Pellegrino Rossi e la rivoluzione romana - Vol. III/Capitolo XVIII
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CAPITOLO XVIII
Nella biblioteca Casanatense sotto questa segnatura: CC, N. 1,56 esiste un grosso volume in-4° grande di 643 pagine, senza indicazione di Tipografia e stampato a colonna — in conseguenza di che le pagine effettivamente verrebbero ad essere 320 circa — e intitolato così;
«LESA MAESTÀ CON OMICIDIO
in persona
DEL CONTE PELLEGRINO ROSSI
Ministro di Stato».
Segue subito, nella pagina successiva, l’Indice della Relazione, la quale è divisa in parte generica e in parte specifica, precedute da un Prospetto della Causa sulla base degli Atti.
La parte generica è suddivisa in tre parti: I. Risultanze mila Cospirazione; II. Risultanze circa il Decreto e l’esecuzione dell’assassinio del Rossi; III. Risultanze sulla insurrezione.
La parte specifica non ha suddivisioni ed ha questo sotto-titolo: Sulla responsabilità degli inquisiti carcerati e giudicabili.
Queste prime cinque pagine non sono numerate: nella pagina susseguente, che reca il n. 1, si legge:
Al Tribunale Supremo
della
Sacra Consulta
ROMANA
1848
di
Lesa Maestà con omicidio
in persona
del Conte Pellegrino Rossi
Ministro di Stato
contro
Pietro Dottor Sterbini ed altri mandanti ed esecutori contumaci, emigrati e
contro
Luigi del fu Pietro Grandoni, romano, di 40 anni, mercante di campagna, arrestato il 20 gennaio 1850.
Sante di Feliciano Costantini, da Fuligno, di anni 24, scultore, arrestato il 10 gennaio 1850.
Francesco Costantini di lui fratello, di anni 21, ebanista, arrestato il 9 gennaio 1850.
Gioacchino, quondam Nicola Selvaggi, romano, di anni 25, orologiaio, arrestato il 25 agosto 1852.
Paolo di Giuseppe Papucci, romano, di anni 26, ricattiere (sic), arrestato il 25 agosto 1852.
Alessandro di Clemente Testa, romano, di anni 32, cacciatore, arrestato li 11 febbraio 1860, poi dimesso il 30 settembre detto anno e, quindi, di nuovo arrestato il 18 giugno 1853.
Giuseppe di Angelo Caravacci, alias Mecocetto, romano, di anni 20, negoziante di pellami, già esistente in carcere per altra processura.
Cesare del fu Luigi Díadei, di Albano, di anni 28, vetturino, già esistente in carcere per altra processura.
Ruggero del fu Michele Colonnello, da Napoli, di anni 60, equitatore, condannato già per altre cause.
Bernardino di Giacomo Facciotti, da Palestrina, di anni 34, ebanista, condannato già per altre cause.
Filippo Facciotti di lui fratello, di anni 30, ebanista e pure già condannato.
Giuseppe di Giosafatte Giovannelli, da Pofi, di anni 40, calzolaio, arrestato il 14 gennaio 1863.
Filippo del fu Domenico Capanna, romano, di anni 43, possidente, già condannato per altre cause.
Innocenzo del fu Filippo Zeppacori, romano, di anni 29, pescivendolo, già esistente in carcere per altra processura.
Giuseppe del fu Luigi Fabiani, alias Carbonaretto, da Rocca di Papa, negoziante di carbone, già condannato per altre cause.
Filippo di Vincenzo Bernasconi, romano, di anni 28, sartore, già condannato: Ed altri assenti e contumaci.
E qui, a pagina 3, comincia il Prospetto della causa sulla base degli atti.
Ora, prima di entrare nell’esame critico di questa Relazione del Giudice Istruttore avvocato Laurenti, occorre che io richiami l’attenzione dei miei lettori su ciò che dissi nel Capitolo XVI di quest’opera1 quando istituii un parallelo fra i metodi seguiti nella procedura dai due Giudici Istruttori Cecchini e Laurenti.
Questa causa era una causa eminentemente politica e di suprema importanza, nella quale erano impegnati il decoro, il prestigio, l’autorità del Governo pontificio di fronte all’Italia e all’Europa; giacchè su quel delitto, sia per la fama europea di Pellegrino Rossi, sia per l’alto ufficio di Primo, anzi, si potrebbe dire di Unico, Ministro di cui era investito l’insigne statista nel momento in cui fu ucciso, sia per il modo, per l’ora, per il luogo in cui l’eccidio di lui fu commesso, sia, infine, per le conseguenze che agli occhi delle moltitudini parve derivassero da quel misfatto nella storia di quel triennio di rivolgimenti politici 1846-1849, su quel delitto, avvolto nel mistero, trasfigurato da numerose leggende, travisato dall’Ebreo di Verona del Padre Antonio Bresciani, tutta l’Europa attendeva, con curiosità e con interesse, la indagine, la rivelazione e la punizione.
Un Governo serio, un Governo autorevole, un Governo forte non poteva lasciare quel misfatto nè avvolto nelle tenebre, nè impunito.
Tutto ciò era sentito e compreso nelle alte sfere del restaurato Governo papale e la necessità di corrispondere a quella universale e ragionevole aspettazione era tanto compresa e sentita che — i lettori se ne rammenteranno — fin dal 10 gennaio 1852 Monsignor Matteucci, Presidente del Supremo Tribunale, aveva scritto al Giudice inquirente Cecchini eccitandolo a volere addivenire alle contestazioni finali e alla compilazione del Ristretto riassuntivo del processo2.
Ma quell’ordine, la cui esecuzione avrebbe prodotto resultanze assai più incomplete e più imperfette di quelle che presenta, pur così imperfette e così incomplete, la Relazione dell’Avvocato Laurenti che io sto esaminando, non potè essere mandato ad atto perchè, proprio in quel momento, si direbbe provvidenzialmente, il Capitano Galanti, tenero del programma da lui, fin dal principio ideato e desideroso di vederlo svolto, introdusse nel dramma il Deus ex machina, così lungamente invocato e ricercato e, finalmente, trovato nella persona dell’impunitario Filippo Bernasconi, il quale con le sue rivelazioni, veniva a metter puntelli e a recar nuovi materiali all’esile e vacillante edificio costruito dal Giudice Cecchini sulle denuncie della pudica Colomba Mazzoni De Bianchi, dell’onesto Agostino Squaglia e sulle rivelazioni degli inquisiti Felice Neri, Alessandro Testa e Innocenzo Zeppacori. Mingherlino edificio in vero — lo ripeto — quello eretto dall’Avvocato Cecchini e di cui intese tutta la fragilità il successore di lui Avvocato Laurenti, venuto ad assumere la continuazione della procedura proprio nell’istante in cui erano apparse le rivelazioni dell’impunitario Bernasconi.
Certo la impunità accordata ad un inquisito per farsi denunciatore dei propri compagni di causa è una mostruosa immoralità, uno strumento nequitosissimo, avanzo di procedure barbariche, che repugna ad ogni coscienza onesta in quanto che impegna e trascina il rivelante a divenire cointeressato cooperatore del Fisco, non già enunciatore e indagatore di verità, ma spietato e mendace alteratore del vero a vantaggio dell’accusa e a danno della difesa. E poiché un uomo che assume l’impunità non può essere che un vile ed abbietto destituito di qualsiasi ombra di senso morale, così ne consegue che supporre in esso, o pretendere da esso equità e verità sarebbe lo stesso che pretendere fragole da una pianta di lupini.
Ma per quanto iniquità ed immoralità, a cui si ribellano e la morale umana e le civili legislazioni, la impunità, esistendo ancora a quel tempo e presso quel Governo, intervenne nel Processo contro gli uccisori di Pellegrino Rossi e, senza dubbio, le deposizioni del Bernasconi sopraggiunsero, come dissi, ad apportare ampio materiale al nuovo Giudice Istruttore, che, da quelle rivelazioni, si vide dischiudere davanti l’esteso ed ignorato campo della congiura Facciottina, ridicola e grottesca quanto vuolsi, ma non per questo meno considerevole campo — e che era quello nel quale in realtà si era precipuamente svolta l’azione dell’impunitario rivelante — e di cui al Giudice Cecchini era sfuggita la importanza; benché a lui quel campo fosse stato segnalato dal testimone, confidente di polizia, Franco Cecchetti fin dal 30 dicembre 1849, quantunque quel testimone i Facciotti — su cui più tardi direbbe tante cose — in quella occasione non li nominasse e parlasse soltanto di Giovanni Galeotti e di Ruggero Colonnellonota e quantunque tale segnalazione fosse rinvigorita dal capo degli Agenti di Polizia Alessandro Rosalbi, il 13 ottobre 1851, il quale indicò la bottega dei fratelli Facciotti alla Salita di Marforio come centro di uria società rivoluzionaria capitanata dagli emigrati napoletani Gennaro Bomba e Dottor Vincenzo Carbonellinota.
A quelle rivelazioni che, per quanto caricate dall’impunitario nelle tinte, contenevano la parte meno menzognera delle sue deposizioni, il Bernasconi, istrumento cieco del Capitano Galanti e dell’Ufficio di Istruzione, volle aggiungere tutta la parte inventata e falsa che porse all’Avvocato Laurenti una aggrovigliata matassa da dipanare e lo trasse ad impiegare molto tempo nel compire l’istruttoria e lo costrinse a dibattersi entro un campo segnato, prestabilito e circoscritto, irto di sterpi e di dumi, fra le incoerenze e le inverosimiglianze, fra i patenti mendaci, spesso fra gli assurdi del Rivelante ribelli alle leggi della logica e privi del sostegno di prove e, talora, neppure di indizi e di semiprove e lo condannò a farsi relatore di una processura informe, sgretolata, sconnessa, le cui screpolature, le cui fenditure risultavano ad ogni tratto ad occhio nudo e per cercare di coprirle e di nasconderle lo spinse a ricorrere ai più miseri e sleali artifici a cui intelletto di inquisitore fosse mai obbligato a ricorrere al mondo.
Naturalmente tanto l’Avvocato Cecchini, quanto l’Avvocato Laurenti avevan fatto, come era loro interesse e loro dovere, continue e periodiche relazioni del progressivo svolgimento del Processo sia all’Ufficio direttivo di istruzione dei processi politici, sia al Presidente del Supremo Tribunale, il quale, senza nessun dubbio, vista la straordinaria importanza della causa e la legittima aspettazione che essa destava, ne avrà più volte riferito al Cardinale Segretario di Stato; e siccome, i Giudici Processanti, fatte le loro relazioni, avranno continuamente chiesto tanto all’Ufficio, direttivo 3 4 di istruzione dei processi politici, quanto al Presidente del Supremo Tribunale lumi, consigli, indirizzo, così è lecito — e anche logico — ritenere che la via seguita dal Cecchini e dal Laurenti fosse quella tracciata loro dal Superiore Governo.
Ora questo Governo era, naturalmente, logicamente, rappresentante di un grande e potente partito, il quale, disfatto ieri, vincitore oggi, si credeva, — e, al punto di vista suo, in piena buona fede — investito della tradizionale potestà e della suprema autorità e doveva quindi, considerare e considerava i vincitori di ieri come ribelli, intrusi ed usurpatori.
In conseguenza il Governo, che rappresentava i diritti, gli interessi e le collere di quel partito, in quel primo impeto di naturale e spiegabile reazione, doveva reputare e reputò legittimo suo diritto, forse anche suo dovere, comprimere e schiacciare quei suoi nemici ribelli, intrusi ed usurpatori con tutti i mezzi che erano a sua disposizione.
È assolutamente inutile discutere se ciò fosse evangelico; ciò era umano: e la ragione di Stato, pur troppo, in tutti i tempi e presso tutti i popoli, non si fondò tanto e non si fonda sulla legge morale, quanto sull’interesse dei Governi — che ogni Governo crede in buona fede e chiama interesse pubblico — e perciò la ragione di stato ha quasi sempre seguito e continua a seguire il concetto dell’antica sapienza politica romana: Adversus hostes aeterna auctoritas.
Ciò stabilito come dato di fatto, che tutte le sottigliezze e le querimonie degli storici del se e del ma non potrebbero mutare, è evidente che era interesse del Governo pontificio di fare quel processo, non tanto al giusto scopo di punire gli uccisori di Pellegrino Rossi, quanto all’opportuno ed utile scopo di coinvolgere nella iniqua congiura tutto intero il partito avversario. Ciò — lo ripeto — non era morale, ma era utile, oltre che passionale ed umano.
E questo fu il concetto informatore delle rivelazioni Bernasconi e questo fu il concetto a cui si ispirò tutto il Processo, vagamente prima, durante la istruttoria Cecchini — sebbene enunciato con chiarezza nei due rapporti Galanti — decisamente e vigorosamente poi durante la istruttoria Laurenti.
Quindi nel pensiero dell’Ufficio di Istruzione, nel pensiero del Processante Laurenti prevalse quest’altro concetto, che discendeva logicamente dal primo: quanto più difficile e laboriosa era stata l’opera di inquisizione e quanto più questa era andata in lungo e quanto maggiore era stata la generale aspettazione e tanto più complessa ed ampia doveva resultare la congiura e tanto più clamorosa e piena doveva riuscire la condanna, non tanto degli uccisori del Rossi, quanto di tutto il partito democratico romano.
Evidentemente se il Governo Pontificio avesse voluto e, sopra tutto, avesse potuto essere spassionato, se l’influenza politica avesse potuto non sopraffare il sereno concetto della giustizia assoluta, se esso avesse voluto e potuto prefiggersi l’unico fine della punizione degli uccisori di Pellegrino Rossi, se avesse voluto e potuto scoprire la verità su quel misfatto, evidentemente l’Ufficio direttivo di istruzione dei processi politici, il Giudice inquirente, il Supremo Tribunale avrebbero dovuto seguire la voce della ragione e i dettami della logica, espressi per la bocca di saggi ed autorevoli testimonii come il Cavaliere Rufini, che faceva a quei giorni le funzioni di Assessore di Polizia, come il Colonnello Angelo Tittoni, come il Commendatore Pietro Tenerani, come il Dottore Tommaso Mucchielli, come il Dottore Diomede Pantaleoni, come il Dottor Gerolamo Amati, come Monsignor Francesco Pentini sostituto al Ministero dell’Interno col Conte Rossi, e avrebbero dovuto comprendere e avrebbero compreso che una trama come quella non si conduce e non si poteva condurre fra centinaia di persone di ogni specie e di ogni fatta in frequenti e tumultuarie riunioni, potraendola per quindici o venti giorni come suggerivano quello stolido fanfarone dello Squaglia e l’impunitario Bernasconi, interessato a ingrandire, a ampliare, a gonfiare per acquistare maggior merito, ma avrebbero, invece, compreso come una trama siffatta da vecchi ed esperti carbonari quali erano Pietro Sterbini, Pietro Guerrini, Angelo Brunetti, Carlo Luciano Bonaparte, Leopoldo Spini, Angelo Bazzi e, se vuolsi anche includervi, Ruggero Colonnello doveva logicamente, necessariamente maneggiarsi con grande rapidità, con la massima segretezza e fra il più ristretto numero di persone, appunto come giustamente quei testimonii avevano osservato.
E, allora, quell’Ufficio direttivo di istruzione dei processi politici, quel Giudice inquirente e quel Supremo Tribunale si sarebbero messi sulla via della verità, e la verità la avrebbero trovata nella rivelazione Trentanove, espressa per la bocca di Angelo Tittoni e confermata dalla deposizione di Tommaso Mucchielli e avrebbero trovato che capo dei mandanti era stato il Dottor Pietro Sterbini, che mandatari principali dell’omicidio Rossi erano stati Luigi Brunetti, Angelo Bezzi, Filippo Trentanove, Antonio Ranucci detto Pescetto, Sante Costantini e Felice Neri, i quali, conchiusi gli accordi con lo Sterbini, cioè conchiuso il condetto — come, con fraseologia giudiziaria, scrive il Laurenti — a piazza del Popolo, verso la mezzanotte dal 14 al 15, eran corsi in traccia ciascuno dei più fidati fra i respettivi commilitoni ed amici, durante la notte e le prime ore della mattina, e quelli avean passata voce ad altri e così si eran trovati in una quarantina al palazzo della Cancelleria taluni — dieci o dodici forse — consapevoli del condetto e i più — ostili al Rossi, come la grande maggioranza della popolazione romana a quei giorni — inconsapevoli della trama, ma pronti a fischiare e ad insultare il Ministro.
Certo, seguendo quella via, si sarebbe trovata la logica e naturale spiegazione del perchè niun sentore della trama fatale, pel tramite dei confidenti, dei Carabinieri, degli Agenti di Polizia, fosse pervenuto al Rossi e ad alcun membro del Governo e si sarebbe compreso come e perchè il complotto aveva potuto rimanere occultissimo, l’aggettivo superlativo è del Commendatore Pietro Tenerani; e certo, così facendo, si sarebbe rintracciata la verità storica, si sarebbe rispettata la logica e si sarebbe adempito il compito imposto da una imparziale e serena giustizia.
Ma, così facendo, come si sarebbe corrisposto alle esigenze della ragione di stato? come si sarebbe salvato, almeno in apparenza, il prestigio del Governo pontificio? come si sarebbe potuto coinvolgere in un complessivo giudizio e in una complessiva condanna tutto il partito democratico romano da Terenzio Mamiani a Giuseppe Mazzini? . . .
La legge logica che regge la storia, aveva, dunque, trascinato, date le premesse, l’Ufficio direttivo d’istruzione dei processi politici, il Giudice inquirente e il Supremo Tribunale a seguire la via tracciata dal Capitano Galanti, da Colomba Mazzoni De Bianchi, da Agostino Squaglia e da Filippo Bernasconi e quella stessa legge, fatale nella sua logica inesorabile, trascinava ormai tutti — come, or ora, vedranno i lettori — a percorrere quella via usque ad finem.
Tutto ciò ho creduto necessario e ho voluto premettere, innanzi di entrare nell’esame della Relazione Laurenti, per due importanti ragioni: innanzi tutto per giustificare i severi giudizi che io, per coscienza di storico imparziale dovrò portare sopra quel farraginoso e disordinatissimo zibaldone; in secondo luogo per addurre innanzi ai lettori tutte le attenuanti che si possono invocare a favore del Laurenti.
Gli errori — a mio modesto avviso — fondamentali di questa lunghissima Relazione sono tre: il primo consiste nel concetto direttivo, il secondo nel metodo seguito per lo svolgimento della sua tesi dal Giudice Istruttore Laurenti, 11 terzo nella forma adottata da esso nella compilazione della sua Relazione sommaria.
Io questa Relazione, quantunque affaticante e tediosa a leggersi, l’ho letta tre volte: la prima volta nel 1892, innanzi di aver letto il Processo, anzi la lettura di essa fu stimolo maggiore allo studio del voluminoso incartamento; la seconda volta la lessi subito dopo avere transunto tutto il Processo e allora presi intorno ad essa grande numero di note e di appunti; la terza volta, finalmente, l’ho riletta — e in molti luoghi due, tre volte riletta, prima di accingermi a scrivere questo capitolo; e in questa occasione aggiunsi molteplici annotazioni ed osservazioni a quelle già segnate la prima volta.
Ho detto che essa poggia sopra tre errori fondamentali e, quanto al primo errore, che consiste nel concetto direttivo, aggiungo che esso — per le ragioni discorse or ora nelle pagine precedenti a questa — non è imputabile al Laurenti, costretto a seguire la via tracciata ad esso dai suoi superiori e dall’incartamento processuale.
Quindi legare ciò che nella realtà degli avvenimenti era slegato; raccogliere in un fascio ciò che per sua natura era sparpagliato; dare, con la postuma e facile antiveggenza del postero, sulla base dei preconcetti fiscali, ai fatti che si svolsero, dalla pubblicazione della famosa enciclica papale del 29 aprile 1848 sino alla riunione della Costituente, una unità che quei fatti — in gran parte conseguenze di altri fatti esteriori, posteriori ed imprevedibili — non potevano avere e non avevano; prestare ed affibiare ai principali personaggi attori di quei fatti intenzioni e preveggenze che quelli non potevano avere ed effettivamente non ebbero; attribuire a calcolata previsione fatti che furono figli dell’occasione, dell’imprevedibile e dell’imprevisto; rendere responsabili tutti i personaggi più importanti della storia d’Italia e specialmente per la storia dello Stato romano della congiura, ordita soltanto da alcuni di essi, contro la vita di Pellegrino Rossi, assegnando a tutti quei personaggi il pensiero che quella uccisione dovesse essere mezzo preveduto al preveduto fine della proclamazione della repubblica a Roma, ecco il cumulo di errori storici che costituiscono l’errore fondamentale di concetto che io ho rilevato, debbo rilevare e rilevo.
Monsignor Francesco Pentini, che fu più tardi Cardinale e che era uomo di bell’ingegno e di larga cultura e di incontrastata probità e rettitudine, nella prima sua deposizione, pensata e dettata, disse, a proposito delle diverse congreghe avverse al ministero Rossi e al Governo pontificio che si andavano organizzando in Roma sul finire dell’ottobre 1848, queste memorande parole, non curate dai rappresentanti del Fisco: ciò che ricordo è che quei convegni diversificavano sulle modalità che intendevano adottare per giungere al disordine e forse la Provvidenza ciò permise perchè, mancanti di unità d’azione, fosse salva Roma dalle funeste conseguenze dei loro progetti che esistevano, certamente estensivi ad una sanguinosa rivoluzione.
Doveva, dunque, il Fisco seguire piuttosto le menzognere e interessate affermazioni di un infame come Filippo Bernasconi anzichè quelle oneste, logiche e veritiere di un integro uomo come Francesco Pentini?...
Conseguenza immediata e legittima dell’errore di concetto è l’errore di metodo; dappoichè da quelle premesse il Giudice Istruttore Laurenti fu tratto a forza a seguire l’immaginoso fanfarone Agostino Squaglia, a prendere le false deposizioni del Bernasconi come vangelo e sotto al braccio a questo sfrontato lenone, fu costretto a procedere in tutte le sue fallaci deduzioni, in tutte le sue sconnesse illazioni, sempre in lotta colle resultanze storiche del processo, per giungere, incespicando, balenando, barcollando, non a rigor di logica, a base di prove e per convincente ragionamento, ma per cervellotiche e illegittime affermazioni e — è doloroso il dirlo — con frequenti sleali e manifeste falsificazioni che io mostrerò ai lettori, alla mèta prestabilita.
L’avvocato Laurenti come Giudice Istruttore del Governo pontificio, nell’interesse di questo Governo, doveva, per le ragioni sopra accennate, fare così: e sta bene: ma la storia non può non. trovare biasimevoli e l’errore di concetto e l’errore di metodo: l’avvocato Laurenti sarà stato un abilissimo Fiscale, ma senza dubbio, fu un pessimo storico, non totalmente per colpa sua, ma nella parte della slealtà, proprio e unicamente per eccesso di zelo, che va ascritto a colpa sua.
E tutta colpa sua poi fu la forma con cui è compilata la Relazione, soverchiamente lunga, disordinata, ingarbugliata, con frequenti ritorni sui propri passi e per conseguenza con ripetizioni inutili e fastidiose e per effetto delle quali egli percorre quasi tre volte la stessa strada, citando — con disordine cronologico, per seguire il suo filo, diciam così, logico — le testimonianze, che è poi costretto a citar nuovamente due, tre, fin quattro volte.
Nel Prospetto il Laurenti stabilisce resultare dagli atti:
§ 1° Che l’assassinio del Rossi fosse l’effetto di una cospirazione tendente al rovescio del Governo e dell’autorità legittima, la quale cospirazione proruppe ad atti più decisi ed aperti il giorno 16 novembre.
§ 2° Che alla cospirazione, connessa ai moti democratici di Piemonte e di Toscana, avessero parte qui in Roma diverse riunioni clandestine che andarono formandosi successivamente alla nota enciclica del 30 aprile 1848, risguardante i movimenti di guerra contro l’Impero Austriaco.
Lasciando stare il piccolo errore di data, perchè la nota Enciclica fu data fuori il 29 e non 30 SO aprile, io rilevo che la connessione con i moti democratici di Piemonte e di Toscana non ha nessuna prova in processo, all’infuori dei si disse, si vociferò, si diceva di alcuni testimonii e rilevo che quella connessione è storicamente inesatta perchè, se le Riunioni clandestine cominciarono dopo il 29 aprile, nessun moto democratico era a quel tempo e fino all’ottobre 1848 avvenuto in Piemonte e in Toscana.
Osservo poi che ci vuole una bella impudenza a chiamar clandestine le riunioni che Ciceruacchio teneva all’osteria Mattei a Piazza di Spagna, all’osteria del Fornaio a Pipetta e anche quelle che tenne al fienile, non nel 1848, ma nel 1849 e quelle che i Facciotti tenevano nella loro bottega alla salita di Martorio o all’osteria delle Chiavi d’Oro, o quelle che si tenevano al Colosseo, o a piazza di Venezia o quelle dei Legionari alla Filarmonica e al Teatro Capranica — che cominciarono, del resto, alla fine di settembre — riunioni tutte, meno quelle dei Reduci, tenute in pubblico, al suon dei bicchieri e in continue bevute, fra quaranta, cinquanta, sessanta e fino a settanta persone e in mezzo alle quali liberamente penetravano ed assistevano alle chiacchiere, alle declamazioni di Ciceruacchio, del Guerrini, del Carbonelli, del Maiorini e a quelle sgangheratissime di Bernardino Facciotti, un Badini, un Cecchetti, un Gregorio Salvati, un dell’Olden, un Molari, un Toncher, che poi andavano a riferir tutto ciò che sconclusionatamente si era detto al capo degli Agenti di Polizia Rosalbi, all’Ispettore Volponi, al Cavalier Rufini e al Ministro Rossi.
E enumerando nello stesso § 2 quelle società, che egli chiama clandestine e che ha detto essere diverse e che poi si riducono a tre — il Laurenti dà i nomi dei capi della prima Angelo Brunetti, Pietro Sterbini ecc. e falsamente afferma che la terza fosse capitanata dal Grandoni — e dico falsamente perchè non esiste una sola deposizione in Processo che dia come solo presidente delle riunioni del Capranica il Grandoni — il quale fu, insieme col Ruspoli, col Costa, col Lopez, col Buti e col Belli uno dei sei promotori di quelle sette od otto riunioni — ma quando si tratta di designare il primo fra i capi della seconda riunione scrive altra nel Rione Monti, capitanata da un facoltoso signore, ora contumace, da Ruggero Colonnello ecc.; e con ingiusta reticenza tanto qui — come in seguito — chiama sempre il Principe di Canino, quel signore facoltoso, ora contumace.
Continuando il Laurenti nel § 3 del suo Prospetto afferma che furono attratti alla cospirazione Carabinieri e Dragoni e nel N. 4 sulla sola affermazione dell’impunitario rivelante, non corroborata da alcun’altra testimonianza, anzi smentita da un coro di testimonianze, dà per resultante degli atti la colleganza fra le tre società clandestine suddette sotto la dipendenza dei Capi del Circolo popolare.
Così, dando per vero e per provato ed acquisito in atti ciò che è deposto dal Rivelante, nel § 5, è detto che da costoro e dagli altri capi delle riunioni suddette fosse predisposto l’omicidio Rossi, per togliere di mezzo l’ostacolo delle meditate novità e, nel § 6, dà, quindi per accertati più raduni preparatorii nel fienile del Brunetti nelle sere precedenti il 15 novembre e specialmente in quella del 13, in cui, dopo che lo Sterbini, il Guerrini e il Brunetti ebbero dichiarata la impresa da compiersi il 15, furono date istruzioni ed armi e, nel § 7, che la sera del 14 novembre al Circolo popolare vi fosse nuova riunione, nuove dichiarazioni e nuove declamazioni e, nel § 8, che nella stessa sera del 14 molti dei Capi si riunissero al Teatro Capranica insieme a molti Legionarii, ai quali si dava specialmente l’incarico dell’assassinio e quivi, determinando il modo, il tempo, il luogo, si destinassero sei od otto individui addetti e pronti ciascuno a pugnalare il Ministro ecc.
Tutto ciò, come i lettori hanno veduto e sanno, risulta unicamente dalle affermazioni del Bernasconi, smentite da rapporti della Polizia, da numerose deposizioni di Ufficiali e Sotto Ufficiali dei Carabinieri e di Ispettori ed Agenti politici e da molteplici altri testimonii e una parte di tutto ciò, e cioè la riunione della sera del 14 novembre al Teatro Capranica pel sorteggio delle palle nere per stabilire quali fra gli adunati dovessero essere i sei od otto incaricati della uccisione, l’impunitario Bernasconi non la depone ed afferma neppure come cosa de visu e di fatto proprio, ma come cosa de auditu e confidatagli da Antonio Ranucci detto Pescetto, il quale era contumace ed emigrato all’estero e, quindi non poteva esser chiamato a confermare, a negare, a spiegare il detto del Bernasconi, detto che non ha in processo un solo testimonio che lo confermi: di guisa che la sfacciata falsità del Prospetto si presenta evidente e manifesta nelle singole parti, ma più specialmente nella parte essenziale che il Laurenti dà ai Giudici del Supremo Tribunale come acquisita e provata, mentre non è avvalorata da una sola testimonianza.
E continuando, con lo stesso metodo, il Laurenti afferma nel § 9, con la stessa impudenza, risultare dagli atti che all’esecuzione dell’assassinio concorsero principalmente più di sessanta Legionari coperti di tunica e cinti di daga e che un individuo vestito della tunica vibrò il colpo di pugnale al Rossi nell’atto che da tutti fu circondato.
E qui il cozzo con le risultanze degli atti è duplice ed ecco perchè.
In questo Processo furono esaminati sessanta testimonii che avevano militato nel Veneto: di questi sessanta, tredici erano imputati e di questi tredici dieci si ostinarono a negare di essere intervenuti alla Cancelleria, due, Pietro Ferrauti e Filippo Medori, provarono di non essere intervenuti con luminose coartate, tanto che furono prosciolti dall’accusa, uno solo, Luigi Grandoni, ammise di essere andato in uniforme di Tenente Civico alla Cancelleria. Degli altri quarantasette sedici soli ammisero di essere andati alla Cancelleria e trentuno, smentendo lo Squaglia che era il solo testimonio che aveva affermato essere essi intervenuti, negarono la loro presenza alla Cancelleria: nè i Giudici Istruttori si incaricarono o ebbero il modo di provare il contrario; di guisa che, ammettendo anche come intervenuti i dieci imputati, i quali verosimilmente furono in realtà presenti, dagli atti all’Istruttore e Relatore Laurenti risultavano presenti alla Cancelleria, compreso il Grandoni, ventotto Legionarii. È vero che parecchi testimonii parlano genericamente chi di trenta, chi di quaranta, chi di cinquanta e qualcuno tino di sessanta Legionarii, ma, alle resultanze degli atti, dove sono i sessanta? chi sono i sessanta?
Oltre di che vi è da osservare che, fra quei ventotto presenti figurano Angelo Tittoni, Pietro De Angelis, Agostino Squaglia, Angelo Orioli, Odoardo Sansoni, Giuseppe Milanesi, Filippo Scalzi, Romolo Burri, Antonio Ranucci che, e per i loro precedenti e per la loro posizione e per le note loro opinioni o temperate o addirittura conservatrici, non poteva assolutamente l’Istruttore e Relatore Laurenti comprendere tra i sessanta che concorsero principalmente all’assassinio e che circondarono il Rossi nell’atto che veniva pugnalato, tanto più che, a parte le considerazioni testè fatte, dagli atti a lui risultava che alcuni di quei ventotto Legionari erano sulla piazza o nelle tribune pubbliche, e non nell’atrio.
La affermazione dunque, spacciata come resultanza degli atti è falsa ed è ugualmente incompleta e discordante dalle resultanze dagli atti l’altra affermazione, spacciata per resultante dagli atti, che un individuo vestito della detta tunica vibrò il colpo di pugnale al Rossi, giacchè, a voler essere onesto, imparziale e veritiero, il Giudice Istruttore e Relatore Laurenti, sulla base degli atti, avrebbe dovuto dire che Luigi Brunetti vestito della detta tunica, vibrò il colpo di pugnale al Rossi.
Di fatti, dalle concordi rivelazioni di Felice Neri, di Innocenzo Zeppacori e di Filippo Trentanove, dalle importantissime deposizioni di Ludovico Buti e di Agostino Ciolli e dagli accenni, o indizi, o descrizioni del feritore di altri sedici testimoni era acquisito in atti che l’uccisore di Pellegrino Rossi era stato Luigi Brunetti, non ostante che parecchi testimonii avessero accennato alle voci corse che il feritore potesse essere stato Filippo Trentanove e non ostante le ripetute e stolide millanterie di Sante Costantini che si era voluto attribuire o si era lasciato attribuire quell’omicidio.
E nel § 10 del Prospetto si afferma che, eseguito in tal modo a cielo aperto e senza ostacoli l’assassinio, e non vedendosi alcun movimento di opposizione nè dall’Arma politica, nè dalia civica, nè da parte del Governo, padroni ormai del campo, gli Insorti sospesero nel dì 15 un subito tentativo di rivolta, e lo spargimento del sangue, preparandosi invece gli animi e la operazione al giorno seguente e formulandosi dai capi le diverse dimande e predisponendosi l’accesso della moltitudine al Quirinale col prefisso scopo di estorcere le proposte concessioni, o di venire ad un estremo eccidio.
E nell’11 § ed ultimo del Prospetto si conchiude che trattenuto colassù, dopo molti eccessi di consumate violenze, l’impeto degli insorti dalla nomina rilasciata del Ministero e del temperamento adottato sulla remissione ai Consigli sulle altre domande, si sospesero per allora altre aggressioni, promesso però ed eseguito dal Ministro Galletti il disarmo della Guardia Svizzera e consegnata la custodia del Pontefice alla milizia popolare.
E qui finisce il Prospetto, a cui fa immediatamente seguito l’Ordine della Relazione così concepito:
«Presentandosi pertanto dagli atti che ima cospirazione estesa predisponesse l’Insurrezione del 16 Novembre, che dai capi cospiratori fosse determinato l’assassinio del giorno 15, come mezzo a fine, mentre le indagini processuali dovevano allargarsi alla cognizione integrale della causa, del mezzo e dello scopo, doveva l’effetto punitivo pur limitarsi, in forza dell’Editto di Amnistia, a coloro che come mandanti principali od esecutori diretti apparissero aver prestato opera all’omicidio del Rossi. Ora pertanto nella Relazione delle risultanze del Processo si esporranno da prima
In Genere
I. — Le Risultanze sulla Cospirazione, come principio movente;
II. — Le Risultanze circa il Decreto e l’Esecuzione dell’assassinio come mezzo;
III. — Le Risultanze principali della Insurrezione come fine, e quindi
In Specie
IV. — Le Risultanze sulla Colpabilità degli Inquisiti carcerati giudicabili per omicidio».
La quale divisione, che, così a prima vista, sembra tanto logica e aristotelica, riesce, nello sviluppo, a quelle lungaggini, a quel disordine e a quei ritorni sui proprii passi e a quella triplice ripetizione di percorso della stessa strada a cui ho accennato e che costituiscono — secondo il mio modo di vedere — il precipuo e gravissimo vizio di forma di questa Relazione.
La quale io non posso seguire passo passo, come ho fatto fin qui, giacchè a far ciò, non basterebbero quattrocento pagine e non ci sarebbe pazienta di Certosino sufficiente a far sopportare ai miei lettori l’esterminio di un tanto flagello.
Seguirò, quindi, il Relatore nei suoi giri tortuosi, soffermandomi soltanto alle pietre miliari della interminabile via da lui percorsa e ripercorsa, rilevando soltanto le principali e più importanti e più flagranti e manifeste sue inesattezze e menzogne sulle resultanze degli Atti; giacchè, se gli Atti possedeva il Laurenti nei quindici grossi volumi del Processo, gli stessi Atti possiedo io nel diligente, fedele, scrupolosissimo transunto che ne ho fatto con otto mesi di assiduo pazientissimo lavoro; se esso quegli atti aveva studiato profondamente, per quanto la strettezza del tempo glielo permise, ben più accuratamente di lui li ho studiati io — mi si consenta di affermarlo, perchè più che merito mio questo fatto è conseguenza dei molti anni che io ho avuto a mia disposizione per meglio studiare, vagliare e ponderare quegli atti — e perchè, in fine, se egli le risultanze degli atti volle piegare e fu costretto a piegare e ad adattare alle esigenze fiscali, costringendoli, sovente per forza, entro i limiti dei suoi preconcetti e dei fini a lui stabiliti, io, libero da ogni vincolo di parte e da qualsiasi preconcetto, ho voluto e voglio esaminare e studiare imparzialmente e rigorosamente da storico e per la storia, al solo fine di scoprire la verità sull’omicidio del Conte Pellegrino Rossi, quegli atti medesimi.
Il Capitano Galanti, che aveva scovato il Bernasconi per farne in processo l’estrinsecatore del suo programma, doveva essere cultore dei buoni studii e doveva certamente aver letto l’Ebreo di Verona in cui il Padre Bresciani descrive — al Capitolo XV pubblicato nel fascicolo del 15 novembre 1850 della Civiltà Cattolica — un banchetto avvenuto ai primi di maggio del 1848, al quale erano intervenuti il Conte Terenzio Mamiani, il dottor Pietro Sterbini, Federico Torre, Angelo Brunetti, un prelato settario — e probabilmente il Bresciani intendeva alludere a Monsignor Carlo Gazzola — ed altri e in cui si era stabilita la congiura per abbattere il potere temporale dei papi, in seguito alla stupefazione, al dolore, all’indignazione suscitata non già — come falsamente dice il Bresciani — negli animi dei settari, ma negli animi di tutti gli Italiani coscienti, intelligenti, amorosi della patria dalla malaugurata Enciclica pronunciata dal Pontefice Pio IX il 29 aprile.
Ma, ammettendo pure — perchè la storia lo deve obbiettivamente ammettere — che il Papa aveva parlato da Papa e aveva fatto ciò che, nell’interesse della grande e secolare istituzione che egli rappresentava, era suo dovere di fare, uscire cioè dalla contraddizione assolutamente insopportabile fra i doveri di Pontefice dogmatico e quelli di Principe liberale, fra i doveri di Capo di tutta là cattolicità e quelli di Capo di uno Stato italiano, contraddizione in cui, affannosamente, per ventidue mesi, dal giorno della sua elezione, cioè, sino a quel 29 aprile, si era dibattuto, bisogna pure ammettere e riconoscere, per la stessa ragione di obiettività, che gli Italiani, desiderosi anzi tutto di espellere dalla penisola lo straniero, anche senza essere settari, pur essendo moderati, pure amando Pio IX, non potevano non considerare come una diserzione dalla causa nazionale quella storicamente e logicamente fatale Enciclica e non potevano non esserne addolorati e, più o meno, indignati.
Cosicchè, a dire il vero, non c’era bisogno di congiure e di convegni faziosi per determinare quel dissidio che la logica storica aveva imposto e determinato: ma al Padre Bresciani era piaciuto di descrivere quel banchetto e gli era piaciuto di farvi congiurare quei capi delle varie frazioni del partito liberale e patriottico e nessuno può impedire a un romanziere di creare quelle situazioni che meglio convengano ai fini che egli si è proposto se i personaggi sono da lui creati ed immaginati; che se poi i personaggi sono veri, reali, esistenti ed esistiti, se, per conseguenza, il romanziere entra nel campo della storia, allora veramente non sarebbe lecito prestare a quei personaggi pensieri che essi non ebbero o che non si sa se li ebbero e far loro commettere azioni che non commisero.
Ad ogni modo al Padre Bresciani era piaciuto così e alla stessa guisa piacque al Capitano Galanti, e al suo gerente responsabile Filippo Bernasconi prendere per punto di partenza delle loro rivelazioni e introdurre quindi nel processo contro gli uccisori del Conte Pellegrino Rossi il banchetto immaginario dell’Ebreo di Verona.
Ed ecco il Giudice Istruttore e Relatore Laurenti dar principio alle sue Risultanze sulla cospirazione fondandosi sulle rivelazioni di Filippo Bernasconi — che da questo momento diventerà il suo fido Acate — e prendendo per punto di partenza l’inizio proprio di quelle rivelazioni.
Così al § 11 il Laurenti riferisce il racconto dell’impunitario, il quale afferma che, il 2 maggio 1848, egli fu condotto in vettura da Girolamo Conti detto Girolametto fuori di Porta del Popolo in una vigna, poco prima di arrivare al ponte, in una stradetta a sinistra di chi va verso il ponte.
Là l’impunitario trovò riuniti il Mamiani, lo Sterbini, il Galletti, il Guerrini, Ruggero Colonnello, il Materazzi, il Bezzi, il Fabiani, Luigi Salvati, i quali — meno il Carbonaretto e il Colonnello — erano tutti emigrati e non potevano confermare o smentire le affermazioni del Bernasconi. Angelo Brunetti e molti altri. . . i quali mangiavano pesce fritto (!) e pare stessero aspettando proprio lui l’illustre Bernasconi. . . l’ultimo fra i gregari di quella parte della schiera ciceruacchiana che, disgraziatamente, era venuta fuori dalla più sozza canaglia di Roma ... faex urbis.
Finito di mangiare — secondo la rivelazione Bernasconi — il Guerrini cominciò a parlare contro l’Enciclica di Pio IX, il quale voleva sacrificare i fratelli andati in Lombardia a combattere per la indipendenza d’Italia: quindi non più applausi e feste a Pio IX, traditore della patria, doversi togliere a lui il governo dello stato: doversi ubbidire ai loro capi veri patriotti, accennando al Mamiani, allo Sterbini, al Galletti, al Guerrini e ubbidire agli ordini di Ciceruacchio, tribuno del popolo.
E il Mamiani e gli altri assentivano del capo a quelle parole.
E allora il Guerrini eccitò i congregati a prestar giuramento e Ciceruacchio cavò fuori un pugnale col guardamano di metallo bianco e quelli che lo avevano — non tutti — lo cavarono ed esso rivelante che aveva una baionnettaccia la cavò e, fra evviva, giurarono obbedire a Ciceruacchio e agli altri capi Mamiani, Guerrini, Galletti e Sterbini — che non avevano pugnale e neppure Salvati e Colonnello non lo avevano. — Poi si ribevve e, un po’ per volta, partirono a un’ora di notte.
Ora i fatti contenuti in questa fantastica rivelazione, sulla quale si pone dall’avvocato Laurenti la prima pietra del suo edificio fiscale sono completamente inesistenti e la illazione che ne trae il Relatore è falsa.
Di fatti, lasciando da parte che la grande probità, l’ingegno acutissimo, la squisita educazione e la serietà ed accortezza di Terenzio Mamiani e la intelligenza, l’avvedutezza, la onestà e la espertezza di Giuseppe Galletti dovevano fare escludere a priori dal Giudice Istruttore, come una favola da contare a veglia, il loro intervento, la loro presenza e la loro permanenza per parecchie ore in una riunione di siffatta gente, in tale luogo e con simili propositi, intervento, presenza e permanenza che i più elementari suggerimenti — se altro non fosse — di prudenza e di tatto avrebbero ad ambedue vietato; lasciando stare ciò, sarebbe bastato che l’Istruttore — così sollecito, in altre occasioni, di consultare, come si è veduto nel Processo e si vedrà nel seguito di questa Relazione, i giornali romani del tempo — avesse esaminato l’Epoca, il Contemporaneo, il Costituzionale, la Pallade, il Labaro per leggere in tutti quei giornali dei vari partiti che il giorno 2 maggio, cioè tre giorni dopo l’Enciclica, dopo il sommovimento del popolo e della Civica, dopo la dimissione del Ministero Antonelli-Minghetti-Recchi, il Galletti, Ministro di Polizia, sebbene dimissionario, restava al potere per il mantenimento dell’ordine e aveva sulle spalle tutta la responsabilità di quel mare ancora in tempesta,. e il Mamiani, chiamato al Quirinale fin dalla sera del primo maggio, aveva, nientemeno, che l’incarico di formare il nuovo ministero, sarebbe bastato che il Giudice Istruttore e Relatore Laurenti, avesse scorso quei giornali e ripensato a tutto ciò per persuadersi della necessità in cui era condotto di respingere, come favolosa invenzione la rivelazione del Bernasconi che dava come presenti al convegno del pesce fritto e del giuramento dei pugnali il Galletti e il Mamiani.
Ma v’ha di più e di peggio: al Laurenti risultavano dal processo le deposizioni di dieciotto testimoni, cioè di tanti quanti su quel sognato banchetto egli ne aveva interrogati, unanimente escludenti che sui primi di maggio del 1848 un banchetto si fosse tenuto in una vigna fuori di porta del Popolo a cui fossero intervenuti il Mamiani, il Galletti e lo Sterbini; e fra quei dieciotto testimoni da lui interrogati vi erano il Cavaliere Francesco Rufini Minutante al Ministero dell’Interno, Monsignor Francesco Pentini e Alessandro Rosalbi Capo degli Agenti di polizia. Cosicchè a sostegno di quella puerile e stolida accusa non resta che la attestazione dell’impunitario Bernasconi, che il Relatore, con evidente falsificazione della verità, dà ai Giudici del Supremo Tribunale come risultanza processuale.
Non mi soffermerò a ribattere i biasimi che, con infantile acrimonia, il Relatore Laurenti rivolge nei §§ 13 a 16 al Ministero Mamiani-Galletti, che egli accusa di avere iniziata la aperta opposizione del movimento rivoluzionario alla autorità del Governo Pontificio, propugnando la guerra della indipendenza italiana, che il Papa non voleva, e non mi ci soffermerò perchè il Laurenti ha dimenticato, o finto di dimenticare che Pio IX aveva accordato lo Statuto e che, per conseguenza, era divenuto un Principe costituzionale e che il Ministro Mamiani-Galletti rappresentava costituzionalmente la volontà legalmente manifestata dai Deputati del paese legittimamente eletti e i quali volevano la guerra per l’indipendenza nazionale.
Nel § 19 il Laurenti falsamente afferma, sulla unica accusa del Rivelante Bernasconi che il Grandoni accedesse alla osteria Mattei, mentre non un solo testimonio convalida quella accusa, la quale anzi solennemente al Laurenti risultava smentita dalla concorde deposizione di sei testimoni, che avevano una importanza decisiva su questa circostanza, vale a dire i due proprietari e i due ministri di quella osteria e i due garzoni che in quella servivano gli avventori nel 1848.
Dal § 48 al § 67 il Relatore Laurenti si industria e si affatica, con falsificazione degli atti, a stabilire che nel 1848 in preparazione alla congiura contro Pellegrino Rossi si tenessero raduni notturni al fienile del Brunetti, i quali non avvennero due volte, cioè nel 1848 prima dell’omicidio Rossi e nel 1849 dopo l’omicidio Rossi e in tempo di repubblica, come si affanna a voler dare a credere il Bernasconi e, sulla fede di questo il Processante Relatore, ma avvennero una volta sola, cioè nel 1849 a tempo di Repubblica.
Interrogando i due Giudici Istruttori i testimoni intorno a quei Raduni, a due, a tre, a quattro anni di distanza, ne avvenne naturalmente che molti di quei testimoni non ricordassero con precisione se quelle riunioni fossero avvenute prima, o dopo, tanto più che i due Giudici Istruttori capziosamente interrogavano: se sia intervenuto nel 1848 a qualche riunione al fienile ecc.
Con tutto ciò ecco le vere risultanze processuali, che i lettori potranno, volendo, riscontrare da loro sulla scorta delle deposizioni da me riferite. Intorno alle riunioni al fienile di Ciceruacchio furono interrogati sessantacinque testimoni; dei quali quarantatre o dichiararono di non esservi mai intervenuti o affermarono di ignorare che si fossero tenute e fra questi i Capitani dei Carabinieri Pietro Naselli e Giuseppe Ruggeri e gli impiegati di polizia Pietro Paolo Nardini, Alessandro Rosalbi, e Vincenzo Volponi.
Dei rimanenti ventidue sette credettero che fossero avvenute prima dell’omicidio Rossi, ma implicitamente e inconsapevolmente dimostrarono che effettivamente si erano quelle riunioni, a cui essi erano intervenuti, tenute dopo perchè parlano o del Ministro Mattia Montecchi, o del Capitano di polizia Filippo Capanna, i quali non furono tali che sotto la repubblica; cinque non ricordano se prima o dopo; e dieci affermano risolutamente che avvennero dopo: e ad ogni modo tutti questi ventidue testimoni, tutti, dichiarano che in quelle riunioni non si parlò del Ministro Rossi e molto meno di un attentato alla sua vita.
Al § 44, per esempio, il Processante e Relatore Laurenti, riferendo la deposizione del teste Andrea Fabbri detto Terefone, pellaro, la riassume a modo suo e attribuisce al teste queste parole: ci divise il Brunetti in tante squadre composte dì uomini di uno stesso rione, distribuì una pistola per ciascuno, ordinò di pattugliare, invigilando non si sparlasse del Papa. Mi prestai per quella sera sola e qui inserisce nella deposizione queste parole che in essa non esistono: onde quando poi avvenne l’omicidio Rossi, io non frequentava più quella riunione.
E poi continua: Dopo due o tre giorni comparve da me Filippo Capanna a ritirare la pistola, come fece al Pomponi e al Riganti, conoscendo che noi non parteggiavamo per le loro idee.
E non si accorge che questo secondo periodo, ammettendo la presenza del Capanna, distrugge l’inciso da lui arbitrariamente inserito nella deposizione del Fabbri e smaschera quella sua piccola industriosa alterazione.
Questo metodo, del resto di citare le deposizioni con abile intarsio di periodi della medesima testimonianza, ma staccati dai loro precedenti e dai loro susseguenti, senza neppure una riga di interpunzione, e, per conseguenza, saltando periodi che a lui non tornano comodi, perchè modificherebbero ciò che egli vuol far dire al teste, ma che il teste non disse così come glielo vuol far dire lui, questo metodo il Relatore Laurenti lo adopera con frequenza.
Dal § 77 al § 148 il Relatore si estende nel dare le resultanze processuali — con la Stia solita alchimia ben combinate fra loro per dare rilievo a tutte le circostanze che interessano il Fisco e trascurando quelle che infirmerebbero o modificherebbero le medesime — sulla goffa congiura Facciotti alla salita di Marforio.
Queste resultanze sono le più numerose e questa è la parte più pingue della relazione e ciò per due ragioni: e perchè quella congiura costituiva il vero ambiente in cui abitualmente viveva il Bernasconi e perchè in essa erano penetrati molti delatori, a cominciare da quell’ufficiale Antonio Toncker, offertosi spontaneamente al Colonnello Tittoni e al Conte Rossi di spiare, raccogliere e riferire giorno per giorno a terminare con quell’abietto omicida Gregorio Salvati.
Ora in tutto questo argomento il Relatore procede con metodo prudenziale e pieno di riguardo verso i rivelatori e mentre chiama continuamente N. il ricco signore contumace, il Principe di Canino, designa col N. fornaio, il rivelatore Antonio Toncker, col F. di Aquila, Franco Cecchetti confidente di polizia.
Al punto di vista della verità storica i fratelli Facciotti e specialmente Bernardino, non possono ispirare alcun interesse, sia dal lato morale, sia dal lato delle loro sovversive tendenze comuniste, sia, più specialmente, pel metodo puerile e stolido seguito nel raccogliere e nel condurre quella loro congrega, metodo che, alla fine, desta commiserazione verso quei due sventurati, evidentemente incoscienti e divenuti istrumenti di agitatori avventati e sconclusionati, i quali avrebbero dovuto, per la istruzione e per la esperienza loro, essere più consapevoli dei Facciotti, ma che, in realtà, lo erano meno di essi.
Pure, dal punto di vista della verità storica, importa considerare che se, di ottanta testimonii esaminati intorno a quei due e alla loro chiamiamola pure congiura, venticinque si affermano ai Facciotti vigorosamente avversi e otto o dieci di quei venticinque, per ragioni evidenti di privati rancori, si fanno feroci accusatori contro di essi, se otto si manifestano nè favorevoli, nè contrarii ad essi, o, meglio, in parte favorevoli, in parte contrarii, quarantasei si affermano, dal più al meno, benevoli e favorevoli a loro — e specialmente un gruppo di sette casigliani — e negano di aver veduto o saputo di riunioni o diurne o notturne a scopo politico e sovversivo nella bottega dei Facciotti.
Ciò non toglie che dalle risultanze processuali il Relatore non tragga legittima ragione di gravare i Facciotti nella congiura che è il soggetto del processo, sebbene, tanto giuridicamente, quanto storicamente, chiaramente non sia provata la loro complicità nell’omicidio del Conte Rossi.
Di fatti di quella ridicola congiura facciottina erano informati, giorno per giorno, il Rosalbi e il Volponi dal Molari, da Gregorio Salvati, da Franco Cecchetti, da Emanuele Dell’Olden, da Rosa Benasi, e informato era dal Toncker e dal Campanella il Conte Rossi, e dalle relazioni di tutti costoro non risultava che in quella congiura si tramasse contro la vita del Conte Rossi, nè risultò che contro la vita di lui si trattasse nel famoso piano; tanto che il Rossi potè far procedere all’arresto del Carbonelli e del Romba, alla ammonizione data al Maiorini, al Galeotti e ad altri di quei ridevoli cospiratori e potè credere di avere scongiurata la tempesta e non ebbe motivo, quindi, di adottare maggiori precauzioni a salvaguardia della sua persona, la quale, storicamente, non era, in realtà, minacciata dal famoso piano, ma fu assalita e spenta dalla trama rapidamente e occultamente decisa il 13, organizzata da Pietro Sterbini la sera del 14 e mandata ad atto sulle prime ore del pomeriggio del 15.
Il Processante e Relatore tiene conto delle rivelazioni del Zeppacori e della deposizione dell’agente di polizia Vincenzo Cimatti che danno presente a piazza della Cancelleria Bernardino Facciotti nella mattina del 15, ma non tiene conto del fatto importantissimo che Filippo Bernasconi, pur così feroce accusatore dei Facciotti, nel decimo suo esame aveva detto che Bernardino, tre quarti d’ora dopo mezzo giorno del giorno 15 a piazza della Cancelleria si era separato da lui, andando con un paino verso Via del Pellegrino e che egli più non lo aveva riveduto fino alle tre o tre e mezza pomeridiane e non tiene conto della deposizione resa dall’Ispettore di polizia Vincenzo Volponi il 6 novembre 1852, proprio dinanzi a lui Laurenti, nella quale disse: qualche giorno dopo la morte del Ministro Rossi, Pietro Molari mi confidò che, dopo ucciso il Ministro Rossi, trovandosi esso con Bernardino Facciotti nella bottega di questo in via Marforio capitò quivi Girolamo Conti, detto Girolometto, il quale disse alcune parole all’orecchio del Facciotti e che questi si cambiò di colore e allora il Conti gli replicò: «adesso bisogna che andiamo da padron Angelo a fare il resto:» e il Conti partì; ed allora il Facciotti espresse al Molari che Conti gli aveva dato la notizia che era stato ucciso il Rossi e che quindi bisognava andare per le piazze di Roma a resistere ai Carabinieri ecc.
Ora se il Facciotti era nella sua bottega e vi riceveva a quel modo la notizia dell’uccisione del Rossi — secondo la deposizione del zelante confidente Pietro Molari — ecco che non si trovava alla Cancelleria e che non partecipava, neppure coi fischi, all’omicidio del Conte Rossi.
Al § 110, il Relatore, che spesso sbaglia, non so per errore suo o per errore di stampa, anche le citazioni dei fogli del processo, riferendo, ad intarsio, le parti delle rivelazioni del delatore Antonio Toncker che fanno comodo a lui, cita il foglio 365 nel quale è allegato nei fogli 363-367 un dispaccio della Direzione Generale di Polizia sui proposito dei due Civici Romolo Poggioli e Giuseppe Montesi messi a guardia della vigna Mattei, invece di citare il foglio 3260-3270 entro i quali è contenuta la quinta deposizione Toncker.
Ma l’errore di citazione sarebbe meno male, se la citazione non contenesse una evidente adulterazione. Il Relatore fa dire al Toncker: sapevo che Bernardino Facciotti frequentava il Circolo popolare e in qualche circostanza lo vidi portarne la bandiera; mentre invece il Toncker aveva detto così. Mai andai al Circolo popolare, dove so che frequentava il Facciotti, il quale anzi intesi che una volta portasse la bandiera del Circolo. E la differenza fra l’aver veduto in qualche circostanza portare e lo avere inteso che una volta portasse è abbastanza grande e notevole per non essere rilevata, a riprova della buona fede e lealtà del Relatore.
Dal § 91 al § 95, nel riferire le rivelazioni dell’impunitario Bernasconi sulla congrega Facciotti, il Relatore Laurenti, per seguire quell’ordine logico — che egli si è prestabilito, decompone e frantuma varie delle deposizioni del Bernasconi per ricomporle e riordinarle a suo agio e approfitta di questo lavoro di sconnessione e riconnessione per alterare ed amplificare il significato di quelle deposizioni e così alla fine del § 91 e nel successivo § 92 fa comparire come avvenuta più volte una circostanza che l’impunitario depose una volta sola, essere, cioè, egli ed altri facciottini stati accompagnati da Ruggero Colonnello e presentati al Ministro Galletti, il quale largì loro dieci scudi.
Al § 135 la deposizione del Maresciallo Paravani è spezzata, ricomposta a libito del Relatore e in alcuni punti alterata e falsificata oltre la citazione, dei fogli due volte sbagliata avendo indicato il foglio 33(18 e 3369 invece di 5368 e 5369. Di fatto là dove il Paravani aveva deposto: dicevasi che alla Società Facciotti somministrasse danaro il Principe di Canino, il Relatore ha sostituito ed aggiunto: Dicevasi pubblicamente che a questa riunione somministrasse danaro e dasse la direzione un ricco signore ora contumace; e dalla scomposta e ricomposta deposizione Paravani ha tagliato fuori tutto questo periodo: egli — il Maresciallo Paravani — passò varie sere per quella strada — la salita Martorio — e non ebbe mai occasione di sorprendere dette riunioni, delle quali lo informava pure Antonio Giorgi, carabiniere da lui dipendente, marcheggiano ora giubilato. Egli andò due volte col Giorgi, vestiti ambedue in borghese nella bottega del calzolaio Salvati, ma nulla gli fu dato di vedere.
Condannato ad appoggiarsi alle più laide e bieche figure che si affacciano in questo processo, il Relatore si attacca volentieri a quel Gregorio Salvati, delatore prezzolato, ossia che sperava di ricevere dal Rosalbi, dall’Accursi e dal Calderari il prezzo delle sue rivelazioni, di cui la Polizia non aveva bisogno, e non lo ebbe e nella sua prima deposizione sfacciatamente se ne lamenta5; a quel Gregorio Salvati, omicida, nemico acerrimo e confesso dei fratelli Facciotti e dei loro amici, i quali — come i lettori — hanno veduto e ricorderanno — avevano deliberato di ucciderlo e ne riproduce, castrata e ridotta, la prima deposizione del 2 Aprile 1852 nel § 138, senza tenere il menomo conto della posteriore deposizione del successivo giorno 4 Aprile, che quella anteriore in parte disdice, in parte corregge e in parte modifica; perchè ciò che premeva al Processante Laurenti era mettere in mostra il solo testimonio, sopra ottanta, che abbia deposto di aver veduto più volte accedere alla bottega Facciotti il Principe di Canino. Gran privilegiato quel Gregorio Salvati, che ebbe la fortuna di vedere ciò che non videro altri settantanove testimonii, ciò che non potè affermare di aver veduto neppure il rivelante impunitario Bernasconi, che si può dire vivesse nella bottega dei Facciotti e il quale nondimeno riferì che Bernardino gli diceva che era della loro e che somministrava danaro il Principe di Canino.. . ma lui non lo vide accedere in bottega Facciotti.
Al § 146, nel citare quella parte che al Fisco può giovare delle cinque deposizioni di F. di Aquila, ossia di Franco Cecchetti il quale, per sua stessa confessione, è nemico personale del Colonnello, del Capanna, dei Facciotti che, in tempo di repubblica lo arrestarono, lo percossero e lo fecero stare quaranta giorni alle Carceri Nuove, oltre all7 inserire una citazione erronea, cioè foglio 792, mentre dal foglio 761 al foglio 806 in processo è raccolto il primo costituto del Dott. Cesare Pestrini, raffazzonando i pezzetti disgiunti delle quattro deposizioni, fa dire al Cecchetti che alle riunioni nella bottega Facciotti, ove egli deponente trovava talora fino a otto, a dieci persone, discorrevasi di uccidere Rossi, levare il governo pontificio e creare la repubblica; mentre quelle circostanze il teste effettivamente le espone quando parla delle riunioni alla vigna presso il Colosseo, promosse da Ruggero Colonnello e a cui intervenivano parecchi Vaccinari della Regola.
A provare parecchi altri errori e la patente mala fede del Relatore Laurenti, trapasserò sopra altri esempi che ne potrei addurre e mi fermerò al § 312 nel quale il Laurenti, riassumendo secondo il suo sistema del mosaico, le deposizioni dell’impunitario Bernasconi, scrive così:
Narra avere inteso da Bernardino Faccioni e da Fabri la sera del 16 novembre, che il Panella fosse ufficiale della Legione romana che era un bravo giovinotto e della loro6 fol. 6963. Narra ancora che abitando il Carbonelli in una casa a piazza Poli, si recava esso coi Faccioni, Fabri, Maiorini e con dei Dragoni a trovarlo e riceveva tutti in una cameretta fol: 6478.
I lettori vedono di per loro che il Processante Relatore prima ha citato una parte del ventesimo terzo esame del Bernasconi e dopo cita un frammento del ventiduesimo ed ha la spudoratezza di aggiungervi l’avverbio ancora, quasi a far credere che il secondo frammento, il quale faceva parte di una anteriore deposizione, appartenesse ad una deposizione posteriore e facesse seguito a quell’altra.
L’impunitario Bernasconi nel ventiduesimo suo esame parla di un seguito di circostanze — o false, o vere, per ora poco importa — tutte posteriori all’omicidio Rossi. Ed ecco il vero frammento dal Processante alterato ai suoi fini.
«Intese dire che il Bezzi era stato preso a sassate da persone del loro partito e che Saliceti e Canino erano gelosi di Sterbini e che ambivano di essere esaltati. Continua affermando che il loro partito fu che fece la dimostrazione a Garibaldi e la domanda della Costituente a piazza SS. Apostoli e narra che lui andò con Maiorini, Bernardino Faccioni e Fabri a trovare Carbonelli a piazza Poli N. 8 e che li ricevè in una cameretta ecc.».
Ora le sassate al Bezzi, le gelosie e ambizioni di Canino e di Saliceti, la venuta del Tenente Colonnello Garibaldi a Roma e la conseguente dimostrazione e la domanda della Costituente a piazza SS. Apostoli sono tutti fatti posteriori all’omicidio Rossi e alla elevazione di Sterbini a Ministro.
Così stando le cose ove sono nella ventiduesima deposione Bernasconi, da me sopra riferita, ove sono i Dragoni? Prima sfacciata menzogna. Seconda e maliziosissima frode nel mosaico del Processante Relatore è poi questa: che la visita al Carbonelli — della quale l’impunitario non aveva mai parlato nelle precedenti ventuna sue deposizioni — avvenuta una volta e dopo il 15 e 16 novembre è situata in luogo e in modo che sembra un fatto abituale e che si sia più volte ripetuto e che sia avvenuto prima del 15 e 16 novembre.
Falso, stando alle risultanze processuali, ciò che afferma il Relatore al § 327 che la congrega dei legionari si riunisse nel Teatro Capranica nelle ore della notte.
Tutti i testimoni che parlano di queste riunioni, compresi i Muratori e gli inservienti del Teatro Capranica, — tranne lo Squaglia, che è smentito da tutti — concordi affermano che tali riunioni cominciavano fra l’Ave Maria e un’ora di notte e tutti affermano che tali riunioni duravano circa un’ora.
Falso, stando alle risultanze degli atti, ciò che afferma il Relatore al § 330 che le riunioni del Teatro Capranica ascendevano anche al numero di duecento persone.
La maggior parte dei testimoni fanno ascendere a cinquanta, a sessanta e due o tre testi soltanto le fanno ascendere al massimo al centinaio. Neppure lo Squaglia che pretendeva conoscere tutti e saper tutto, ha potuto e saputo indicarne più di ottantuna.
E, sempre seguendo il solito metodo delle citazioni parziali e frammentarie, collegate insieme le une appresso alle altre, il Relatore si affanna dal § 330 al 437 a dare una consistenza maggiore assai di quella che realmente avessero alle riunioni del Teatro Capranica, per estenderne ed accrescerne il numero, la durata e la importanza, per fare di quelle sei, o sette o, al massimo, otto sconclusionate e innocue riunioni un terribile focolare rivoluzionario, dove si organizzasse la uccisione del Rossi e la successiva ribellione del 16 novembre.
Nulla importa al Processante Relatore che neppure uno dei testimoni esaminati in processo abbia affermato che ivi si trattasse della rivoluzione e della uccisione del Ministro Rossi; nun importa a lui che tutti i testimonii, tranne le velenose insinuazioni di Agostino Squaglia e le leggerissime e velate del Legionario Orioli, abbiano escluso che di rivoluzione e di uccisione Rossi si trattasse in quelle riunioni; come nulla gli importa che nessun testimonio abbia detto che la sera del 13 e del 14 novembre si tenesse riunione al Capranica, neppure Agostino Squaglia, il quale, nel suo ultimo esame, del 3 gennaio 1853, dopo aver detto che ignora che il Bomba e il Carbonelli appartenessero a qualche associazione faziosa e che intervenissero alle riunioni dei Legionari al Capranica; dopo aver detto che non è a sua cognizione che all’osteria Mattei a piazza di Spagna ove teneva riunioni Angelo Brunetti convenissero anche i Legionarii; disse anche, rispondendo ad apposite interrogazioni, che non sa, ossia non ricorda che a Capranica si tenesse riunione anche le sere del 13 e del 14 novembre e che non sa — è importante, trattandosi di uno che sapeva tutto — che i Legionari il 15 novembre ricevessero ordine, nè da chi di indossare la panuntella.
Ma che importa tutto questo al Relatore, fremente d’ira contro quei Legionari e contro Luigi Grandoni? Egli, ardente di santo zelo, forte del sussidio del lenone impunitario, poggiando sui pavimenti di mosaico da lui costruiti con tutti quei pezzetti di deposizioni, approfittando di parecchie contraddizioni in cui cadde nei suoi tredici costituti il Grandoni, approfittando che certe circostanze di fatto, per sè stesse innocenti, fossero state inopportunamente e improvvidamente dal Grandoni negate, raccogliendo e intarsiando le frasi meno benevole e i giudizi poco favorevoli verso di questo emessi da parecchi testimonii, in specie Legionari, ed esagerando e colorendo quel po’ di vanità, di presunzione e di ambizione onde erano costituiti i difetti di quest’uomo, obliando completamente tutti i precedenti della vita onesta, laboriosa, incontaminata di questo galantuomo, affastella sul capo di lui con sottigliezza casuistica tutte le più lievi circostanze che possono avere sembianza di indizi, per dare spesso, con evidente malafede, solidità alle apparenze, corpo alle ombre, nel desiderio e con la speranza di aver posto una solida base alle accuse che il Fisco, col debole sussidio delle fanfaronate dello Squaglia e delle menzogne del Bernasconi, nutre fiducia di avere concretate tanto contro i Legionari convenuti al Capranica, quanto contro colui che il Relatore ha già nominato, ma che essi realmente non avevano ancora eletto a loro Duce.
Ripeto che non è possibile soffermarsi ad ogni tratto sulla via percorsa dal Processante Relatore per porre in rilievo le molte fraudolenti adulterazioni di deposizioni testimoniali da lui fatte e ne noterò soltanto una che è anche maggiore e più iniqua delle altre.
Dopo avere esaminato nel § 425 come il Grandoni in uno dei suoi costituti avesse detto che allorquando egli negava che nelle riunioni del Teatro Capranica si trattasse della politica del Ministro e che si tramasse contro il Governo, egli intende di parlare delle riunioni a cui intervenne lui e delle quali intende rispondere, aggiungendo che le chiari del Teatro non le aveva lui e quindi esso non poteva rispondere se vi si tenessero altre riunioni estranee a quelle dei Legionari, e dopo avere riassunto, inesattamente, ma non importa, queste deduzioni del Grandoni, nel successivo § 426 continua, per suo conto, cosí:
Peraltro il Ruspoli, il Costa, il De Angelis e il Rorick replicano di essere intervenuti a pochissime riunioni specialmente il Ruspoli e il De Angelis e che altre se ne tenevano dal Grandoni e compagni senza di loro.
Ora questa seconda proposizione è falsa: nessuno di quei quattro testimonii ha affermato nelle proprie deposizioni il fatto enunciato dal Processante Relatore: quei quattro han detto ognuno di essere intervenuto chi a due o tre, chi a tre o quattro, il Ruspoli, nel suo secondo esame si è spinto fino a cinque o sei riunioni e ognuno di quei testimoni ha detto o di non sapere se poi si tenessero altre riunioni, oppure di non sapere ciò che si trattasse in altre riunioni in cui il testimone deponente non fosse intervenuto: ma nessuno dei quattro ha detto ciò che arbitrariamente e slealmente loro mette in bocca il Processante Relatore: e i lettori se ne potranno persuadere rileggendo le deposizioni del De Angelis, del Ruspoli, del Costa e l’unica del Rorick.
Del resto il Processante Relatore Laurenti fa mostra di credere chi sa mai quali cose misteriose e miracolose intorno a quelle riunioni del Capranica e puerilmente si lamenta perchè furono pochissime quelle a cui intervennero il De Angelis, il Ruspoli, il Costa ed il Rorick, quasi che quelle riunioni fossero state quindici o venti, si lamenta che dei cinquanta circa Legionari e Reduci — egli dice cinquanta, perchè non vi comprende gli imputati — quattordici soli abbiano ammesso di essere intervenuti e quasi tutti una volta sola, e molti abbiano fin anco negata di avere avuto notizia di quelle riunioni, mentre ne era sparsa e notoria la voce, quasi che da queste circostanze potesse derivare un obbligo a tutti di intervenrvi e quasi che tutti coloro, che, eventualmente, non essendo fannulloni e girandoloni come lo Squaglia, non ne ebbero notizia, solo per essere stati Legionari e per far piacere al futuro Giudice Istruttore, avessero avuto il dovere di esserne informati.
Ma, in sostanza, dagli atti processuali al Giudice Relatore risultavano sulle riunioni del Capranica queste verità dalle quali egli per nessun conto doveva dipartirsi e sulle quali egli non poteva e non doveva sofisticare: che quelle riunioni cominciarono sul finire di settembre e si protrassero sino ai primi di novembre: che quelle riunioni non furono nè fisse nè continuative, ma temporanee e ad intervalli e, perciò, non superarono il numero di sette od otto al massimo; che erano tenute a porte aperte e che chiunque poteva entrare al Teatro; che non vi si trattò di trame contro il Governo e contro il Ministro Rossi e che non vi si distribuirono armi; e queste cose risultano dalle deposizioni di tutti i testimonii interrogati, compresi gli illuminatori e i muratori che facevano da portinai al Teatro, quantunque, ad arte, non interrogati in proposito esaurientemente e completamente, come sarebbe stato sacrosanto dovere di un onesto ufficio di istruzione. Solo il denunciante Agostino Squaglia, il quale — si noti — a sua confessione, benchè ex Legionario, non intervenne ad alcuna di quelle riunioni, solo lo Squaglia sollevò intorno a quelle riunioni una nuvoletta di insinuazioncelle; ma siccome nel suo ultimo esame affermò che di ciò che si faceva e si diceva al Capranica lo informavano Giovanni Battista Lopez e Giovanni Costa, i quali ambedue lo avevano in processo solennemente e completamente smentito, così la nuvoletta di insinuazioncelle era svanita e di quelle chiacchiere non poteva e non doveva più il Relatore tenere alcun conto.
Che restava al Relatore? L’affermazione dell’impunitario Bernasconi avergli Antonio Ranucci detto che la sera del 14 ecc., affermazione che essendo di seconda mano, detto di detto, aveva più che mai bisogno di essere sussidiata di prove e che è invece smentita interamente da quaranta testimoni, fra cui undici fra Ufficiali e sott’Ufficiali dei Carabinieri, Ispettori, Capo-Agenti ed agenti di Polizia, la cui Direzione Generale — i lettori se ne ricorderanno — rispondeva in data del 31 luglio 1852 al Giudice Istruttore, che ne aveva invocato il soccorso per avere elementi di prova della riunione della sera del 14 novembre 1848 al Teatro Capranica, che tutte le pratiche possibili sono state fatte per avere notizie sulla riunione di persone che la sera del 14 novembre 1848 a notte avanzata credesi avesse luogo al Teatro Capranica, presso concerti già presi al Circolo popolare, per trarre a sorte diversi individui che nel susseguente giorno sarebbero stati destinati a pugnalare il Ministro Conte Pellegrino Rossi, ma il risultato delle medesime non ha dato alcun favorevole indizio alle viste della punitiva giustizia.
E non poteva essere altrimenti; giacchè era impossibile che la Polizia rinvenisse le traccie, gli indizi, le prove di un fatto che non era mai avvenuto, che non era mai esistito altro che nel torbido cervello e nella turpe coscienza dell’impunitario Bernasconi.
Queste poche considerazioni, fatte a questo punto della Relazione, riguardante le riunioni dei Legionari al Teatro Capranica, si intende che sono applicabili in appresso anche a quella parte della Relazione, in cui il Processante Laurenti, ripetendo non poche delle cose dette in questi paragrafi dal 327 al 437, si occuperà della immaginaria riunione della sera del 14 novembre, ossia, come egli scrive, del Condetto al Teatro Capranica.
Dal § 457 al 462 sotto il titolo la Stampa avversa al Ministro Rossi il Relatore — smanioso di fare il processo a tutto il partito liberale romano — tenta di entrare nell’arringo storico e vuol riassumere, a modo suo, le condizioni d’Italia al momento in cui il Conte Rossi salì al potere, con considerazioni così puerili, con giudizi così fanciulleschi che un giovine studente di prima liceale disdegnerebbe oggi far suoi e i quali provano che se l’avvocato Laurenti era forte e sapiente nelle suggestioni e nelle sottigliezze fiscali, era assolutamente ignaro di studii storici.
«§ 458. È noto — così scrive il Relatore Laurenti — che la involuzione italiana, repressa in gran parte dal Governo Regio di Napoli il 15 maggio 1848, dalle vittorie delle armi austriache a Vicenza, a Curtatona e a Milano ai primi di agosto (presso che subentrava una mediazione diplomatica straniera) e sottoposta in Roma al freno del Ministro Pellegrino Rossi, uomo assai riputato per fermezza di carattere e per abilità di governo, passò in uno stadio novello; si convocò dal Gioberti a Torino un congresso politico federativo, diretto ad associare i Governi alla unità ed alla guerra sopra alcuni principii che attaccavano l’autonomia e l’autorità e l’indipendenza dei Governi legittimi: si proclamò in Toscana alla stessa epoca dal Montanelli e dal Guerrazzi una Costituente italiana capace a sovvertire direttamente la esistenza stessa dei Governi, e quindi risuonò in tutti i Circoli e giornali l’acclamazione a questa Costituente e al governo democratico.
«§ 459. È noto che, sopraggiunto l’avviso di una rivolta accaduta in Vienna mi primi di ottobre e magnificata dal giornalismo, tanto più crebbe in molti l’ardore per le novità, in molti per tentar nuovamente la guerra di Lombardia, chiamandosi ormai dai Circoli e dalla stampa traditori e nemici del popolo quei Governi e quei Ministri che non capitanassero quei nuovi movimenti.
«§ 460. A fronte di queste esaltazioni il Ministro Rossi, con prudente ragionamento, poneva nella Gazzetta officiale del 4 novembre in ben chiari termini la questione della politica che credeva conveniente all’Italia e allo Stato pontificio».
E qui il Relatore e storico Laurenti, con una ingenuità che — mi si permetta la parola — rasenta la imbecillaggine, riproduce alcuni frammenti dell’imprudente, non prudente, ma funesto e obbrobrioso articolo dal Conte Rossi fatalmente pubblicato nella Gazzetta Ufficiale di Roma del 4 novembre; articolo mirabile per vigoria di arte polemica, ma brutto per il contenuto, bruttissimo per la forma, satura di amaro disdegno e di velenosa ironia, nel quale, combattendo il progetto di lega fra il Piemonte, la Toscana e lo Stato romano — progetto che, fin dal 15 agosto, il Marchese Lorenzo Pareto e quel grande carbonaro e rivoluzionario che era il sapiente, integro, candido Abate Antonio Rosmini pel Piemonte, il Marchese Scipione Bargagli per la Toscana e Monsignor Giovanni Corboli Bussi per il Papa stavano trattando — il Rossi, con basse insinuazioni e amari sarcasmi, oltraggiava quel Magnanimo Re Sardo e quel generoso e tenacissimo popolo piemontese, i quali avevano, allora allora, con immensi sacrifici di danaro e di sangue, sostenuto l’onore del nome italiano contro l’aborrito straniero.
Così il Relatore Laurenti, non curando lo studio complesso dei fatti del rivolgimento italiano — promosso del resto proprio da Pio IX — obliando le relazioni che legano intimamente le cause e gli effetti fra di loro: non tenendo alcun conto delle condizioni speciali del clima storico, della effervescenza degli animi di parecchi milioni di Italiani, non comprendendo l’esaltazione patriottica dell’ambiente in quel momento, cause tutte che trascinavano fatalmente, irresistibilmente il governo Sardo ad una nuova guerra di indipendenza e che spingevano tutti i patriotti della Toscana e dello Stato romano a volere unite in quella guerra le milizie di cui Toscana e Roma potessero disporre, non mostra soltanto la sua ignoranza come storico, ma palesa altresì la sua insufficienza logica e la sua inabilità di Avvocato, riproducendo, a brani, un documento che egli, nell’interesse della causa che sosteneva, avrebbe dovuto lasciar nelle tenebre, un documento da cui emerge la condanna della sua tesi, da cui scaturisce la generale impopolarità nella quale, come entro un turbine, fu avvolto il Conte Rossi, un documento che fu realmente la causa principale di ciò che avvenne il 16 e il 16 novembre e, in cui, perciò, sta racchiusa, se non la giuridica giustificazione, la storica spiegazione dell’infausto omicidio che forma l’argomento di questo Processo.
Nè meno inabile si mostra il Relatore, quando nei paragrafi successivi, riporta frammenti di articoli del Contemporaneo, dalla Pallade e dell’Epoca fieramente ostili al Ministro Rossi e alla sua politica: giacché, enunciato poco prima il fatto che fu causa, mostra di meravigliarsi dei fatti successivi che ne furono i logici effetti; e perchè non pensa che, col mettere in rilievo le condizioni di esasperazione e di sdegno degli organi più diffusi della pubblica opinione in Roma, egli mette in rilievo le attenuanti che potranno invocare a loro favore gli accusati dell’omicidio Rossi.
Dal § 436 al § 486 il Relatore si adopera a tutt’uomo, sempre appoggiato unicamente al Rivelante impunitario, a dar la prova della Fusione delle varie congreghe ostili al Rossi, fusione che deve approdare, secondo le affermazioni del Bernasconi, alla riunione di oltre Duecento cospiratori nella sera del 13 novembre al fienile di Ciceruacchio e a quella finale della notte del 14 successivo al Teatro Capranica.
Se un po’ più di logica e un po’ meno di ardore fiscale avesse informato l’opera del Relatore, questi avrebbe dovuto vedere le incoerenze e le contraddizioni manifeste che esistevano nelle rivelazioni dell’impunitario e avrebbe dovuto scorgere che esse mancavano di qualsiasi fondamento di prova: ma il Laurenti, serrato nelle morse del preconcetto e del prestabilito, non poteva criticare quel romanzaccio del Bernasconi, perchè quando avesse demolito quello quale base di operazione gli restava?
Così, legato a catena con quell’abiettissimo collaboratore, il Laurenti si innoltra nel campo della fusione, la quale, smentita, in tutte le singole circostanze, da tutti i testimonii che furono su di essa interrogati — non escluso lo Squaglia, il quale, nel suo terzo esame, disse: non so se vi fosse connessione fra le riunioni del fienile, quelle del Capranica, quelle del Circolo popolare e l’omicidio Rossi — non ha per il Processante Relatore, in tutto il processo, che due sussidii di semi-prova apparente, una nella rivelazione fatta avanti al Giudice Istruttore Holl e poi riconfermata dinanzi all’Avvocato Cecchini da Antonio Politi il 6 novembre 1850 e l’altra nella prima deposizione di Gregorio Salvati.
Ora la rivelazione Politi, invocata e riprodotta dal Relatore al § 465 non mette in essere nulla e non prova menomamente le circostanze inventate dall’impunitario circa la fusione: quella rivelazione — che io riferii a suo luogo, ma che qui importa ripetere dice così: La domenica 19 novembre successiva alla, morte di Rossi, il muratore-stuccatore Luigi Fabri, mi confidò che da Ciceruacchio, da Girolamo Conti e da altri della loro lega si era avuta una lettera dello stesso Rossi, dalla quale si era conosciuto che voleva introdurre un sistema di governo contrario al vigente e che però dovevano effettuarsi molte carcerazioni. Non mi spiegò il Fabri come avessero avuto nelle mani la lettera, nè a chi fosse diretta e mi aggiunse che per questo si era stabilita la trama di uccidere il Ministro. Mi aggiunse il Fabri che nei giorni innanzi al 15 egli si era adoperato a comprare i Dragoni, spendendo per ciò ottanta scudi.
Ora dove è qui la prova, ma che prova? ove è l’indizio della fusione?
Ma anche qui v! ha di più e di peggio: la rivelazione Politi fu recisamente e completamente smentita dallo stuccatore Luigi Fabri, che non fu incriminato come testimone reticente, che non fu molestato, nè processato come complice e di cui, per conseguenza, fu dai due Processanti accettata la smentita, che distruggeva la rivelazione Politi.
E, se così fu, con quale onestà il Relatore invoca ancora una rivelazione di cui fu dimostrata la falsità, e con quale senso comune invoca un documento che, oltre essere falso, non prova nulla intorno alla fusione?
E vediamo se sia più valida la invocazione della testimonianza di quell’onesto Gregorio Salvati, che il Relatore riproduce in appoggio alle invenzioni dell’impunitario, nel § 475.
Il Relatore anche qui, falsando la verità delle risultanze processuali, secondo è suo sistema, riproduce un frammento della deposizione Salvati, tagliandone fuori una proposizione che io rimetterò al suo pósto e della cui. importanza saranno giudici i lettori.
Luigi Badini — così riproduce la testimonianza di Gregorio Salvati il Processante Relatore — amico di Angelo Brunetti e della Lega Facciotti mi raccontò che fece unire in relazione Bernardino Facciotti e compagni con Ciceruacchio e mi diceva che appunto anche sotto gli ordini del Brunetti era un’altra società di congiurati e anche questa riunione, come mi disse Bernasconi, aveva tra i capi un liceo signore contumace.
Questa è la riduzione arbitrariamente falsificata dal Processante Relatore della deposizione Salvati,, la quale rèstituita al suo genuino testo, dice cosí:
«Luigi Badini detto lo Scozzone, amico .intrinseco’dei due Brunetti e compagno dei Facciotti mi raccontò che egli fece unire in relazione Bernardino Facciotti con Ciceruacchio. io però non so nè dove, nè come avvenisse l'unione delle due società. Che delle riunioni di Ciceruacchio fosse uno dei Capi il Principe di Canino lo seppi da Filippo Bernasconi».
Come i lettori vedono il sussidio della semi-prova alle affermazioni del Bernasconi circa alla fusione si dilegua, sia perchè il periodo pretermesso dal Processante toglie ogni valore alla deposizione, sia perchè il Salvati non parla di cosa da lui saputa o veduta per fatto proprio, ma pel racconto fattogliene dal Badini, che lo ha assolutamente smentito in processo, negando di averglielo mai fatto.
E dai precedenti atti processuali e dalla deposizione del Salvati emergono veramente due circostanze, che danno diritto al lettore imparziale di credere che, fra il Salvati che afferma di avere avuto quella confidenza dal Badini e il Badini che assolutamente lo nega, questi dicesse iL vero e quegli il falso.
Di fatti, dalle deposizioni del Capo Agente di Polizia Alessandro Rosalbi, è provato che il Badini era suo confidente segreto, cosicchè appare inverosimile, per non dire impossibile, che il Badini facesse da intermediario fra la congrega Brunetti e quella Facciotti e che, in ogni caso, andasse a confidare cose siffatte gratuitamente a Gregorio Salvati, anzichè al Capo Agente Rosalbi che lo compensava.
Ma v’ha di più.
Il Salvati nella deposizione! di cui sopra ho riferito un frammento, aveva antecedentemente detto quanto segue:
Dopo avere narrato come i Facciottini, scoperto che esso Salvati era andato alla Direzione di polizia e aveva svelato al Rosalbi, al Volponi e all’Accursi le trame della loro congrega, avessero deciso di ammazzarlo, aggiunge che dovette fuggire di casa, ove quelli lo tennero a cercare e il 4 novembre un Brgadiere di Dragoni della congrega dei Facciotti, armato di pistola, andò nella ma bottega, cercando di lui per ucciderlo; ma il successivo giorno 5 esso deponente, avendo commesso un omicidio, si diè fuggiasco, riparando nella tenuta di Torre San Lorenzo e così, sfuggendo alle ricerche di quelli, si salvò la vita. Egli aveva ucciso Antonio Tarè, stette fuggitivo ventuno mesi, si costituì dopo ripristinato il Governo pontificio ed oggi — cioè il 2 aprile 1852 — avendo in parte espiato la pena e in parte ottenuta una grazia sovrana, è in libertà.
Ora siccome, secondo le rivelazioni dell’impunitario, la fusione sarebbe avvenuta, sui primi di novembre e siccome ai primi di novembre il Salvati era fuggiasco e stette fuggiasco ventuno mesi, cioè fino ai primi di agosto del 1850, quando e come il Badini potè vedere il Salvati e fargli il racconto che questi affermò aver udito da lui?
Tutti i moscerini che volavano in quell’ambiente eccitato, febbrile, infiammato divengono elefanti per la esaltata fantasia del Relatore Laurenti che, a furia di volere apparire diligentissimo, si mette a continuo repentaglio di apparire ridicolo.
Così, per esempio, al § 609, quando parla delle disposizioni prese dal Comando Generale Civico per la tutela dell’ordine il 16 novembre a piazza della Cancelleria e alla Camera dei Deputati, rileva una circostanza notabile. Il Battaglione Monti, che era il più sospetto al Rossi, come si ha dagli atti e dall’esame dell’Ufficiale N. — leggi Antonio Toncker — fu chiamato a guardia dell’ingresso della sala dei deputati! Eppure il Colonnello Cleter e il Conte Bolognetti Aiutante Maggiore del I Battaglione stesso parrebbero escludere che la destinazione in discorso fosse collegata al condetto per l’assassinio.
Ma sì può mostrarsi più puerilmente stolidi di così?
Quasi che il Duca di Rignano, che era Comandante in Capo della Guardia Civica e il Cleter che ne era il Capo di Stato Maggiore e il Bolognetti Aiutante Maggiore del I Battaglione fossero stati fra i duecento congiurati intervenuti all’immaginario condetto del 13 e 14 novembre, quasi che essi avessero potuto divinare il 14 novembre 1848 ciò che il Toncker segretamente aveva rivelato al Conte Rossi e che il Processante Relatore veniva appena a sapere nel 1862 ed avessero quindi, tutti tre, il Rignano, il Cleter e il Bolognetti potuto e dovuto pensare ad escludere il I Battaglione dal dare, come tutti gli altri Battaglioni, il suo contingente di sessanta militi al grosso Battaglione di ottocento sessanta uomini che, sotto gli ordini del Maggior Villanova Castellacci, fu inviato alla Cancelleria a disposizione della Camera dei deputati. Riflettendo sulla terribile insinuazione contenuta nella notabile circostanza rilevata dal Processante Relatore il lettore è tratto a pensare che il Cleter e il Bolognetti la scamparono bella se non furono coinvolti quali inquisiti come complici del condetto e all’assassinio!
Che dire delle illazioni curiosissime e non meno puerili della precedente che il Giudice Relatore Laurenti cerca di trarre dal § 521 al 529 dalle voci corse e dei si diceva e si disse messi fuori da alcuni testimoni a proposito del Congresso federativo, indetto da Vincenzo Gioberti a Torino, al quale andarono quali rappresentanti dei Circoli di Roma Carlo Luciano Bonaparte Principe di Canino, il Dottor Pietro Sterbini Direttore del Contemporaneo e il Conte Terenzio Mamiani e il Dottor Michelangiolo Pinto, redattori dell’Epoca e del Don Pirlone? ...
Coi suoi soliti intarsii, messi insieme quei generici corse voce e si disse e, riprodotti alcuni frammenti di posteriori articoli di quei tre giornali, il Relatore Laurenti si industria di stabilire una connessione fra il successivo omicidio Rossi e le discussioni e le deliberazioni di quel platonico ed accademico Congresso nel quale, intorno alla luminosa figura di Vincenzo Gioberti, si raccolse il fiore del patriottismo e dell’ingegno italiano il Mamiani, il Casati, il Mauri, il Maestri, il Giulini, il Correnti, il Broglio, il Durini, il Castelli, il Romeo, Pier Silvestro Leopardi, Silvio Spaventa, Francesco Perez, Giambattista Giorgini, Francesco Ferrara, Giuseppe Massari, molti dei quali già illustri allora, primeggiarono poscia nella storia dell’italiano risorgimento per carattere, onestà e integrità di opere, per durate prigionie e sofferti esilii e per grandi servigi resi all’Italia.
Ora il Processante Relatore su quei si disse e corse voce e su quei frammenti di articoli posteriori si sforza di stabilire, a modo suo, una connessione fra quel congresso, ripeto platonico, ma nobilissimo, e l’omicidio Rossi, calunnia ripetuta nel 1849 e nel 1850 da tutti i giornali reazionarii di Europa e raccolta dal Padre Bresciani nell’Ebreo di Verona e che fu schiacciata da quel terribile rivoluzionario rosso e comunista che fu il chiaro ed onorando Giuseppe Massari nel suo Proemio alle Opere politiche del Gioberti, il quale Gioberti era grande ammiratore, amico e difensore di Pellegrino Rossi, come il Relatore Laurenti avrebbe potuto sapere solo che avesse dato una scorta al Rinnovamento Civile degli Italiani del Filosofo Torinese, posa che avrebbe dovuto fare, dappoichè voleva fare il processo a tutta la rivoluzione italiana del triennio 1846-49.
Dove poi il Processante Relatore raggiunge l’apice della insinuazione gratuita è al § 528 nel quale scrive: Dal congresso ove si erano recati da Roma il Mamiani, lo Sterbini, Michelangelo Pinto ed altro signore pur contumace, tornati in Roma si posero i due primi sul seggio ministeriale rapito al Rossi con un assassinio.
La quale considerazione se, dalle emergenze degli atti processuali, era al Laurenti dato di fare per ciò che riguardava lo Sterbini, contro cui un nembo di accuse in gran parte generiche, ma in parte, anche specifiche egli aveva visto addensarsi in processo, era gratuita e iniqua insinuazione rispetto al Mamiani, il quale, appena tornato da Torino a Genova era caduto non lievemente inalato e vi rimase fino a sette od otto giorni dopo la uccisione del Ministro Rossi e contro il quale nessuna, anche più vaga accusa, si trovava in processo, tranne quella di essersi trovato il 2 maggio 1848 fuori di porta del Popolo al pranzo del pesce fritto e del giuramento dei pugnali, dove per altro lo vide il solo lenone impunitario, smentito completamente da tutti i sedici testimonii dal Giudice Laurenti in proposito interrogati.
Nel riferire al § 564 la deposizione di Francesco Annessi, il quale attestava che il Dottor Pietro Quintili gli aveva preannunciata la uccisione del Ministro Rossi innanzi che avvenisse, il Relatore adopra la solita falsificazione, facendo dire al testimone le parole: mi espresse un giorno che sarebbe quel Ministro stato ammazzato il 15 novembre, mentre l’Annessi aveva detto mi disse il 14 novembre prima della uccisione del Rossi, che il 15, all’apertura della Camera, questi sarebbe stato ammazzato.
La differenza è grande e i lettori vedranno fra poco tutta la importanza della differenza stessa.
Al § 558 il Processante Relatore sente il bisogno di invocare anche la testimonianza della storia e indovinino un pò i lettori a quali autorità storiche ricorre il Relatore Laurenti, che non aveva avuto tempo di scorrere il Rinnovamento del Gioberti?..
Al D’Arlincourt e al Balleydier; due reazionari libellisti, affastellatori di insinuazioni e di menzogne e i quali oggi un uomo che tenga un pò alla reputazione di non ignorante si vergognerebbe di citare, ma che pur tuttavia, da chi aveva fior di senno, anche allora, anche ai giorni in cui il Laurenti scriveva la sua relazione, erano tenuti in conto di favolisti.
Decisamente l’Avvocato Laurenti non era tagliato per la storia!
E, continuando nella sua Relazione a sottoporre ai Giudici del Supremo Tribunale le Risultanze sul Decreto e condetto esecutivo dell’assassinio Rossi tenuto in Roma, il Giudice Laurenti riferisce gli articoli dei giornali il Contemporaneo, l’Epoca, la Speranza, la Pallade, il Don Pirlone, il Corriere Livornese e al § 590, per provare che nella Camera ad ogni modo il Ministero Rossi avrebbe avuto la maggioranza — cosa di poca importanza invero nella causa presente, ma di molta importanza per la storia e della quale mi occuperò nell’ultimo capitolo verso cui mi vado affrettando — adduce, fra le altre, la testimonianza del Dottor Diomede Pantaleoni, Deputato e Questore della Camera, ma rifacendola e rinfondendola tutta a suo arbitrio e falsandola nella parte sostanziale. Vogliono udire i lettori?
«... Disaccordo alcuno grave tra Deputati e il Ministero Rossi non stimo vi avesse... meno quello della guerra se si fosse riaccesa tra Piemonte ed Austria... Per quanto è a mia notizia il Rossi poteva contare, in ogni caso, sopra grande maggioranza e di vera opposizione non avrebbe avuto che otto o dieci voti, per quanto si conosceva». Ora, invece, come i lettori ricorderanno, il Pantaleoni aveva detto: «... Rende ragione delle cause per cui fu fischiato il Rossi: la chiamata a raccolta dei Carabinieri, la rivista e la marcia di essi pel Corso, l’arresto e la espulsione di alcuni emigrati napoletani, gli articoli battaglieri sulla Gazzetta Ufficiale ecc. Crede che l’opposizione parlamentare al Rossi si sarebbe ristretta ad otto o dieci, di cui nomina il Mariani, il Torre, il Canino e lo Sterbini, e con il Ministro Rossi almeno quindici che potevano arrivare a trenta o trentacinque, se egli fosse stato disposto a transigere su varie cose come a non dare più impieghi a Deputati, a non diffidare della Guardia civica, a rafforzare il Ministero con qualche membro più abile».
Dunque il Pantaleoni assegnava nelle sue previsioni, e sub conditione, al Ministero trentacinque voti sicuri su cento Deputati. Dove è, dunque la grande maggioranza che il Relatore Laurenti, falsando le vere risultanze del processo, fa dal Deputato Pantaleoni accordare al Ministero stesso?..
E, seguitando nella esposizione di quelle che egli chiama insultarne processuali, il Relatore al § 601, riferisce il vangelo della deposizione dell’impunitario nel suo nono esame, il quale, narrando la fantastica riunione al fienile di Ciceruacchio la sera del 13 novembre, enumera e nomina cinquantatre dei componenti le circa Duecento persone colà raccolte.
Poi riporta le parole dell’impunitario che susseguono a quella enumerazione.
§ 602 Prima che in questa adunanza il Guerrini e lo Sterbini cominciassero a parlare accedè Luigi Grandoni in compagnia di un giovane a me incognito, che intesi nominare Corsi; si affacciarono semplicemente alla porta del fienile, ed uscirono Sterbini, Guerrini ed Angelo Brunetti a parlarvi al di fuori e finito il colloquio il Guerrini e lo Sterbini si espressero: Addio Grandoni, addio Corsi. Chiesi allora al Guerrini che rientrava chi fossero quelli e che venissero a fare e U Guerrini mi replicò: non lo sai che sono Grandoni e Corsi chirurgo di San Giacomo? Sono uniti con noi e trattano della stessa cosa e si riuniscono a Capranica coi Legionari di Vicenza.
Questo disse il Bernasconi nel suo esame, il 24 gennaio 1852.
Ma, per mostrare in una piccola parte soltanto quale tessuto di mendacii, di contraddizioni, siano tutte le venticinque deposizioni dell’impunitario, badino i lettori solamente a tutte quelle che io metterò in rilievo su questa unica parte della immaginaria riunione del 13 novembre al fienile di Ciceruacchio.
In questo stesso esame il Bernasconi impunitario, enumerando quelli che intervenivano alle pretese riunioni del fienile ai primi di novembre e che furono in tutte — secondo lui — cinque o sei, non aveva nominato il Grandoni.
Poi si diffuse a parlare, sempre nello stesso nono esame, delle visite di Bernardino Facciotti e di Luigi Fabri alla Pilotta per la seduzione dei Dragoni, poi tornando alle riunioni dei Fienili, aveva detto che Luigi Grandoni non entrò mai, ma venne due o tre volte a discorrere fuori della porta con Ciceimacchio e con lo Sterbini, e poi finalmente, venendo a parlare della grande riunione delle Duecento persone della sera del 13 novembre disse le parole di sopra per intero riportate.
Ma, se egli era dentro al fienile, come poteva vedere il Grandoni che non entrava mai e che discorreva fuori della porta con Ciceruacchio e con lo Sterbini?..
La cosa era così assurda che o se ne deve essere accorto egli stesso, o gliela doveva aver fatta notare il Cecchini e allora cercò di ripiegare con quella gherminella da donniciuola di avere udito dire nella pretesa venuta del Grandoni al fienile nella sera del 13, addio Grandoni, addio Corsi, e di avere avuto quella risposta dal Guerrini che sopra è stata riferita.
Ma qui l’impunitario cadde in una nuova più flagrante contraddizione, perchè se il Corsi stava fuori, come potè egli vederlo vestito da paino e come potè dire che era di statura non bassa?..
Ma dalla padella è tratto a cader nella brage e la falsità della sua affermazione è constatata dal fatto risultato luminosamente provato in atti — tanto che condusse al proscioglimento del Corsi — che il Corsi era a Soriano la sera del 13! E come poteva essere a Roma sul fienile se era a Soriano e come poteva accompagnare il Grandoni alla immaginaria riunione?..
L’accordo e il falso sono evidenti.
Ma non basta. Fra i presenti da lui indicati come intervenuti a quella riunione egli ha indicato i due fratelli Pietro e Giovanni Trinca, che erano uno a Rimini e l’altro a Cesena, come fu luminosamente provato tanto che erano stati ambedue prosciolti.
Il falso è triplicato.
E seguitando a raccontare le sue fiabe, sempre nello stesso nono esame afferma che Sterbini e Guerrini dissero che se i Carabinieri si muovevano, al Pincio sarebbero stati sparati tre razzi o granate e a questo segnale bisognava riunirsi a Piazza del Popolo, o a Piazza di Spagna, o a quella di Sant’Ignazio, o a quella di Ponte, armati con armi da fuoco, dove avremmo trovati i nostri capi e allora si sarebbe cominciata la rivoluzione e si sarebbero ammazzati i cardinali e il Papa se riesciva.
Qui l’assurdo salta agli occhi anche dei bambini. Pietro Sterbini, con quel po’ po’ di ingegno, con quella vecchia esperienza di antico cospiratore, ambizioso di pervenire in alto, si metteva a fare simili discorsi avanti a duecento persone raccolte per la maggior parte fra la infima plebaglia e pensava di ammazzare il Papa... se riusciva?.. Poi quei razzi innalzati dal Pincio, o quelle granate sparate dal Pincio di pieno giorno quando i razzi non si sarebbero veduti, o lo sparo non si sarebbe udito; poi quelle disposizioni cosi confusionarie e caotiche di accorrere o qua o là son tutte cose che fanno pensare a una congiura ordita in un teatrino di burattini per uso e consumo dei ragazzi.
Eppure questo cumulo di assurdità e di falsità, che non ha trovato in atti che smentite, di cui nessuna parte è sussidiata da una sola testimonianza, seguita ad essere il fondamento sul quale sta saldo ed impavido il Relatore Laurenti, ai cui occhi tutto ciò non solo sembra verosimile, ma vero e provato.
Ma non basta.
Lo stesso impunitario nel susseguente decimo esame narra: la sera del 14 novembre coi Facciotti, col Pinci, col Maiorini, con Adamo Ceccarelli andai al Circolo popolare e là trovammo tutti i soliti, Sterbini, Canino, i due Brunetti, Todini, Ranucci, Trentanove, i due Costantini Guerrini e vidi un giovane che dal Trentanove mi fu indicato col nome di un tal Piastrini chirurgo — non mi ricordo se c’era quel Corsi — il Bezzi, Zeppacori, Fabn, Badini, Ceccarelli, Pinci, Felice Neri, Giuseppe Caravacci, Diadei, i due fratelli Ferranti, Giovanni Costa, i due fratelli Trinca, Luigi Santori ed altri legionari a me incogniti che vestivano chi con la panuntella e chi alla borghese.
Oltre i soliti falsi qui c’è una contraddizione enorme perchè se quei tali erano a lui incogniti ed erano vestiti alla borghese come faceva lui a sapere che erano Legionari?
Ma l’assurdo poi assurge ad altezze piramidali. Ma quale strana e puerile congiura era questa, che doveva andare girovagando a far la visita delle sette Chiese, con continuo pericolo di essere scoperta? Quali congiurati imbecilli non erano mai costoro che, essendo sempre i medesimi, come i soldati di Radames nell’Aida, dopo aver tutto detto e concluso la sera precedente al fienile, fino alle più minute particolarità, compresi i razzi dal Pincio e l’ammazzamento del Papa, se riusciva, avevano bisogno di riunirsi di nuovo, essendo sempre gli stessi, per ripetere le stesse cose, al Circolo popolare? E che necessità di andare ad accompagnare in processione lo Sterbini a casa, col rischio evidente che, veduto a quell’ora seguito da tanta gente, si avesse all’indomani un argomento di più di accusarlo organizzatore dell’uccisione del Rossi?
E di fatti di tutti i testimonii interrogati non uno solo confermò di averlo accompagnato a casa alle tre o alle quattro di notte, perchè lo Sterbini, che non era quell’imbecille che il Bernasconi ed il Laurenti, essi due soli, vorrebbero dare a credere, si ritirò di buon’ora, accompagnato unicamente da Ciceruacchio e dal Badini — il quale andò subito a riferire al Rosalbi ciò che lo Sterbini aveva realmente detto — e rientrò in casa sua, donde, più tardi doveva riuscire per andare ad organizzare la vera trama all’Osteria del Fornaio.
Ma non basta ancora. Nel duodecimo suo esame l’impunitario Bernasconi, dopo aver detto nell’undicesima deposizione che alla riunione del Capranica c’erano pure i fratelli Trinca, narra nel duodecimo ciò che a lui raccontò Antonio Ranucci detto Pescetto. E questa volta la favola narrata deve metterla sulle spalle del contumace e irrepeperibile Ranucci, perchè egli, l’impunitario, non essendo stato Legionario non avrebbe potuto giustificare agli occhi del Processante e dei Giudici del Supremo Tribunale la sua presenza al Teatro Capranica.
Il Ranucci, dunque, avrebbe raccontato che, usciti dal Circolo popolare la sera del 14, dopo separatisi a Ripetta, si recarono al Teatro Capranica dove fu tirato a sorte chi dovesse uccidere Rossi e che fu stabilito che, mentre tutti i Legionari dovevano recarsi in divisa il giorno successivo alla Cancelleria a prestar mano forte e ad aiutare l’esecuzione dell’assassinio, dovessero però trarsi a sorte, non ricordo bene se sei o otto, che dovevano colpire il Rossi, secondo che se ne presentasse ad ognuno la opportunità, e che fu deciso di dargli il colpo al collo, per timore che egli portasse indosso qualche maglia di ferro. Non mi incordo se il Ranucci mi dicesse che fossero imbussolati tutti quelli che erano alla riunione, o alcuni scelti soltanto. Chi tirava la palla nera era uno dei destinati a colpire e le palle nere toccarono a lui Ranucci, al Trentanove, ad Alessandro Todini, a Luigi Brunetti, a Felice Neri, a Sante Costantini e al Chirurgo Corsi. Non mi ricordo se Ranucci mi disse che anche a Giuseppe Caravacci toccasse la palla nera. Ma mi disse che a quella riunione c’erano Grandoni, Sterbini, Guerrini, i Fratelli Trinca, i Fratelli Ferrauti, Zeppacori, Diadei, Ciceruacchio, Capanna, Santori, il Chirurgo Costanti e Francesco Costantini, quantunque non legionario.
Qui l’impunitario, che non ricorda bene due circostanze le più importanti cioè se coloro che estrassero la palla nera fossero sei o otto e se il sorteggio si facesse fra tutti i presenti o fra alcuni scelti, circostanze ben rilevanti e da rimanere impresse nella memoria, ricorda invece benissimo i nomi di quelli che il Ranucci gli disse partecipi alla riunione, fra cui il Chirurgo Corsi che . .. era ancora in viaggio da Soriano e i fratelli Trinca. .. che erano sempre in Romagna.
Anche qui le incoerenze e contraddizioni sono manifeste. Se si erano imbussolate delle palle nere e bianche che si dovevano estrarre, come mai può dire che non ricorda se furono imbussolati tutti o alcuni scelti soltanto? Ma sarebbe stato bene che l’impunitario si fosse deciso: si erano imbussolate palle bianche e nere, o si erano imbussolati bollettini coi nomi?
A questa narrazione l’impunitario disse esser stato presente Bernardino Facciotti e quando il Ranucci la ripetè — sempre secondo le affermazioni del Bernasconi — a Genazzano, dopo entrati i Francesi, sarebbe stato presente Filippo Mogliè; ma tanto il Facciotti, quanto il Mogliè hanno smentito completamente il Bernasconi.
Ebbene, pur tuttavia queste fandonie sono dal Processante Relatore noverate fra le risultanze degli atti e sciorinate come verità ai Giudici del Supremo Tribunale.
Nel tredicesimo esame, fra le tante panzane che racconta, afferma l’impunitario che Luigi Fabri la sera del 15 pagò da bere ai Dragoni dimostranti all’Osteria di Santa Chiara, il Fabri negò recisamente; nessun testimonio interrogato su ciò ammise la circostanza; non uno solo dei molteplici testimonii interrogati vide il Grandoni alla dimostrazione della sera del 15, come l’impunitario falsamente affermò; e questi due fatti, nondimeno sono dati come resultanza degli atti processuali.
E, se potessi, avrei materia di continuare a lungo nel porre in rilievo le frequenti menzognere affermazioni del Processante Relatore, di circostanze e di fatti che egli dá per risultanze degli atti, mentre invece quei fatti o quelle circostanze risultano unicamente dalle deposizioni o del Bernasconi o dello Squaglia, ma risultano in atti non convalidate dai testimonii interrogati, ma anzi smentite.
Così il Processante Relatore continua a prestare la massima fede alla deposizione di Ludovico Buti e alle rivelazioni di Felice Neri e continua a ritenere vera e a presentare come vera la apertura del quartiere del Battaglione Reduci a San Claudio prima dell’omicidio Rossi e persiste a considerare il Grandoni come Colonnello già eletto del già costituito Battaglione Reduci e si ostina a imputarlo di avere dato ordine scritto di indossare la divisa di Legionario ai Reduci di Vicenza — dal § 944 al § 949 — mentre da Documenti ufficiali risulta a lui che il quartiere a San Claudio non fu aperto che il 25 novembre; mentre da Documenti ufficiali risulta a lui che il Grandoni era ancora Tenente del III Battaglione civico il 25 novembre e che, come tale, comandò la guardia al quartiere a Piazza Poli dal 24 al 25 novembre; mentre da documenti ufficiali risulta a lui che il Battaglione Reduci fu istituito con Decreto Ministeriale del 22 novembre e che il Grandoni non fu nominato Tenente-Colonnello del Battaglione stesso che il 10 dicembre; mentre a lui risulta dalle deposizioni concordi di tutti i trentatre testimoni da lui su tal proposito interrogati — compreso il colonnello Cleter, compreso lo stesso Buti, compreso lo stesso Squaglia — escluso e smentito che il Grandoni desse ordine o a voce, o in scritto di indossare la divisa vicentina, cosa che non fu affermata neppure dall’impunitario Bernasconi, il quale dichiarò di ignorare se l’ordine venisse dato dal Grandoni o da altri.
Poi il metodo fraudolento con cui procede innanzi il Relatore è sempre il medesimo, rompere i periodi delle deposizioni e mettere il punto fermo là dove c’era un punto e virgola e riferire, con mosaici fatti da lui a frammenti e a pezzetti confusi e rifusi, molte testimonianze. Al § 962, per addurre ancora qualche esempio il Processante Relatore scrive:
Un altro testimone già a contatto del Rossi depone.
Si disse e si scrisse che fossero precedute riunioni assai sospette di Legionari al Teatro Capranica circa la predisposizione del delitto.
E qui punto fermo, per cui chi legge può credere anzi deve credere che a questo si restringa ciò che il testimone depose sull’omicidio Rossi.
Ora è bene che i lettori sappiano che il testimone già a contatto del Rossi è Gerolamo Amati di Salignano ed è ancor meglio che ricordino come effettivamente era formato il periodo, a quel modo riprodotto dal Processante Relatore, dall’Amati dettato e sottoscritto.
Si è detto e si è scritto che riunioni sospette si tenessero in precedenza al Teatro Capranica fra Legionarii; — e qui punto e virgola — ma io intorno alle medesime non ho avuto mai particolari informazioni.
O allora?...
Al § 972 il Relatore Laurenti con queste poche linee, poste a modo di nota, nella colonna a sinistra, scivola su tutta la parte grottesca degli atti processuali relativa agli immaginarii esperimenti che si sarebbero fatti sul cadavere nella camera incisoria dell’Ospedale di San Giacomo:
Surse ancora la voce che si adoperasse dai sicarii un cadavere per meglio studiare il colpo: ma non si sono raccolte in processo che voci assai vaghe in proposito e non si vede la necessità che per assestare un colpo di pugnale al collo di un uomo siavi duopo di questa pratica.
E ora si accorge e così di sfuggita e quasi vergognoso lo confessa il Processante Relatore che quella chimerica supposizione di esperimenti sopra un cadavere era cosa assolutamente ridicola e nulla dice il Laurenti delle lunghe indagini fatte dal suo predecessore Cecchini e poi anche da lui per rinvenire le prove o almeno le traccio di quegli esperimenti e nulla dei circa sessanta testimonii invano escussi e nulla del lungo carcere triennale fatto soffrire per quella sognata colpa agli sfortunati Chirurgi Corsi e Pestrini. . .
Così sinceramente si riassumevano i Processi e si compilavano le Relazioni pel Supremo Tribunale della Sacra Consulta!
Del resto le falsificazioni si succedono alle falsificazioni in questa Relazione ed è impossibile fermarsi a rilevarle tutte.
Al § 989 torna il Relatore ad insistere e per la terza volta sul fatto dell’apertura del quartiere dei Reduci e postergando e mettendo in non cale i documenti ufficiali a lui trasmessi dal Ministero delle Armi e da quello dell’Interno, fondandosi sulla deposizione di Cesare Baldini, uno dei due scrivani del Battaglione il quale solo, su trentadue testimoni interrogati depone che quel quartiere il 15 novembre era già aperto, afferma che i Legionani Fabio Carnevaiini, Gioacchino Selvaggi e Biagio D’Orazio hanno anche essi affermato che il 15 novembre il quartiere era già aperto.
Chi non crederebbe che questa dovesse essere una resultanza degli atti?... E pure, non è vero, è falso.
Fabio Carnevalini non ha affermato ecc. ma ha deposto:
gli pare certo che al 15 novembre il quartiere San Claudio fosse aperto da qualche tempo; Gioacchino Selvaggi non ha affermato che il 15 novembre fosse già aperto, ma ha detto che andò qualche volta per mezz’ora al quartiere Reduci a San Claudio, aperto pochi giorni dopo partita da Roma la Legione Galletti; e Biagio D’Orazio: non ha affermato ecc. ma ha detto: gli pare che il quartiere fosse aperto quando accennerò i fatti del 15 e 16 novembre.
Del resto il Relatore Processante dà valore soltanto alla deposizione del Baldini, che erroneamente crede che il quartiere San Claudio fosse già aperto il 15 novembre, cerca di convalidare quell’unica deposizione con quella dei tre testimonii a cui pare che il 15 novembre quel quartiere fosse aperto, e non tiene nessun conto degli altri ventinove testimonii interrogati su quella circostanza, dei quali undici sono dubbiosi e non sanno dire se prima o dopo e diciotto — fra cui Agostino Squaglia — ricordano e sostengono che il quartiere fu aperto dopo il 15 novembre; non tiene nessun conto dell’epoca di affitto del quartiere, dei documenti trasmessi dal Ministero dell’Interno e sopra tutto non tiene nessun conto della logica la più semplice ed elementare, la quale avrebbe dovuto e dovrebbe persuadere che se il quartiere a San Claudio fosse stato aperto prima del 15 novembre, i Legionari si sarebbero radunati tranquillamente là, a casa loro e non sarebbero andati ramingando alla Filarmonica e al Teatro Capranica per tenervi le loro adunanze.
Così, sempre appoggiato al Bernasconi e dando per resultanza degli atti qualsiasi affermazione di lui, anche quando non è con convalidata, anche quando è smentita da più testimoni, il Processante Relatore giunge affannosamente al § 1019 con cui si chiudono le Risultanze relative al Condetto per l’assassinio e nel § 1020, posto a modo di nota nella colonna di sinistra è costretto a dire un’altra menzogna a proposito del pacco delle carte di Pellegrino Rossi raccolte e classificate da Monsignor Pentini e da questo consegnate nelle mani del Pontefice Pio IX, scrivendo:
Anche sul condetto per l’assassinio avrebbero somministrati maggiori lumi le carte politiche che si trovarono nel Gabinetto del Rossi delle quali parlano i testimoni ecc. e specialmente r autorevole testimone che ne parla ai fogli 6785 e seguenti.
Le quali carte, presso le vicende dei tempi, sono state irreperibili finora.
Altro che presso le vicende dei tempi! Le quali carte — avrebbe, per la verità e secondo le resultanze degli atti, dovuto dire il Relatore Laurenti — giudicate di somma importanza dell’autorevole testimone che le aveva vedute, raccolte, classificate, sigillate e consegnate nelle mani del Pontefice, furono a questo involate, sottratte, chi sa mai per quali misteriose e gravissime ragioni e chi sa mai nell’interesse di chi e per favorire chi, con danno incalcolabile della giustizia, della verità e della storia, e non si sono più rinvenute. Altro che presso le vicende dei tempi!
E, sempre seguendo lo stesso metodo, con frequentissime adulterazioni delle vere risultanze degli atti, il Relatore, nei §§ 1022 a 1076, entra nelle Risultanze della Insurrezione, parte della quale egli si è voluto occupare perchè se lo era prefisso, in quanto che, secondo lui, l’assassinio del Rossi era mezzo a raggiungere come fine la insurrezione; ma parte che è la più manchevole e inconsistente del processo e le cui risultanze sono minime e inconcludenti a presentare, sia giuridicamente, sia storicamente, una vera e completa rappresentazione dei drammatici avvenimenti del 16 novembre 1848 sulla piazza del Quirinale.
E ciò è derivato dal fatto che, siccome la insurrezione non era il soggetto del presente processo, il cui titolo era Di lesa maestà con omicidio in persona del Conte Pellegrino Rossi Ministro di Stato, così da questa premessa derivò la conseguenza che l’inquisizione tanto del Cecchini prima, quanto del Laurenti poi, fosse precipuamente volta a raccogliere gli elementi della congiura e dell’omicidio e a constatare le responsabilità degli autori o supposti autori di quei fatti: di guisa che le notizie sulla insurrezione del 16 novembre entrarono nel processo di straforo, di fianco, di seconda mano.
E la inutilità delle venti pagine consacrate dal Relatore Laurenti a riassumere — sempre a modo suo, si intende — quelle risultanze restava già fino da allora provata ed oggi resta più che mai provata dal fatto che il restaurato Governo Pontificio, contemporaneamente al Processo per la uccisione del Conte Pellegrino Rossi, un’altro ne aveva avviato per Lesa maestà con ribellione e con omicidio in persona di Monsignor Palma e cioè pei fatti del 16 novembre nella piazza del Quirinale: anzi quando il Laurenti scriveva la presente Relazione quel processo si era già chiuso col giudizio e con la condanna di Francesco Gianna e di altri tre alla pena di morte e la sentenza era stata già eseguita.
Delle menzogne di cui, seguendo i suoi fidi sostegni Squaglia e Bernasconi, ingemma il Processante Relatore la parte da lui sotto intitolata Premi e provvidenze al personale della Rivoluzione dal § 1077 al § 1121 non noterò qui che quelle contenute nel § 1079, dichiarando che non è la sola e che parecchie altre, al tutto consimili, se ne potrebbero rilevare prima di arrivare al § 1121.
Nel § 1078 il Relatore Laurenti nota quegli individui che — secondo lui — vanno considerati e come intervenuti alla riunione Capranica, o come presenti alla Cancelleria, o come sospetti in causa. E nel successivo § 1079 prende a enumerarli nominativamente e comincia, naturalmente, dal Grandoni e poi nomina Luigi Brunetti, Sante Costantini, Alessandro Todini e fin qui egli è nel suo diritto e si attiene alle resultanze degli atti; ma poi prosegue: Giuseppe Canavacci, Alessandro Testa, Giuseppe Numai, Alessandro Altobelli, Giacinto Bruzzesi, Domenico Regolanti, Cesare Pestrini, Cesare Baldini, Paolo De Andreis, Luigi Escelor, Tito Palmieri, Eugenio Terziani i quali tra altri si recarono il dì 15 alla Cancelleria ecc.
E fermiamoci qui.
Noterò anzi tutto che è strana e inesplicabile la omissione di Angelo Bezzi, di Filippo Trentanove e di Antonio Ranucci, detto Pescetto sui quali risultavano dagli Atti davvero tante gravi responsabilità e la cui presenza alla Cancelleria risultava davvero provata; poi osservò che Paolo De Andreis, il quale è dato come presente alla Cancelleria da un solo testimonio — e intorno a cui lo stesso Agostino Squaglia dichiarò di non ricordare se lo vide il 15 novembre alla Cancelleria — addusse due testimonii i quali concordemente giurarono che esso De Andreis era stato con loro a lavorare dalle nove antimeridiane alle due e mezza promeridiane del giorno 15 al negozio Suscipii, ove egli era ministro e domando se dopo una simile coartata aveva il Relatore diritto di affermare che risultava dagli atti essersi il De Andreis trovato alla Cancelleria; e quanto ad Eugenio Terziani, che lo Squaglia noverò fra quelli che avevano frequentato le riunioni del Capranica ma che nessun testimonio indicò come presente alla Cancelleria, è una vera falsità del Relatore averlo noverato fra i presenti, tanto più che egli, interrogato se avesse acceduto alla Cancelleria, disse la ragione per cui — anche se per una ipotesi, avesse voluto — non avrebbe potuto accedervi, e, cioè, che in quel periodo egli, come maestro di musica Concertatore, era impegnato da mezzo giorno alle due pomeridiane alle prove al Teatro Argentina, cosa pubblicamente notoria e facilissimamente verificabile dal Processante, se lo avesse voluto.
Quando poi il Processante Relatore, sempre ritenendo per risutanze degli atti, le menzognere affermazioni dell’impunitario anche se non convalidate da alcuna prova, entra nell’esame delle responsabilità specifiche dei vari imputati, non basterebbero duecento pagine a mettere in rilievo tutte le inesattezze, tutte le decomposizioni e rabberciature di comodo delle varie deposizioni e le spesso puerili illazioni che da quelle mastuprate deposizioni il Relatore trae fuori.
E, prima di finire, rileverò soltanto come il Processante — il quale per le risultanze specifiche ha adottato una nuova numerazione di paragrafi e la ricomincia per ogni imputato — impieghi 92 paragrafi per raccogliere gli elementi di responsabilità per Sante Costantini, diluendo, avanzando, regredendo e dando prova di una deficienza di logica e di una debolezza di discernimento veramente compassionevoli; mentre con poderosa sintesi avrebbe potuto raggruppare in una quindicina di pagine quelle responsabilità, di per se stesse chiare e gravissime, che egli ha sventagliate in quarantatre pagine. E questo inutile sparpagliamento di ricerche, di citazioni e di deduzioni in buona parte è dovuto alla smania, alla fissazione del Relatore di voler fare apparire ancora Sante Costantini come materiale esecutore della uccisione del Rossi, mentre a lui insultava provato in proprocesso che l’uccisore era stato Luigi Brunetti e mentre tante responsabilità emergevano e così gravi dagli atti processuali sulla complicità necessaria di Sante Costantini da renderlo inevitabilmente passibile dell’estremo supplizio. .. fine supremo del Fisco.
Le sottili industrie e gli arzigogoli impiegati dal Relatore dal § 17 al § 42, per adattare a Sante Costantini questo o quello dei connotati risultanti da otto descrizioni testimoniali sulla persona dell’uccisore destano a volte la compassione, a volte il riso; perchè se al Costantini può convenire uno dei connotati di una descrizione non gli si possono attribuire gli altri quattro o cinque connotati; per cui perchè da quelle, in gran parte discordanti, descrizioni dell’uccisore, potesse venir fuori la persona di Sante Costantini, sarebbe stato necessario prendere un connotato di qua, un altro di là, un terzo da un’altra descrizione e con una amalgama cervellotica formare una figura — diversa da quelle otto descritte dai testimoni — ad uso e consumo del Relatore Laurenti.
E tutto questo quando egli sa benissimo chi fu il vero uccisore e quando egli sa che, anche senza l’addebito di essere stato il materiale esecutore dell’assassinio, Sante Costantini non potrà, stanti le risultanze processuali, sottrarsi alla pena capitale!
A mostrare poi fino a qual culmine siano giunte la parzialità, la slealtà del Processante Relatore basterà leggere le due misere colonne che egli consacra al dieciottesimo ed ultimo imputato, Filippo Bernasconi, le cui responsabilità e la cui complicità egli raccoglie in dieci stenografici paragrafi, a cui unisce nella colonna a sinistra questa spudoratissima nota.
Diversi dei prevenuti, come il Grondoni, il Diadei, Sante Costantini, Bernardino Facciotti hanno dedotto che il Bernasconi li abbia voluti calunniare e posero in campo che stando in carcere volesse indurre un certo Gaspare Casa, inquisito per furti, a deporre di cose relative alla causa come il Casa notificò con un biglietto diretto a taluno dei prevenuti al Diadei, che erasi trovato in carcere col Bernasconi, e quindi vennero ad eccepirlo come noto per affari di lenocinio e immeritevole di fiducia. Sussiste che il Bernasconi indusse Gaspare Casa affermando avergli costui confidato che Sante Costantini alle Carceri Nuove gli espresse di avere avuto parte all’assassinio Rossi. Sussiste che esaminato il Casa impugnò la cosa e che quindi si diede premura di scrivere un biglietto d’avviso a taluni prevenuti esistenti nelle Carceri nuove.
Con questa noterella fugace, buttata là con là massima disinvoltura, scritta appositamente senza ordine logico e anche senza ordine sintattico, appositamente confusa ed anfibologica, il Processante Relatore si era proposto, evidentemente, innegabilmente due Cose: non far capir nulla ai Giudici del Supremo Tribunale e scivolare, sorvolare su tutte le risultanze processuali da cui emergevano luminosamente provati i raggiri e gli intrighi orditi dal Bernasconi per cercare di puntellare le accuse calunniose che egli aveva apportate in processo, da cui emergevano luminosamente provate le subornazioni di testimonii tentate da lui; cose sulle quali poichè scaturivano dalle risultanze processuali, sarebbe stato strettissimo dovere del Relatore soffermarsi, rilevandone e, magari, discutendone o negandone la importanza.
Ora notino i lettori la bizantina ambiguità contenuta nella frase nebulosa: sussiste che, esaminato il Casa impugnò la cosa ...
Ma che cosa impugnò?...
Così come fraudolentemente ha scritto la frase il Relatore sembrerebbe che il Casa impugnasse e cioè negasse di essere stato subornato dall’impunitario a deporre contro Sante Costantini, con cui il Casa era stato da solo in segreta, attestando che il Costantini a lui Casa si fosse rivelato partecipe dell’omicidio Rossi.
Invece sussiste che il Casa confermò pienamente che l’infame impunitario, lo invitò ad accusare il Costantini, che così avrebbe liberato lui Bernasconi da quindici anni di galera e la sua madre da dieci anni pure di pena a San Michele e gli disse che esso, Bernasconi, gli avrebbe poi regalato pure una somma, dicendogli che egli teneva riposti cinquecento scudi alla montagna di Somma, o in una montagna del regno di Napoli; e gli aggiunse che aveva altri tre testimoni, non sa chi, che avrebbero accordata la prova di lui Bernasconi in ordine all’omicidio Rossi, esprimendosi: Adesso è il tempo che metto sotto tutti li boia.
La quale deposizione di Gaspare Casa fu pienamente e concordemente convalidata dalle testimonianze di Pietro Croce, di Innocenzo Zeppacori, di Amos Fioravanti e di Raffaele Fabrizi, il quale conchiuse il suo racconto sulla subornazione tentata dal Bernasconi sopra Gaspare Casa, con le parole: e tutti dicemmo che era una porcheria.
Dei quali intrighi e raggiri e subornazioni dell’impunitario Bernasconi si era accorto e preoccupato lo stesso Giudice Processante Laurenti, dopo che, il 3 Giugno 1852, egli aveva esaminato Gaspare Casa; tanto è vero che il giorno 4 successivo, aveva emesso una ordinanza, trascritta in un Rilievo dell’attuario e da me riportata affinchè fossero separati in diverse carceri i varii coimputati che sono alla larga nei medesimi cameroni.
E, ventuno giorni dopo, il 25 Giugno, quando a lui Avvocato Laurenti era giunta notizia dello scandaloso processo avviato contro il Capo Custode delle Carceri di Montecitorio Onofrio Colafranceschi, egli aveva emessa in atti una nuova ordinanza con cui comandava che Filippo Bernasconi fosse tolto dalle Carceri di Montecitorio e fosse messo in segreta in altro carcere e allontanato da qualunque contatto con altri carcerati.
Il rimedio veniva tardi, si chiudeva la stalla dopo che i buoi ne erano usciti: ma questi sono atti processuali, come atti processuali erano le testimonianze che provavano non solo la tentata subornazione del Casa, ma le altre subornazioni dall’impunitario tentate e di cui parlano in atti le testimonianze di Luigi Iacobelli, di Amos Fioravanti e di Angelo Laurenzani.
Come, dunque, e con quale onestà e con quale giustizia, dimenticando tutto ciò, sorvolando su tutte queste risultanze degli atti, il Processante Relatore, nulla ne disse, nulla ne riferì ai Giudici del Supremo Tribunale ad illuminare i quali la Relazione doveva essere indirizzata?
Come onestamente e imparzialmente potè pretermettere di far rilievo di tutte quelle resultanze degli atti, egli che, mentre scriveva la sua relazione, conosceva tutto l’incartamento del processo contro il Colafranceschi, da cui emergeva alla evidenza la prova schiacciante delle trame, degli intrighi, delle suggestioni e subornazioni compiute dall’impunitario Bernasconi, per lo spazio di sei mesi, con la connivenza dei carcerieri, probabilmente con la connivenza del Giudice Istruttore Cecchini, con la efficacissima cooperazione di quella sfrontata e audacissima Lucia Tomei, corrispondendo col di fuori, inviando lettere e ambasciate ai testimoni che andava introducendo, proprio allora, proprio in quel momento, in processo a sostegno e a puntello delle sue accuse, delle sue calunnie e delle sue invenzioni?...
Oh no! non avrebbe potuto, non avrebbe dovuto il Relatore compiere quest’altra gravissima falsificazione delle risultanze degli atti, ma, e d’altronde, se egli scuoteva la fede dei Giudici del Supremo Tribunale nelle affermazioni dell’impunitario Bernasconi, il quale già di per sè stesso, coi suoi precedenti e con le sue deficienze morali, si presentava così poco meritevole di fede, tolto quel fragile puntello, che sarebbe rimasto di tutto il debole e cartaceo edificio dal Relatore con tante fatiche e con così manifesta assenza di ogni scrupolo di imparzialità e di giustizia costruito?...
Fata trahunt!
Per le ragioni da me esposte in principio di questo capitolo il Processante e Relatore Avvocato Laurenti essendo, stato costretto a fare il processo non contro gli uccisori di Pellegrino Rossi, ma contro tutta la rivoluzione romana, era altresì e ineluttabilmente costretto ora a procedere a braccio dell’impunitario Filippo Bernasconi e a farsi garante della sua, diciam cosí, moralità, come il Bernasconi si faceva, alla sua volta, mallevadore dinanzi ai Giudici del Supremo Tribunale sulla onestà, sulla verità, sulla imparzialità dell’opera processuale compiuta dal Giudice Relatore, opera nella quale esso impunitario gli era stato fido e zelante collaboratore.
Fata trahunt!
Note
- ↑ Vedi Capitolo XVI nel II volume di quest’opera.
- ↑ Vedi il Capitolo X nel II volume di quest’opera.
- ↑ Vedi volume I di quest’opera pagina 350.
- ↑ Processo, prima deposizione Alessandro Rosalbi, foglio 3435-44
- ↑ Veda il lettore nel secondo volume la prima deposizione di Gregorio Salvati.
- ↑ Il loro si riferisce alla congrega dei Facciotti, cui l’impunitario apparteneva e che egli chiama partito.