che il Procuratore Generale Fiscale, vale a dire il propugnatore dell’applicazione della Legge, aveva veduta tutta la vacuità e la inconsistenza degli indizi raccolti contro il Grandoni, aveva notato come non fossero stati esaminati nientemeno che undici testimonii da esso addotti a propria discolpa; aveva rilevato come, non ostante molte apparenze che stavano contro di lui, mancassero in processo gli elementi necessarii per condannarlo.
Le conchiusioni di Monsignor Benvenuti proclamavano che, allo stato degli atti, mancavano le resultanze per condannare il Grandoni, onde il tutore della Legge affermava che la giustizia, la verità, la ragione giuridica imponevano di sospendere ogni giudizio su di lui, per poter proseguire nelle indagini inquisitive a fine di rafforzare, di avvalorare — impinguare — gli atti processuali che, tali quali si presentavano allora, erano troppo deboli, troppo esili per condannare uno sventurato all’estremo supplizio30.
Eppure il preconcetto, il prestabilito, la ragione di stato domandavano due teste e, con esempio quasi unico nella storia dei processi, il Supremo Tribunale della Sacra Consulta a Turni riuniti, emise la mostruosa sentenza con cui, contrariamente alle conchiusioni fiscali, Luigi Grandoni veniva condannato a morte!
Tali furono i risultati di questo Processo famoso, la cui istruttoria durò — comprese le notate interruzioni — quarantatre mesi e mezzo; con siffatti risultati, voluti e prestabiliti, ma non logicamente, non storicamente, non giuridicamente emergenti dagli atti, il Governo Pontificio rispose all’aspettazione del mondo civile e della storia e credette di avere dimostrato due cose: la colpabilità di tutto il partito liberale romano nelle diverse sue gradazioni nell’assassinio del Rossi: e la propria energia, forza e giustizia.
Se, come, in quanto e fin dove il restaurato Governo pontificio raggiungesse effettivamente questi due fini propostisi in parte i lettori han già veduto dai precedenti capitoli, in parte vedranno nel prossimo ultimo capitolo, in cui io intendo e debbo considerare le resultanze processuali in rapporto alla verità storica. Vedranno allora — io spero ancor meglio, che forse non abbian potuto vedere fin qui — vedranno i lettori, anche sul fondamento di nuovi documenti stragiudiziali, come da quelle risultanze scaturisca la responsabilità di Sante Costantini e la innocenza di Luigi Grandoni nella uccisione del Conte Pellegrino Rossi.
Ora importa che io brevemente esponga ai miei leggitori la miseranda fine del Grandoni e il supplizio estremo coraggiosamente affrontato dal Costantini.
Nell'Archivio di Stato di Roma nelle Buste riguardanti la Direzione Generale di Polizia esiste un Fascicolo intitolato così :
«Archivio Generale di Polizia
Archivio della Prima Sezione
N. 361 d’Archivio | Anno 1849 |
Oggetto
Ricerche ed indagini sull' assassinio del Conte Pellegrino
Rossi, il quale contiene tutti gli atti sulla esecuzione capitale di Sante Costantini, e che sono altrettante copie degli
atti medesimi esistenti nel Tomo XVI del Processo e che
io produco più avanti.
Oltre questi documenti riguardanti la morte del Costantini, il citato Fascicolo contiene i seguenti documenti relativi al suicidio di Luigi Grandoni.
«Gendarmi Pontifici |
Eccellenza Rev.ma
Il detenuto Zanelli Domenico, il quale sta in compagnia del detenuto Grandoni Luigi, come di consueto, questa mattina è sortito a godere le due ore di passeggio, quindi poi il condannato inserviente Monti Domenico ha distribuito la solita spesa, quando giunto alla Segreta n. 12 della Cappella ove esiste il Grandoni, s' avvidde (sic) che era appeso pel collo con un fazoletto (sic) colorato al catenazzetto dello (sic) sportello della Finestra e già estinto, immediatamente fece ciò noto al sottoscritto, il quale con il Presente ne fa partecipe all’E. V. R. (sic).
- Tanto col dovuto rispetto
- Dell’Eccell. Vostra Rev.ma.
Umil.mo, Obbl.mo servitore |
- A Sua Eccellenza Rev.ma
Monsignor Direttore Gen.le
di Polizia e Vice Camerlengo
di S. Romana Chiesa .
Roma»
Ma in questa posizione segue un altro documento, a trenta giorni di distanza dal primo e di non lieve importanza, ma alla cui perfetta intelligenza è necessario che il lettore abbia cognizione di altri documenti contenuti in un altra posizione segnata.
«Suicidio del condannato Grandoni — 1854 — Camicia 2897 bis, Miscellanea Riservata».
Il primo documento è una minuta di carattere — a quanto pare — dell’Avvocato Pasqualoni, che doveva essere, a quel tempo, Vice Assessore Generale di Polizia, nella quale si danno particolareggiate notizie sulla prigionia del Grandoni, notizie che sono in perfetta consonanza con le risultanze processuali e che lo storico onesto ed imparziale deve riconoscere esatte.
Ecco la minuta:
«Luigi Grandoni fu arrestato nel Gennaio 1850 per ordine del Presidente della cessata Commissione direttrice dei processi politici, mai è stato tenuto solo in segreta alle Carceri Nuove, da dove fu rimosso per ordine del Giudice Istruttore perchè, con clandestina corrispondenza, tentava la subornazione dei testimoni, come da carteggio sequestrato presso Giuseppe Corbò suo agente d’affari. Mai è stato malato e tanto alle carceri Nuove che in San Michele ha avuto periodici colloqui con lo stesso Corbò e con i suoi parenti.
«Dopo passato a disposizione della S. Consulta non solo continuarono questi colloqui, ma S. E. Rev.ma Monsignor Matteucci li estese ancora, accordando al Grandoni di parlare più volte al mese coi signori Rocchi, Civili e Gaffi che si occupavano della direzione degli interessi del Grandoni e il Cancelliere Marco Evangelisti, e quindi il successore nell’ufficio, vi hanno prestato assistenza.
«Di più la S. Consulta ha permesso sempre al Grandoni la lettura dei libri che richiedeva e del giornale La civiltà cattolica, domandato dal Grandoni a preferenza di qualunque altro periodico e cui si associò. Sebbene prevenuto di titolo capitale il Grandoni fu posto in luogo di larga come tutti gli altri inquisiti della medesima causa, poco dopo trasferiti al carcere di S. Michele, onde non avessero a soffrire per la diuturna segreta in vista del ritardo dell’ultimazione del processo, indispensabile per la complicazione dei fatti compresi nella procedura.
«È solo quando il Grandoni contravvenne più volte ai regolamenti di disciplina e fu condannato fu privato del beneficio della larga».
Questa specie di traccia di fatto informativo trova la sua spiegazione nella esistenza dentro la stessa Camicia n. 2897 bis di due stampe in fogli volanti. Una di esse è un numero dell’Italia del Popolo, giornale politico, Anno IV, Genova, venerdì 14 luglio, n. 195.
In quel numero dell’Italia del Popolo l’articolo di fondo si intitola Luigi Grandoni e in esso, con linguaggio violento e declamatorio, si assale il Governo Pontificio e specialmente la Direzione Generale di Polizia per le asserte pretese vessazioni e gli affermati maltrattamenti usati verso il Grandoni, del quale non senza manifesta parzialità, si tessevano le lodi.
Poi, sopra un fondo di inesattezze, per non dire di invenzioni, l’articolista insinua il quesito: quello del Grandoni fu suicidio od assassinio? E, pian piano, sopra fantastiche, supposte, ma nella realtà storica insussistenti circostanze, lo scrittore lascia ritenere che il Grandoni fu strozzato.
All’articolo, che è firmato un amico del Grandoni, fa seguito un virulento commento della direzione del giornale in carattere corpo nove in cui, fra declamazioni e vituperi, l’accusa è ribadita.
A queste, e forse ad altre simili accuse ed insinuazioni, comparse in qualche altro giornale, risponde il documento in data 30 luglio, esistente in minuta nel Fascicolo n. 361 e che io dissi di non lieve importanza come i lettori potranno rilevare, poichè io lo riproduco nella sua integrità.
«Roma |
(Circolare |
- Ill.mo e Rev. Signore
Eseguita anche per le Pro- |
Monsignori Commissari di |
«È a cognizione di questa Direzione Generale di Polizia che la Sètta, nell’impegno di denigrare il Governo Pontificio, va spargendo voci falsissime intorno alla morte di Luigi Grandoni, uno dei rei principali dell’assassimo del Conte Pellegrino Rossi a forma di quanto ha dichiarato la Sacra Consulta nella sua sentenza pronunciata nel giorno 17 maggio 1854. E giunge la malignità a tanto che si vuol far credere che la morte del Grandoni non fosse mi suicidio, ma una morte appositamente procuratagli da altra mano.
«Tuttavia, affinchè la S. V. Ill.ma e Rev.ma possa, in ogni caso, fare smentire voci sì false e sì maligne in quei modi prudenziali che crederà più opportuni, trovo conveniente informarla con precisione intorno a tale fatto.
«Il Grandoni di carattere irruentissimo, appena vide che dal cumulo delle prove era fatta palese la sua reità ed appena potè trapelare, non si sa come, che il Tribunale Supremo lo aveva condannato all’ultimo fine, fece intendere anche a persone che prendevano interessamento di lui, che si sarebbe dato da per sè stesso la morte, piuttosto che piegarsi ad una sentenza capitale. Cosicchè informato di ciò chi presiede alle prigioni di S. Michele, ove egli trovasi detenuto, fece eseguire delle accurate perquisizioni fra gli effetti e sulla persona del Grandoni. Si rinvennero di fatti alcuni cordoncini di seta (non si conosce in che modo procuratisi) che gli vennero tolti e depositati nella Cancelleria della S. Consulta. Si collocò, quindi, nel suo carcere altro detenuto nella persona di Domenico Zanelli, perchè la presenza di costui lo trattenesse da qualunque attentato a danno di sè stesso.
«Ma tali precauzioni riuscirono inefficaci: imperocchè il Zanelli sortito dal carcere la mattina del 30 giugno ultimo, circa le ore 7 e mezzo, per prendere, come di solito, due ore di passeggio assegnategli nella contigua sala, il Grandoni profittò di tale momento per darsi la morte. Salito, pertanto, su di un bujuolo, fattosi laccio al collo con un fazzoletto, di cui assicurò una estremità al chiavistello dello sportello della finestra, respingendo quindi co’ piedi il bujuolo stesso, rimase impiccato.
«Portato il fatto a cognizione del Tribunale Criminale di Roma, assunse le ispezioni e verifiche di pratica. Anche taluni scritti del Grandoni chiaramente accennano al triste fine prestabilito. Tale è la storia genuina di costui31.
«Non devo poi tacere anche a V. S. Ill.ma e Rev.ma come la Sètta si fosse fitta in capo di procurare la grazia della pena capitale all’altro correo Sante Costantini. Si pensò pertanto di poter ciò conseguire con una dimostrazione al signor Generale Francese.
«Alla vigilia dunque della esecuzione della sentenza, cioè il giorno 21 luglio corrente, alcuni precettati politici, circa le ore sei pomeridiane, incominciarono a riunirsi nelle vicinanze della piazza di San Carlo al Corso, ove appunto è l’abitazione del lodato signor Generale. La polizia già conosceva la loro disposizione, per cui, comparsa in tempo sul luogo la Gendarmeria, bastò questa, ed anche in poco numero, per sbandare, senza nessuna reazione, quei radunati.
Il signor Generale poi diede alle guardie del suo palazzo gli ordini opportuni per respingere chiunque si fosse avvicinato allo stesso suo palazzo, od avesse alzata qualche voce in qualunque senso. Cosicchè nulla avvenne di sinistro, nulla tu dimandato al prefato signor Generale, e tutto restò nell’ordine e nella più perfetta quiete.
«Nella successiva mattina del 22 andante alle ore 6 e un quarto ebbe esecuzione la sentenza a carico del Costantini, senza il minimo inconveniente in qualunque siasi rapporto. Per altro si eccitò nel pubblico una indignazione generale contro la Sètta per essersi il Costantini mostrato sordo ai precetti di nostra Santa Religione, morendo impenitente.
«Tanto per sua intelligenza e norma, mentre mi confermo con sensi della più distinta stima
«Di V. S. Ill.ma e Rev.ma.
- Roma, li 30 luglio 1854.
Monsignor Delegato Apostolico |
Dev.mo Obb.mo Servitore |
Qui finisce il documento che ho riprodotto tutto per intero, anche per la parte che riguarda la fine del Costantini, di cui parlerò or ora.
Noto qui e fo notare ai lettori, che, non ostante le smentite così esplicite della Direzione Generale della Polizia pontificia, si continuò per qualche tempo ancora a voler dare ad intendere alla gente che il Grandoni non si fosse strozzato, ma fosse stato strozzato, come lo dimostra un foglio stampato volante, contenuto nella stessa Camicia 2897 bis intitolato:
«Un infame Processo
in Roma
Narrazione di un testimone oculare (?!)».
È un foglio da 35 a 40 centimetri di altezza su 16 di larghezza, pubblicato a Torino, 1854, Tipografia Subalpina, Via Alfieri, 24; ai piedi del foglio, in carattere minuscolo è stampato, G. B. Rocca, Editore.
È una lunga e stolida filastrocca, in data di Roma, 29 agosto 1854, piena di tribunizie e volgari declamazioni, tutto un tessuto di errori, di fantastiche leggende, di false affermazioni intorno al processo contro gli uccisori di Pellegrino Rossi — intorno al quale il dozzinale estensore di quel zibaldone nulla sa di vero e parla a orecchio, a vanvera e ad invenzione — e intorno alla morte del Grandoni, che non suicidio fu, ma eccidio — secondo l’estensore dell’articolo — e in cui si inventa e si spaccia per vero un romanzaccio riguardante l’amore di Monsignor Matteucci per una giovine donna, sopranominata Rondinella che era amante e mantenuta del Grandoni; onde la gelosia, l’ira, la vendetta di Monsignore... insomma un complesso di fanfaluche, non sussidiate neppur dall’ombra di una semiprova.
Fra le tante falsità pubblicate in quel turpiloquo libello ne scelgo e ne adduco ai miei lettori una sola.
«È cosa notoria in tutto lo stato romano che l’uccisore di Rossi è stato spento poco dopo il delitto e furono con lui spenti di pugnale incognito, Monsignor Morini di Faenza ed un Ufficiale dei Carabinieri pontificii, che, complici e scienti del tutto, avevano tradito il segreto!».
Ora, passando sopra queste sciocchezze e sozzure, dappoichè nessuno aveva o poteva avere interesse a sopprimere il Grandoni, il cui capo, da altra parte, era, fra pochi giorni, riservato al carnefice, dai documenti di sopra riferiti appar chiaro che il Grandoni, sempre subitaneo ed irruente, sempre preoccupato, come abbiamo veduto, dell’onore e del punto d’onore, disperò della grazia sovrana e si ribellò all’idea, per lui raccapricciante, di salire il patibolo e preferì uccidersi per sottrarsi a quell’onta e diede prova di una stoica fermezza e di uno straordinario coraggio nel compiere il suo funesto proposito, per effettuare il quale gli saranno accorsi almeno dieci minuti per fare il nodo scorsoio attorno al proprio collo, per salire sul bujuolo, per fissare fortemente un capo del fazzoletto al chiavistello e per respingere dai suoi piedi il bujuolo, a fine di restare penzoloni nel vuoto.
Egli disperò, forse, fuor di misura e troppo presto; perchè — come mostrò di credere ed affermò l’Avvocato Gui — probabilmente il Papa gli avrebbe commutata la pena per due ragioni, sia perchè la condanna di lui non era stata pronunciata col voto unanime dei Giudici e sia perchè era stata deliberata contro le conclusioni sospensive di Monsignor Fiscale Generale. Ad ogni modo a me sembra che la sua morte dia una formidabile ed efficace pennellata alla sua bizzarra ed esquilibrata si, ma pur maschia e caratteristica figura.
Nè dal prezioso incartamento dell’Avvocato Pietro Gui, nè dalle importanti Memorie autobiografiche del medesimo risulta che anche per Sante Costantini sia stata rassegnata domanda di commutazione di pena al Sovrano Pontefice. Ma può ritenersi per certo che anche per questo sventurato la domanda fu dall’onorando difensore redatta e presentata.
Di fatti nell’ incartamento predetto trovasi la seguente lettera di tutto pugno di Sante Costantini indirizzata al suo patrocinatore in data 2 giugno 1854, quindici giorni, cioè, dopo la definitiva sentenza del Supremo Tribunale a Turni riuniti :
- «Ill.mo ed Ecc.mo Signore,
«Nel vivo desiderio di vederla io mi feci ardito di indirizzargli altra mia in data 17 spirato mese, pregandola a volersi compiacere di venire da me, non avendo avuto il piacere fino a questo punto di vedere appagate le mie brame, torno nuovamente a farle incessanti premure perchè voglia degnarsi quanto prima potrà di venirmi a visitare in questa detenzione e spero che vorrà favorirmi.
«In attesa adunque di quanto bramo, nel momento che La prego a tenermi per iscusato dell’ incomodo che Le reco, con tutta stima e rispetto mi ripeto
«Della S. V. Ill.ma
«S. Michele 2 giugno 54
«U.mo Dev.mo Servitore |
L’animo retto e generoso dell’Avvocato Pietro Qui non potè evidentemente rimaner sordo a quella preghiera: anzi, poichè nell’incartamento suo — ove pure esistono altre lettere di Sante Costantini — non si trova quella in data 17 maggio cui accenna nella suriferita sua Sante Costantini, c’è da ritenere, direi quasi da giurare che tale lettera all’Avvocato Qui non era prevenuta.
Negli atti del famoso Notaio e Cancelliere R. Castelli, non vi ha traccia dei ricorsi in grazia nè del Grandoni, nè del Costantini; ma, siccome subito dopo la dispositiva della sentenza definitiva dei due Turni riuniti, di sopra riportata, seguono, in data del 22 luglio, i verbali della decapitazione di Sante Costantini, così è logico e legittimo ritenere che, in quei cinquanta giorni di intervallo, quanti ne corrono dal 2 giugno al 21 luglio, fosse appunto, redatta e presentata al Sovrano Pontefice la domanda di commutazione di pena del Costantini, come era stata presentata quella pel Grandoni, e che essa venisse rigettata o sugli ultimi di giugno o sui primi di luglio; e che quindi verso il 10 o il 15 di questo mese fossero dal Supremo Tribunale prese tutte le disposizioni affinchè la sentenza contro il Costantini fosse eseguita.
A proposito del qual fatto, esistono in atti — nei quali, come i lettori hanno veduto, neppure un cenno esisteva ed esiste sul suicidio del Gandoni — quattro Rapporti, tre dei quali trascriverò qui appresso come chiusa sanguinosa del dramma cominciato col sangue versato da Pellegrino Rossi nel vestibolo del palazzo della Cancelleria Apostolica il 15 Novembre 1848.
«Carceri Nuove
«Ore 11 e mezzo pom. li 21 luglio 1854.
«A seconda di quanto era stato superiormente disposto, alle ore 10 pomeridiane in punto il condannato Sante Costantini è stato introdotto in queste carceri, proveniente da quelle di San Michele.
«Il suo portamento era ilare e disinvolto.
«Allorquando dal Cursore gli è stata intimata ne’ modi consueti la sentenza si è espresso contro quell’impiegato ed il Supremo Tribunale con parole ingiuriose e sconcie.
«Abbracciato poi dai Signori Confratri32 ha mostrato subito la più decisa avversione alla prattica di ogni dovere religioso.
«Non molto dopo ha fatto richiesta di una copia della sentenza che lo riguarda, il che non si è creduto opportuno di negargli. La lettura di questa lo ha tenuto occupato per lo spazio di circa mezz’ora ed ha quindi dichiarato esser la medesima un complesso di menzogne e di infamie.
«Ha proseguito poscia a mostrarsi sordo ad ogni caritatevole e religiosa esortazione dei Signori Confratri, tenendo un linguaggio pieno di false massime e stravolgendo i più sagri principii di nostra santa Religione.
«Monsignor Sagretti Presidente del Supremo Tribunale della S. Consulta.
«P. Massimi Giusdicente.
«Alessandro Rossi, Notaio».
A questo primo fa seguito un secondo Rapporto, inviato circa quattr’ore dopo.
Eccolo:
«Carceri Nuove
«Ore 4 antimeridiane del dì 22 Luglio 1854.
«Facendo seguito all’altro rapporto delle 11 e mezzo pomeridiane di questa notte niente di consolante potrebbe aggiungersi sul conto del condannato Sante Costantini. Desso si è, fino a quest’ora, mantenuto ne’ stessi irreligiosi sentimenti; ed ha rese inutili tutte le pratiche ed i sforzi (sic) dei Signori Confratri e dei Rev.mi P. Domenico Antonio da Frascati Cappuccino e P. Antonio Delle Fornaci Trinitario, sopracchiamati all’oggetto di ridurlo a migliori consigli.
La più rimarchevole apatia accompagna i detti ed il contegno del condannato, per cui avvicinandosi l’ora stabilita per la esecuzione della sentenza vanno a comunicarsi (sic) gli ordini relativi.
«Monsignor Sagretti Presidente del Supremo Tribunale della S. Consulta.
«P. Massini Giusdicente.
«Alessandro Rossi, Notaio».
A questo secondo Rapporto segue il terzo ed ultimo così concepito:
«Carceri Nuove
«Ore 6,20 antimeridiane del dì 22 luglio 1854.
«In quest’istante è stata eseguita, mediante decapitazione, la sentenza che colpì Sante Costantini.
«Il suo trasporto delle Carceri Nuove a questa piazza de’ Cerchi è seguito senza alcuna rimarchevole circostanza, se si eccettuino alcune poche parole da lui pronunciate, ma che furono da pochi ascoltate per rollar (sic) di tamburri (sic) che si aveva avuto la precauzione di porre attorno al carro che lo trasportava.
«Nel primo passare sotto il patibolo non si è per alcun modo conturbato: anzi mirandolo indifferentemente si è espresso: adesso ci vedremo.
«Condotto nella conforteria, ha rigettata, come per lo innanzi, ogni religiosa ammonizione dei Signori Confratri, per cui essendo trascorsa fora prestabilita e non offrendosi la più remota speranza di conversione, si è ordinato che venisse eseguita la sentenza.
«Tradotto sul patibolo, le cui scale ha salito con furiosa sollecitudine, ha emesso un forte grido: Viva la Repubblica, dopo di che ha cacciato la testa sotto il ferro, senza che il Carnefice o con parola, o con l’opera sua ve lo costringesse.
«Il popolo, non numeroso, mantenne il più profondo silenzio.
«Il corpo dell’esecutato, fu lasciato in potere degli Agenti di polizia con istruzione di porlo subito in luogo sicuro e fu fatto dai medesimi trasportare nel recinto dello Stabilimento de’ Selci, perchè nella notte prossima abbia sepoltura fuori del sagro.
«Tanto ecc.
«Monsignor Sagretti Presidente del Supremo Tribunale della S. Consulta.
«P. Massimi Giusdicente.
«Alessandro Rossi Notaio».
A volere avere maggiori e più minuti particolari sulla intrepida fine dello scultore Fulignate, i lettori potranno vedere fra i documenti il Rapporto del Marchese Sacchetti Provveditore della Venerabile Arciconfraternita di San Giovanni Decollato, di cui sopra è fatto cenno.
- ↑ Per effetto del Regolamento organico di procedura criminale del 5 novembre 1831 e del Regolamento sui delitti e sulle pene del 20 settembre 1832 furono creati i due posti di Avvocato Generale dei Poveri e di Avvocato generale del Fisco e della Reverenda Camera Apostolica con lo stipendio — per quei tempi vistosissimo — di cento scudi al mese, i quali posti venivano conferiti a due avvocati concistoriali, che non erano preti, ma laici e cittadini e spesso anche padri di famiglia e prendevano, nondimeno, il titolo di Monsignore, vestivano l’abito talare soltanto durante l’esercizio del loro ufficio ed erano, perciò, detti Monsignori di Mantellone.
Nel 1854 ricopriva l’ufficio di Avvocato Generale dei Poveri, Monsignor Bonaventura Orfei.
Egli era uomo di mediocre ingegno e cultura, d’animo piuttosto buono, ma era scarso di energia e non si segnalò per vigoria soverchia di orazioni difensive, sebbene adempisse, il meglio che sapeva e poteva, il compito dalla legge assegnatogli. - ↑ L’ufficio di Avvocato Generale Fiscale era sostenuto nel 1854 da Monsignor Pietro Benvenuti. Di ingegno che non si sollevava di molto sulla media della mediocrità, non possedendo neppure una profonda ed ampia cultura giuridica, si sorreggeva nell’ufficio assegnatogli per certi impeti e scatti di combattività del suo temperamento, assai adatto a sostenere le ragioni del Fisco, per essere poco accessibile alla tenerezza e alla compassione. Per istinto, educazione, tradizione e convinzioni devoto al governo pontificio e tendente a reazione.
- ↑ All’ufficio della Procura dei Poveri appartenevano avvocati penalisti, che avevano uno stipendio dal Governo per le difese di ufficio. L’istituto della Procura dei Poveri era sorto nel 1832 in base alle due leggi sopra citate: e tale istituto durò sino al 1° marzo 1871, giorno in cui entrò in vigore il procedimento penale italiano.
Al tempo in cui si discusse innanzi al Supremo Tribunale della Sacra Consulta il processo per l’uccisione di Pellegrino Rossi ne facevano parte anche gli avvocati Frassinelli, Gui e Sinistri, che furono destinati di ufficio a difendere i quindici imputati.
L’avvocato Pietro Frassinelli era fornito di ingegno naturale, se non straordinario, certo vivo e svegliato: non aveva larga cultura nè giuridica, nè letteraria e la sua difesa stampata del Colonnello, del Zeppacori, del Capanna, del Selvaggi e del Papucci, abbastanza abile e vigorosa per argomentazioni, è scritta difatti, assai male. Per altro era pronto di parola e spigliato. Subì nel 1865 un processo poco onorevole e fu revocato dalla Procura dei Poveri.
L’avvocato Pietro Gui, nato a Roma il 7 giugno 1812 per gagliardia di ingegno limpido e equilibrato, per integrità di animo, per ampia dottrina non soltanto giuridica ma anche letteraria e per alta, serrata e ornata eloquenza, era, a quel tempo, insieme con l’avvocato Olimpiade Dionisi, uno dei due principi del foro penale romano. Bell’uomo, alto, magro, muscoloso, biondo, serio e correttissimo nei modi, sobrio di parole e modesto fu nei settantasei anni della sua laboriosissima vita sempre esemplare di virtù cittadine e domestiche. Egli era amico dell’amatissimo padre mio ed io ebbi la fortuna di conoscerlo e di ammirarlo ed ebbi, coi poveri e adorati fratelli miei, dimestichezza di infanzia coi figli del Gui, Emilio, Antonio e Pio.L’avvocato Giovanni Sinistri era romano — e anche lui io che scrivo conobbi — morto in tardissima età dopo il 1900. Era di ingegno modesto, fornito di discreta cultura, conservatore e papalino convinto, ma di una probità e rettitudine rara e suppliva, col zelo e con lo studio delle cause alla scarsa efficacia della sua parola.
Dei resto alla Procura dei Poveri di Roma appartennero valorosi avvocati quali Stefano Bruni, Carlo Palomba, Raffaele Marchetti, Ercole Ranzi, Nicola Bartoccini e Antonio Gui, i quali due ultimi ancora viventi, erano alle loro prime armi e, insieme agli altri summenzionati, si segnalarono nella difesa dei prevenuti politici, nei processi per i fatti del 1867, dando prove di indipendenza e di energia sotto la guida dei coraggioso Avvocato Generale dei Poveri Monsignor Annibaldi, che, in seguito all’atteggiamento vigoroso assunto in quei processi, fu, nel 1868, destituito dal suo ufficio.
- ↑ Una volta per tutte prevengo i lettori che i frequenti eccetera che si incontrano in questi verbali sono del Cancelliere R. Castelli ed esistono negli originali dei Verbali stessi.
- ↑ Processo, Tomo XVI, verbali dei dibattimenti, primo Verbale.
- ↑ Processo, Tomo XVI, Verbali Dibattimenti, secondo Verbale.
- ↑ Tutti gli altri, intende il Procuratore Fiscale, il Procuratore dei poveri e i tre Avvocati difensori.
- ↑ Processo, Tomo XVI, Verbali Dibattimenti, terzo Verbale.
- ↑ Processo, Tomo XVI, quarto Verbale.
- ↑ Processo, Tomo XVI, quinto Verbale.
- ↑ Processo, Tomo XVI, sesto Verbale.
- ↑ Appare chiaro che, avendo il Costantini pochi momenti prima di scrivere questa lettera, scritta l’istanza indirizzata a Monsignor Presidente, per equivoco, ha ripetuto la chiusa della istanza nella chiusa della lettera all’Avvocato Gui.
- ↑ Di questa rivelazione stragiudiziale del Costantini si è servito Emilio Del Cerro in un capitolo, intitolato L’assassinio del Conte Pellegrino Rossi, contenuto nel volume da lui pubblicato in Roma coi tipi di Enrico Voghera nel 1899 Cospirazioni romane (1817-1868) rivelazioni politiche. Checchè valga il volume, poverissima cosa è il capitolo su Pellegrino Rossi, scritto da un uomo che mostra di ignorare quasi totalmente la bibliografia e la letteratura dell’argomento, che non conosce il rigore del metodo, che ha provato di non aver ombra di discernimento critico, che non ha avuto nè pazienza, nè spirito di indagine e che, per fonte principale delle cinquantatrè pagine del suo zibaldone, pieno di contraddizioni, di inesattezze e di errori, ha preso la famosa relazione processuale del Giudice Istruttore Laurenti! E tanto basti perchè i lettori possano farsi un’idea approssimativa del contenuto assolutamente negativo di tale capitolo.
Io, quindi, pubblico qui — in alcuni punti, riassumendola — la importante sì, ma tardiva, rivelazione di Sante Costantini.
- ↑ Qui pare che il Presidente, o coscientemente, o incoscientemente, mentisca perchè in tutta la lunga diceria rivelatrice nelle suppliche del Costantini non si parla mai di impunità.
- ↑ Il lettore non deve imputare all’Avvocato Gui, che era ornato, logico e limpido oratore, il barocchismo di questo e di parecchi altri periodi successivi: tale barocchismo è esclusivamente del Notaio Cancelliere, di cui io ho copiato fedelmente e trascrivo i verbali.
- ↑ Qui veramente Monsignor Procuratore Generale, nella toga della sua improvvisazione — e probabilmente senza volerlo e senza accorgersene — non fu esatto: perchè il rivelo stragiudiziale Costantini gravava, e non lievemente, fra i sedici imputati, Gioacchino Selvaggi, senza tener conto del danno che avrebbe potuto fare al Ranucci, al Medori, ai Testa, ai Pennacchiini ecc.
- ↑ Processo, Tomo XVI, settimo Verbale.
- ↑ L’Avvocato Pietro Gui, che fu in tutta la sua vita, come già dissi in principio di questo Capitolo, esemplare di probità, di ordine e di equilibrio nell’esercizio del suo ufficio di difensore penale, fu ugualmente amoroso, ordinato e integro padre di famiglia.
Egli venne dettando, per uso dei propri figli, anno per anno, alcune Memorie autobiografiche, modeste, sobrie, intime, il cui manoscritto, vergato tutto di suo pugno, con nitida calligrafia, composto di diciassette quinterni di carta ancóra comprendenti duecentottantotto pagine, esiste presso l’onorando figlio di lui, giurista e magistrato insigne, l’Avvocato Comm. Antonio Gui, Consigliere della Romana Cassazione, mio carissimo amico fin dall’infanzia, il quale gentilmente e fraternamente, ha messo quel Manoscritto a mia disposizione, come a mia disposizione aveva messo tutta la posizione o incartamento paterno riguardante il Grandoni, i fratelli Costantini e il Giovannelli difesi dall’Avvocato Gui, da cui ho tratto molti lumi e parecchi documenti — come i lettori vedranno in seguito.
In quelle Memorie della mia vita, così l’Avvocato Pietro Gui ricorda quell’ardimentoso incidente, in cui egli, in quel momento di fiera reazione, si era messo a un brutto repentaglio, con queste parole che stimo opportuno ed utile riprodurre, trascrivendole dal quinterno Ho.
«In quest’anno — scrive l’onorando uomo — fu discussa, fra le altre, avanti la Sacra Consulta, la celebre causa dell’assassinio del Conte Pellegrino Rossi: a me fu affidata la difesa dei due principali accusati, cioè di Sante Costantini e di Luigi Grandoni: il mio compito era gravissimo, perchè la posizione dei due miei patrocinati era sommamente critica e terribile l’accusa da cui eran colpiti. Parecchi giorni durò il dibattimento, nello svolgersi del quale sorsero degli incidenti che misero alla prova il mio coraggio e mi costrinsero ad ingaggiare con quel tremendo Tribunale una battaglia, in cui potevo rimanere schiacciato, eppure, alla fine, ebbi l’onore di uscirne vittorioso.
«Sante Costantini, che aveva sempre e recisamente negato la sua compartecipazione a quel fatto criminoso, vedendosi stretto dalle prove in contrario e con l’acqua alla gola, nell’intervallo fra una seduta e l’altra, scrisse al Presidente del Turno giudicante proponendogli di fare delle importanti rivelazioni, purchè avesse salvo il capo. Il Presidente, alla insaputa della difesa, mandò un Giudice istruttore alle carceri ad assumere le dichiarazioni del Costantini in fogli separati dal Processo: adunò, quindi, particolarmente i congiudici e il Procuratore Fiscale: comunicò ai convenuti l’interrogatorio del Costantini e dopo essersi fra loro intesi, decisero che non si dovesse dare al medesimo nessuna importanza giudiziale: quindi il Presidente — come se nulla di interessante si fosse operato — ordinò si riassumesse e proseguisse la causa in udienza formale.
«Al primo riaprirsi della seduta, io dolendomi, pur con rispettose parole di quanto erasi fatto illegalmente e dietro le spalle della difesa, a dibattimento incominciato, domandai almeno comunicazione delle dichiarazioni emesse dal Costantini, le quali, comunque soppresse, non potevano non avere prodotto una impressione sull’animo dei giudicanti, epperò dovevano formare soggetto e materia discutibile dalla difesa: la mia mozione fu virilmente combattuta dal Procuratore Generale del Fisco e sorse fra me e lui una viva polemica, nella quale, messo da banda ogni riguardo, io parlai con piena libertà ed energia; e fra le altre cose mi ricordo aver detto che la difesa era un diritto ed una reale garantia per l’accusato, non una semplice formalità ed una vana mostra; che io intendevo difendere da senno e non per mera apparenza e non mi sarei mai piegato a vedere inceppata o menomata l’azione del mio nobile ministero. Inutili parole! Il Tribunale Supremo rigettò bruscamente la mia domanda.
«A questo punto io protestando dissi che, poichè si voleva imbavagliare la difesa a modo che questa era ridotta alla impossibilità di spiegare debitamente il suo officio, la coscienza, la morale, il sentimento d’onore ed il proprio dovere mi imponevano di sospendere le mie funzioni e di ritirarmi.
«Raccolsi, dopo ciò, le mie carte ed abbandonai la sala di udienza: gli altri miei colleghi, benchè pallidi e tremanti, pur seguirono il mio esempio e il banco della difesa restò deserto.
«Difficilmente può immaginarsi quale e quanto fosse, dapprima lo stupore e poi lo sdegno dei Giudici Prelati e segnatamente del Presidente Paolini, che era un energumeno. Si trattò fra loro di sospensione, di destituzione, di processo da farsi agli insolenti difensori e, in specie, a me che ero stato la pietra dello scandalo: infine però non fu presa sul momento alcuna risoluzione, ma si determinò di fare dell’avvenuto un dettagliato e ben colorito rapporto al Superiore Governo, invocando severe misure sulla ribelle difesa.
«Il Ministro dell’Interno, che era pur Ministro di grazia e giustizia, adunò straordinariamente una Commissione, dove la cosa fu dibattuta e dove — sia lode al vero — un sentimento di pudore e di giustizia prevalse: la Commissione decretò che, passando anche sopra la illegalità commessa, la domanda della difesa era ragionevole, epperò dovesse essere accolta.
«In seguito di tale responso, ci fu data comunicazione delle dichiarazioni del Costantini e fu riassunto il dibattimento della causa, il cui esito fu la condanna del Costantini e del Grandoni alla morte e di altri ritenuti complici alla galera perpetua, o temporanea».
- ↑ Processo, Tomo XVI, ottavo Verbale.
- ↑ Ma quali sono gli atti assunti? Fu interrogato il Principe Borghese? Fu interrogato il Maestro di casa, ovvero il Computista, ovvero tutti tre?... V‘è solo di certo che la ricevuta era stata trovata.
- ↑ E qui proprio buio pesto e completo. Di che si tratta? Che vuol dirre la differenza del nome e cognome? Aveva egli firmato uno dei fogli degli atti assunti col nome e cognome di un altro? Mancando gli atti dell’istruttoria suppletiva, che avrebbero dovuto essere allegati, non si capisce nulla. Quel Cancelliere Castelli sarà stato anche Notaio, ma, tanto come Notaio quanto come Cancelliere, era certo adorno di una negligenza meravigliosa e di una fenomenale insipienza.
- ↑ Leggendo queste parole per le ragioni ecc., onde è impossibile intendere la motivazione giuridica su cui si fondava Monsignor Benvenuti, si è tentati di credere che il Notaio Cancelliere nello stendere questi verbali facesse la burletta. E si trattava di delitto capitale!
- ↑ Pare di sognare! Non una parola sulla quistione di diritto, non una parola sulla difesa del Grandoni. E l’Avvocato Gui avrà parlato almeno due ore! Disgraziatamente nel voluminoso incartamento dello studio Gui sul processo Rossi non avvi traccia od appunto sulla quistione di diritto e quindi non è possibile stabilire se, in quanto e fin dove il Gui e il Procuratore Generale Fiscale consentissero o dissentissero.
Per quel che riguarda la difesa del Grandoni, che, a detta degli Avvocati superstiti della Procura dei Poveri di quel tempo, fu lunga, calda ed eloquentissima, fortunatamente esiste nell’incartamento suddetto un largo sunto che ne costituisce la tessitura e che io posso riprodurre nei Documenti. Vedi Documento VII. - ↑ Se ho potuto inserire nel presente verbale il sunto di questa ultima istanza di Sante Costantini, scritta evidentemente il 28, ma alla quale egli diede la data del 29 aprile, non è già per merito e per diligenza del Cancelliere, ma perchè tale istanza e allegata agli atti del Tomo XVI.
- ↑ Riproduco fra i documenti il sunto della splendida difesa pronunciata dall’Avvocato Gui a pro del Costantini. Vedi Documento VIII.
- ↑ Nell’incartamento Gui c’è un esemplare dalla scrittura stampata dell’Avvocato Frassinelli, di cui riferisco un sunto fra i Documenti. Documento IX.
Delle difese dell’Avvocato Sinistri non v’è alcuna traccia. - ↑ È evidente che, dopo tenute le prime sedute in una sala nell’edificio delle Carceri Nuove, forse per il più facile accesso nell’aula di udienza agli inquisiti carcerati, il Supremo Tribunale aveva trasferito nuovamente la sede delle udienze nella sua abituale residenza al palazzo di Montecitorio: ma ciò resulta ora dalle parole surriferite del Cancelliere Castelli, perchè in nessuno dei precedenti verbali, come i lettori han potuto vedere, di tale trasferimento è fatto cenno.
- ↑ Questa sentenza fu per la prima volta stampata in Roma, nel 1854, per ordine e conto del Governo Pontificio, senza indicazione di stamperia in un fascicolo in 4° grande, composto di sette fogli contenenti venticinque pagine di stampato e che, sebbene fosse a quei giorni a migliaia di copie diffuso in Italia ed all’estero e quantunque esista in parecchie biblioteche pubbliche e private, è oggi divenuto non facilmente reperibile, anzi raro.
Fu più tardi ripubblicata dal Dottor Achille Gennarelli nella raccolta di documenti intitolata Il Governo pontificio e lo stato romano, due grossi volumi in 4° stampati da F. Alberghetti e C. nel 1869 a Prato.
Io la riproduco fra i documenti. Vedi Documento N. X. - ↑ Fra le carte del Cardinale Francesco Pentini, raccolte nella Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma, Sezione del Risorgimento italiano e le quali, come i lettori sanno, consistono, precipuamente, in cartelline staccate contenenti ricordi ed appunti che il Pentini andava prendendo per scrivere una storia di quel triennio 1846-49, che poi pur troppo non scrisse, nella Busta ‘21, Copertina 4, esiste la seguente noterella.
«La sera del 21 Marzo 1854 fui da Monsignor Muccioli, che aveva detto dovermi dare una memoria per un affare riguardante la Presidenza degli Archivi; in questa circostanza trovai che aveva sul tavolino il ristretto stampato del Processo Rossi e mi disse che il venerdì 24 andava a farsene la prima discussione in Tribunale; mi aggiunse poi che questo processo fu consegnato dal Processante fin dal mese di Giugno 1853 e che fu passato a Sua Santità, il quale non lo fece ritornare al Tribunale se non nel mese di Febbraio 1854, accompagnato da officiali disposizioni che ingiungevano di togliere alcune cose, che venivano espressamente indicate, ed erano tutte quelle che, in qualche modo, riguardavano il Principe di Canino, evitando perfino di porvi il di lui nome, quando necessariamente veniva indicato nelle respettive deposizioni. Si riteneva poi che questo processo fosse, in quel lungo periodo stato trasmesso a Parigi e che di là fossero venuti 11 sopra indicati cambiamenti; e che, anzi da quel tempo in poi non aveva avuto più accesso a corte il detto Canino.
«Sembrava poi che due degli compresi in processo sarebbero stati ritenuti rei di giudizio capitale ed altri sei o sette a minor pena: però non risultava tra questi nè l’autore preciso delta uccisione, nè venivano demarcati li primi committenti e decretanti la detta uccisione, mentre specialmente il Canino che lo sarebbe apparso con prova non se ne dorerà per superiore ordine più parlare.
Le cose dette da Monsignor Muccioli a Monsignor Pentini non erano tutte perfettamente esatte, a giudicarne dagli atti del processo, che io ho fedelmente transunti ed esposti ai miei lettori, i quali avranno veduto, come il nome del Principe di Canino figuri in più di centoventi testimonianze, nessuna delle quali appare che sia stata soppressa.
Ciò non vuol dire che, nel lungo intervallo corso dal Giugno 1853 al Febbraio 1854, il Processo non possa essere stato inviato a Parigi; anzi tutto lascia credere che effettivamente vi sia stato mandato, ed è certo che da queiranno il Canino non fu più visto alla corte imperiale di Francia.
Le officiali disposizioni date dal Pontefice Pio IX, allorchè egli rinviò il processo all’Ufficio di istruzione, e concernenti la omissione di alcune cose e soppressione del nome del Canino, non si riferivano al Processo, il quale rimase quale era risultato dalle istruttorie Cecchini Laurenti, ma si riferivano alla Relazione sommaria o ristretto che il Laurenti aveva fatto e nella quale il Papa volle che il nome del Canino non figurasse mai. Ciò che importa che i lettori notino nell’appunto di Monsignor Pentini si è che, fin dal 21 marzo 1854, tre innanzi cioè a quello in cui cominciavano i dibattimenti, Monsignor Muccioli, relatore della causa, annunciò al Pentini quale doveva essere e quale sarebbe stata la sentenza.
- ↑ Conchiusione tanta più notevole e impressionante in quanto che Monsignor Benvenuti non era — come si è detto — nè proclive a benignità verso i prevenuti politici, nè troppo inchinevole alla pietà.
- ↑ Il disordine con cui erano tenute e sono rimaste conservate le carte raccolte in quelle Buste e in quei Fascicoli dell’Archivio di Polizia ha impedito e impedisce allo studioso di rinvenire gli elementi e le risultanze delle ispezioni e delle verifiche cui qui si accenna e di cui in quelle posizioni non v’ha traccia; come non v’ha traccia di quegli scritti del Grandoni, alludenti ai suoi propositi di suicidio, i quali, per esser noti alle autorità fiscali, dovevano, evidentemente, essere stati sequestrati e avrebbero dovuto trovarsi in quelle posizioni.
- ↑ Confratri della Venerabile Arciconfraternita di San Giovanni Decollato, il cui interessante Rapporto, che è il quarto ed ultimo contenuto negli atti processuali e fu già pubblicato da quel tale Emilio Del Cerra in quel suo siffatto libro, io riproduco fra i documenti. Vedi Documento N. XVI.